SIMONE WEIL E LA SVENTURA
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SIMONE WEIL E LA SVENTURA
di Wanda Tommasi
Simone Weil, nata a Parigi nel 1909, allieva di Alain, fu professoressa, militante sindacale e politica della sinistra classista e libertaria, operaia di fabbrica, miliziana nella guerra di Spagna contro i fascisti, lavoratrice agricola, poi esule in America, infine a Londra impegnata a lavorare per la Resistenza. Minata da una vita di generosita’, abnegazione, sofferenze, muore in Inghilterra nel 1943.
Una descrizione meramente esterna come quella che precede non rende pero’ conto della vita interiore della Weil (ed in particolare della svolta, o intensificazione, o meglio ancora: radicalizzazione ulteriore, seguita alle prime esperienze mistiche del 1938). Ha scritto di lei Susan Sontag: « Nessuno che ami la vita vorrebbe imitare la sua dedizione al martirio, o se l’augurerebbe per i propri figli o per qualunque altra persona cara. Tuttavia se amiamo la serieta’ come vita, Simone Weil ci commuove, ci da’ nutrimento ».
Sessant’anni fa, il 24 agosto 1943, moriva la filosofa francese Simone Weil, all’eta’ di 34 anni. La sua opera, che ha conosciuto una crescente fortuna solo dopo la sua morte, ruota intorno a un centro di gravitazione che la sensibilita’ straordinaria di questa giovane donna seppe far risuonare con accenti incomparabili: il tema della sventura. Non e’ facile capire che cosa abbia consentito a Simone Weil di penetrare con tanta acuta partecipazione nell’enigma della sventura, se le violente crisi di mal di testa che frequentemente l’attanagliavano e che le impedivano di pensare – ma, nonostante questo, pensava -, o la capacita’ d’identificarsi empaticamente con la sorte degli oppressi, dei vinti, degli emarginati, o la violenza della seconda guerra mondiale. Sta di fatto che la sua concezione della sventura insegna anche a noi, oggi, come stare in presenza della sventura di molti senza minimizzarla, senza difenderci aggressivamente dal suo spettacolo, spesso intollerabile, ma anche senza farci annichilire dal sentimento della nostra impotenza di fronte al male che altri subiscono.
« Il grande enigma della vita umana non e’ la sofferenza, e’ la sventura », scrive Simone Weil (Attesa di Dio, Rusconi). Il termine francese malheur, sventura, e’ difficile da rendere in italiano: esso indica sia il male che capita, l’ora del male, cioe’ la sofferenza vera e propria, sia l’augurio del male – il nostro « malaugurio » -, cioe’ il disprezzo sociale, lo sguardo di disistima dell’altro, uno sguardo che viene interiorizzato dallo sventurato tanto che egli arriva a disprezzare se stesso. Con questo duplice contrassegno, di sofferenza e di degradazione sociale, la sventura imprime nell’anima il marchio della schiavitu’ e colloca lo sventurato nel punto della creazione il piu’ lontano possibile da Dio: e’ l’inferno su questa terra, e chiunque abbia provocato una sofferenza cosi’ grande, a causa di guerre, crimini, conquiste, porta la responsabilita’ di un male irrimediabile.
Tuttavia la sventura, proprio in quanto scaglia l’essere umano nel punto piu’ lontano da Dio, lo getta esattamente ai piedi della croce: se, proprio in questa condizione di sofferenza e di avvilimento interiore, l’anima conserva ancora la capacita’ d’amare, quel varco infinitamente piccolo tenuto aperto dall’amore sara’ una fessura sufficiente da consentire a Dio di raggiungerla.
A quel punto il malheur, la sventura, puo’ tramutarsi in bonheur, in felicita’ della ricongiunzione a Dio. Questa trasformazione alchemica puo’ realizzarsi, in casi rari, ma non e’ affatto detto ne’ scontato che le cose vadano cosi’: fra i motivi della delicata sensibilita’ con cui la Weil ha trattato il tema della sventura, vi e’ la sua partecipe comprensione della sofferenza inutile, che distrugge nello sventurato ogni dignita’ e ogni stima di se’ e per la quale non vi e’ alcuna riparazione possibile. Tuttavia, al tempo stesso, rimane aperto uno spiraglio per la speranza: e’ la possibilita’ di passaggio dal malheur al bonheur, e’ il varco che la capacita’ d’amare, nonostante l’odio e il risentimento che lo sventurato si porta dentro, lascia aperto per il passaggio della grazia.
