SAN PAOLO, L’UOMO DELLA LIBERTÀ

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SAN PAOLO, L’UOMO DELLA LIBERTÀ

Nella prima lettura abbiamo sentito queste parole: « Quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto. Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà… Investiti di questo ministero per la misericordia che ci è stata usata, non ci perdiamo d’animo… Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore… E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo » (2Cor 3,16-17; 4,1.5-6)). Per cogliere meglio il senso delle parole di Paolo vale la pena vedere anzitutto come si svolge la sua argomentazione e poi cercare di capire che cosa ci dicono oggi nel tempo in cui noi viviamo.
I cristiani e soprattutto i missionari, dice Paolo, possono comportarsi e parlare con piena franchezza e apertura, perché mediante la conversione a Cristo vivono in un regime di libertà. Non hanno nulla da nascondere o da temere, perché fanno parte dell’alleanza nuova e definitiva. I giudei, invece, si richiamano al sistema legale e sono condizionati da un limite e da una oscurità insiti nella legge. Come il volto di Mosè quando usciva dall’incontro con Dio era velato, e perciò il riflesso della gloria divina era temporaneo, così la scrittura per gli ebrei non manifesta pienamente il progetto salvifico di Dio, perché sono incapaci di capirne il senso: il loro cuore, infatti è ricoperto da un velo. Manca ad essi la chiave della rivelazione, cioè della rimozione del velo, che si ha solo in Cristo. La scrittura stessa lo conferma là dove dice che il « velo viene tolto quando ci si converte al Signore » (Es 34,34). La conversione al Signore a sua volta fa spazio alla venuta dello Spirito, che è sempre Spirito di libertà. Dio ha affidato a Paolo il ministero di annunciare la libertà alla quale siamo chiamati in Cristo. A questa scoperta gioiosa egli è giunto nel momento della vocazione, che viene ricordato come se fosse per lui stato una creazione nuova.
Che cosa dice a noi oggi tutto questo? Per quanto riguarda la situazione odierna, possiamo costatare che fino a qualche tempo fa erano presenti, malgrado tutto, alcuni riferimenti di confronto: ci si confrontava con essi per consentirvi o per contestarli e magari calpestarli. C’era un complesso istituzionale di norme, di tradizioni, di consuetudini, di valori su cui la gente si confrontava, a prescindere dall’opzione precisa di fede o di pratica cristiana. Erano presenti anche limiti invalicabili per l’azione umana, stabiliti dai grandi fatti biologici, naturali, entro i quali si doveva vivere e operare. Il fatto tipico della nostra epoca è che l’uomo di oggi ha l’impressione che quasi tutto gli è possibile o gli sarà tecnicamente possibile e che i limiti sono o saranno superati. Egli avverte che sarà sempre più emancipato dal ritmo del giorno e della notte, dai ritmi e dai limiti dello spazio, grazie alla tecnologia e alle forme di trasporto velocissimo; la scienza sta travalicando le stesse leggi della generazione naturale, della procreazione, della eredità biologica. L’umanità pensa che potrà in avvenire fare tutto ciò che vuole sulla natura, sui modi di essere, sulla vita.
Di conseguenza, il fatto nuovo della storia umana è che mai come oggi si è accresciuto a dismisura il senso della libertà: la libertà dai condizionamenti naturali e biologici, libertà dalle leggi e dalle consuetudini. Mai l’uomo ha avuto tanta libertà, mai è stato più emancipato e disancorato da forme di riferimento che parevano ovvie, obbliganti, scontate, evidenti. Le norme, le regole, le tradizioni, le convenzioni di riferimento appaiono un valore relativo, non un dato assoluto che non si tocca; valgono nella misura in cui sono contrattabili in virtù di un utile, di un fine; tutto è negoziabile e opinabile, tutto può essere scelto, purché ci sia una ragione contingente. Un tale emergere del senso della libertà era sconosciuto nella storia umana.
