Archive pour septembre, 2013

IL MIDRASH NEL NUOVO TESTAMENTO

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Il MIDRASH : UNA LETTURA SPIRITUALE DELLA BIBBIA

IL MIDRASH  NEL NUOVO TESTAMENTO

Premessa

   Il termine midrash (al plurale: midrashim) viene dal verbo ebraico « darash » (« cercare ») e nella sua accezione più generale denota ogni tipo di ricerca. Originariamente indicava la ricerca della volontà di Dio in generale (2Cr 17,4; 22,9; 30,19; Sal 119,10). Nell’uso successivo la parola si riferisce alla ricerca della volontà di Dio nella Scrittura (Esd 7,10; Sal 111,2), per diventare alla fine un termine tecnico per descrivere qualsiasi tipo di ricerca esegetica sulla Scrittura, sia tecnica che omiletica (1QS 8,15; 4QFlor 1,14). In quest’ultimo senso viene a coincidere con il « commentario » che rende la Scrittura attuale e ne scopre tutte le ricchezze. Si può dire che si tratta di una lettura spirituale della Bibbia nel senso di una lettura che combina senza soluzione di continuità lettera e spirito, filologia e commento. L’interesse del midrash non è la ricerca della storia del testo, come cercherà di sviluppare l’esegesi moderna e contemporanea, ma il senso del testo così come si presenta al lettore e all’interprete. Per usare une terminologia di oggi, potremmo dire che il midrash giunge al senso di un testo attraverso un metodo sincronico, mentre l’esegesi recente ha preferito una lettura diacronica. Tuttavia, il midrash non elimina la comprensione della lettera del testo. Esiste talvolta l’equivoco di intendere l’interpretazione midrashica come accessibile a tutti, perché priva di quegli strumenti indispensabili per un’interpretazione « scientifica » dei testi. I commenti midrashici sono ricchi di annotazioni filologiche, di rimandi ai testi paralleli, quindi di confronti, di citazioni di studiosi. Non dobbiamo pensare che lettura spirituale significhi quella lettura spontanea, che fa a meno di ricorrere agli strumenti tecnici dell’esegesi. I rabbini che commentarono la Bibbia erano degli studiosi, non dei lettori sprovveduti che si affidavano all’improvvisazione o al sentimento. Tracce di midrash si trovano già nella Tanak. Ad esempio alcuni studiosi sostengono che i libri delle Cronache sono una sorta di midrash dei libri di Samuele e dei Re, mentre elementi midrashici sono presenti nell’elogio degli antenati di Sir 44-50 o nella rilettura dell’esodo di Sap 10-19 (Cf. G. Stemberger, Introduzione al Talmud e al Midrash, Città Nuova, Roma 1995, 328-329). Si può discutere fino a che punto la lettura e il commento sinagogale abbia influito sulle raccolte midrashiche successive. Il midrash tuttavia si sviluppa principalmente nelle scuole e nelle accademie rabbiniche soprattutto dell’epoca tannaitica (I-II sec. D. C.; comincia con R. Gamaliel I e Jonatan Ben Zakkai e si conclude con R. Jehuda ha-Nassi; la chiusura coincide con la redazione della Mishna) e amoraica (III- VI sec.; si chiude con la redazione del Talmud). Anche i Padri della Chiesa e i primi commentatori della Bibbia cristiana erano buoni conoscitori dei testi. Pensiamo solo a un Origene o a un Girolamo. Vedremo anche come gli scrittori del Nuovo Testamento siano lettori attenti delle Scritture ebraiche che utilizzano. Il midrash è un vero e proprio metodo esegetico, non una lettura improvvisata o spontanea della Scrittura, che finalmente può fare a meno delle necessarie conoscenze esegetiche. Certo, nello sviluppo soprattutto dei midrashim haggadici ci si discosta talvolta dalle regole esegetiche e dalla filologia, ma ciò non  può essere preso come la regola dell’esegesi midrashica. Spiritualità non equivale a spontaneità!
 Il midrash ha raggiunto la sua forma più sofisticata e consapevole negli scritti dei rabbini. Ivi designa un commentario o una spiegazione che segue un versetto, un passo oppure anche un libro della Scrittura prodotto con lo scopo di rendere il testo della Scrittura rilevante per le nuove circostanze della vita della comunità dei credenti. Per legittimare un tale procedimento e per farlo diventare meno soggettivo possibile ci si è serviti di precise regole ermeneutiche. Le più famose erano le sette regole (middot) di Hillel (I secolo d.C.), le 13 di Rabbi Ishmael (II secolo d.C.) o le 32 di Rabbi Eliezer (II secolo d.C.; sono attribuite a lui).  