San Pietro e San Paolo

http://www.clerus.org/clerus/dati/2004-10/20-13/11MAIT.htm
CONGREGATIO PRO CLERICIS
Universalis Presbyterorum Conventus
“SACERDOTI, FORGIATORI DI SANTI PER IL NUOVO MILLENNIO” SULLE ORME DELL’APOSTOLO PAOLO
Santità cristocentrica del Sacerdote
Mons. Juan Esquerda Bifet
Conferenza, Malta, 20 ottobre 2004
Indice:
Presentazione: Linea cristocentrica della santità del sacerdote, requisiti, possibilità e ministero.
Chiamati a essere trasparenza della vita e dei modi di tradurre in vita Cristo Buon Pastore
Chiamati a essere maestri e forgiatori di santi, innamorati di Cristo
Alcune osservazioni sulla santità sacerdotale all’inizio del terzo millennio
Linee conclusive
* * * *
Presentazione: Linea cristocentrica della santità del sacerdote, requisiti, possibilità e ministero.
Il titolo della nostra riflessione (la santità cristologica del sacerdote) ci colloca in un’attitudine relazionale con Cristo Risorto, sempre presente nel nostro percorso storico ed ecclesiale. Quando diciamo “santità” ci riferiamo al desiderio profondo di Cristo di vedere in noi la sua espressione, il suo segno personale, la sua trasparenza: “Io sono glorificato in loro … Santificali nella verità: la tua Parola è verità … Per loro io santifico me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità” (Gv 17, 10, 17, 19). La dimensione cristocentrica o cristologica è connaturale alla santità cristiana e sacerdotale.
Essere sacerdote e, allo stesso tempo, non essere o non desiderare di essere santo, sarebbe una contraddizione teologica, dal momento che l’essere e l’operare sacerdotale, visti come partecipazione e prolungamento dell’essere e dell’operare di Cristo, comportano il tradurre in vita ciò che siamo e ciò che facciamo. Questa santità sacerdotale è possibile.[1]
La “santità” fa riferimento alla realtà divina, perché soltanto Dio è il “tre volte Santo” (Is 6, 3), il Trascendente, il Dio Amore. Gesù è l’espressione personale del Padre (cf. Gv 14, 9). Noi cristiani siamo chiamati ad essere “espressione” di Cristo, “figli nel Figlio” (Ef 1, 5; cf. GS 22).
Noi sacerdoti, ministri ordinati, siamo l’espressione o il segno personale e sacramentale di Gesù Sacerdote e Buon Pastore. La santità ha un senso “relazionale”, di appartenere affettivamente ed effettivamente a colui che è il Santo per eccellenza. Siamo “ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio” (1 Cor 4, 1). Il sacerdote ministro è “uomo di Dio” (1 Tim 6, 11).
La “santità” del sacerdote possiede, quindi, una dimensione cristocentrica o cristologica, e precisamente per questo possiede anche una dimensione trinitaria, pneumatologica, ecclesiologica e antropologica. La dimensione cristologica della santità sacerdotale è, di conseguenza, mariana, contemplativa e missionaria. Si tratta dunque di un cristocentrismo inclusivo, non esclusivo, dal momento che rimane aperto a tutte le dimensioni teologiche, pastorali e spirituali. Attraverso il “carattere” o grazia permanente dello Spirito Santo, ricevuto nel sacramento dell’Ordine, partecipiamo dell’unzione sacerdotale di Cristo (inviato dal Padre e dallo Spirito), prolunghiamo la sua stessa missione nella Chiesa e nel mondo e, conseguentemente, siamo chiamati a vivere in sintonia con gli stessi gesti di vita di Cristo.
In questa prospettiva cristologica, parlare di santità non equivale, dunque, a parlare di un peso, bensì di una dichiarazione d’amore, sperimentata e accettata affettivamente e responsabilmente. Dobbiamo e possiamo essere santi e aiutare gli altri a essere santi, per ciò che siamo e per ciò che facciamo, vale a dire, attraverso la partecipazione alla consacrazione di Cristo e attraverso il prolungamento della sua stessa missione. Cristo ci ha scelti per una sua iniziativa d’amore (cf. Gv 15, 16) e, conseguentemente, ci ha resi in grado di rispondere in modo coerente a quello stesso amore. La nostra vita è chiamata alla santità ed è, allo stesso tempo, ministero di santità. Siamo forgiatori di santi.[2]
Decidersi a essere “santi” non significa nulla di più che impegnarsi a essere coerenti con l’esigenza di una relazione personale con Cristo, che comprende il condividere la sua stessa vita, imitarla, trasformarsi in lui, farlo conoscere e amare. Questo equivale a “mantenere lo sguardo fisso in Cristo” (Lettera del Giovedì Santo 2004, n. 5) per poter pensare, sentire, amare, operare come lui. “Il riferimento a Cristo, quindi, è la chiave assolutamente necessaria per la comprensione delle realtà sacerdotali” (PDV 12). Questa santità è possibile.[3]
1.CHIAMATI A ESSERE TRASPARENZA DELLA VITA E DEI MODI DI TRADURRE IN VITA CRISTO BUON PASTORE
La dimensione cristocentrica della santità sacerdotale ci colloca in una relazione profonda di amicizia con Cristo. Siamo stati chiamati per sua iniziativa (cf. Gv 15, 16). Egli ci ha chiamati uno ad uno, ci ha chiamati per “nome”, per poter partecipare del suo stesso essere Sacerdote-Vittima, Pastore, Sposo, Capo e Servo.[4]
Questa dimensione cristocentrica aiuta a entrare nella dinamica interna della propria identità: siamo chiamati a un incontro che si trasforma in relazione profonda, si concretizza in sequela per condividere il suo stesso stile di vita, si vive in fraternità (comunione) con gli altri chiamati e orienta l’intera esistenza alla missione. Quindi, in questa santità vanno inclusi tutti gli aspetti della vocazione: incontro, sequela, fraternità e missione evangelizzatrice.
La dinamica relazionale si basa su una realtà ontologica: partecipiamo al suo essere (consacrazione), prolunghiamo il suo agire (missione) e viviamo in sintonia con i suoi stessi sentimenti e atteggiamenti, secondo l’espressione paolina: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2, 5).
Senza il desiderio di corrispondere con la vita a questa relazione con Cristo non si potrebbe cogliere la dinamica apostolica e sacerdotale che include l’”incontro” e la “missione”. Egli ci ha chiamati per “stare con lui” e per inviarci a “predicare” (Mc 3, 14-15).
Se si intende parlare dell’”identità” o della propria ragion d’essere, questo equivale a trovare il senso della propria esistenza vocazionale. È relativamente facile fare elucubrazioni sull’identità. Alla luce del Vangelo, tuttavia, appare chiaro che si tratta di tradurre in vita quel che siamo e facciamo: “Voi mi renderete testimonianza, poiché siete stati con me sin dal principio” (Gv 15, 27). Quando domandarono a Giovanni Battista della sua ”identità”, egli non cadde nella trappola di rispondere con elucubrazioni e teorie, ma indicò una persona che dava un senso alla sua esistenza e al suo agire: “Io sono la voce… Ma in mezzo a voi c’è qualcuno che voi non conoscete” (Gv 1, 23, 26).[5]
Molti interrogativi cristiani che sembrano problematici cessano di esserlo quando si affrontano partendo da una “conoscenza di Cristo vissuta personalmente” (VS 88). Parlare di santità sacerdotale senza partire dalla propria esperienza di incontro e sequela di Cristo equivale a votarsi al fallimento o a discussioni sterili. La santità sacerdotale si coglie soltanto dalla persona di Cristo profondamente amata e vissuta: “Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14, 21).
Da questa prospettiva di vita vissuta, che non esclude, anzi ha bisogno del sostegno della riflessione teologica sistematica, la parola “santità” passa ad essere una realtà di grazia che forma parte del processo di configurazione a Cristo. Quando qualcuno si sa amato da Cristo, lo vuole amare e farlo amare. Vale a dire, vuole abbandonarsi in modo totalitario al cammino di santità e di missione.[6]
La decisione di essere “santi” è la risposta alla dichiarazione d’amore da parte di Cristo: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore” (Gv 15, 9). Per discernere se qualcuno avanza decisamente in questo cammino di santità, possiamo andare a verificare tre punti forti: non sentirsi mai soli (cf. Mt 28, 20), non dubitare del suo amore (Gv 15, 9), non anteporre nulla a Cristo.[7]
Le caratteristiche della nostra santità, nella sua dimensione cristocentrica o cristologica, ci parlano della relazione con ognuno dei titoli biblici di Cristo (che abbiamo ricordato pocanzi) e, conseguentemente, spingono il sacerdote a tradurre in vita i suoi ministeri come espressione della sua “carità pastorale”, il che equivale a mettere in pratica la stessa carità del Buon Pastore. In questo senso, il Concilio Vaticano II riassume la santità sacerdotale con questa prospettiva: “I presbiteri raggiungeranno la santità nel loro modo proprio se nello Spirito di Cristo eserciteranno le proprie funzioni con impegno sincero e instancabile” (PO 13).
Si tratta di far vedere in trasparenza Cristo nel momento di annunciarlo e di celebrarlo, si tratta di esserne il prolungamento… L’intera azione pastorale è eminentemente cristologica e costituisce anche un’urgenza e una possibilità di essere santi. Annunciamo Cristo, lo rendiamo presente e lo comunichiamo agli altri, vivendo ciò che siamo e ciò che facciamo. La dimensione cristologica della santità sacerdotale segue, quindi, la linea profetica (annunciare Cristo), liturgica (rendere presente Cristo), diaconale (servire Cristo nei fratelli).
Il modello apostolico dei Dodici rappresenta il punto di riferimento obbligato della santità sacerdotale, come qualcosa di specifico. È la “Vita Apostolica”, vale a dire, la sequela radicale di Cristo Buon Pastore, sull’esempio degli Apostoli. Noi che siamo successori degli Apostoli (benché in grado diverso) siamo chiamati a vivere questo riferimento evangelico.[8]
La “Vita Apostolica” (“Apostolica Vivendi Forma”), che riassume lo stile di vita degli Apostoli, assume una forma concreta nella sequela evangelica (cf. Mt 19, 27), nella fraternità o vita comunitaria (cf. Lc 10, 2) e nella missione (cf. Gv 20, 21; Mt 28, 19-20).[9]
Il cammino della santità sacerdotale si intraprende lasciandosi conquistare dall’amore di Cristo, sull’esempio di San Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (…) vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2, 20). Ed è questo stesso amore che conduce alla missione: “L’amore del Cristo ci spinge” (2 Cor 5, 14).
Il cristocentrismo di San Paolo scaturisce dalla fede vissuta come incontro con Cristo, “il Figlio di Dio” (At 9, 20), “il Salvatore” (Tt 1, 3), che “è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione” (Rm 4, 25). Cristo “vive” (At 25, 19) e dimora nel credente (cf. Fil 1, 31), comunicandogli la forza dello Spirito che lo rende figlio di Dio (cf. Gal 4, 4-7; Rm 8, 14-17). Per il battesimo, il cristiano viene configurato a Cristo (cf. Rm 6, 1-5). Paolo vive di questa fede. Sin dal suo incontro iniziale con il Signore, Paolo ha imparato che Cristo vive in tutto l’essere umano e, in maniera speciale, nella sua comunità ecclesiale, che egli descrive come “corpo” o espressione di Cristo (cf. 1 Cor 12, 26-27), “sposa” o consorte (cf. Ef 5, 25-27; 2 Cor 11, 2) e “madre” feconda di Cristo (cf. Gal 4, 19, 26).
Le rinunce del sacerdote ci vengono presentate in forma sintetica nell’espressione di San Pietro: “Noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito” (Mt 19, 27). La rinuncia totale non sarebbe possibile né avrebbe significato senza la “sequela” vissuta come incontro e amicizia. La “solitudine piena di Dio” (di cui parlava Paolo VI nell’enciclica Sacerdotalis coelibatus) è, per il sacerdote ministro, la riscoperta di una presenza e di un amore più bello e profondo: “Non aver paura … perché io sono con te” (At 18, 9-10).[10]
Cristo ci porta nel suo cuore sin dal primo momento del suo essere uomo. Se il mistero dell’uomo si decifra soltanto nel mistero che è Cristo, ogni essere umano ha nella propria vita delle impronte del suo amore: “In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo… Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo” (GS 22). In questa prospettiva antropologico-cristiana, alla luce dell’Incarnazione, il sacerdote-ministro si sente interpellato da alcuni gesti di vita di Cristo, che amò “i suoi” (Gv 13, 1) e li presentò con affetto al cospetto del Padre: “coloro che tu mi hai dato” (Gv 17, 2 ss), “li hai amati come hai amato me” (Gv 17, 23).