Tuttavia, con questo crescere tumultuoso del senso prepotente della libertà (che avvince i ragazzi, i giovani, la gente semplice dei paesi e dei luoghi più remoti attraverso i messaggi che giungono dalla televisione, tesi a convincere che l’impossibile di oggi sarà possibile domani), dobbiamo constatare che la stessa libertà non è mai stata tanto manipolabile. I grandi strumenti del consenso sociale l’addormentano o la guidano mediante la tecnica applicata al controllo della vita di persone, mediante i mezzi informatici che permettono di seguire la gente in tutti gli atti più semplici dell’ambito privato. Tale controllo ci fa comprendere che la libertà cui l’uomo è assurto non è mai stata così grande e insieme così fragile.
Va inoltre ricordato che il luogo dove le tensioni della libertà e l’uscita dalle convenzioni si concentrano è la famiglia. La coppia nel matrimonio, la famiglia nella sua costituzione, nella sua durata, nella sua fecondità, viene invasa dall’opinabilità generale che non la ritiene soggetta a regole e norme da noi considerate proprie della famiglia tradizionale.
Questa situazione è vissuta da noi con atteggiamenti molto diversi.
Il primo è un atteggiamento sconsolato: stiamo andando verso la catastrofe, l’uomo non ha più regole, l’anomia crescerà. Soprattutto gli anziani manifestano un profondo disagio, un senso quasi di paura e di rabbia, una voglia di reagire oppure di nascondere la testa, rifugiandosi nel passato. Anche se si impegnano in iniziative settoriali, molti temono che si arrivi al peggio e non sanno come bloccare il male crescente.
Il secondo è l’atteggiamento di chi pensa di essere ancora in tempo a rimediare: urge ribadire le regole del vivere, rivalutarle, dal momento che la gente sbanda perché non le conosce; urge ribadire e richiamare continuamente i comandamenti. È spesso il nostro sforzo, quando pretendiamo di aiutare la gente che occorrono le regole, che l’arbitrarietà selvaggia induce alla noia della vita, a evasioni di ogni tipo, fino alle più pericolose di autodistruzione e di suicidio. Sottolineare i pericoli dell’anomia crescente e innegabile è certamente un modo di reagire.
Un terzo atteggiamento è caratterizzato dalla ricerca del « kairòs », della opportunità evangelica offerta dalla situazione globale odierna. Questo atteggiamento parte dalla intuizione che mai come oggi c’è stata così ampia possibilità di capire il messaggio evangelico, di cogliere che la libertà, nell’uomo, è imitazione di Dio, è dono di Dio, e che, attraverso una libertà tesa alla responsabilità, l’uomo può superare i pericoli di un arbitrio sfrenato, non con il ritorno al passato e la ripresa dei limiti naturali e tradizionali, bensì riscoprendo la sua vocazione di figlio di Dio, animato dallo Spirito, libero e chiamato a pienezza proprio mediante la presa di coscienza di tale libertà.
Paolo vive certamente in questo terzo atteggiamento. Per lui, se l’uomo vuole vivere nella libertà, deve convertirsi al Signore, cioè a Gesù risorto. Chi riconosce che Gesù è il Signore entra nello spazio della libertà cristiana, che ha la sua fonte interiore nel dono dello Spirito. Nel linguaggio corrente si usa spesso l’espressione « libertà di spirito »: si tratta di una dimensione interiore che qualifica l’uomo che è attivo e reattivo al punto da non lasciarsi condizionare dalla pressione dell’ambiente. A questo atteggiamento umano positivo Paolo dice che c’è un di più che dà una impronta nuova all’esistenza del credente in Cristo: la libertà nello Spirito. La libertà si trova dove è lo Spirito del Signore, lo Spirito di santificazione, lo Spirito Santo. Paolo afferma un legame di simultaneità tra lo Spirito e la libertà: se c’è lo Spirito di Cristo, c’è anche la libertà, dove è lo Spirito di Cristo vi è anche la libertà. Cristo ci ha liberati proprio in vista di una situazione di libertà vissuta.