Il loro uso è molto diffuso nei libri del Nuovo Testamento. I principi dell’esegesi midrashica vi si trovano non soltanto nell’uso del materiale veterotestamentario da parte dei singoli evangelisti (per es. le numerose allusioni al Primo Testamento nei vangeli dell’infanzia non si capiscono se non alla luce di gezera shawa) ma sono adoperati anche nell’ insegnamento di Gesù stesso (qal wahomer, cioè il passaggio a minori ad maius: Mt 6,26; cf. 2 Cor 3,7-11; gezera shewa, letteralmente « uguale decreto », cioè la deduzione analogica: Mc 2,23-24 etc.). Le lettere paoline ne conservano gli esempi più chiari e più numerosi. Oltre all’uso massiccio delle regole ermeneutiche (qal wahomer: 2Cor 3,7-11; gezera shewa: Gal 3,11-12), vi si trovano anche alcuni parallelismi formali con gli scritti rabbinici: (1) le catene delle citazioni correlate tra di loro tramite l’uso delle stesse parole (per es. Rom 9,25-29 che cita successivamente Os 2,23; 1,10; Isa 10,22-23 e 1,9), (2) la strutturazione dell’esposizione in forma analoga alla tecnica di  Yelammedenu rabbenu (Gal 4,21-31) che inizia con un riferimento generale al testo di base (Gen 16 e 21), nell’esposizione introduce un testo secondario (Isa 54,1) e nell’applicazione cita il testo di Gen 21,10, legato ai due precedenti tramite richiami terminologici e tematici).
Tuttavia, l’uso delle regole e tecniche ermeneutiche da solo non basta per poter definire una interpretazione come un midrash nel senso della precisa forma letteraria. Gli specialisti parlano di midrash come forma o genere letterario soltanto quando l’uso dei principi esegetici è accompagnato dalle due seguenti condizioni: (1) si indica chiaramente il testo commentato e il discorso fa ad esso delle ripetute allusioni riprendendone  esplicitamente parole o espressioni; (2) oltre al testo biblico commentato (chiamato testo principale) si utilizzano gli altri passi biblici (chiamati testi connessi o secondari), aventi dei legami verbali sia tra loro che con il testo commentato. Queste condizioni trovano la loro perfetta applicazione nei midrashim rabbinici la cui redazione e l’edizione avvenne però ben più tardi dell’epoca del Nuovo Testamento. Se vogliamo entrare nei testi del Nuovo Testamento, bisogna riconoscere che non c’è neppure un testo nel Corpus Paulinum – e Paolo è indubbiamente il più grande cultore  dell’esegesi giudaica all’interno del Nuovo Testamento – dove tutti questi elementi sarebbero esplicitamente presenti.
Inoltre esiste un aspetto abbastanza sostanziale per poter affermare l’utilizzo da parte dell’Apostolo, e a maggior ragione degli altri scritti del N.T.,  del metodo midrashico. Nelle esposizioni dell’Apostolo il testo biblico non costituisce il punto di partenza e la sua comprensione non è il punto d’arrivo. Infatti, quando Paolo interpreta dei testi del Primo Testamento,  il suo scopo non è quello di scoprire il loro significato e la loro rilevanza per le nuove circostanze della vita dei credenti, ma quello di trovare in essi e tramite essi la conferma della coerenza delle realtà cristiane con l’agire di Dio in tutta la storia della salvezza. Non i testi biblici dunque, ma la figura di Cristo e l’esperienza cristiana, costituiscono il punto di partenza delle sue esposizioni dei testi del Primo Testamento, mentre lo scopo dell’utilizzo e dell’interpretazione del Primo Testamento è quello di capire e spiegare meglio le realtà cristiane. Per queste due ragioni sembra più corretto non parlare di midrash in Paolo, ma soltanto del carattere midrashico della sua interpretazione del Primo Testamento oppure del suo uso delle tecniche midrashiche.  Questo, come vedremo, vale anche per i Vangeli e gli altri testi del Nuovo Testamento. Si dovrebbe anche tener presente il pesher, interpretazione rinvenuta Qumran, che applica ogni versetto del testo biblico alla situazione attuale. Il più noto tra i commentari di Qumran è il pesher di Abacuc. Per concludere la premessa si deve riconoscere che i testi del Nuovo Testamento non contengono dei veri e propri midrashici né seguono in maniera sistematica altri metodi interpretativi contemporanei (come ad es. quello allegorico di Filone), ma si inseriscono all’interno dei metodi di lettura e interpretazione delle Scritture ebraiche dei loro contemporanei. Farò qualche esempio, offerto solo come breve accenno e invito all’approfondimento, dato l’esiguo spazio a disposizione.