La chiamata apostolica (“vieni”, “seguimi”) comporta relazione, imitazione e configurazione a Cristo. Se qualcuno vuole essere conseguente con questo atteggiamento relazionale impegnato, che chiamiamo “santità” (come imitazione della carità del Buon Pastore e, in quanto tale, riflesso di Dio Amore), in tutte le circostanze della sua vita troverà tracce di una presenza che oltrepassa la sensazione di assenza: “Io sarò con voi” (Mt 28, 20). Il decreto Presbyterorum Ordinis ricorda questa presenza, che è fonte di santità e di gioia pasquale: “I presbiteri non devono perdere di vista che nel loro lavoro non sono mai soli” (PO 22).[11]
La dimensione cristologica della santità è, per questo stesso fatto, dimensione eucaristica. “Siamo nati dall’Eucaristia … Il sacerdozio ministeriale ha la sua origine, vive, agisce e dà frutti «de Eucharistia» … Non c’è Eucaristia senza sacerdozio, come non esiste sacerdozio senza Eucaristia” (Lettera del Giovedì Santo 2004, n. 2).[12]
Per garantire la dimensione cristologica della santità sacerdotale è necessaria porla in relazione con la dimensione mariana. Cristo Sacerdote e Buon Pastore non è un’astrazione, ma è nato da Maria Vergine e ha associato quest’ultima alla sua opera redentrice. Maria, Madre di Cristo Sacerdote e Madre nostra, vede in ognuno di noi un “Gesù vivente” (secondo l’espressione di San Giovanni Eudes), vale a dire, con parole del Concilio, “strumenti vivi di Cristo Sacerdote” (PO 12) che vogliono vivere “in comunione di vita” con lei come il discepolo amato (cf. RMa 45, nota 130). Abbiamo bisogno di vivere la nostra dimensione sacerdotale cristologica “alla scuola di Maria Santissima” (Lettera del Giovedì Santo 2004, n. 7).[13]
La dimensione cristologica della santità sacerdotale include l’amore leale, sincero e incondizionato alla Chiesa. È, quindi, una dimensione ecclesiologica. L’Apostolo Paolo, nell’invitarci a configurarci a Cristo, ci esorta a vivere dei suoi stessi sentimenti (cf. Fil 2, 5) e delle sue stesse espressioni d’amore: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25). “Per ogni missionario la fedeltà a Cristo non può essere separata dalla fedeltà alla sua Chiesa” (RMi 89).
2. CHIAMATI A ESSERE MAESTRI E FORGIATORI DI SANTI, INNAMORATI DI CRISTO
La nostra chiamata alla santità include l’impegno ministeriale ad aiutare i fedeli a intraprendere il medesimo cammino di santificazione. Si tratta del “ministero e funzione di istruire, santificare e governare il popolo di Dio” (PO 7), in qualità di collaboratori dei vescovi. Per questo motivo, “la prospettiva in cui deve porsi tutto il cammino pastorale è quella della santità” (NMi 30). La dimensione cristocentrica della santità si concretizza necessariamente in dimensione ecclesiologica.
In realtà, dalla santità dei sacerdoti dipende, in gran parte, la santità, il rinnovamento e la missionarietà dell’intera comunità ecclesiale. Ecco cosa dice in proposito il Concilio Vaticano II: “Perciò questo sacro Sinodo, per il raggiungimento dei suoi fini pastorali di rinnovamento interno della Chiesa, di diffusione del Vangelo in tutto il mondo e di dialogo con il mondo moderno, esorta vivamente tutti i sacerdoti ad impiegare i mezzi efficaci che la Chiesa ha raccomandato in modo da tendere a quella santità sempre maggiore che consentirà loro di divenire strumenti ogni giorno più validi al servizio di tutto il popolo di Dio” (PO 12).
Tutta l’azione pastorale tende a costruire la comunità ecclesiale come riflesso della Trinità attraverso un processo di unificazione del cuore secondo l’amore, grazie al quale diventa possibile giungere ad essere “un cuor solo e un’anima sola” (At 4, 32). In questo modo si costruisce la Chiesa come “mistero”, vale a dire, come popolo “congregato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (LG 4). È un mistero di comunione missionaria: “La santità è apparsa più che mai la dimensione che meglio esprime il mistero della Chiesa. Messaggio eloquente che non ha bisogno di parole, essa rappresenta al vivo il volto di Cristo” (NMi 7).
L’azione ministeriale profetica, liturgica e diaconale, oltre a essere il mezzo e il luogo privilegiato della propria santificazione, è la palestra per orientare l’intera comunità ecclesiale verso il cammino della santità. I ministeri sono servizi che costruiscono una scuola di santità e di comunione ecclesiale. Siamo chiamati ad essere forgiatori di santi.
La nostra vita sacerdotale si può riassumere nell’azione ministeriale eucaristica: “Questo è il mio corpo (…) Questo è il mio sangue” (Mt 26, 26, 28). In quel momento agiamo in nome di Cristo e ci trasformiamo in lui. Tuttavia, quell’azione ministeriale eucaristica include l’annuncio (profetismo) e la comunione (diaconia). Inoltre, l’effetto delle parole del Signore non solo raggiunge il più profondo del nostro essere, trasformandolo, ma si trasmette anche a tutta la Chiesa e a tutta l’umanità.
Alla luce di questo servizio ministeriale (in relazione con il corpo eucaristico e con il corpo mistico di Cristo), tutto può essere ridotto all’urgenza di essere santi e far santi gli altri, come conseguenza del mandato eucaristico: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22, 19; 1 Cor 11, 24). Il compito è quello di annunciare, celebrare e comunicare Cristo. La trasformazione eucaristica del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo penetra l’essere e l’agire sacerdotale, per essere trasmessa alla Chiesa e all’intera umanità. L’incarico che Gesù dà ai sacerdoti colloca “il sigillo eucaristico sulla loro missione” (Lettera del Giovedì Santo 2004, n. 3). Per mezzo dell’Eucaristia, siamo forgiatori di santi.[14]
La dedizione apostolica di Paolo ha questa caratteristica di “completare” Cristo per amore alla sua Chiesa (cf. Col 1, 24) e di preoccuparsi “per tutte le Chiese” (2 Cor 11, 28). Nella dottrina paolina, la vocazione cristiana è elezione in Cristo (cf. Ef 1, 3) per essere “gloria” o espressione sua per mezzo di una vita santa (Ef 1, 4-9) impegnata nella missione di “ricapitolare tutte le cose in Cristo” (Ef 1, 10) e contrassegnata con “il suggello dello Spirito” (Ef 1, 13). È una vita unita all’oblazione di Cristo (cf. Fil 2, 5-11) per partecipare al sacrificio eucaristico che rende presente l’oblazione del Signore “finché egli venga” (cf. 1 Cor 11, 23-26). Paolo è forgiatore di santi (cf. Gal 4, 19).[15]
Il significato sponsale del ministero mira a costruire la Chiesa santa, come sposa di Cristo, santificata dal suo amore sponsale: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Ef 5, 25-27).
Santificare la comunità ecclesiale equivale a renderla missionaria e “madre”, vale a dire, strumento di vita in Cristo per gli altri. La Chiesa, quindi, “Mediante la carità, la preghiera, l’esempio e le opere di penitenza, la comunità ecclesiale esercita una vera azione materna nei confronti delle anime da avvicinare a Cristo” (PO 6).
Se si annuncia la Parola, è per chiamare a un atteggiamento di ascolto, di conversione e di risposta generosa da parte dei credenti. La predicazione della Parola riunisce il popolo di Dio per edificarlo nella carità. Tramite questa predicazione, si mira a “invitare tutti insistentemente alla conversione e alla santità” (PO 4).
La celebrazione dell’Eucaristia e dei sacramenti in generale, nell’ambito dell’anno liturgico, è una chiamata a tutti i fedeli per fare della loro vita un’oblazione in unione con Cristo: “Sono in tal modo invitati e indotti a offrire assieme a lui se stessi, il proprio lavoro e tutte le cose create” (PO 5).
L’azione ministeriale che consiste nell’orientare, animare e sostenere la comunità, sempre in uno spirito di servizio, ha come obiettivo “che ciascuno dei fedeli sia condotto nello Spirito Santo a sviluppare la propria vocazione personale secondo il Vangelo, a praticare una carità sincera e attiva, ad esercitare quella libertà con cui Cristo ci ha liberati” (PO 6).
Nei tre ministeri si tende a formare Cristo nei credenti, attraverso un processo di santificazione che è trasformazione di criteri, scala di valori e attitudini, al fine di relazionarsi con Cristo, imitarlo e trasformarsi in lui. Così riassume San Paolo la sua azione santificatrice: “Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi!” (Gal 4, 19) “Io provo infatti per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo” (2 Cor 11, 2).
Il nostro ministero consiste nell’essere “strumenti vivi di Cristo Sacerdote” (PO 12). Proprio per questo, siamo servitori di una Chiesa chiamata alla santità. Il Quinto Capitolo della Lumen gentium è un solco tracciato per l’itinerario della santificazione: esiste una chiamata universale della Chiesa alla santità (LG 39-42) che consiste nella “perfezione della carità” e che si realizza nella vita quotidiana secondo il proprio stato di vita, utilizzando i mezzi adeguati per conseguire questo obiettivo (LG cap. VI, nn. 39-42). In tal modo, quindi, “tutti coloro che credono nel Cristo di qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità” (LG 40).
Il battesimo è, per sua stessa natura, una chiamata e una possibilità di santità: pensare, sentire, amare e operare come Cristo. “Il Battesimo è un vero ingresso nella santità di Dio attraverso l’inserimento in Cristo e l’inabitazione del suo Spirito” (NMi 31). L’impegno fondamentale di coloro che si battezzano consiste nella decisione di farsi santi per il cammino indicato nel Discorso della Montagna: « Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste » (Mt 5, 48).
L’esperienza del proprio incontro personale con Cristo e della sequela evangelica, secondo il percorso delle beatitudini, rappresenta la migliore preparazione per poter accompagnare altre persone lungo lo stesso cammino di santificazione che, come abbiamo indicato, è un cammino di rapporto con Cristo, imitazione e trasformazione in lui. Il sacerdote è maestro di contemplazione, di perfezione, di comunione e di missione.
Il tema della santità sacerdotale nella sua dimensione cristocentrica appare in tutte le figure sacerdotale della storia. Quei santi sacerdoti furono maestri e modelli di santità sacerdotale e cristiana. Alcuni santi sacerdoti hanno lasciato degli scritti sulla vita e il ministero del sacerdote. Nella sua prima lettera del Giovedì Santo (1979), Giovanni Paolo II invita a ispirarsi alle figure sacerdotali della storia: “Sforzatevi di essere « artisti » della pastorale. Ce ne sono stati molti nella storia della Chiesa. Occorre elencarli? A ciascuno di noi parlano, ad esempio, san Vincenzo de’ Paoli, san Giovanni d’Avila, il santo Curato d’Ars, san Giovanni Bosco, il beato Massimiliano Kolbe, e tanti, tanti altri. Ognuno di loro era diverso dagli altri, era se stesso, era figlio dei suoi tempi ed era «aggiornato» rispetto ai suoi tempi. Ma questo «aggiornamento» di ciascuno era una risposta originale al Vangelo, una risposta necessaria proprio per quei tempi, era la risposta della santità e dello zelo”.[16]
3. ALCUNE OSSERVAZIONI SULLA SANTITÀ SACERDOTALE ALL’INIZIO DEL TERZO MILLENNIO
La santità costituisce il “fondamento della programmazione pastorale che ci vide impegnati all’inizio del nuovo millennio” (NMi 31). Questa affermazione di Giovanni Paolo II costituisce una sfida per la vita e il ministero sacerdotale. Siamo chiamati a essere santi e a costruire comunità che siano scuole di santità e di comunione.