La situazione cristiana di libertà è in contrasto con quella giudaica, detta da Paolo situazione di schiavitù, di chi è velato e impedito di vedere davanti a sé Dio. Se l’uomo si apre totalmente al dono di Cristo, si realizza in lui l’influsso liberante della sua morte e risurrezione. Per Paolo la libertà non è principalmente sociologica, politica, antropologica, ma è eminentemente trinitaria, teologica. La libertà è un dono di Dio, realizzato da Gesù Cristo, divenuto con la risurrezione Spirito datore di vita (1Cor 15,45). Questa libertà non viene da noi, dalle nostre opere; non è un diritto o la capacità di disporre di sé senza alcun condizionamento. La libertà è appartenenza a Cristo e l’uomo che aderisce a Gesù viene liberato dal peccato, dalla morte e dalla legge.
Il peccato è il primo tiranno dell’uomo (Rm 7,14). Esso non consiste in un atto sbagliato o in una catena di azioni sregolate. Le azioni sbagliate sono espressione, esteriorizzazione di una potenza negativa che agisce dentro di noi in opposizione radicale a Dio e al suo regno. Questa potenza da Paolo è chiamata peccato. Il peccato è un principio malefico, che quasi si confonde con satana, dal quale tuttavia è distinto: il peccato non è esteriore all’uomo, come satana, ma è dentro di lui e si esprime attraverso la sua condotta peccaminosa. La redenzione di Cristo non si limita alla remissione dei peccati, delle trasgressioni, ma in maniera più profonda demolisce la potenza negativa del mala e dona all’uomo un cuore nuovo, un principio interiore docile allo Spirito, che gli permette di essere fedele al Signore. Il dominio del peccato è distrutto dalla morte di Cristo (2Cor 5,21; Gal 3,13; Rm 8,2-3.15.20) e il battezzato è morto al peccato (Rm 6,10-11), è liberato dal peccato (Rm 6,18.22), è creatura nuova (Rm 6,5; 2Cor 5,17).
Strettamente congiunta al peccato è la morte: ne costituisce l’inevitabile conseguenza (Rm 5,12; 7,11), il salario (Rm 6,23), la prole. Il peccato è il pungiglione avvelenato della morte (1Cor 15,56), la morte è il frutto del peccato (Rm 7,5; Gal 6,8), la sua compagna immediata (Rm 5,12; 6,21.23). Anche la creazione ne è coinvolta a causa del peccato degli uomini. Non si può sfuggire alla schiavitù della morte senza eliminare il peccato. Ogni tentativo di evitarla è inutile. Anche accettarla stoicamente non è atteggiamento cristiano. Solo in Cristo, risuscitato dalla potenza del Padre, sono infrante le catene della morte (Rm 8,11). Siamo viventi grazie alla fede e al battesimo (Rm 6,13.17.18.22-23). La morte non ci può più separare da Dio e dalla sicura vittoria del suo amore (Rm 8,38-39). Gesù l’ha « transustanziata »: da castigo l’ha trasformata in atto di obbedienza, di fiducia, di amore; da severa pedagoga, che ci ricorda la transitorietà di tutte le cose, l’ha fatta diventare mistagoga, realtà che ci introduce pienamente nel mistero di Cristo. La piena liberazione dell’uomo dalla morte si avrà solo nella risurrezione finale con la completa redenzione del nostro corpo (Rm 8,23), quando la morte sarà annientata per sempre. Già ora però il cristiano è liberato dalla morte, perché sa che non muore da solo, ma che gli è data la grazia di morire in Cristo e con Cristo.
Cristo ci libera anche dalla legge. Nessuno più di Paolo ha percepito la differenza radicale tra chi è sotto la legge e chi è sotto la grazia, tra chi è sotto la lettera e chi è sotto lo Spirito. Paolo dice frequentemente che il cristiano è liberato dalla legge, da ogni legge che cerchi di esercitare su di lui una coercizione esteriore (Rm 6,14; 7,1-6). La legge ha la funzione poco desiderata del carceriere o del pedagogo, incaricato di condurre i bambini al loro maestro (Gal 3,23-24). La legge porta l’uomo al peccato e alla morte, è stata aggiunta in vista delle trasgressioni (Gal 3,19), serve solo a dare piena coscienza della caduta (Rm 3,20; 5,20; 1Cor 15,56). L’affrancazione dalla legge è un elemento essenziale della liberazione operata da Cristo: liberato dal peccato e dalla morte, il cristiano non sarebbe salvato se non fosse liberato anche dalla legge (Rm 6,14). Stare sotto la legge equivale a stare sotto il dominio del peccato.