Paolo

Per comprendere il modo attraverso cui il Nuovo Testamento utilizza le tecniche midrashiche, vorrei  partire dagli scritti paolini, che sono senza dubbio quelli che più di tutti contengono riferimenti ai libri del Primo Testamento. Si è calcolato che negli scritti paolini, comprese le pastorali, ci siano 107 citazioni del Primo Testamento. Di queste alcune concordano con il testo ebraico masoretico, altre con i LXX, altre sono elaborazioni (traduzioni) di Paolo stesso, mostrando la sua conoscenza di ebraico, greco ed aramaico.
Mi fermo brevemente su un solo esempio, che è un modo per entrare nella lettura che il Nuovo Testamento fa del Primo, nel tentativo di individuare il processo esegetico che ad esso sottende. Non mi interessa perciò il senso e il valore dell’interpretazione paolina all’interno del rapporto ebraico-cristiano, ma unicamente il metodo. Prendo il passo dal capitolo quarto della lettera ai Galati (4,21-31), dove l’apostolo reinterpreta le due figure di Sara e Agar. Vi troviamo procedimenti midrashici interessanti, senza tuttavia poter dire che si tratta di un vero e proprio midrash. Si inizia con la citazione introdotta da « sta scritto », che corrisponde alle citazioni scritturistiche rabbiniche. E poi inizia una sorta di haggadah del testo biblico di Gen 16 e 21, a cui Paolo dà subito un’interpretazione, che di per sé non contraddice il testo: « Quello dalla schiava è nato secondo la carne, quella dalla donna libera in virtù della promessa ». Ma poi aggiunge « tali cose sono dette per allegoria ». Infatti, per poter coerentemente continuare nel suo intento interpretativo deve ricorrere all’allegoria, alla trasposizione e alla corrispondenza delle immagini, comprovata però da un altro testo citato da Is 54, per poter avvallare la corrispondenza tra la donna libera e la Gerusalemme di lassù, la donna feconda. Dopo le citazioni e la dimostrazione esegetica, Paolo applica il suo ragionamento alla comunità cui si rivolge introducendo il « voi »: « Voi, fratelli, siete figli della promessa, alla maniera di Isacco ».
Due figli:     dalla schiava                                                     dalla donna libera
                    Nato secondo la carne                                       in virtù della promessa
Due alleanze: quella del monte Sinai        
                       Che genera nella schiavitù
                       Rappresentata da Agar
                       Essa corrisponde alla Gerusalemme attuale  La Gerusalemme di lassù
                       Schiava insieme ai suoi figli                           è libera
                                                                                                Ed è la nostra madre
(citazione di Isaia)
                                                                                               Voi siete figli della promessa
                     Colui che è nato secondo la carne perseguitava
                                                                                              Quello nato secondo lo spirito
(cosa dice la Scrittura?)
                    « Manda via la schiava e suo figlio
    Poiché il figlio della schiava non avrà eredità                 col figlio » della donna libera
    Così     noi non siamo figli di una schiava                        ma di una donna libera.