In una società “iconica” che domanda dei segni, è necessario edificare una Chiesa che faccia trasparire le beatitudini come “autoritratto di Cristo” (VS 16). Effettivamente, “l’uomo contemporaneo crede più ai testimoni che ai maestri… La testimonianza della vita cristiana è la prima e insostituibile forma della missione” (RMi 42). Coloro che oggi si sentono chiamati alla fede cristiana manifestano “il desiderio di trovare nella Chiesa stessa il Vangelo vissuto” (RMi 47).
Urge, quindi, presentare la figura del sacerdote come espressione della vita del Buon Pastore. San Paolo si considerava “fragranza di Cristo” (2 Cor 2, 15). Il Signore ci descrive come sua “espressione” o sua “gloria”: “Sono stato glorificato in loro” (Gv 17, 10). La nostra identità sacerdotale consiste nell’essere “prolungamento visibile e segno sacramentale di Cristo” (PDV 16).[17]
Non si tratta di un segno meramente esterno, bensì di una realtà ontologica (trasformazione in Cristo) che necessariamente deve manifestarsi sotto forma di testimonianza. Allo stesso tempo, questa realtà si traduce in vissuto personale e comunitario, per poter dire, come San Pietro il giorno di Pentecoste, con parole da lui ripetute in altri discorsi: “Noi siamo testimoni” (At 2, 32; 3, 15; 5, 32; 10, 39). È, quindi, relazione, imitazione, trasformazione in Cristo, che si concretizza nel farlo trasparire in noi.
Il mondo di oggi chiede testimoni dell’esperienza di Dio (cf. EN 76; RMi 91). Ogni apostolo, e in modo speciale il sacerdote, deve poter dire come San Giovanni: “Quel che abbiamo visto e udito, noi ve lo annunciamo” (1 Gv 1, 3). Lo Spirito Santo, ricevuto specialmente il giorno dell’ordinazione, rende capaci di trasmettere agli altri la propria esperienza di Gesù.[18]
L’inizio del terzo millennio costituisce un invito pressante ad essere segni trasparenti ed efficaci del Buon Pastore. La Parola, l’Eucaristia, i sacramenti e l’azione pastorale ci plasmano come espressione di Cristo e come segni santificatori.
Sulla base della mia esperienza di incontri sacerdotali in differenti latitudini e culture, sono giunto alla conclusione che, in questi primi anni del terzo millennio, può aver luogo un risorgimento sacerdotale, se si riscoprono gli enormi tesori dottrinali dei documenti conciliari e postconciliari (i quali, a loro volta, raccolgono una storia millenaria di grazia). Il giorno in cui ogni sacerdote novello avrà letto quei documenti e vi si sarà formato, ci sarà certamente un grande rinnovamento di vita e di vocazioni sacerdotali, per il fatto di aver riscoperto “un tesoro nascosto”, quale la “mistica” della propria spiritualità sacerdotale specifica.[19]
Giovanni Paolo II chiede di elaborare un progetto di vita sacerdotale nel Presbiterio che abbracci tutti questi aspetti (cf. PDV 79). Solo essendo fedeli al processo di santità arriveremo ad essere sacerdoti per una nuova evangelizzazione (cf. PDV 2, 9-10, 17, 47, 51, 82. Direttorio 98).[20]
Quando il Papa ricorda a noi sacerdoti le linee-guida della nostra santità, ci indica la relazione tra la consacrazione e la missione come binomio inseparabile: « La consacrazione è per la missione » (PDV 24).
Si potrebbe parlare del “carisma” apostolico e sacerdotale di Giovanni Paolo II, che si concretizza nella dinamica evangelica: dall’incontro alla missione. Mi pare che questa sia la chiave per comprendere i suoi documenti, a partire dal primo momento del suo pontificato, quando disse: “Spalancate le porte a Cristo”. Le sue encicliche, esortazioni apostoliche, lettere del Giovedì Santo e messaggi mostrano l’armonia tra la consacrazione (vista come abbandono totalizzante ai piani di Dio) e la missione (come vicinanza all’uomo e alla realtà concreta). Questa dinamica però è relazionale: dall’incontro con Cristo si passa alla sequela di Cristo e all’annuncio di Cristo.[21]
Le lettere del Giovedì Santo (dal 1979 al 2004) costituiscono un’eredità apostolica, una sorta di testamento sacerdotale di Giovanni Paolo II, che potrebbero essere riassunte nella litania rivolta a Cristo Sacerdote in cui si chiedono “Pastori secondo il suo Cuore” (Litania citata nella Lettera del Giovedì Santo 2004, n. 7).
Le cinque Esortazioni apostoliche postsinodali continentali rappresentano una chiamata alla santità che si concretizza in un processo di pastorale “inculturata” nelle varie circostanze storiche e geografiche. A questo compito di santificazione siamo chiamati specialmente noi sacerdoti. Per la prima volta nella storia, viene raccolto il contributo di tutte le Chiese in questa maniera così concreta, quale è la celebrazione dei Sinodi Episcopali (continentali) accompagnata dalle rispettive Esortazioni postsinodali.[22]
Risulta particolarmente urgente, in queste Esortazioni continentali, la chiamata alla santità rivolta ai sacerdoti e alle persone consacrate: « In forza del sacramento dell’Ordine che li configura a Cristo Capo e Pastore, i Vescovi ed i sacerdoti devono conformare tutta la loro vita e la loro azione a Gesù » (Ecclesia in Europa 34).[23] « L’Europa ha sempre bisogno della santità, della profezia, dell’attività di evangelizzazione e di servizio delle persone consacrate » (ibid. 37).[24]
La propria identità sacerdotale potrà essere compresa e assimilata se si vive come segno personale e sacramentale del Buon Pastore, riconoscendo che si possiede una spiritualità sacerdotale specifica entusiasmante. È la gioia di essere e sentirsi segno di Cristo, qui e ora, con il proprio Vescovo, con la propria Chiesa particolare, nel proprio Presbiterio, al servizio della Chiesa locale e universale, ispirandosi alle figure sacerdotali della storia e anche, quando qualcuno si sente chiamato, facendo riferimento a carismi particolari più concreti della vita religiosa o associativa.
La diocesanità include tutta questa storia di grazia, che costituisce un patrimonio apostolico. Senza la relazione personale e comunitaria con Cristo Sacerdote e Buon Pastore, la spiritualità sacerdotale diocesana non troverebbe la propria pista d’atterraggio. Se è sacerdote, segno del Buon Pastore, nel qui e ora della propria Chiesa particolare, presieduta sempre da un successore degli Apostoli (in comunione con il Sommo Pontefice e il Collegio Episcopale) colui che concretizza per i suoi sacerdoti le linee evangeliche della sequela di Cristo.[25]
Una linea caratteristica della spiritualità cristiana e sacerdotale all’inizio del terzo millennio è la speranza, che presuppone la fede e deve farsi concreta nella carità. Oggi è possibile essere santi e apostoli. È possibile evangelizzare nelle situazioni nuove, perché abbiamo grazie nuove. C’è però bisogno di apostoli rinnovati.[26]
Nella spiritualità e santità sacerdotale, questo tono di speranza si traduce in “gioia pasquale” (PO 11). La vita dell’apostolo riflette la gioia pasquale, anche nei momenti di difficoltà, dando testimonianza della speranza cristiana: « Il missionario è l’uomo delle Beatitudini… Vivendo le Beatitudini, il missionario sperimenta e dimostra concretamente che il Regno di Dio è già venuto ed egli lo ha accolto. La caratteristica di ogni vita missionaria autentica è la gioia interiore che viene dalla fede » (RMi 91). È la gioia di far “passare” o di trasformare la sofferenza in amore di donazione, come eredità che ci ha lasciato Gesù nell’ultima cena (cf. Gv 15, 11; 17, 13).
LINEE CONCLUSIVE
La santità sacerdotale è essenzialmente di dimensione cristologica e, per questo stesso motivo, si apre alle dimensioni trinitaria, pneumatologica, ecclesiologica e antropologica. Precisamente la carità pastorale, come imitazione della vita del Buon Pastore, ha questo orientamento nei confronti dei disegni del Padre (cf. Gv 10, 18) e ricalca le orme dell’azione dello Spirito Santo (cf. Lc 10, 1, 14, 18). « Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando » (At 10, 38).
La consacrazione sacerdotale del ministro ordinato, in quanto partecipazione alla consacrazione sacerdotale di Cristo per prolungare la sua stessa missione, ha la sua radice nel mistero del Verbo incarnato: « Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo… Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo » (GS 22).
Essendo segno personale e comunitario di Cristo Sacerdote e Buon Pastore, noi sacerdoti siamo espressione del suo amore nei confronti di tutti e di ognuno dei redenti. Il contatto del sacerdote con qualsiasi essere umano deve essere annuncio e testimonianza di questo amore, affinché tutti si sentano amati da Cristo e resi capaci di amare lui e, con lui, di amare tutti gli altri fratelli. La vita sacerdotale costituisce un invito missionario e basato sulla vita come espressione testimoniale di quell’annuncio: Dio ti ama, Cristo è venuto per te.
La dimensione cristologica della santità sacerdotale fa ricordare la realtà del “martirio” come parte integrante del “kerigma” o primo annuncio. Siamo stati scelti per essere “testimoni” (“martiri”) di colui che è stato crocifisso ed è risorto: « Noi siamo testimoni » (At 2, 32), « e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui » (At 5, 32). Il ricordo della figura sacerdotale del martire San Massimiliano Kolbe indica questa linea di carità pastorale oblativa.[27]
La « gioia pasquale » (PO 11) riassume bene tutti i contenuti della dimensione cristocentrica della santità sacerdotale. In realtà, è la gioia delle “beatitudini” e del “Magnificat”, per il fatto di sapersi amato da Cristo e reso capace di amarlo e farlo amare. È partecipazione alla gioia stessa di Cristo (cf. Lc 10, 21). È la gioia che ci ha lasciato il Signore come lascito (Gv 15, 11; 16, 22, 24; 17, 13). È la gioia che nasce dall’incontro permanente con lui. Quando, nel Cenacolo, gli Apostoli scelscero Mattia, fecero la sintesi di un percorso di vita sacerdotale e apostolica: un uomo che sarebbe stato insieme al Signore, per essere testimone gioioso della sua risurrezione (cf. At 1, 22). È la gioia di Paolo: « Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione » (2 Cor 7, 4).
La dimensione cristocentrica o cristologica della santità sacerdotale si traduce in:
- Dichiarazione reciproca di amore, come scelta e chiamata:
« Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi; Rimanete nel mio amore » (Gv 15, 9); « io ho scelto voi » (Gv 15, 16); « vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal 2, 20).
- Relazione fatta di incontro, amicizia, intimità, contemplazione:
« Si fermarono presso di lui » (Gv 1, 39); « ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare » (Mc 3, 14-15); « voi siete miei amici » (Gv 15, 14); « sarò con voi » (Mt 28, 20); « per me infatti il vivere è Cristo » (Fil 1, 21).
- Relazione di appartenenza:
« Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine » (Gv 13, 1); « Padre… coloro che mi hai dato, sono tuoi »… (Gv 17, 9 ss); « non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » (Gal 2, 20).
- Relazione di trasparenza e missione:
« Voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio » (Gv 15, 27); « Egli (lo Spirito) mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l’annunzierà » (Gv 16, 14); « Padre… Io sono glorificato in loro » (Gv 17, 10); « Come il Padre ha mandato me, io mando voi » (Gv 20, 21)…; « l’amore del Cristo ci spinge » (2 Cor 5, 14).
Alla luce della presenza di Cristo Risorto, che continua ad accompagnare « i suoi » (Gv 13, 1), si giunge a comportamenti che potremmo chiamare di sapienza e di buon senso cristiano e sacerdotale, e che costituiscono il segnale per sapere se una persona sta percorrendo seriamente il cammino della santità nella dimensione cristologica. La traduzione in vita della nostra realtà di partecipazione all’essere di Cristo e di prolungamento della sua missione si potrebbe così esprimere in concreto:
- Non dubitare dell’amore di Cristo:
Mons. Francesco Saverio Nguyen van Thuan, Arcivescovo di Saigón, rimase tredici anni nel carcere di quella città. I primi giorni della sua dura prigionia, sentendosi scoraggiato per la sua apparente inutilità, seppe discernere la voce del Signore nel proprio cuore: “Voglio te, non le tue cose”.[28]
- Non sentirsi mai soli:
Mons. Tang, Vescovo di Cantón, trascorse 22 anni in carcere. Al suo arrivo a Roma gli venne chiesto di parlare delle sofferenze subite in quella solitudine. Quando gli domandarono che cosa lo avesse aiutato a perseverare, rispose: « Cristo non abbandona”.[29]
- Non poter prescindere da lui:
Paolo, nel carcere di Roma: « Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato… Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza » (2 Tm 4, 16-17).
