« UN TEMPO PER NASCERE, UN TEMPO PER MORIRE » NEI VANGELI E NELLE LETTERE DI PAOLO – Giuseppe Barbaglio

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anno 34° – 2012/2013

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« UN TEMPO PER NASCERE, UN TEMPO PER MORIRE » NEI VANGELI E NELLE LETTERE DI PAOLO

(DIVIDO IN DUE, VANGELI E PAOLO)

sintesi della relazione di Giuseppe Barbaglio

Verbania Pallanza, 13-14 febbraio 1993

3. PAOLO
Rifletteremo ora su come Paolo ha vissuto la sua esistenza particolare qualificata dalla missione apostolica e su come ha interpretato il senso profondo dell’esistere nella precisa angolatura dell’esistere cristiano.
un rapporto personale con i Tessalonicesi
La personalità di Paolo appare nelle sue lettere in cui affronta problemi ecclesiastici, teologici, causati dalle situazioni concrete delle sue comunità o in cui parla di sé. Al di là dello sviluppo teologico del suo pensiero emerge il soggetto, lo spessore umano di Paolo, che viveva in modo molto unitario la sua esperienza umana e apostolica.
Seguiamo le lettere nell’ordine cronologico partendo dalla 1 Tessalonicesi che ha scritto da Corinto a cavallo dell’anno 50. E’ il primo scritto della Bibbia cristiana, circa 20 anni dopo la morte di Gesù. In questo scritto le connotazioni più personali sono esplicite; i primi tre capitoli sono una rievocazione dell’incontro che ha avuto con i Tessalonicesi. Non era rimasto a lungo a Tessalonica, da cui era dovuto fuggire inseguito dalla inimicizia dei giudei della sua stirpe; fece sosta ad Atene e giunse a Corinto. Paolo era molto preoccupato che la comunità potesse estinguersi poiché la sua opera non era stata completata. Tessalonica era la capitale della provincia romana di Macedonia e Corinto la capitale di Acaia. Paolo scrive rievocando l’incontro con i Tessalonicesi e, in 2,8 dice: « voi c’eravate talmente cari che a noi piaceva comunicare a voi non solo il Vangelo di Dio, ma anche le nostre stesse vite ». Il « noi » include i suoi collaboratori Timoteo e Sila. Paolo intende il suo esistere come una realtà da comunicare. Giunto ad Atene inviò Timoteo a raccogliere informazioni e questi lo raggiunse poi a Corinto con buone notizie sulla comunità che resisteva e che, dice Paolo ha « un buon ricordo di me ». In 3,8 dice « abbiamo ricevuto questa notizia, ora sì vediamo che voi state saldi nel Signore ». Il rapporto di Paolo come apostolo nella sua comunità non è solo funzionale, ma è personale, una comunione interpersonale.