Paolo insiste su questa liberazione dalla legge perché, a differenza di quanto l’uomo ritiene normalmente, essa non basta a conferire la vita, a cambiare il cuore. La legge in se stessa, anche se propone il più sublime degli ideali, non è capace di trasformare l’uomo in un essere spirituale che vive della stessa vita di Dio. La legge non ha la capacità di conferire la vita, cioè di distruggere nell’uomo la potenza di morte che è il peccato, o di reprimerla e di arginarla. La legge, anzi, permette al peccato di esercitare la sua virulenza. Pur essendo destinata a preservare la vita, la legge in realtà diventa causa almeno occasionale di morte. Il peccato si serve della legge e ci seduce.
La situazione di schiavitù opprimente è quella dell’Antico Testamento, o più esattamente quella determinata dalla legge così come era interpretata e vissuta in alcune correnti farisaiche al tempo di Paolo. Egli ne aveva fatto l’esperienza personale. Nato sotto il segno di una valorizzazione radicale della legge di Dio, mantenuta pura da tutti gli influssi dell’ambiente ellenizzato, il movimento farisaico, al quale Paolo apparteneva, era caduto nel perfezionismo. La legge, staccata di fatto da quel contatto vivo e vivificante con Dio che aveva avuto all’inizio, veniva ora analizzata dall’uomo in tutti gli aspetti possibili e veniva applicata con un’insistenza puntigliosa a tutti i dettagli della vita. L’uomo che fosse riuscito ad osservarla integralmente poteva sentirsi perfetto. Ma si trattava di una perfezione illusoria, di perfezionismo appunto. La legge donata da Dio era divenuta uno strumento nelle mani dell’uomo che se ne serviva per costruire un proprio progetto di se stesso e non poteva non restarne deluso. L’uomo, infatti, quanto più vi si impegna tanto più si sente legato in una infinità di minuzie che non gli lasciano tregua. E quando riesce ad osservarle sente il suo rapporto con Dio e con gli altri terribilmente appesantito, opprimente. L’uomo così non può sentirsi davvero realizzato: ha la sensazione di un peso che grava sulla sua vita e che gli toglie il respiro; ha la sensazione di essere in stato di schiavitù. Paolo porta per tutta la vita il segno di questa esperienza amara e dice che la legge di Dio, finita nelle mani dell’uomo è diventata « lettera che uccide » (2Cor 3,6).
Paolo ha capito che la giustizia, cioè il rapporto salvifico con Dio, sta nel convertirsi e legarsi a Gesù. Ora giunge a una valutazione nuova di tutte le cose. La giustizia fondata sulla legge non è autentica, perché in fondo è basata sui nostri sforzi, sulle nostre capacità e pretese. La legge mi dice quello che devo fare, io lo faccio e mi sento in regola. Questo sistema sembra giusto, ma in realtà non fa uscire la persona da se stessa, la lascia nel suo egocentrismo, nella sua superbia. Tutti i suoi sforzi servono a nutrire il suo orgoglio più o meno consapevole. Invece la vera giustizia viene gratuitamente da Dio, e l’uomo è invitato ad accoglierla mediante la fede: allora la persona esce da se stessa, riconosce di non poter andare avanti con le proprie forze, di aver bisogno di una relazione con un’altra Persona che la salverà. Quest’altra Persona è Gesù Cristo morto e risorto, che ci introduce nella relazione con la Trinità. Il punto essenziale della conversione è capire che il peccato consiste nel mettere la propria sicurezza in se stessi, nelle proprie opere, nel pensare bene di se stessi, nel pretendere di salvarsi con le proprie opere, con l’esecuzione fedele della legge.