Possiamo dire che non siamo di fronte a un vero e proprio midrash, perché non si tratta di un commentario a un testo biblico, facendo Paolo riferimento al Primo Testamento solo a partire da una precomprensione cristologia, ma non si può neppure dire che l’Apostolo non conosca il modo di argomentare rabbinico, che si avvale di testi scritturistici accostati per assonanze o temi comuni in vista dell’interpretazione. Le citazioni servono a Paolo per contrapporre due termini che hanno un ruolo essenziale nello sviluppo del suo pensiero, schiava/libera, per poi mostrare le conseguenze che il rapporto con le due donne hanno sui « figli ». Cinque  volte ricorre il termine « schiava » e una volta « schiavitù », quattro volte l’aggettivo « libera », e ben sette volte il riferimento ai figli-figlio. Il problema centrale per l’apostolo sono i figli, cioè la comunità dei discepoli, in rapporto al « figlio » della donna libera, Sara, e in opposizione a quello della schiava, Agar. La schiava, Agar, è stata mandata via da Dio insieme al figlio, mentre la donna libera, Sara, ha generato il figlio Isacco che ci permette di partecipare all’eredità di Israele e all’alleanza. È chiaro che il punto di partenza dell’interpretazione viene dall’evento di Gesù, che permette al credente di raggiungere la maturità di figlio, proprio perché Dio ha mandato « nei nostri cuori lo Spirito del Figlio, che grida: « Abba, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio, e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio. » Così si legge all’inizio del capitolo, mentre dopo 4,21-31 segue la parenesi del capitolo 5, che inizia con l’esortazione a vivere nella libertà: « Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; siate dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. » La libertà di cui Paolo parla è quella dalla circoncisione e dalla legge. Si vede bene come i testi del Primo Testamento sono citati in vista di un insegnamento che aiuta a comprendere la vita cristiana di colui che è diventato discepolo di Gesù di Nazaret e che si inserisce pienamente all’interno della rivelazione di Dio al suo popolo Israele. Il procedimento si muove all’interno delle tecniche misdrashiche, anche se non si tratta mai di un vero e proprio commentario a un testo biblico. Le lettere di Paolo sono infarcite di simili procedimenti interpretativi, mostrando come l’apostolo conoscesse molto bene le Scritture Ebraiche.
Accanto alla letteratura paolina le nostre Bibbie collocano la lettera agli Ebrei. Questo scritto è un altro esempio illuminante del valore che il Primo Testamento ebbe per le prime comunità per comprendere la vicenda di Gesù all’interno di eventi a loro contemporanei. Scritta forse da un giudeo cristiano, ottimo conoscitore della Tanak, rimangono diversi problemi aperti relativi sia alla data di composizione che allo scopo del testo. Certo una cosa colpisce in particolare per il nostro tema: la presenza massiccia di testi del Primo Testamento, ma soprattutto il fatto che ben otto capitoli (da 3 a 10) abbiano come tema il sacerdozio e il culto nel tempio. L’intento è di mostrare che Cristo è l’unico Sommo Sacerdote e che egli ha offerto il sacrificio definitivo, rendendo così inutile l’apparato sacrificale del tempio di Gerusalemme. Perché questa insistenza? R. Brown in uno studio famoso, Antioch and Rome, avanzava l’ipotesi che la lettera fosse stata scritta contro alcuni giudeo cristiani di Roma che, dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme, avrebbero creduto possibile una sua sostituzione in un tempio cristiano che avrebbe ripreso purificandola la tradizione cultuale ebraica. Mi sembra che questa possa essere una linea interpretativa interessante, indispensabile per quegli ebrei soprattutto di origine sacerdotale divenuti cristiani. La lettera potrebbe essere quindi la risposta di una comunità giudeo cristiana alla distruzione del tempio, tuttavia nel senso di una reinterpretazione cristologica dell’apparato cultuale del tempio. Infatti non si trovano elementi polemici contro il tempio. Anche un ebreo convertito – come d’altro canto dovette fare la tradizione rabbinica reinterpretando le leggi cultuali -  doveva spiegarsi teologicamente perché il tempio era stato distrutto e che fine avrebbe fatto l’apparato cultuale, che aveva una funzione essenziale nell’espressione della fede di Israele. Sappiamo come l’ebraismo risolse il problema, ma anche le comunità giudeo cristiane dovevano motivare l’evento, continuando i primi discepoli a frequentare il tempio. Da qui la reinterpretazione di tutto quanto riguardava il sacerdozio e il tempio in relazione a Cristo. Non abbiamo tempo sufficiente per seguire i metodi interpretativi della lettera, ma è evidente anche a una lettura superficiale l’efficacia delle argomentazioni scritturistiche portate dall’autore a dimostrazione della sua verità.