Paolo assume il volto del Vangelo
Paolo costituì poi una comunità a Corinto di nuovo tipo perché era formata da incirconcisi in un ambiente greco. Corinto era una grossa metropoli che contava mezzo milione di abitanti, era centro culturale (Atene viveva allora un momento di eclisse) e commerciale. Il rapporto di Paolo con questa sua comunità, in cui era rimasto due anni e mezzo, è stato molto controverso, perché, dopo la sua partenza, erano subentrati altri predicatori di orientamento diverso che avevano ottenuto il consenso della comunità mettendola contro Paolo.
In 1 Corinti 2,1-5, Paolo parla della sua venuta. La comunità di Corinto era un po’ tronfia, piena di sé per la nuova esperienza, e con atteggiamenti trionfalistici. Paolo reagisce e dice: « anch’io fratelli quando venni da voi non ero portatore di una sapienza eccellente o di capacità retorica » – logos, abilità nel parlare e sophia, pensiero penetrante -. Il pensiero greco era incentrato, dal punto di vista culturale, sulla sapienza e sulla eleuteria, la libertà personale e politica. Paolo dice: non sono venuto facendomi scudo di parola retorica e di pensiero penetrante « sono venuto ad annunciarvi il mistero di Dio ed ho ritenuto bene, in mezzo a voi, di annunciarvi solamente Gesù Cristo e costui crocifisso ». Il crocifisso era la contraddizione più palese nei confronti di un mondo molto orgoglioso, molto superbo della propria saggezza umana. La croce aveva origine barbara, persiana, era riservata ai paria, ai ribelli e la sensibilità greca, molto raffinata, la rifiutava. Paolo si presentava sulla scena di Corinto in antitesi alla cultura dell’ambiente; « io venni in mezzo a voi nella debolezza – en asteneia – nel timore e in grande tremore » nella pochezza umana dell’annunciatore Il mio annuncio, il mio kerigma non venne in mezzo a voi con parole persuasive di sapienza ma con la manifestazione dello spirito della sua potenza affinché la vostra fede non sia basata sulla sapienza umana, ma sulla forza di Dio ».
In questo testo possiamo notare come la forma del Vangelo di Paolo incentrato sul Cristo crocifisso diventa la forma della sua vita. Non è il rifiuto del pensiero e della riflessione, ma il rifiuto di un pensiero che si erge a metro della realtà. C’è l’identificazione tra l’esistere di Paolo e il Vangelo di cui è portatore. Non è un funzionario del Vangelo, non lo vende sul mercato come se fosse un prodotto, ma Paolo assume il volto del Vangelo. Paolo è l’apostolo crocifisso non nel senso della sofferenza, ma della debolezza: il crocifisso è il segno della debolezza del figlio di Dio e della debolezza di Dio nella storia.
A Corinto la comunità si era suddivisa in gruppuscoli ed ognuno di essi aveva come sua bandiera un grande esperto; c’era il gruppo di Paolo, di Apollo, un predicatore cristiano di Alessandria formatosi secondo i canoni della paideia greca, dotato quindi di logos splendente e di sophia, c’era il gruppo di Cefa e il gruppo di Cristo. Vi era una personalizzazione dell’esperienza cristiana e Paolo reagisce dicendo che l’esperienza cristiana dipende da Cristo e non dal predicatore « forse che Paolo è stato crocifisso per noi? Forse che siete stati battezzati nel nome di Paolo? ». In 3,5 dice: « Chi è Paolo? Chi è Apollo? Sono soltanto amministratori (oiconomoi) », L’oiconomos era uno schiavo o un liberto che nella casa dei ricchi aveva compito di amministratore dei beni. Poiché costoro dicevano: io sono di Cefa, io sono di Apollo, Paolo rovescia il rapporto « tutto appartiene a voi, noi siamo vostri, ma voi siete di Cristo ».
Paolo modello di esistenza cristiana attenta ai deboli
L’esistere di Paolo come amministratore della casa emerge soprattutto al cap. 9 della 1 Corinti dove si presenta come modello, esempio di una esperienza cristiana attenta ai deboli nella comunità. Nella comunità di Corinto c’erano i forti ed i deboli che avevano molti scrupoli riguardo le carni immolate agli idoli. Nelle città greche e romane del tempo la maggioranza delle macellerie vendeva carne che era stata immolata al tempio. La carne infatti veniva in parte destinata ai sacerdoti, in parte bruciata, in parte data ai devoti e quella che eccedeva veniva venduta nelle macellerie. Alcuni cristiani avevano problemi di coscienza nel mangiarla mentre altri addirittura si sedevano nei ristoranti collegati al tempio in luoghi in cui si consumava il banchetto sacro da parte di colui che aveva offerto i sacrifici e dei suoi amici. Il capo ristorante, il macellaio e il sacerdote chiamato « magheiros » erano la stessa persona. C’era un intrico di significati sociali, sacri ed anche idolatrici. I forti esibivano la loro libertà interna, l’eleuteria, ostentandola ed i deboli erano scandalizzati.
Paolo dice che si deve fare attenzione ai deboli per i quali lui è il fratello, per i quali Cristo è morto. Il simbolo religioso diventa la ragione di un comportamento di attenzione al fratello debole: si deve rinunciare alla libertà quando questa si traduce in uno svantaggio per il fratello debole. Paolo dice: « Guardate a me. Non sono forse io libero, non sono forse apostolo? »