Noi siamo liberati dal peccato, dalla morte e dalla legge, perché uniti a Cristo abbiamo dentro di noi una legge nuova: quella dello Spirito, quella che consiste nello Spirito, e lo Spirito è libertà. Parlando di legge dello Spirito, Paolo si richiama a due passi ben precisi dell’Antico Testamento, dove i profeti Geremia ed Ezechiele promettono un’alleanza nuova, che consiste nel dono di una legge interiore all’uomo, nel dono dello Spirito (Ger 31,31-33; Ez 36,26-27). Tramite Gesù siamo liberati dalla legge, perché abbiamo la legge dello Spirito: ci viene messa nel cuore una forza nuova, un dinamismo che consiste nell’azione Spirito stesso dentro di noi. Non si tratta più di una norma esterna, di un’indicazione magari più perfetta e più elevata di quelle contenute nell’Antico Testamento, ma di un dinamismo nuovo che ci viene dato, di un principio di azione che ci spinge ad agire spontaneamente. Lo Spirito Santo che ha agito in Gesù, rendendolo obbediente in tutto al Padre e solidale coi fratelli fino alla morte, ci viene donato perché agisca dentro di noi in maniera analoga: viene in noi, vive in noi e ci dà una connaturalità con Gesù; è lui che prega il Padre in noi, è lui che ama il Padre e i fratelli in noi. Quando lo Spirito agisce così in noi, siamo veramente liberi.
Lo Spirito ci permette di realizzare quello che Dio ci domanda. Siamo liberati dalla forza del peccato, dalla paura della morte, dalla costrizione delle norme esterne perché lo Spirito ci dona la capacità di lasciarci amare dal Padre, di fidarci costantemente di lui chiamandolo « Abbà » e dicendogli « amen », ci infonde la capacità di incarnare la fede nella carità, di amare Dio e di amare gli altri. Lo Spirito ci libera dal peccato, dalla morte, dalla costrizione della legge per vivere con un intuito interiore da figli di Dio e da fratelli tra noi, per vivere in alleanza con Dio e coi fratelli, per essere in pace con Dio e tra di noi: ci libera togliendo da noi la paura e la costrizione e infondendo in noi l’amore, che è la pienezza della legge. Animato dallo Spirito, l’uomo evita quasi d’istinto ciò che è carnale e in lui nasce invece il frutto dello Spirito che « è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé » (Gal 5,22).
A questa scoperta Paolo è arrivato nel momento della sua vocazione, sul quale riflette anche nel passo che oggi abbiamo sentito. Paolo ritorna frequentemente alla sua vocazione: ogni volta che le difficoltà lo circondano pensa a quel momento fondamentale della sua esistenza. Se non coltiviamo la consapevolezza della nostra chiamata alla fede e al ministero, a un certo punto le motivazioni del nostro agire si inaridiscono. Dovremmo perciò amare le difficoltà e le avversità che il ministero vissuto nella sua verità incontra. Sono proprio esse, se le viviamo come prova, a far crescere in noi la coscienza del senso di ciò che facciamo. Le cose facili, invece, inducono alla pigrizia e non ci aiutano a maturare il senso della chiamata. Paolo è convinto che la sua chiamata alla fede in Cristo e al ministero apostolico, come ogni vocazione, è anzitutto un’opera di Dio e non un fatto umano. La nostra vocazione al cristianesimo e al ministero presbiterale è opera di Dio, che dobbiamo riconoscere con stupore e riconoscenza.
La vocazione di Paolo fu umanamente inspiegabile. La sua strada normale era quella di continuare a vivere da fariseo, confidando nelle proprie opere, e a rifiutare Cristo, a ostacolarlo anche con la persecuzione violenta. Ma Dio intervenne e diede a Paolo una vocazione che andava esattamente in senso contrario. Dio ha chiamato una creatura peccatrice: questo è successo per Paolo, per Pietro, per tanti uomini e tante donne, per tutti noi. La spiegazione della chiamata non è mai nei meriti umani, ma nella generosità e nella misericordia straordinaria di Dio. La vocazione non è mai basata sulla nostra dignità precedente: occorre piuttosto dire che la vocazione ci conferisce gratuitamente la nostra dignità. La elezione di Dio è gratuita e precede ogni azione umana: è manifestazione della grazia e della misericordia di Dio e non ricompensa dei nostri sforzi: siamo tutti investiti del nostro ministero « per la misericordia di Dio » (2Cor 4,1). Dio si è degnato di mettersi in relazione con noi e di metterci in relazione personale con lui e per questo non possiamo mai perderci d’animo (cfr. 2Cor 4,1).