- Non anteporre nulla a lui:
“Negli innamorati la ferita di uno è di entrambi, e i due hanno un medesimo sentimento” (San Giovanni della Croce, Cant. B, c. 30, n. 9).
Il nostro modo di pregare si può realizzare soltanto con il « mantenere fisso lo sguardo su Cristo » (Lettera del Giovedì Santo 2004, n.5). Questo incontro quotidiano di vita concreta con Cristo, nell’Eucaristia, nella Scrittura e nei fratelli, dà senso alla vita sacerdotale; tuttavia, deve essere un incontro d’amore appassionato che deve convertirsi in annuncio appassionato. La nostra identità si dimostra nel vivere e far vivere la presenza di Cristo Risorto nella Chiesa e nel mondo. Si tratta di uno « stupore eucaristico » che suscita vocazioni sacerdotali (cf. Lettera del Giovedì Santo 2004, n. 5), perché allora i giovani in noi « intuiscono la chiamata di un amore più grande » (ibidem, n. 6).
La relazione personale con Cristo, che è la sorgente della missione, si plasma « in comunione di vita » con Maria (cf. RMa 45, nota 130). È « comunione viva con Gesù attraverso il Cuore della sua Madre » (Rosarium Virginis Mariae 2). Nel cuore di Maria, Madre di Cristo Sacerdote e Madre nostra, si può udire l’eco di tutto il Vangelo (cf. Lc 2, 19, 51).[30]
Maria ci accompagna in tutte le nostre celebrazioni eucaristiche e in tutto il nostro ministero. Ella continua ad essere il dono di Cristo a tutti i suoi fedeli e, in modo particolare, ai suoi ministri. « Vivere nell’Eucaristia il memoriale della morte di Cristo implica anche ricevere continuamente questo dono. Significa prendere con noi – sull’esempio di Giovanni – colei che ogni volta ci viene donata come Madre » (Ecclesia de Eucharistia, n. 57). Possiamo unirci ai “sentimenti di Maria” quando ella ascolta dalle nostre labbra le parole della consacrazione (« il mio corpo… il mio sangue ») (cf. ibid. n. 56).[31]
—————————————
[1] « Imitamini quod tractatis » (imita quello che fai) è l’espressione che ora si trova nel testo dell’allocuzione durante l’ordinazione presbiterale, quando il vescovo spiega “la funzione di santificare in nome di Cristo”. Secondo San Tommaso d’Aquino, “il Sacro Ordine presuppone la santità” (cf. II-II, q.189, a.1, ad 3), per poter servire degnamente il corpo eucaristico e il corpo mistico di Cristo (cf. Suppl. q.36, a.2, ad 1) e per guidare altri lungo il cammino della santità.
[2] Il “carattere” sacerdotale del sacramento dell’ordine esige santità, per il fatto di poter operare in nome di Cristo; la grazia sacramentale comunica la possibilità di essere santi, vale a dire, di essere coerenti con ciò che siamo e facciamo.
[3] Indichiamo alcuni studi sulla santità e sulla spiritualità sacerdotale: AA.VV., Espiritualidad sacerdotal, Congreso (Madrid, EDICE, 1989); C. BRUMEAU, Les éléments spécifiques de la vie spirituelle des prêtres d’après Vatican II: Le prêtre, hier, aujourd’hui, démain (Paris, Cerf, 1970) 196-205; J. CAPMANY, Apóstol y testigos, reflexiones sobre la espiritualidad y la misión sacerdotales (Barcelona, Santandreu, 1992); M. CAPRIOLI, Il sacerdozio. Teologia e spiritualità (Roma, Teresianum, 1992); J. ESQUERDA BIFET, Teología de la espiritualidad sacerdotal (Madrid, BAC, 1991); Idem, Signos del Buen Pastor, Espiritualidad y misión sacerdotal (Bogotá, CELAM, 2002); A. FAVALE, El ministerio presbiteral, aspectos doctrinales, pastorales y espirituales (Madrid, Soc. Educ. Atenas, 1989); G. GRESHAKE, Essere preti, Teologia e spiritualitá del ministero sacerdotale (Brescia, Queriniana, 1995); J.L. ILLANES, Espiritualidad y sacerdocio (Madrid, Rialp, 1999); D. TETTAMANZI, La vita spirituale del prete (Casale Monferrato, PIEMME, 2002); R. SPIAZZI, Sacerdozio e santità. Fondamenti teologici della spiritualità sacerdotale (Roma 1963); K. WOJTYLA, La sainteté sacerdotale comme carte d’identité: Seminarium (1978) 167-181; P. XARDEL, La flamme qui dévore le berger (Paris, Cerf, 1969).
[4] Sono i titoli biblici utilizzati e spiegati in PO nn.1-3 e PDV cap.II (cf. nn.20-22).
[5] AA.VV., Identità e missione del sacerdote (Roma, Città Nuova, 1994); F. ARIZMENDI, Vale la pena ser hoy sacerdote? (México, Lib. Parroquial, 1988); M. THURIAN, L’identità del sacerdote (Casale Monferrato, PIEMME, 1993). Cf. gli altri saggi citati nella nota 4.
[6] Un bramino convertito (poi diventato sacerdote e missionario)mi descriveva la sua conversione ricordando la sua esperienza di incontro con Cristo. Visitando la cappella dell’Ospedale di cui era direttore, il suo sguardo si fermò sull’immagine del crocifisso e udì dentro di sé queste parole: “Mi ha amato”. Subito ne trasse questa conclusione: “Se lui mi ama, io voglio amarlo e farlo amare”…
[7] Cf. S. Benedetto, Regola, 4, 31; 72, 11.
[8] Pastores dabo vobis indica la « vita apostolica » come punto di riferimento della santità sacerdotale, sempre come imitazione della vita del Buon Pastore e secondo lo stile degli Apostoli (cf. PDV 15-16, 42, 60, etc.). Spiego questi contenuti e offro bibliografia, in: Spiritualità sacerdotale per una Chiesa missionaria (Roma, Urbaniana University Press, 1998) cap.V (Essere segno trasparente del Buon Pastore). Trad. in inglese: Priestly Spirituality and Mission (Roma, Pont. Univ. Urbaniana, 1995).
[9] Le linee di questa vita apostolica, eminentemente evangelica, potrebbero essere così riassunte: 1ª: Scelta, vocazione, per iniziativa di Cristo (cf. Mt 10,1ss; Lc 6, 12ss; Mc 3,13ss; Gv 13,18; 15,14ss). 2ª: « Sequela Christi » o sequela evangelica (cf. Mt 4,19ss; 19, 21-27; Mc 10,35ss); 3ª: Carità del Buon Pastore (cf. Gv 10; At 20,17ss; 1Pe 5,1ss), 4ª: Missione di totalitarietà e di universalismo (cf. Mt 28,18ss; Mc 16,15ss; At 1,8; Gv 20,21; PO 10). 5ª: Comunione fraterna (cf. Lc 10,1; Gv 13,34.35; 17,21-23). 6ª: Eucaristia, centro e sorgente dell’evangelizzazione (cf. Lc 22,19-20; 1Cor 11,23ss; Gv 6,35ss). 7ª: Sintonia con la preghiera sacerdotale di Cristo (cf. Gv 17; Mt 11,25ss; Lc 10,21ss). 8ª: Al servizio della Chiesa sposa (cf. 2Cor 11,2; Ef 5,25-27; Gv 17,23; 1Tim 4,14: « grazia » permanente). 9ª: Con Maria, « la Madre di Gesù » (cf. Gv 19,25-27; At 1,14; Gal 4,4-19).
[10] Varrebbe la pena riflettere sulla realtà della verginità di Maria e di Giuseppe, che permise loro di scoprire in Cristo una predilezione singolare nei loro confronti, aperta sempre all’intera umanità e a ogni essere umano in particolare, in maniera irripetibile. La vita sacerdotale centrata su Cristo si riassume nell’imitazione del suo sguardo sui fratelli, scoprendo in essi una storia d’amore sponsale ed eterno. Tutti occupiamo un luogo privilegiato nel Cuore di Cristo.
[11] Può essere applicata ad ogni apostolo, e specialmente a ogni sacerdote, quest’affermazione dell’enciclica missionaria di Giovanni Paolo II: « Proprio perché « inviato », il missionario sperimenta la presenza confortatrice di Cristo, che lo accompagna in ogni momento della sua vita… e lo aspetta nel cuore di ogni uomo » (RMi 88).
[12] La dimensione eucaristica della santità sacerdotale è oggetto di un altro contributo in questo Convegno Internazionale di Sacerdoti.
[13] Anche la dimensione mariana costituisce l’oggetto di un altro contributo nel presente Incontro Internazionale. Sulla spiritualità sacerdotale mariana, ho riassunto contenuti e bibliografia in: (Sacerdoti) Maria nella spiritualità sacerdotale: Nuovo Dizionario di Mariologia (Paoline 1985), 1237-1242.
[14] « In persona Christi vuol dire di più che «a nome», oppure «nelle veci» di Cristo. In persona: cioè nella specifica, sacramentale identificazione col sommo ed eterno Sacerdote » (enc. Ecclesia de Eucharistia n.29).
[15] Cf. F. PASTOR RAMOS, Pablo, un seducido por Cristo (Estella, Verbo Divino, 1993). Il tema paolino è stato trattato da un altro contributo in questo convegno sacerdotale.
[16] Giovanni Paolo II, Lettera del Giovedì Santo 1979, n. 6. Occorrerebbe diventare imbevuti degli scritti sacerdotali di tutta la storia, specialmente di epoca patristica: S. Ignazio d’Antiochia (Lettere), S. Giovanni Crisostomo (Libro sul sacerdozio), S. Ambrogio (De officiis ministrorum), S. Gregorio Magno (Regula Pastoralis), S. Isidoro di Siviglia (De ecclesiasticis officiis); nell’epoca di Trento: S. Giovanni d’Avila (Pratiche dei sacerdoti; Trattato sul sacerdozio), S. Carlo Borromeo, S. Giovanni di Ribera, ecc. Cf. figure e scrittori di ogni epoca storica in: Teologia della spiritualità sacerdotale, o.c., cap. IX (sintesi storica); Segni del Buon Pastore, o.c., cap. X (sintesi e sviluppo storico) (or. Spagnolo, trad. italiano, inglese).
[17] La parola “segno” si ripete con frequenza in PDV (cf. nn. 12,15-16,22,42-43,49). Ha la connotazione di “sacramentalità” nel contesto della Chiesa “sacramento”: segno trasparente e PORTADOR. Indica la trasparenza che riflette il proprio essere e il proprio stile di vita e che si converte in strumento efficace di santificazione e di evangelizzazione.
[18] « La missione della Chiesa, come quella di Gesù, è opera di Dio o – come spesso dice Luca – opera delLo Spirito. Dopo la risurrezione e l’ascensione di Gesù gli Apostoli vivono un’esperienza forte che li trasforma: la Pentecoste. La venuta dello Spirito Santo fa di essi dei testimoni e dei profeti (cf. At 1, 8; 2, 17-18), infondendo in loro una tranquilla audacia che li spinge a trasmettere agli altri la loro esperienza di Gesù e la speranza che li anima » (RMi 24).