In quanto apostolo Paolo aveva diritto di essere mantenuto dalla comunità che era orgogliosa di farlo, invece ha rinunciato ed ha lavorato con le sue mani per mantenersi. La comunità era rimasta molto scossa ed aveva dato interpretazioni negative come se Paolo non si sentisse un vero apostolo, dicendo che i veri apostoli come Cefa e come i fratelli di Gesù, si erano dati alla missione e si facevano mantenere. Paolo rivendica il diritto e dice al v.12 « ma noi non ci siamo avvalsi di questo diritto bensì tutto sopportiamo per non creare un qualsiasi ostacolo al Vangelo di Gesù ». Paolo non ha voluto farsi mantenere perché non si potesse sospettare un suo interesse privato nell’annuncio del Vangelo. Nel mondo greco lavorare con le mani era compito di ceti molto bassi, popolari e veniva disprezzato; l’ideale greco e romano era l’otium, la contemplazione, la riflessione filosofica, la lettura. Paolo annunciando il Vangelo gratuitamente si sottraeva al sospetto di interesse privato, ma, lavorando manualmente come artigiano, si esponeva al disprezzo della società-bene del tempo. Negli ambienti stoici e cinici invece il fatto di lavorare personalmente era ritenuto un’espressione di libertà.
A quel tempo vi erano predicatori propagandisti religiosi e filosofici il cui problema di mantenimento era risolto in quattro modi: c’era chi entrava nella casa del re oppure in casa di personaggi importanti come precettore (ad es. Aristotele era istitutore dei figli di Filippo) ma il rischio era di perdere la libertà di giudizio; c’era chi si faceva dare un salario per l’insegnamento; c’era chi mendicava come i cinici; c’era infine chi lavorava personalmente per salvare la propria libertà. Il grande modello del mondo stoico di chi lavorava per essere libero era Socrate. Paolo ha scelto questa strada e dice, 9, 19-23: « Essendo io libero da tutto mi sono fatto schiavo di tutto affinché io possa guadagnare parecchie persone e sono diventato per i giudei come un giudeo perché potessi guadagnare i giudei, per quelli che sono sotto la legge mi sono fatto come uno sotto la legge pur non essendo io sotto la legge affinché io potessi guadagnare quelli che sono sotto la legge; per quelli che sono senza legge io mi sono fatto come uno senza legge pur non essendo io un fuorilegge nei confronti di Dio, ma sono dentro la legge di Cristo affinché potessi guadagnare quelli che sono senza legge. Mi sono fatto a favore dei deboli come uno che è debole affinché io potessi guadagnare il debole; io mi sono fatto tutto a tutti per guadagnare in ogni modo alcuni. Tutto io faccio per amore del Vangelo affinché io sia compartecipe con voi del Vangelo ». La parola tutto « panta » ritorna continuamente: come plurale neutro, come dativo (pasin), per tutte le persone, per rendere un linguaggio di totalità che riflette la totalità della dedizione di Paolo. L’esistenza di Paolo è intesa come dedizione totale assumendo i costumi altrui; non è il nostro problema dell’inculturazione del Vangelo, ma dell’evangelista.
La sua adattabilità ha però un punto fisso ed é l’amore del Vangelo. Nei versi 24-27 Paolo prosegue usando l’immagine dello sport, molto sentita dal mondo greco. I giochi di Corinto erano secondi solo ai giochi di Olimpia; l’atleta che vinceva la corsa non riceveva denaro, ma la corona che a Corinto era di rami di pino intrecciati, diventando così celebre. « Non sapete che quelli che corrono nello stadio, tutti corrono, ma uno solo prende il premio? Così voi correte per prenderlo. Chiunque lotta nell’agone sportivo si disciplina in tutto e quelli lo fanno per una corona corruttibile. Noi invece corriamo per ricevere una corona incorruttibile. Perciò io corro non come uno che corre senza una meta fissa, faccio pugilato non come un pugile che colpisce l’aria, bensì colpisco sotto l’occhio il mio corpo (era il pugno più offensivo), e lo riduco in schiavitù affinché non avvenga che, dopo aver fatto l’araldo agli altri, io stesso finisca squalificato ». Paolo non si sente un uomo sicuro, non è un « superman ». Da una parte ha una dedizione totale per salvare qualcuno, ma dall’altra permane il timore, per cui si sottopone a severissima autodisciplina.
fiducia e speranza in colui che dà la vita piena
Al cap. 15 della I Corinti Paolo ricorda il momento drammatico che ha vissuto a Efeso e si esprime in termini metaforici: ho combattuto con le fiere e l’ho fatto perché avevo la speranza nella resurrezione. Se ho messo la vita a repentaglio, dice, l’ho fatto nella speranza di ricevere da Dio una vita piena. Paolo sente che la sua vita è preziosa, ma è pronto a pagare questo prezzo alto, a vendere la sua vita, non per masochismo, ma per creare vita agli altri e a se stesso. Nella 2 Corinti ritorna sul pericolo mortale che ha corso ad Efeso. Dice in 1,8 « non vogliamo infatti che voi ignoriate come noi nell’Asia siamo stati assaliti da una tribolazione, siamo stati oberati al di là delle nostre forze a tal punto che abbiamo dubitato di potere vivere e noi abbiamo portato dentro di noi la sentenza di morte affinché non riponessimo la fiducia in noi stessi, ma in Dio il quale risuscita i morti. Ci ha riscattati da tale morte e ci riscatterà affinché noi riponessimo la nostra speranza anche per il favore della vostra preghiera ». Paolo ha avvertito enormemente il pericolo e dall’altra parte ha la sorpresa di essere stato risparmiato e questo, dice, mi ha dato una lezione. Paolo ha imparato da questa esperienza drammatica a riporre la fiducia e la speranza in colui che dà la vita ed aggiunge: questo ve lo dico perché impariate.