Paolo sa che Dio ha scelto un persecutore per farne un apostolo. In questo modo sa di essere chiamato a vivere la continuità tra dono battesimale e dono apostolico. Il ministero è lo sviluppo delle radici battesimali della nostra esistenza. Di conseguenza Paolo e ogni ministro non possono attribuire ai propri meriti la vocazione o la fecondità del loro ministero (1Cor 15,10; Gal 1,6). Paolo paragona la chiamata sulla via di Damasco con l’opera creatrice di Dio: il Dio che ha fatto risplendere la luce dalle tenebre, ha illuminato il suo cuore, dissolvendone le tenebre, per renderlo capace di far risplendere la gloria divina che rifulge sul volto di Cristo (2Cor 4,6). È Dio che opera in Paolo ed è ancora Dio che gli affida un compito. Questa è la grande lezione che Paolo ha imparato e ha insegnato a tutti.
Paolo è consapevole che questa iniziativa di Dio è stata preparata da lontano: Dio ha avuto un progetto su di lui fin dal seno materno (Gal 1,15). Dio si è rivolto a Paolo ritenendolo persona capace di sentire, di ascoltare, di capire, di rispondere. Dio non ha voluto fare tutto da sé, ma ha istituito un rapporto personale con Paolo: per questo gli ha parlato. In quella chiamata Paolo ha riconosciuto un fatto della grazia, della benevolenza gratuita di Dio. Da questo punto di vista, la vocazione di Paolo è prototipo di tutte le nostre vocazioni: ci fu data la grazia, per grazia siamo stati chiamati.
Questa grazia consiste nel poter conoscere il Figlio suo. Anche per Pietro è stato così (cfr. Mt 16,17). Ogni vocazione è un’azione del Padre che mette la persona chiamata in rapporto profondo col Figlio suo. Si tratta di venir chiamati a conoscere il cuore del Figlio di Dio fatto uomo. Dio non chiama per assegnare in primo luogo una funzione: la sua chiamata è anzitutto una grazia personale, dona la conoscenza intima di Gesù, Figlio di Dio. Paolo ormai impara a vedere se stesso nel Cristo che gli si fa incontro.
Questa conoscenza intima del Figlio viene data in vista di un annuncio: per far « risplendere la gloria divina che rifulge sul volto di Cristo » (2Cor 4,6), per far conoscere il cuore di Cristo come via per capire il Padre, per far conoscere il suo amore a tutti. Paolo capisce che dall’esperienza di Damasco nasce il suo impegno missionario. L’amore che Dio gli rivela è universale, riguarda tutti. Paolo comprende che Dio lo chiama a diventare apostolo del suo amore a tutte le genti, comprende che ha ricevuto la splendida missione di annunciare tra le nazioni la meravigliosa novità: tutti sono da lui amati.
La chiamata di Dio ha comportato per Paolo un cambiare tutto l’orientamento della vita, tutto il sistema di valori cui era legato, di cui era orgoglioso, tutto ciò che costituiva la sua sicurezza spirituale. Sulla via di Damasco ha rigettato tutto questo sistema di valori non per abbracciare un nuovo sistema di valori, ma per seguire una persona: Gesù Cristo. Paolo ha ormai un solo tesoro: Gesù Cristo morto e risorto. Prima riteneva di essere giusto davanti a Dio con l’osservanza delle leggi, dei divieti e delle prescrizioni, cioè con le proprie prestazioni. Non si accorgeva che in tal modo al centro di tutto non poneva Dio, autore e origine di ogni bene, ma se stesso. Cercava la salvezza nelle proprie forze, sicuro di possedere la verità. Sulla via di Damasco è liberato dalla convinzione e dal peso di salvarsi con le sue possibilità: la salvezza non è realizzabile  con le sue sole forze, ma unicamente grazie alla forza interiore che viene dallo Spirito.