Matteo

Lo stesso avviene per gli altri scritti del Nuovo Testamento.  Il caso di Matteo è forse quello più significativo tra i Sinottici. Infatti, l’evangelista è senza alcun dubbio il più interno alle pagine del Primo Testamento. Egli si presenta come uno scriba che conosce ebraico e greco. Scrive in greco, ma conosce l’ebraico, come si evince dalle sue citazioni, che sono fatte prevalentemente dalla LXX, ma con ricorsi anche alla Tanak. Come ha ben mostrato Alberto Mello nel suo commentario a Matteo, l’evangelista è un targumista, nel senso che traduce, ma anche interpreta il testo, quindi un esegeta. Nel suo vangelo si trovano, secondo il Greek New Testament, 62 citazioni del Primo Testamento, mentre Luca ne ha solo 31, Giovanni 10. Giovanni tuttavia ha un altro approccio al Primo Testamento e alla tradizione ebraica. Alberto Mello avanza un’idea interessante. Si può parlare di Matteo come di un midrash, ma non del Primo Testamento, bensì del Vangelo di Marco, allo stesso modo in cui i due libri delle Cronache sono un midsrash dei libri dei Re. Infatti il midrash non è semplicemente la citazione di un testo biblico o la sua interpretazione in un nuovo contesto, ma un vero e proprio commentario al testo biblico nel suo insieme. Così almeno sono i midrashim rabbinici.
Di solito si fa riferimento ai primi due capitoli di Matteo come esempio di interpretazione midrashica dell’infanzia di Gesù a partire dai testi del Primo Testamento. Senza alcun dubbio l’evangelista fin dai primi due capitoli intende mostrare che le Scritture di Israele giungono al loro compimento in Gesù di Nazaret. Lo fa innanzitutto nella genealogia, che riprende un genere letterario tipico della Genesi ed anche di Cronache, che dedica addirittura quasi interamente i primi 10 capitoli a genealogie, il cui scopo è di mostrare che il compimento della storia di salvezza avviene in Davide e nel tempio, che egli aveva in animo di costruire. Infatti nella teologia sacerdotale delle Cronache è il tempio il cuore della fede e della vita dell’Israele postesilico. Quindi Matteo, più che un midrash, utilizza un genere letterario noto, con lo stesso scopo dei libri delle Cronache: la genealogia mostra che la storia non è frutto del caso, ma conduce a un risultato il cui artefice è Dio. Gesù di Nazaret è colui che realizza la storia di Israele, racchiusa in Abramo e in Davide. Da qui l’importanza nei primi due capitoli di Matteo della figura di Giuseppe, discendente di Davide, che ne è il protagonista. La diversità dalla narrazione proposta nei vangeli dell’infanzia della redazione lucana, dove la figura preminente è la Vergine Maria, è visibile anche ad occhi inesperti. A Giuseppe Dio rivela la sua volontà mediante il sogno, perché la vita del Salvatore non sia annientata dai poteri ostili. L’uso delle citazioni scritturistiche è funzionale a questa visione della storia di Israele, che in Gesù, discendente di Davide, viene riproposta. Del resto, per un ebreo convinto e radicato nelle Scritture di Israele,  non sarebbe stato possibile fare diversamente: l’evento di Gesù doveva inserirsi nel piano salvifico di Dio, altrimenti non avrebbe avuto senso.
Si tratta di un midrash? Direi che siamo di fronte a un modo spirituale di leggere le Scritture, che affonda le sue radici nell’interpretazione ebraica, come si evince da Qumran e dagli scritti rabbinici, anche se questi ultimi sono tutti posteriori al N.T., almeno nella loro elaborazione scritta. È significativo che la formula « perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per messo del profeta (o del profeta Geremia, o dai profeti) si ripeta ben tre volte nel capitolo secondo (un’altra volta al versetto 5 troviamo « perché così è scritto per mezzo del profeta »). È Gesù che permette a Matteo l’utilizzo delle citazioni profetiche. Esiste un intreccio tra vicenda-messaggio di Gesù di Nazaret e Scritture ebraiche che risulta indispensabile per comprendere l’uno e le altre.