[19] Sono ancora pochi quelli che si ordinano sacerdoti avendo studiato (o letto) questi documenti. È necessario compiere una rilettura comparata di Presbyterorum Ordinis in relazione a Pastores dabo vobis e ad altri documenti (le Lettere del Giovedì Santo, il Direttorio, ecc.). Allora si scopre il proprio essere come partecipazione all’essere o consacrazione di Cristo (PO 1-3; PDV cap.II; Direttorio cap.I), per prolungare la sua stessa missione(PO 4-6; PDV cap.II, Direttorio cap.II), nella comunione ecclesiale che si concretizza anche nel proprio Presbiterio (PO 7-9; PDV 31, 74; Direttorio 25-28), che esige e rende possibile la santità sacerdotale come « carità pastorale » (PO 12-14; PDV cap.III; Direttorio 43-56), che si traduce nelle virtù del Buon Pastore (PO 15-17; PDV 27-30; Direttorio 57-67), senza dimenticare gli strumenti concreti e la formazione permanente (PO 18-21; PDV cap.VI; Direttorio cap.III). Occorre aggiungere l’esortazione apostolica Pastores gregis (2003), così come il Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi (2004).
[20] Presento le motivazioni e le possibilità di questo progetto in: Ideario, objetivos y medios para un proyecto de vida sacerdotal en el Presbiterio: Sacrum Ministerium 1(1995) 175-186. Cf. inoltre: J.T. SANCHEZ, Los sacerdotes protagonistas de la Evangelización, in: (Pontificia Comisión para América Latina), Evangelizadores, Obispos, sacerdotes y diáconos, religiosos y religiosas, laicos (Lib. Edit. Vaticana 1996) 101-110. Una buona base per un progetto di vita nel Presbiterio: Proposta di vita spirituale per i presbiteri diocesani (Bologna, EDB, 2003).
[21] Ho studiato e riassunto i documenti del Papa, visti in questa prospettiva, in: El carisma misionero de Juan Pablo II: De la experiencia de encuentro con Cristo a la misión: Osservatore Romano (ed. sp.), 17.7.2001, pp.8-11; Juan Pablo II, el carisma del encuentro con Cristo para la Misión: Omnis Terra n.321 (2002) 234-248; Jean Paul II: le charisme de la rencontre avec le Christ pour la mission: Omnis Terra (fr.) n.383 (2002)234-248; John Paul II, the Charisma of the encounter with Christ for Mission: Omnis Terra (Ing.) n.328 (2002) 233-247.
[22] « Decisivi sono, quindi, la presenza e i segni della santità: essa è prerequisito essenziale per un’autentica evangelizzazione, capace di ridare speranza. Occorrono testimonianze forti, personali e comunitarie, di vita nuova in Cristo. Non basta, infatti, che la verità e la grazia siano offerte mediante la proclamazione della Parola e la celebrazione dei Sacramenti; è necessario che siano accolte e vissute in ogni circostanza concreta, nel modo di essere dei cristiani e delle comunità ecclesiali. Questa è una delle scommesse più grandi che attendono la Chiesa che è in Europa all’inizio del nuovo millennio » (Ecclesia in Europa 49). « Frutto della conversione operata dal Vangelo è la santità di tanti uomini e donne del nostro tempo. Non solo di quanti sono stati proclamati ufficialmente tali dalla Chiesa, ma anche di coloro che, con semplicità e nella quotidianità dell’esistenza, hanno dato testimonianza della loro fedeltà a Cristo » (ibidem, 14). Cf. citazioni simili in: Ecclesia in America 30-31 (vocazione universale alla santità, Gesù, l’unico cammino verso la santità); Ecclesia in Africa 136; Ecclesia in Oceania 30.
[23] Cf. anche: Ecclesia in America 39; Ecclesia in Africa 97-98; Ecclesia in Asia 43; Ecclesia in Oceania 49.
[24] Cf. anche: Ecclesia in America 43; Ecclesia in Africa 94; Ecclesia in Asia 44; Ecclesia in Oceania 51-52.
[25] Nell’esortazione apostolica postsinodale Pastores gregis si sottolinea la necessità che il vescovo si assuma le proprie responsabilità nel promuovere la spiritualità dei suoi sacerdoti; cf. in particolare nn. 47 e 48. Il Direttorio per il Ministero Pastorale dei Vescovi indica le medesime linee: nn. 75-83.
[26] Gli ultimi documenti di Giovanni Paolo II tracciano con decisione questa linea di speranza. Gli apostoli sono animati dalla speranza (cf. Nmi 24). È sufficiente leggere le Esortazioni Apostoliche postsinodali , che incoraggiano ad affrontare le nuove situazioni seguendo i segni positivi dell’azione provvidenziale di Dio. Anche in Novo Millennio ineunte, in cui si cerca di approfondire il mistero dell’Incarnazione come « segno di genuina speranza » (NMi 4). La storia di ogni credente è « una storia di vita, fatta di gioie, ansie, dolori; una storia incontrata da Cristo, e che nel dialogo con lui riprendeva il suo cammino di speranza » (NMi 8). « Ci anima la speranza di essere guidati dalla presenza del Risorto e dalla forza inesauribile del suo Spirito, capace di sorprese sempre nuove » (NMi 12). « Duc in altum! Andiamo avanti con speranza! Un nuovo millennio si apre davanti alla Chiesa come oceano vasto in cui avventurarsi, contando sull’aiuto di Cristo » (NMi 58).
[27] Un sacerdote martire della mia diocesi, Lleida, durante la persecuzione del 1936 in Spagna, dopo essere stato fucilato era ancora vivo e recitava il Credo; quando l’aguzzino gli si avvicinò per finirlo con il colpo di grazia, domandò che gli lasciassero terminare la professione di fede…
[28] Cf. alcune delle sue testimonianze del tempo trascorso in carcere, in: Testimoni della speranza (Roma, Città Nuova, 2000). È lo stile di vita paolino: « Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? » (Rm 8,35).
[29] Santa Teresa invita a « portarle sempre con sé », perché « con un così buon amico presente, tutto si può sopportare » (Vita, 22,6).
[30] La preghiera sacerdotale di Gesù, pronunciata nell’ultima cena, può facilmente essere posta in relazione con il Cuore o l’interiorità di Maria, specialmente dal momento in cui ricevette l’incarico di essere nostra Madre (cf. Gv 19, 25-27: « ecco il tuo figlio »): « Io sono glorificato in loro… li hai amati come hai amato me… Io sono in essi » (Gv 17,10.23.26).
[31] Con il trascorrere degli anni del nostro sacerdozio potremmo avere la sensazione, alcune volte, di sentirci con le “mani vuote”; tuttavia, l’esempio di S. Teresa di Lisieux è entusiasmante, quando dice al Signore: “Poni le tue mani nelle mie e non saranno più vuote”. Da parte mia, debbo dire che nel corso dei miei 50 anni di sacerdozio (1954-2004) non mi sono mai pentito del mio primo incontro con Cristo, quando cominciai a sentire la vocazione al sacerdozio. La vita sacerdotale è sempre una storia di grazia e di misericordia. È una vita che si sforza di essere spesa con gioia, per amare Cristo e farlo amare. Talvolta, ho avuto l’impressione di essere “uno straccio” inutile. Ma l’incontro personale con Cristo, rinnovato quotidianamente nell’Eucaristia e nel suo Vangelo, mi ha fatto sentire nel cuore le sue parole incoraggianti: “Questo straccio è mio”, lavato con il mio sangue redentore (cf. Ap 7, 14).
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
PIAZZA SAN PIETRO
MERCOLEDÌ, 13 APRILE 2011
LA SANTITÀ
Cari fratelli e sorelle,
nelle Udienze generali di questi ultimi due anni ci hanno accompagnato le figure di tanti Santi e Sante: abbiamo imparato a conoscerli più da vicino e a capire che tutta la storia della Chiesa è segnata da questi uomini e donne che con la loro fede, con la loro carità, con la loro vita sono stati dei fari per tante generazioni, e lo sono anche per noi. I Santi manifestano in diversi modi la presenza potente e trasformante del Risorto; hanno lasciato che Cristo afferrasse così pienamente la loro vita da poter affermare con san Paolo “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Seguire il loro esempio, ricorrere alla loro intercessione, entrare in comunione con loro, “ci unisce a Cristo, dal quale, come dalla Fonte e dal Capo, promana tutta la grazia e tutta la vita dello stesso del Popolo di Dio” (Conc. Ec. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium 50). Al termine di questo ciclo di catechesi, vorrei allora offrire qualche pensiero su che cosa sia la santità.
Che cosa vuol dire essere santi? Chi è chiamato ad essere santo? Spesso si è portati ancora a pensare che la santità sia una meta riservata a pochi eletti. San Paolo, invece, parla del grande disegno di Dio e afferma: “In lui – Cristo – (Dio) ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità” (Ef 1,4). E parla di noi tutti. Al centro del disegno divino c’è Cristo, nel quale Dio mostra il suo Volto: il Mistero nascosto nei secoli si è rivelato in pienezza nel Verbo fatto carne. E Paolo poi dice: “E’ piaciuto infatti a Dio che abiti in Lui tutta la pienezza” (Col 1,19). In Cristo il Dio vivente si è fatto vicino, visibile, ascoltabile, toccabile affinché ognuno possa attingere dalla sua pienezza di grazia e di verità (cfr Gv 1,14-16). Perciò, tutta l’esistenza cristiana conosce un’unica suprema legge, quella che san Paolo esprime in una formula che ricorre in tutti i suoi scritti: in Cristo Gesù. La santità, la pienezza della vita cristiana non consiste nel compiere imprese straordinarie, ma nell’unirsi a Cristo, nel vivere i suoi misteri, nel fare nostri i suoi atteggiamenti, i suoi pensieri, i suoi comportamenti. La misura della santità è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua. E’ l’essere conformi a Gesù, come afferma san Paolo: “Quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo” (Rm 8,29). E sant’Agostino esclama: “Viva sarà la mia vita tutta piena di Te” (Confessioni, 10,28). Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione sulla Chiesa, parla con chiarezza della chiamata universale alla santità, affermando che nessuno ne è escluso: “Nei vari generi di vita e nelle varie professioni un’unica santità è praticata da tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio e … seguono Cristo povero, umile e carico della croce, per meritare di essere partecipi della sua gloria” (n. 41).
Ma rimane la questione: come possiamo percorrere la strada della santità, rispondere a questa chiamata? Posso farlo con le mie forze? La risposta è chiara: una vita santa non è frutto principalmente del nostro sforzo, delle nostre azioni, perché è Dio, il tre volte Santo (cfr Is 6,3), che ci rende santi, è l’azione dello Spirito Santo che ci anima dal di dentro, è la vita stessa di Cristo Risorto che ci è comunicata e che ci trasforma. Per dirlo ancora una volta con il Concilio Vaticano II: “I seguaci di Cristo, chiamati da Dio non secondo le loro opere, ma secondo il disegno della sua grazia e giustificati in Gesù Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi. Essi quindi devono, con l’aiuto di Dio, mantenere nella loro vita e perfezionare la santità che hanno ricevuta” (ibid., 40). La santità ha dunque la sua radice ultima nella grazia battesimale, nell’essere innestati nel Mistero pasquale di Cristo, con cui ci viene comunicato il suo Spirito, la sua vita di Risorto. San Paolo sottolinea in modo molto forte la trasformazione che opera nell’uomo la grazia battesimale e arriva a coniare una terminologia nuova, forgiata con la preposizione “con”: con-morti, con-sepolti, con-risucitati, con-vivificati con Cristo; il nostro destino è legato indissolubilmente al suo. “Per mezzo del battesimo – scrive – siamo stati sepolti insieme con lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti… così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Rm 6,4). Ma Dio rispetta sempre la nostra libertà e chiede che accettiamo questo dono e viviamo le esigenze che esso comporta, chiede che ci lasciamo trasformare dall’azione dello Spirito Santo, conformando la nostra volontà alla volontà di Dio.