Paolo capisce che convertirsi è prendere l’adesione a Cristo come base di tutta la propria esistenza. Per raggiungere Cristo c’è un solo mezzo: entrare nel suo mistero pasquale, condividere la sua croce, la sua sofferenza, per condividere anche la sua gloria. Paolo ha imparato a mettere il suo vero io nel Cristo. Per questo userà di frequente le espressioni « in Cristo », « Cristo, mio Signore », diventando il primo mistico cristiano. In Cristo, Paolo vive, parla, lavora, soffre, è lieto, si prodiga, è debole, è forte, ama, è fiducioso. La nuova vita dell’apostolo prende inizio con la scoperta che in ogni momento è valida l’espressione: « Sono vostro servitore per amore di Gesù » (cfr. 2Cor 4,5).
Paolo capisce che il primo modo per esercitare questo servizio sacerdotale è offrire se stesso a Dio: Dio non lo si onora pensando di placarlo con alcune pratiche aggiunte alla vita, come i digiuni o le penitenze. Dio lo si onora quando, non per placarlo, ma in ringraziamento per i suoi doni e a riconoscimento della sua bontà gli offriamo, uniti con Gesù, la nostra vita concreta, con le sue gioie, le sue difficoltà, le sue tentazioni, le sue speranze (cfr. Rm 12,1-2). Certamente questa offerta di noi stessi comporta anche le opere buone, ma esse sono buone perché fatte senza insuperbirsi, perché sono riconosciute anzitutto come opere dello Spirito in noi, opere della grazia di Cristo, risposta al dono di Dio.
Siamo sempre chiamati a scegliere fra una vita solitaria di schiavitù e una vita di libertà nello Spirito che ci permette di amare. Chi vuole fondare il proprio valore personale sui suoi meriti, sulle sue attività e decisioni, rimane solo nella sua superbia più o meno consapevole: con tutti i suoi sforzi nutre il proprio orgoglio, anche compiendo atti in apparenza generosi. Invece chi accoglie in tutto la fede in Cristo, chi aspetta dal suo Spirito la forza per andare avanti, per vivere nell’amore, compie la conversione essenziale. Fare questa conversione è una liberazione, che ci fa uscire da noi stessi e ci dà una serenità straordinaria e anche una grande gioia, perché non c’è serenità e gioia più grande che vivere continuamente nell’amore suscitato in noi dallo Spirito di Cristo.
Comprendiamo ora perché la libertà per Paolo, più che antropologica o sociologica, è eminentemente teologica o trinitaria. In quanto buona novella del Figlio di Dio entrato nel tempo per dimorarvi e per accoglierlo in sé, Paolo sperimenta che il vangelo è originariamente vangelo della libertà. La libertà che esso proclama è anzitutto quella del Dio che è così originariamente libero da sé, da essere costitutivamente dono di sé all’altro, comunione di amore delle tre Persone e loro apertura verso la realtà creata dal nulla, creata cioè unicamente per una decisione di amore libero e gratuito. Questa apertura di Dio verso il creato si manifesta nell’atto della sua continua creazione e nella storia della redenzione e ricapitolazione di tutte le cose in Cristo. Comunicando la sua vita, la Trinità partecipa questa libertà divina agli uomini. L’uomo è chiamato ad essere soprattutto a immagine del Figlio diletto, ad essere icona creata del Figlio, il quale nella Trinità è accoglienza increata. Nel mistero trinitario il Figlio è l’eternamente aperto ed accogliente davanti alla sorgente purissima dell’amore e della vita che è il Padre. Il Figlio è la capacità di una libera accoglienza dell’Altro: nella libertà sta eternamente davanti al Padre e da lui si lascia amare, si lascia generare nel processo eterno dell’Amore. Per l’uomo dimorare nella libertà donata significa unirsi al Figlio, mettersi alla sua sequela ed esprimersi nell’esercizio della libertà continuamente accolta e testimoniata, per appartenere incondizionatamente a Dio. Gesù ci ha liberati nella verità, che ci fa conoscere quale è la nostra vera patria e ci dà la forza di conseguirla nella pazienza del divenire. La libertà cristiana è pertanto l’incondizionato appartenere a Dio per mezzo di Cristo nello Spirito Santo, che si traduce nell’esistenza dell’uomo, il quale da un lato è liberato dalla schiavitù del peccato e dall’angoscia prodotta dal peccato, dalla morte e dalla legge, e dall’altro è reso libero per servire gli altri nella giustizia e nella carità. L’essere affrancato in Cristo diviene sorgente di una vita vissuta nella libertà e nel coraggio dell’amore.