In 2 Corinti 7,2 dice a questa comunità che lo aveva fatto soffrire moltissimo perché aveva dato ragione ai suoi avversari, ripercorrendo la vicenda, « voi avete un grande posto nel mio cuore ». E al verso 5 « la mia vita all’esterno è avvolta da lotte e all’interno vi sono paure ».
il valore dell’annuncio
La lettera ai Filippesi viene scritta da Paolo mentre si trova in prigione nella prospettiva di una condanna capitale. Poi Paolo verrà liberato, ma sarà nuovamente arrestato a Gerusalemme, portato a Cesarea, quindi a Roma dove subirà la sentenza di morte. Paolo si trova dunque in catene, con probabilità a Efeso. Oltre al pericolo di essere condannato a morte, vive anche il disagio creato dagli avversari che avevano approfittato della sua disgrazia per succedergli nella comunità. La reazione di Paolo è in 1,18 « io godo perché, o per motivi sinceri o anche abbietti, Cristo è annunciato ». Paolo, che è stato accusato di avere identificato troppo se stesso con il Vangelo, in questa occasione separa se stesso dal Vangelo e sottolinea il valore dell’annuncio. La reazione di fronte alla sentenza capitale è di incertezza; Paolo non sa se desiderare la morte perché in tal modo si unirebbe a Cristo oppure l’assoluzione per continuare ad essere utile. « Sono ondeggiante », dice, ma dopo lungo pensare conclude che preferirebbe sopravvivere (Filippesi 1,21-22).
un esempio di autarchia
Un altro testo molto bello sul costume di Paolo è un esempio di autarchia. L’essere economicamente autosufficiente era un ideale dei cinici, chiamati cani perché vivevano nella povertà, nel distacco totale, come Diogene. I Filippesi, che amavano molto Paolo, gli avevano mandato aiuti mentre si trovava in prigione. I detenuti infatti non venivano mantenuti, e si nutrivano solo se parenti o amici provvedevano. Gli avevano anche mandato uno per compagnia, come si usava. Paolo ne è felice, però rimanda questi dicendo « ve ne ringrazio, però ho imparato nella vita ad essere autarchico, ho imparato a vivere nella ricchezza ed ho imparato a vivere nella povertà » (Filippesi 4,11 ss.)
un inno di trionfo sulla morte
In 1 Corinti cap.15,54-55 c’è un inno di trionfo sulla morte: « La morte è stata ingoiata nella vittoria. Dov’è o morte la tua vittoria? Dov’è il tuo pungiglione? », e prosegue al verso 57: « sia reso grazie a Dio il quale dà a noi la vittoria mediante il Signore nostro Gesù ». In 15, 26 la morte è definita « l’ultimo nemico dell’uomo ».
Paolo ha, in quanto erede della tradizione ebraica, una concezione altamente drammatica della morte e ritiene che la morte sia anche l’ultimo nemico di Cristo. La sua teologia è sempre caratterizzata dalla categoria della forza, della potenza. Confrontandosi con la domanda: chi ha il dominio del mondo? dice: la morte che tutti ci falcia. Però Cristo vuole essere il padrone del mondo, il Signore. Allora, dice Paolo, il nemico nostro è anche il nemico di Cristo; se noi crediamo alla signoria di Cristo speriamo che Lui vinca la morte in noi, per una causa sua. Cristo vince la morte in noi per sé perché si tratta della sua signoria. E’ un inno nella fede, nella speranza: che vinca Cristo! Non è una certezza, è una fiducia.
E’ un testo che viene ripreso nel cap. 8 di Romani dove Paolo dice che ci sono forze terribili di morte contro di noi. « Che cosa diremo? Se Dio è per noi, chi potrà essere contro di noi? Non ha risparmiato il figlio suo, anzi lo ha consegnato, a favore di tutti noi, alla morte. Se ha fatto questo, non ci farà dono, insieme con Cristo, di tutte queste cose? Chi ci accuserà? Chi accuserà gli eletti di Dio? Cristo è colui che è morto, anzi è risuscitato e siede alla destra di Dio ed intercede per noi ». L’azione di Cristo non è solo al passato, ma allo stato attuale intercede, è il nostro avvocato. « Chi mai potrà separarci dall’amore di Cristo? La tribolazione, l’angustia, la persecuzione, la fame, la nudità, i pericoli, la spada… ma in tutte queste traversie noi stravinciamo (ipernikomenon) a causa di colui che ci ha amati. Siamo persuasi che né morte né vita né angeli né principati né le cose presenti né le cose future né altezza né profondità né alcuna altra creatura potrà separarci dall’amore di Dio che lui ha per noi in Cristo Gesù nostro Signore ». La fiducia è in questo amore indistruttibile che Dio ha per noi. Paolo vive la sua esistenza in questa fiducia radicale nell’amore di Dio e di Cristo.

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