Come può avvenire che il nostro modo di pensare e le nostre azioni diventino il pensare e l’agire con Cristo e di Cristo? Qual è l’anima della santità? Di nuovo il Concilio Vaticano II precisa; ci dice che la santità cristiana non è altro che la carità pienamente vissuta. “«Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1Gv 4,16). Ora, Dio ha largamente diffuso il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr Rm 5,5); perciò il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di Lui. Ma perché la carità, come un buon seme, cresca nell’anima e vi fruttifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e, con l’aiuto della grazia, compiere con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all’Eucaristia e alla santa liturgia; applicarsi costantemente alla preghiera, all’abnegazione di se stesso, al servizio attivo dei fratelli e all’esercizio di ogni virtù. La carità infatti, vincolo della perfezione e compimento della legge (cfr Col 3,14; Rm 13,10), dirige tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine. Forse anche questo linguaggio del Concilio Vaticano II per noi è ancora un po’ troppo solenne, forse dobbiamo dire le cose in modo ancora più semplice. Che cosa è essenziale? Essenziale è non lasciare mai una domenica senza un incontro con il Cristo Risorto nell’Eucaristia; questo non è un peso aggiunto, ma è luce per tutta la settimana. Non cominciare e non finire mai un giorno senza almeno un breve contatto con Dio. E, nella strada della nostra vita, seguire gli “indicatori stradali” che Dio ci ha comunicato nel Decalogo letto con Cristo, che è semplicemente l’esplicitazione di che cosa sia carità in determinate situazioni. Mi sembra che questa sia la vera semplicità e grandezza della vita di santità: l’incontro col Risorto la domenica; il contatto con Dio all’inizio e alla fine del giorno; seguire, nelle decisioni, gli “indicatori stradali” che Dio ci ha comunicato, che sono solo forme di carità. Perciò il vero discepolo di Cristo si caratterizza per la carità verso Dio e verso il prossimo” (Lumen gentium, 42). Questa è la vera semplicità, grandezza e profondità della vita cristiana, dell’essere santi.
Ecco perché sant’Agostino, commentando il capitolo quarto della Prima Lettera di san Giovanni, può affermare una cosa coraggiosa: “Dilige et fac quod vis”, “Ama e fa’ ciò che vuoi”. E continua: “Sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; vi sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene” (7,8: PL 35). Chi è guidato dall’amore, chi vive la carità pienamente è guidato da Dio, perché Dio è amore. Così vale questa parola grande: “Dilige et fac quod vis”, “Ama e fa’ ciò che vuoi”.
Forse potremmo chiederci: possiamo noi, con i nostri limiti, con la nostra debolezza, tendere così in alto? La Chiesa, durante l’Anno Liturgico, ci invita a fare memoria di una schiera di Santi, di coloro, cioè, che hanno vissuto pienamente la carità, hanno saputo amare e seguire Cristo nella loro vita quotidiana. Essi ci dicono che è possibile per tutti percorrere questa strada. In ogni epoca della storia della Chiesa, ad ogni latitudine della geografia del mondo, i Santi appartengono a tutte le età e ad ogni stato di vita, sono volti concreti di ogni popolo, lingua e nazione. E sono tipi molto diversi. In realtà devo dire che anche per la mia fede personale molti santi, non tutti, sono vere stelle nel firmamento della storia. E vorrei aggiungere che per me non solo alcuni grandi santi che amo e che conosco bene sono “indicatori di strada”, ma proprio anche i santi semplici, cioè le persone buone che vedo nella mia vita, che non saranno mai canonizzate. Sono persone normali, per così dire, senza eroismo visibile, ma nella loro bontà di ogni giorno vedo la verità della fede. Questa bontà, che hanno maturato nella fede della Chiesa, è per me la più sicura apologia del cristianesimo e il segno di dove sia la verità.
Nella comunione dei Santi, canonizzati e non canonizzati, che la Chiesa vive grazie a Cristo in tutti i suoi membri, noi godiamo della loro presenza e della loro compagnia e coltiviamo la ferma speranza di poter imitare il loro cammino e condividere un giorno la stessa vita beata, la vita eterna.
Cari amici, come è grande e bella, e anche semplice, la vocazione cristiana vista in questa luce! Tutti siamo chiamati alla santità: è la misura stessa della vita cristiana. Ancora una volta san Paolo lo esprime con grande intensità, quando scrive: “A ciascuno di noi è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo… Egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo” (Ef 4,7.11-13). Vorrei invitare tutti ad aprirsi all’azione dello Spirito Santo, che trasforma la nostra vita, per essere anche noi come tessere del grande mosaico di santità che Dio va creando nella storia, perché il volto di Cristo splenda nella pienezza del suo fulgore. Non abbiamo paura di tendere verso l’alto, verso le altezze di Dio; non abbiamo paura che Dio ci chieda troppo, ma lasciamoci guidare in ogni azione quotidiana dalla sua Parola, anche se ci sentiamo poveri, inadeguati, peccatori: sarà Lui a trasformarci secondo il suo amore. Grazie.
http://liturgia.silvestrini.org/santo/139.html
SIMONE E GIUDA APOSTOLI – 28 OTTOBRE
BIOGRAFIA
Apostolo SimoneSimone e Giuda, i cui nomi sono accoppiati nel canone della messa, sono ricordati con un’unica festa. Può darsi che il motivo fosse un loro comune apostolato in Mesopotamia e in Persia, dove sarebbero stati inviati per predicare il Vangelo. Comunque non si sa niente di storicamente certo, all’infuori di ciò che ci è narrato nel Vangelo sulla loro vocazione.
Simone, che i vangeli chiamano il Cananeo per distinguerlo da Simon Pietro, era nativo di Cana in Galilea, soprannominato lo « Zelota ». Secondo incerte notizie riferite dallo storico Eusebio, pare sia stato il successore di Giacomo sulla cattedra di Gerusalemme, negli anni della tragica distruzione della città santa. L’apostolo avrebbe subìto il martirio durante l’impero di Traiano, nel 107, alla bella età di centovent’anni.
Giuda, « non l’Iscariote » occupa l’ultimo posto nell’elenco degli apostoli, col soprannome di Taddeo, e viene identificato con l’autore della lettera canonica che porta il suo nome. Operò gran bene con la sua parola ispirata. Aprì chiese e formò una comunità di fedeli, in Babilonia. In Persia subì gloriosamente il martirio suggellando l’insegnamento con la profusione del sangue.
MARTIROLOGIO
Festa dei santi Simone e Giuda, Apostoli: il primo era soprannominato Cananeo o « Zelota », e l’altro, chiamato anche Taddeo, figlio di Giacomo, nell’ultima Cena interrogò il Signore sulla sua manifestazione ed egli gli rispose: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui».
DAGLI SCRITTI…
Apostolo Giuda TaddeoDal « Commento sul vangelo di Giovanni » di san Cirillo d’Alessandria, vescovo
Nostro Signore Gesù Cristo stabilì le guide, i maestri del mondo e i dispensatori dei suoi divini misteri. Volle inoltre che essi risplendessero come luminari e rischiarassero non soltanto il paese dei Giudei, ma anche tutti gli altri che si trovano sotto il sole e tutti gli uomini che popolano la terra. Nostro Signore Gesù Cristo ha rivestito gli apostoli di una grande dignità a preferenza di tutti gli altri discepoli. I suoi apostoli furono le colonne e il fondamento della verità. Cristo afferma di aver dato loro la stessa missione che ebbe dal Padre. Mostrò così la grandezza dell’apostolato e la gloria incomparabile del loro ufficio.
Egli dunque pensava di dover mandare i suoi apostoli allo stesso modo con cui il Padre aveva mandato lui. Perciò era necessario che lo imitassero perfettamente e per questo conoscessero esattamente il mandato affidato al Figlio dal Padre. Ecco perché spiega molte volte la natura della sua missione. Una volta dice: Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori alla conversione (Mt 9, 13). Un’altra volta afferma: « Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato » (Gv 6, 38).
Riassumendo perciò in poche parole le norme dell’apostolato, dice di averli mandati come egli stesso fu mandato dal Padre, perché da ciò imparassero che il loro preciso compito era quello di chiamare i peccatori a penitenza, di guarire i malati sia di corpo che di spirito, di non cercare nell’amministrazione dei beni di Dio la propria volontà, ma quella di colui da cui sono stati inviati e di salvare il mondo con il suo genuino insegnamento. Fino a qual punto gli apostoli si siano sforzati di segnalarsi in tutto ciò, non sarà difficile conoscerlo se si leggeranno anche solo gli Atti degli Apostoli e gli scritti di san Paolo.
http://famiglia.diocesidicagliari.it/docum/Galati%20-%20N.Marconi.pdf
“STOLTI GALATI…” IL DONO DEL VANGELO. (PDF)
Don Nazzareno Marconi
Bibliografia indicativa.
A. Pitta, Lettera ai Galati.Introduzione versione e commento, Bologna, EDB, 1996.
A.Vanhoye, Lettera ai Galati, Milano, Paoline, 20082
.
Chi sono i Galati?
L’autenticità di questa lettera non è praticamente mai stata messa in discussione, la questione dei destinatari è invece più delicata. Ritengo con la maggioranza dei commentatori attuali che si tratta delle chiese disperse nella Galazia vera e propria, cioè negli altipiani situati attorno a Ancira (l’attuale Ankara), e non la Galazia intesa come provincia romana comprendente anche le regioni più a sud dell’Asia minore, come la Licaonia, la Panfilia e la Pisidia (regioni che Paolo visitò nel suo primo viaggio missionario, At 13,13-14,25). Gli Atti non danno alcun dettaglio su queste chiese: si sa solo che Paolo attraversò una prima volta questa regione venendo da sud (da Derbe e Listra in Panfilia e Licaonia), “avendo lo Spirito Santo vietato loro [a Paolo e compagni] di predicare la parola nella provincia di Asia [cioè nella parte
occidentale dell’Asia minore]” (At 16,6); vi ripassò quando, da Antiochia, si recò a Efeso: Paolo “partì di nuovo percorrendo di seguito le regioni della Galazia e della Frigia, confermando nella fede tutti i discepoli” (At 18,23, cf. 19,1). Forse a queste due visite fa riferimento Gal 4,13-14 quando parla di una “prima volta” in cui Paolo annunciò l’evangelo “a causa di una debolezza della carne”; una “prima volta” lascia intendere che c’è stata anche una seconda, e la “debolezza della carne” potrebbe alludere ad una malattia che sarebbe stata lo strumento scelto dallo Spirito per
vietare a Paolo di predicare nella provincia di Asia. Poiché nessun nome di città è menzionato, si tratta forse di piccole comunità di campagna sparse nella regione, che cresceranno però col tempo poiché fanno parte delle comunità della diaspora alle quali si rivolge la Prima lettera di Pietro (cf. 1Pt 1,1; epistola solitamente datata alla fine del I secolo). Lo stupore di Paolo, manifestato in 1,6, per la rapidità con la quale i Galati sono passati a un “altro evangelo”, indica che la lettera dev’essere stata scritta poco dopo il secondo passaggio di Paolo nella regione, forse durante il suo soggiorno a Efeso (At 19,1-20,1) che durò due-tre anni (At 19,8-10 e 20,31). La lettera sarebbe quindi degli anni 52-55.
L’assenza di azione di grazie iniziale relativa a queste comunità e il tono spesso polemico della lettera indicano che Paolo l’ha scritta per affrontare problemi seri avvenuti in queste chiese, problemi che mettono in pericolo le loro relazioni con l’Apostolo e soprattutto la loro vita di fede. Le indicazioni sul contesto e le problematiche affrontate sono scarse ed ogni ricostruzione di ciò che non è detto è sempre rischiosa, vale la pena piuttosto di leggere questa lettera per ciò che è: una lettera indirizzata a varie comunità per richiamarle alla verità del vangelo che hanno ricevuto. Degli avversari di Paolo in questa lettera sappiamo solo che: Paolo ne parla sempre in modo polemico, e che essi esigono la circoncisione (anche per timore della persecuzione da parte dei giudei, 6,12-13), che sono esterni alle comunità della Galazia e tentano di infiltrarvisi, e che forse sono “giudeo-cristiani”, cioè dei cristiani che provengono dalla fede giudaica e non dal paganesimo come probabilmente erano la maggior parte dei Galati a cui Paolo si rivolge.
Il loro contrasto con Paolo si basa sulla convinzione che il cristianesimo è una via di salvezza “secondaria” rispetto alla religione ebraica. Per salvarsi bisognerebbe prima essere ebrei e rispettare la legge dell’AT, poi accogliere il messaggio del vangelo. La domanda che emerge è chiara: Seguire Cristo basta per salvarsi? Per questo possiamo capire la passione con cui Paolo affronta il tema. L’aiuto di una sintesi introduttiva. Prima di affrontare un testo denso di dottrina com’è questa lettera ho sperimentato che è molto utile chiarirsi le idee sul suo messaggio. E’ come quando leggiamo la trama prima di vedere un film: se il film è bene fatto questo non toglie il piacere di vederlo, ma anzi ci aiuta a seguirlo con coerenza e maggiore partecipazione. Riporto perciò a questo punto un brano sintetico del commentario a Galati scritto nel 2000 dal Card Vanhoye, di cui è appena uscita la seconda edizione, che merita di essere letto per avere un punto chiaro e solido di comprensione del problema.