Concludendo, due sono i pensieri di queste splendide righe scritte da Paolo e che oggi abbiamo sentito: la libertà che ha la sua fonte nello Spirito, dono di Gesù, Signore risorto, e la continua riscoperta della propria chiamata da parte di Dio. Incontrare il Signore risorto vuol dire anzitutto essere liberati dalle paure e dai pesi insiti in ogni sistema religioso basato unicamente sulla legge. Questa libertà non è anarchia, né spontaneismo emotivo, perché ha la sua fonte nello Spirito, ma è invece venire sottratti al regime del peccato, della morte e della legge, che si alimenta di egoismo e di angoscia, per fare spazio al dinamismo dell’amore, che fa maturare il progetto dell’uomo nuovo già realizzato in Gesù glorificato. È opportuno allora domandarci: dove poniamo il nostro valore personale? Sulle nostre opere, sui nostri sforzi, o unicamente sulla persona di Gesù e sulla sua grazia? C’è sempre il pericolo che altri tesori umani ci facciano perdere di vista l’unica cosa decisiva: la nostra relazione personale con Gesù, che ci ha chiamati, ci vuole liberi, ci vuole comunicare il suo amore, ci vuole partecipi del dinamismo della sua morte e della sua risurrezione. Pretendere di meritare la grazia della fede sarebbe chiudersi al dono di Dio. La base di tutta la vita spirituale è il dono di Dio: allora la nostra vita diventa libera. La conversione essenziale consiste nel riconoscere che non siamo in grado di porre noi le basi della nostra vita spirituale, ma che dobbiamo fondare tutto sull’amore di Cristo, sulla sua grazia. Chi è nel peccato in modo vistoso, riconosce più facilmente questa sua impotenza; chi non è nel peccato in modo vistoso, è tentato dallo spirito farisaico, che consiste nel credere di essere in grado di fabbricare la propria santità, nell’avere l’ambizione di salvarsi da soli. Paolo ha denunciato con forza questa illusione dell’uomo che si crede di essere l’artefice del proprio valore davanti a Dio e davanti agli uomini.
Incontrare il Signore risorto vuol dire, in secondo luogo, ritornare alle radici della nostra vocazione battesimale e presbiterale. Meditando la vocazione di Paolo siamo invitati a ringraziare Dio per il dono fatto a Paolo: la sua vocazione è diventata sorgente di grazia per tutta la chiesa. Poi possiamo ricordare la nostra vocazione personale, la nostra vocazione battesimale e quella al ministero sacerdotale; possiamo pensare alle grazie personali ricevute, alle difficoltà superate, alla conoscenza di Gesù che abbiamo ricevuto, alle persone alle quali l’abbiamo potuto annunciare. Possiamo riferire a Dio  l’iniziativa nella nostra vita: quella battesimale e quella apostolica. Egli rifulse nei nostri cuori, ha salvato la nostra esistenza dall’ambiguità del non senso, l’ha cristificata, l’ha divinizzata per un impegno missionario, per far rifulgere Cristo nel volto di ogni uomo che incontriamo.
Chiediamo a Paolo che ci sia vicino per conoscere la libertà dal peccato, dalla morte e dalla legge che ci è stata donata nel battesimo, per conoscere la vocazione ministeriale alla quale siamo stati chiamati, in modo che la nostra vita sia un « venir trasformati in quella medesima immagine di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore » (2Cor 3,18), un venir trasformati in una gloria sempre maggiore, per essere simili a Cristo grazie all’azione dello Spirito del Signore, in modo che nella nostra vita acquistiamo la luminosità di Cristo. Questa qualità della vita, questa libertà viene da Gesù, che dà se stesso per noi, viene dall’eucaristia che stiamo celebrando: in essa incontriamo il Cristo morto e risorto, da essa viene la forza permanente della libertà per ogni cristiano e per ogni presbitero.

Andalo, 12 giugno 1997                                                                    

don Lorenzo Zani

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