Quest’ultimo passaggio ci parla di un uso soprannaturale della sofferenza: e’ la porta stretta della mistica, la trasformazione alchemica del metallo vile in oro. Benche’ esista la sofferenza inutile, esiste anche la possibilita’ di un uso soprannaturale della sofferenza: non dobbiamo necessariamente fuggire da essa il piu’ rapidamente possibile, possiamo anche guadagnare, attraverso la sofferenza, la conoscenza – come la Weil ripete con Eschilo -, possiamo farne la leva per il passaggio a Dio, farne l’occasione per mettere a nudo il tratto divino in noi. Che questo passaggio sia rischioso, raro e difficile, lo dimostra il fatto che, per lo piu’, chi subisce il male tende a trasmetterlo, a difendersi dalla sofferenza che patisce facendo a sua volta del male agli altri; egli spera cosi’, vanamente, di liberarsene: ma, in questo modo, il male si propaga e il gioco pendolare della violenza non ha fine.
Parlando di un uso soprannaturale della sofferenza, Simone Weil ci insegna a tenere aperto un varco, sia pur piccolissimo, attraverso cui contemplare la sventura degli innocenti e l’infinita lontananza di Dio da questo mondo, senza disperare tuttavia della possibilita’ che, proprio da quella incommensurabile distanza, Dio ci possa toccare. E questo non riguarda solo i credenti: chi ha sentito da vicino il contatto gelido della sventura, sa che, di fronte a essa, non ci sono filosofie ne’ argomentazioni razionali che tengano. Simone Weil insegna che la figura della croce, del Dio che soffre con lo sventurato, puo’ parlare a tutta l’umanita’, a credenti e non credenti.
Mentre altre risposte filosofiche al problema del male, pur teoreticamente ineccepibili, come la classica spiegazione agostiniana del male come privazione di bene, rischiano di risultare insultanti di fronte a chi patisce la sventura, la Weil ci offre un quadro in cui la sofferenza non e’ tolta ne’ attenuata, ma viene contemplata insieme all’infinita distanza di Dio e alla possibilita’ che, da quella lontananza siderale, Dio possa ricongiungersi alla parte divina che abita in noi, quella che riesce ad amare anche nella sventura.
E’ il grande insegnamento della mistica, che risuona anche nelle Rivelazioni della mistica medievale Giuliana di Norwich (Libro delle Rivelazioni, Ancora): il male e’ inevitabile, « ma tutto sara’ bene ». Per Simone Weil, non tutto sara’ bene, ma esistera’ sempre una possibilita’, sia pure infinitamente piccola, che il peggior male si converta nel bene piu’ grande.
Opere di Simone Weil: tutti i volumi di Simone Weil in realta’ consistono di raccolte di scritti pubblicate postume, in vita Simone Weil aveva pubblicato poco e su periodici (e sotto pseudonimo nella fase finale della sua permanenza in Francia stanti le persecuzioni antiebraiche). Tra le raccolte piu’ importanti in edizione italiana segnaliamo: L’ombra e la grazia (Comunita’, poi Rusconi), La condizione operaia (Comunita’, poi Mondadori), La prima radice (Comunita’, SE, Leonardo), Attesa di Dio (Rusconi), La Grecia e le intuizioni precristiane (Rusconi), Riflessioni sulle cause della liberta’ e dell’oppressione sociale (Adelphi), Sulla Germania totalitaria (Adelphi), Lettera a un religioso (Adelphi); Sulla guerra (Pratiche). Sono fondamentali i quattro volumi dei Quaderni, nell’edizione Adelphi curata da Giancarlo Gaeta.
Opere su Simone Weil: fondamentale e’ la grande biografia di Simone Petrement, La vita di Simone Weil, Adelphi, Milano 1994. Tra gli studi cfr. AA. VV., Simone Weil, la passione della verita’, Morcelliana, Brescia 1985; Gabriella Fiori, Simone Weil, Garzanti, Milano 1990; Giancarlo Gaeta, Simone Weil, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole 1992; Jean-Marie Muller, Simone Weil. L’esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Angela Putino, Simone Weil e la Passione di Dio, Edb, Bologna 1997; Maurizio Zani, Invito al pensiero di Simone Weil, Mursia, Milano 1994]
[Dal quotidiano « Il manifesto » del 24 agosto 2003.
Wanda Tommasi e’ docente di storia della filosofia contemporanea all’Universita’ di Verona, fa parte della comunita’ filosofica di « Diotima ».
Opere di Wanda Tommasi: La natura e la macchina. Hegel sull’economia e le scienze, Liguori, Napoli 1979; Maurice Blanchot: la parola errante, Bertani, Verona 1984; Simone Weil: segni, idoli e simboli, Franco Angeli, Milano 1993; Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile, Liguori, Napoli 1997; I filosofi e le donne, Tre Lune, Mantova 2001; Etty Hillesum. L’intelligenza del cuore, Edizioni Messaggero, Padova 2002.
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