“La lettera ai Galati ci offre una visione molto profonda della fede in Cristo. Paolo ne dimostra anzitutto il carattere di
relazione interpersonale. La fede non è una teoria né una ideologia; essa è un’adesione personale alla persona di Cristo e per mezzo suo alla persona di Dio Padre sotto l’impulso dello Spirito Santo. La fede è un dono di Dio Padre che ci
rivela il suo Figlio e ci comunica una unione vitale con lui, al punto che il credente può dire “Vivo non più io, ma vive
in me Cristo” (Gal 2,20). Questa unione vitale attuata per mezzo della fede mette il credente in connessione stretta con
il dinamismo di amore della passione e resurrezione di Cristo e quindi lo spinge a vivere nell’amore di carità. La fede in
Cristo viene presentata da Paolo come l’unica base della vita cristiana. All’inizio della vita cristiana la fede in Cristo
procura la giustificazione, cioè rende giusti i peccatori. Non c’è altro mezzo per ottenere questa giustificazione iniziale, la quale è fondamentale. Paolo combatte con estrema energia la posizione dei giudaizzanti, che spingevano i Galati a cercare la giustificazione per mezzo dell’osservanza della legge di Mosè, il che significava cercare di autogiustificarsi. Paolo dimostra che questa posizione è incoerente, perniciosa, incompatibile con la fede in Cristo. La ricerca dell’autogiustificazione rinchiude la persona in sé stessa ed ostacola il dinamismo dell’amore. Per questa ragione la fede si oppone radicalmente a tale ricerca. Essa libera la persona dal suo egocentrismo per mezzo di una relazione interpersonale privilegiata con Cristo che l’introduce nel regno dell’amore. Per questa dottrina tanto profonda e stimolante, l’apostolo Paolo merita tutta la nostra riconoscenza”. (p 175-176).
LA STRUTTURA DEL TESTO
Di solito si divide la lettera in tre sezioni che si preoccupano di difendere l’insegnamento dato da Paolo con due tipi di
argomentazioni e poi trarne delle conseguenze esistenziali e spirituali. Avremmo così:
1-2: argomentazione autobiografica
3-4: argomentazione dottrinale
5-6: esortazioni e conseguenze pratiche.
Possiamo però dettagliare meglio mettendo in evidenza un elemento del testo, il ripetersi di 4 rimproveri nel corso della lettera. La loro funzione è ricordare il tema basilare: tornare alla purezza del vangelo loro annunciato da Paolo e che in definitiva giunge direttamente da Dio (1,11-12).
GALATI
Introduzione (1,1-5): Indirizzo e saluto
Primo rimprovero (6-10)
Argomentazione fondamentale (1,11-12): Paolo ha ricevuto il Vangelo per rivelazione.
I: Approfondimento autobiografico (1,13-2,21): La rivelazione – l’incontro a Gerusalemme – l’incidente di Antiochia.
Secondo rimprovero (3,1-5)
II: Approfondimento dottrinale (3,6- 4,7):
Rapporto tra vangelo e legge: Nel regime della fede la benedizione di Abramo raggiunge direttamente i gentili – la legge non abolisce la promessa – ruolo della legge – fine della legge.
Terzo rimprovero (4,8-11)
I II: Approfondimento dottrinale (4,12-5,12):
Tutti sono figli della promessa secondo Isacco: Istinti materni di Paolo – Agar e Sara e i loro figli – No alla circoncisione!.
Quarto rimprovero (5,13-15)
IV: Approfondimento dottrinale (5,15-6,10):
La vita nuova o il regime della liberta: Incompatibilità tra carne e Spirito – La Condotta degli
“spirituali”.
Saluto finale (6,11-18). Guida di Lettura
IL SALUTO INIZIALE (1,1-5)
Paolo, fin dal saluto, insiste sul suo apostolato, spesso messo in discussione (come in 1 e 2Cor) che
si fonda su tre elementi:
1- è stato chiamato direttamente da Cristo
2- appartiene pienamente alla chiesa di Cristo assieme a molti fratelli (1,2)
3- condivide la stessa fede. In 1,4 Paolo cita una formula di fede probabilmente liturgica ed antica, ma in cui si
riconosce il suo vangelo tutto centrato su Cristo salvatore potente. Contro questo vangelo andrebbe l’idea di doversi circoncidere per essere salvi. Cristo è forse incapace di salvarci senza la circoncisione? Questo è l’interrogativo pericoloso che Paolo vuol combattere. In questo sta anche il valore per noi di questa lettera che ci parlerà della centralità dell’unione con Cristo per la salvezza.
PRIMO RIMPROVERO (3,6-10)
Paolo affronta anche il tema del rapporto rito e fede, infatti la domanda di fondo poteva anche essere posta così: “non occorre forse aggiungere alla fede in Cristo il rito che fa entrare nel popolo d’Israele?” Per Paolo il solo porsi la domanda è già negare la piena sufficienza di Cristo per la salvezza e abbracciare un “altro vangelo” che in realtà non esiste. Non è un fatto secondario, ma basilare per lui, Paolo senza alcuna esitazione condanna addirittura all’“anathema” (scomunica) chi cerca di scardinare questo fondamento.
L’ARGOMENTAZIONE FONDAMENTALE (1,11-12)
Paolo affronta da subito il cuore del tema: il suo Vangelo non è suo, così che ce ne possa essere “un altro”. Egli infatti l’ha ricevuto mediante rivelazione da Gesù Cristo stesso (1,11-12). Se i Galati l’accolgono, non solo la missione di Paolo sarà salva, ma anche la salvezza che viene da Cristo sarà efficace.
I° APPROFONDIMENTO AUTOBIOGRAFICO (1,13-2,21)
Questa parte pone diversi problemi storici, e in particolare quello della sua concordanza con i dettagli forniti da Luca negli Atti. Tuttavia il suo scopo non è di darci elementi della biografia di Paolo: si tratta invece per Paolo di dimostrare, attraverso ciò che ha vissuto, la veridicità del Vangelo che proclama.
1- La sua vocazione mostra che il suo annuncio non viene dagli uomini (1,13-24);
2- La sua seconda salita a Gerusalemme (2,1-10) mette in evidenza la sua comunione con gli apostoli di
Gerusalemme che lo hanno riconosciuto come uno di loro, loro mandati alla “circoncisione” e Paolo agli
“incirconcisi”.
3- Paolo è un apostolo come gli altri tanto che ad Antiochia ha potuto rinfacciare persino a Pietro l’incoerenza
della sua condotta.
E’ importante notare come Paolo metta al primo posto, in questo primo approfondimento, non una disquisizione teologica, ma il vissuto ecclesiale ed il suo personale vissuto spirituale. La fede vissuta, celebrata e sperimentata, avrebbe una specie di preminenza sulla elaborazione teologica, almeno per il discernimento della vera e falsa comprensione del vangelo. Se comprendiamo bene questo si butta a mare tutta la polemica pretestuosa: se Paolo sia più protestante o più cattolico. Se sia solo, come lo preferiscono certi autori protestanti, il teologo della
giustificazione per fede, o solo il predicatore della vita spirituale “in Cristo”, come lo leggerebbero preferibilmente alcuni cattolici. L’unità tra la teologia paolina e il suo vissuto mistico, personale ed ecclesiale, mette in tutt’altra
luce il contenuto delle affermazioni paoline, impedendo ogni estremismo ed ogni aut-aut. E’ la linea prediletta da molti autori cattolici contemporanei, primo fra tutti il card Vanhoye, ma anche in una recente conferenza il pastore calvinista riformato Daniel Attinger, che è anche monaco di Bose, da cui ho tratto moltissimi interessanti spunti per queste note. Se vedo bene perciò, per Paolo la linea teologica e quella mistica, sono strettamente unite: è la vita
in Cristo che dimostra la verità della giustificazione per fede, e l’una non può essere staccata dall’altra.
SECONDO RIMPROVERO (3,1-5)
Dove Paolo non esita a dare per due volte degli “stupidi” ai Galati. Il termine “A-noetoi” potrebbe corrispondere alla espressione giovanile “siete fuori di testa”, che mostra come Paolo sappia unire logica e passione nel suo annuncio evangelico.
II° APPROFONDIMENTO DOTTRINALE (3,6-4,7)
Paolo si sofferma ora sul contenuto del Vangelo che annuncia, per mostrarne la verità e la coerenza. Tratta in particolare del rapporto tra Vangelo e Legge. I primi versetti annunciano il tema: “Come Abramo credette in Dio e gli fu ascritto a giustizia, riconoscete dunque che, quelli [che sono] dalla fede, sono figli di Abramo” (3,6-7). Contengono
infatti l’idea centrale che verrà sviluppata in quattro paragrafi secondo metodologie di indagine diverse:
1° (v. 6-14), Paolo fa l’esegesi del testo centrandosi sulla espressione “genti” nella promessa divina ad Abramo e mostra che la legge stessa (cioè la Torah) prevede che la benedizione di Abramo sia preparata per le genti; 2° (v. 15-18), argomenta secondo una logica legale che la promessa è fatta al “seme” (e non “ai semi”) di Abramo, cioè a Cristo, ma anche, come risulta da 3,29, a quelli che gli appartengono legalmente, i quali sono pure “seme di Abramo”;
3° (v. 19-22) sotto forma di disputa, cioè con domande e risposte e si pone la domanda del perché della legge. La motivazione della risposta è complessa: Paolo afferma semplicemente che essa è stata aggiunta “a causa delle trasgressioni”. Con ciò non intende: “per rendere note e chiare le trasgressioni” che non erano tali giacché non c’era legge. Dio in questo caso farebbe della legge una realtà solo negativa e colpevolizzante, cosa che Paolo non intende certo. Anche la legge è un dono e come tale fu data ad Israele per offrirgli una nuova possibilità di vivere, nonostante le sue trasgressioni. Regolamenta la vita, perché il male vissuto nella trasgressione senza limitazioni, non la renda impossibile. Pur manifestando il privilegio fatto da Dio a Israele grazie a questo dono, l’importanza della legge
viene ulteriormente sminuita da Paolo dal fatto che è stata promulgata “mediante angeli, per mano di un mediatore”, quale che sia l’interpretazione che si dà a quest’affermazione difficile. In ogni caso Paolo intende che la legge, pur “permettendo” la vita nel regime del peccato, non è capace di “dare” la vita (v. 21). Nel piano sapiente di Dio la legge è stata una parentesi all’interno del regime della promessa, inaugurato con Abramo e ripristinato con la venuta del Figlio, che ha preso su di sé la maledizione scagliata dalla legge contro il peccato.
4° (v.23-29) analizza il processo storico, riconoscendo che nella storia della salvezza appare una successione di tempi: a quello della legge succede quello della fede. E’ una logica d maturazione e crescita simile a quella per cui all’età infantile succede l’età adulta, come alla sottomissione ai pedagoghi succede la “libertà”. Questa maturazione riguarda tutti, sia colori che giungono a Cristo dall’ebraismo che i convertiti dal paganesimo. Attraverso la fede l’ebreo passa dallo stato di figlio bambino a quello di figlio adulto, e il pagano passa dalla condizione di schiavo dell’idolatria a quella di figlio adulto di Dio. Nella fede, entrambi sono “rivestiti” di Cristo (allusione alla liturgia battesimale), al punto che, come diceva in 2,20, non sono più loro che vivono, ma è Cristo, il Figlio, che vive in loro. L’effetto di questa piena
maturazione è che “non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (vv. 27-28). In questa nuova condizione, determinata dal tempo della fede, queste categorie non hanno più valore perché il soggetto dell’agire del credente non è più lui, ma il Cristo Signore. Conclusione (v. 4,1-7). Paolo conclude mostrando la prova fondamentale di questo rinnovamento, nel fatto che ormai possiamo dire “abbà” a Dio come il Cristo. Si conclude cioè come si era iniziato confermando con l’esperienza esistenziale, la via “mistica”, la verità dell’affermazione teologica.