Giovanni

Sebbene le citazioni esplicite del Primo Testamento siano ridotte rispetto a Matteo e Paolo, le allusioni a testi, motivi o temi presenti nelle Scritture ebraiche sono molto numerose, tanto da rendere possibili delle vere e proprie nuove narrazioni, che reinterpretano interi racconti biblici. Alcuni esempi: nel prologo Gesù incarnato rappresenta la nuova creazione e la realizzazione della shekina di Dio nel mondo (1,14); in 2,21 il corpo di Gesù è il nuovo tempio, luogo della presenza di Dio; in 4,3 ss si allude alla vicenda del profeta Osea; in 6,1 ss è la narrazione dell’esodo che fa da base; in 20,1 ss si potrebbe rileggere il Cantico dei Cantici.
Inoltre Giovanni usa la simbologia delle feste ebraiche per illustrare l’opera di Gesù. Sei sono le feste nominate esplicitamente: – una prima Pasqua in 2,13; – una non specificata festa in 5,1 (secondo alcuni la Pentecoste); – una seconda Pasqua in 6,4; – la festa delle Capanne in 7,1; – la festa della Dedicazione in 10,23; – una terza Pasqua in 11,55. Il prologo rilegge il racconto della creazione e l’insieme della storia dell’esodo, componendole in un quadro che ne vuole mostrare il compimento.

Conclusione
I padri della Chiesa e gli scrittori ecclesiastici dei primi secoli si muoveranno in questa direzione, anche se essi scriveranno dei veri e propri commentari al testo biblico. Lì allora si potrà dire se si tratta di generi interpretativi simili al midrash, perché siamo di fronte a dei commentari ai libri della Bibbia. Ma non spetta a me addentrarmi in questa ulteriore questione. Le due scuole esegetiche che si contenderanno l’interpretazione cristiana antica della Bibbia, quella antiochena e quella alessandrina, si muovono in pratica contemporaneamente a quelle midrashiche rabbiniche. Ma per i commentatori cristiani delle Scritture ebraiche lo yelammedenu rabbenu sarà sostituito dall’insegnamento del Vangelo di Gesù di Nazaret, ormai norma di vita e di fede dei cristiani. È chiaro che questa è la differenza sostanziale con l’ebraismo nascente e con l’interpretazione della Tanak ad esso propria. Tuttavia possiamo dire che ambedue le esegesi bibliche, e quindi in un certo senso ambedue le raccolte misdrashiche, ci danno delle indicazioni importanti per l’interpretazione della Bibbia, che vorrei così riassumere:
- ricentrare l’esegesi del testo sulla Bibbia nel suo insieme, per comprendere che la Bibbia va interpretata innanzitutto con la Bibbia e che non è solo il senso storico a dare valore e significato al testo;
- il testo va interpretato all’interno della propria tradizione di fede. Lo yelammedenu rabbenu sottolinea il valore della tradizione interpretativa, che non può essere liquidata come superata, come è stato fatto talvolta con troppa facilità, anche se bisogna riconoscere che oggi abbiamo a disposizione maggiori strumenti e conoscenze per poter giungere a un’interpretazione filologicamente e storicamente più accurata dei testi (archeologia, testi letterari, metodi di analisi…);
- la contrapposizione tra metodo storico critico, che potremmo chiamare « lettera », e interpretazione spirituale, non ha senso, anzi impoverisce la portata del testo. Se ogni esegesi deve partire dalla lettera e dalla storia, pena la negazione del valore stesso della rivelazione che è storica, non può non tener conto di un di più di senso che si sviluppa ogni volta che il credente pone mano a leggere e a comprendere le Scritture. « Scriptura crescit cum legente », scriveva sapientemente Gregorio Magno. In questo senso l’esegesi midrashica provoca l’interprete a un di più di senso, che va ricercato non solo nella lettera del testo o nella sua storia redazionale, ma nella sua interpretazione all’interno del contesto di fede, che è storia ma anche contemporaneità. La Wirkungsgeschichte forse ha cercato di compiere questo ulteriore passo, che nessun esegeta può più omettere. In Italia anche lo sviluppo della Lectio Divina ha contribuito a dare di nuovo attualità al metodo esegetico rabbinico e patristico.
Per concludere, oserei dire che siamo sulla buona strada per provare a recuperare alcuni aspetti importanti dell’esegesi antica, che non annullano lo sforzo della ricerca esegetica dell’ultimo secolo, ma ci inducono a una lettura più attenta e profonda del testo biblico, accettandone la complessità e la stratificazione interpretativa, dovuta non solo alla sua storia letteraria, ma anche alla ricchezza della vita di fede di coloro che nei secoli vi hanno attinto. I maestri della Tanak insieme ai primi commentatori della Bibbia cristiana ci insegnano a riappropriarci del testo biblico senza lasciarlo sotto il dominio della sola archeologia storica per coglierne la profondità spirituale che da esso sprigiona.