TERZO RIMPROVERO (4,8-11)
Dove Paolo teme di essersi affaticato invano se ricadranno nell’idolatria come conseguenza di non contare sulla fede, ma sulla legge.
III° APPROFONDIMENTO DOTTRINALE (4,12-5,12)
Questo terzo approfondimento dottrinale continua la logica precedente ed analizza la realtà donata dalla fede nel vangelo: la figliolanza divina. Inizia con un enigmatico: “Diventate come me perché anch’io sono come voi” (4,12).
Poi Paolo accenna alla sua malattia di cui si sa soltanto che forse aveva un carattere ripugnante che avrebbe potuto provocare il disprezzo dei Galati (v. 14). Nonostante ciò i Galati lo hanno accolto con grande amore. Allo stesso modo ora Paolo si comporta con i Galati come una madre. Perciò forse il senso dell’espressione è: “siate di nuovo benevoli verso di me come sto cercando di esserlo verso di voi”. Questa esperienza dovrebbe allontanarli dagli agitatori, che sono “zelanti, ma non in bene” (v. 17) mentre Paolo è materno nel prendersi cura di loro “finché il Cristo sia formato in voi” (v. 19). L’immagine materna richiama il tema della figliolanza, che aveva già presentato prima: I Galati
sono pienamente figli di Abramo giacché, in Cristo, sono diventati figli di Dio. Ma cosa significa? Paolo propone a questo punto una riflessione biblica, sviluppata con perfetto stile rabbinico, sui due figli di Abramo, Isacco e Ismaele (4,21-5,1). Comprendere tutto il suo argomentare richiederebbe un lungo studio sul Midrash, una tecnica esegetica che spiega il testo sviluppando le potenzialità significative del testo come narrazione. Partendo dai fatti narrati dalla Bibbia Paolo dimostra che si può essere figli di Abramo in due modi. La figliolanza “secondo la carne”, quella del figlio nato da Agar, pone in condizione di schiavitù, sottoposti al regime della legge, rendendoci cittadini della Gerusalemme attuale. La figliolanza “mediante la promessa”, quella del figlio nato da Sara, pone in condizione di libertà, sottoposti al regime della promessa, rendendoci cittadini della Gerusalemme di lassù. Ora se Isacco è “secondo la promessa”, la sua circoncisione è da considerare “accidentale”, perché non appartiene al regime della promessa. I Galati dunque (quelli almeno che provengono dal paganesimo) non si devono far circoncidere: sarebbe ritornare ai “miserabili e deboli elementi” che già caratterizzavano la loro schiavitù quando erano pagani (cf. 4,9). Questa è la conclusione di
questa sezione, (5,2-12) la cui ultima parola è uno sferzante tratto d’ironia, evidentemente iperbolico: “già che ci sono, si facciano evirare!” (5,12), come avveniva nel culto di Cibele, ben conosciuto in Galazia.
QUARTO RIMPROVERO (5,13-15)
Dove Paolo invita, non senza ironia a distinguere tra la vera libertà che porta all’amore fraterno e l’arbitrio che porta all’egoismo.
IV° APPROFONDIMENTO DOTTRINALE (5,16-6,10)
Questo quarto approfondimento dottrinale trae le conseguenze del discorso fatto finora. Cos’è il regime della libertà nel quale il Cristo ci fa entrare con il battesimo? O quali sono le esigenze del Vangelo? La risposta sintetica è anticipata nel v 13 del rimprovero: “Voi infatti siete stati chiamati a libertà, fratelli. Soltanto, non fate di questa libertà un pretesto per la carne ma, mediante l’amore, servitevi gli uni gli altri! (5,13)”. Vi si riassume ciò che Paolo ha scritto finora: la libertà è la vocazione dei figli. Dagli esseri umani Dio non attende altro che questo, giacché proprio per liberarci ha mandato suo Figlio fra noi. Siete stati liberati… siate dunque liberi! La vita cristiana diventa così la costante ricerca di realizzare in noi il dono di libertà che Dio ci ha fatto in Cristo, ma ricerca che è anche lotta, perché sempre si presentano a noi nuovi padroni che vogliono dominarci. E il peggiore di questi siamo noi stessi. Per questo Paolo precisa: “non fate di questa libertà un pretesto per la carne”. La tentazione infatti è di dire: siamo liberi, facciamo dunque ciò che vogliamo! Ma anche questa è schiavitù. Paolo avverte che i padroni dai quali siamo stati liberati non sono solo esterni a noi; uno è ancor più pericoloso: il nostro io, il nostro “essere di carne”. Paolo non pensa ai cosiddetti “peccati della carne” ma al nostro essere votati alla morte; la carne ci lega alla terra, a questo tempo presente e quindi alla morte. La paura di morire, di scomparire, ci fa attaccare a ciò che siamo, a ciò che sentiamo, ci
spinge a metterci al centro del mondo. Questa è “la carne” ed è su di essa che hanno potere il peccato e la morte, perché è il nostro essere fragili. Fare quello che a me piace comandato da questa bramosia che viene dal mio essere di carne, non è libertà, è schiavitù, sottomissione alla morte e alle potenze infernali. Allora qual è la vera libertà? “Mediante l’amore, servitevi gli uni gli altri”. Questa è la vera libertà! Paolo è volutamente paradossale perché esprime l’essere liberi attraverso un farsi servi. La libertà di cui Paolo parla è l’essere talmente liberi da se stessi, da diventare disponibili per gli altri. In altri termini, vivere la piena libertà significa essere ad immagine di Dio, somigliare al Figlio
suo che si è fatto servo (Fil 2,7). È significativo che Paolo non scriva: “amatevi gli uni gli altri”, ma usi una formula piuttosto complicata: “mediante l’amore, servitevi gli uni gli altri”. Vuol mettere in chiaro che l’uomo non ha
in sé la capacità di amare: solo Dio può suscitare in noi l’amore, e lo suscita quando viviamo in Cristo, cioè guidati da Lui, facendoci servi come Lui. Il comandamento non è dunque tanto per Paolo: “amatevi”, ma: “vivete pienamente la libertà di Cristo”, e da ciò nascerà l’amore. In questo modo, senza nemmeno pensarci, adempiremo la legge il cui compimento è l’amore (5,14). Tuttavia la realtà dei Galati è lontana da questa logica come ricorda, non senza ironia, il v. 15: “Ma se vi mordete e dilaniate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!”.
Più sotto nota ancora “non diventiamo vanagloriosi provocandoci a vicenda e invidiandoci gli uni gli altri” (5,26).
Queste chiese della Galazia hanno difetti molto terra terra: invidie, litigi, superbia, prepotenza. Tutto il percorso teologico di Paolo non vola verso progetti spirituali straordinari, ma resta ancorato alla concretezza. Paolo esorta: “cominciate dalla vostra concretezza di esseri carnali che si rivela, in queste liti banali e stupide. Cominciate da qui a vivere la libertà dataci da Cristo!”. Questa libertà non è alta filosofia né concetto astratto, è qualcosa di molto semplice, che trova in ogni situazione un’immediata applicazione. Paolo però non cade nel moralismo trito: non scrive: “cercate di volervi bene, fate uno sforzo, pensate a quelli di fuori, cosa diranno? ecc.” Gli preme piuttosto indicare la via: aderire a Cristo che ci comunica l’Amore, da cui sgorga la vera libertà, anche da noi stessi.
Questo testo conclusivo così ricco di insegnamento si suddivide in due parti. Nella prima parte (5,16-26) Paolo sottolinea l’incompatibilità tra “carne” e “Spirito” attraverso tre sviluppi:
1- Opposizione tra carne e Spirito (v. 16-18), che si devono intendere come “attori” della nostra stessa vita: chi agisce in me?
2- Opposizione tra le opere della carne ed il frutto dello Spirito (v. 19-23). Le opere delle carne (cioè fatte da me) sono
plurali e rivelano una mancanza di unità ed identità. Faccio tante cose, tutte sbagliate, e non so più chi sono. Invece il
frutto (prodotto in me dallo Spirito) è uno come lo è Dio, e i diversi termini che lo qualificano ne indicano la pienezza.
In esso mi riconosco, mi realizzo.
3- Caratterizzazione della vita secondo lo Spirito (v. 24-26) come piena conseguenza del battesimo nel quale “la mia
carne” è stata crocifissa con Cristo: sono perciò morto per il mondo, ma sono pieno della vita divina stessa: “non più io vivo, ma Cristo in me”.
Nella seconda parte (6,1-10), Paolo indica alcune conseguenze pratiche di quanto ha appena detto. Non si tratta di grandi teorie, ma di cose molto concrete. Paolo s’indirizza agli “spirituali”, probabilmente a quelli che sono pervenuti a una certa maturità cristiana nella comunità. Non lo interessano i peccati o le trasgressioni che possono avvenire, ma il comportamento degli spirituali: “correggete [chi sbaglia] in spirito di dolcezza”, “portate i pesi gli uni degli altri”. Questa è davvero la correzione fraterna: stare accanto a chi ha sbagliato come il Cristo stesso, che non condanna, ma prende su di sé il peccato degli altri, al punto di morire per noi. Interessante anche l’esortazione a non fare confronti con gli altri (si trova sempre chi fa meno bene di noi… e se ne trae orgoglio); unico confronto possibile è quello con se stessi. Vivendo nella durata, si può paragonare ciò che si è e si fa oggi con ciò che si è stati e si è fatto in passato. È
quanto presuppone il v. 4: “Ognuno esamini la propria opera e allora troverà occasione di vanto, ma solo in se stesso”. Importante anche il v. 9: “Non incattiviamoci nel fare il bene”: Paolo vi prende di mira una situazione che ben conosciamo: quella di chi diventa insopportabile a forza di fare il bene, e di farlo notare. Ciò che allora si raccoglierà non sarà il frutto del bene fatto, ma quello dell’esserne diventati cattivi. La prospettiva del giudizio deve incitare alla perseveranza (“non desistere”) che trova la sua radice e la sua forza non in noi, bensì nella fedeltà del Signore nei nostri confronti. Infine, Paolo non conclude con un “amate il vostro prossimo come voi stessi” ma con “finché ne abbiamo l’occasione, facciamo del bene a tutti, soprattutto ai compagni di fede”. Non è banalizzazione del precetto di Cristo; è presa sul serio del fatto che solo lo Spirito può suscitare in noi l’amore vero. Fare del bene invece, lo possiamo: non fare all’altro quello che non vorremmo che ci sia fatto e fare all’altro ciò che attendiamo dagli altri, questo lo possiamo: è quel minimo che Dio aspetta da noi perché possa produrre in noi le sue opere meravigliose. L’aggiunta “soprattutto ai compagni di fede” sottolinea che siamo chiamati ad agire così nei confronti di quelli con cui si vive concretamente la propria vita di credente e di cui perciò conosciamo meglio i difetti. Sono proprio loro che ci aiutano, con ciò che sono, in bene come in male, a perseverare nel fare il bene. Di questo sforzo minimo il Signore s’impadronirà per trasformarlo in AGAPE, nell’amore perfetto che in quanto Figli ci sarebbe richiesto.
SALUTO FINALE (6,11-18).
Qui Paolo se la prende direttamente con gli agitatori per denunciarne le vere intenzioni: vogliono solo vivere tranquilli, senza essere disturbati dalla loro appartenenza a Cristo. Allora infatti le nuove religioni non erano autorizzate nell’impero romano e potevano essere perseguitate. Gli ebrei sono accettati; diventare ebrei non faceva quindi problema all’autorità. È ciò che vogliono gli agitatori: attrarre i Galati nella loro ipocrisia e far credere che, con l’adesione a Cristo, si diventa ebrei; allora forse questi non sono nemmeno ebrei diventati cristiani, ma pagani
diventati cristiani. Il loro non è un problema di coerenza di fede, è solo una questione di prestigio e di tranquillità: evitare una possibile persecuzione e potersi vantare dell’adesione dei cristiani della Galazia alla loro falsità.
Questa dura lettera si conclude comunque con una benedizione: “Su quanti camminano secondo questa regola, pace e misericordia, come anche sull’Israele di Dio”. Dopo aver benedetto i credenti in Cristo, Paolo si ricorda di Israele, che resta comunque il popolo eletto; anche su di esso quindi scenda la benedizione, nonostante la sua grande maggioranza non riconosca, per ora, l’intervento di Dio in Cristo.