AMBROGIO SPREAFICO

GEREMIA Eb. YIRMEYAHU (“Yah[weh] fonda, esalta, libera,getta”)

http://www.parrocchie.it/calenzano/santamariadellegrazie/PROFETgeremia.htm

GEREMIA Eb. YIRMEYAHU (“Yah[weh] fonda, esalta, libera,getta”)  dans LETTURE DALL'ANTICO TESTAMENTO image003

GEREMIA Eb. YIRMEYAHU (“Yah[weh] fonda, esalta, libera,getta”)

In questo affresco medievale, conservato in Vaticano, appare il nome HYEREMIAS

Geremia era un ragazzo di soli 12 o 13 anni quando fu chiamato a essere profeta nel 627 a.C. e fu testimone dell’ultima ripresa del regno di Giuda e della sua distruzione. Solo pochi anni dopo la chiamata di Geremia, la riscoperta della Legge (forse il libro del Deuteronomio) all’interno del recinto del tempio in Gerusalemme diede il via alla riforma religiosa di re Giosia. Contemporaneamente, la disgregazione dell’impero assiro consentì a Giosia di ricuperare l’indipendenza di Giuda dopo quasi un secolo di vassallaggio. Purtroppo, sia la riforma sia l’indipendenza ebbero vita breve e questo spiega l’intensa e tormentata esperienza personale di Geremia durante i suoi 40 anni di attività al servizio del Signore, come profeta sotto Giosia e i suoi quattro successori. Il lungo libro biblico che porta il suo nome è essenzialmente una raccolta di oracoli contro Giuda e i suoi nemici esterni dettati dal profeta al suo aiutante, lo scriba Baruc.
Geremia era nato nel 640 a.C. da una famiglia sacerdotale di Anatot, un villaggio situato circa 5 chilometri a nord di Gerusalemme. Suo padre, Chelkia, era un proprietario terriero abbastanza conosciuto e forse discendeva dalla famiglia del sacerdote Ebiatar, che era stato esiliato in Anatot da re Salomone perché, nella sua lotta per il trono con il fratello maggiore Adonia, si era schierato contro di lui.

UN PROFETA RILUTTANTE
Secondo il resoconto della sua chiamata fatto dallo stesso Geremia, Dio lo conosceva ancora «prima di formar[si] nel grembo materno»(Ger 1,5). Al tempo della chiamata, però, Geremia non pensava di essere pronto per un compito del genere e protestò: «Ecco, io non so parlare, perché sono giovane» (Ger 1,6). Così la storia di Geremia ricalca quella di Samuele, «il fanciullo» che «rimase a servire il Signore» (1 Sam 2,11). E la sua riluttanza a obbedire ricorda Mosè, che aveva resistito alle ingiunzioni del Signore, scusandosi: «Io non sono un buon parlatore [...] sono impacciato di bocca e di lingua» (Es 4,10). Dio superò le reticenze di Geremia, dicendo al giovane di non aver paura e rassicurando il nuovo profeta che il Signore era con lui. Poi toccando Geremia sulla bocca, Dio fece capire che sarebbe stato lui a suggerirgli le parole da dire. Il messaggio che il Signore voleva trasmettere tramite il prescelto era un annuncio della sua intenzione di «sradicare e demolire, [...] distruggere e abbattere» (Ger 1,10) il regno di Giuda per la sua infedeltà.
Per rendere più chiaro il messaggio, il Signore mandò a Geremia due visioni. Nella prima, chiese al profeta di descrivere ciò che vedeva e questi rispose: «Vedo un ramo di mandorlo». Dio disse: «Hai visto bene, poiché io vigilo sulla mia parola per realizzarla» (Ger 1,11-12). Il termine ebraico tradotto con « mandorlo » è shaqed e Dio lo applicò a sé con un gioco di parole, come shoqed, che significa « sentinella », « vigilante ». Come una sentinella solitaria su un’alta torre, al di sopra degli eventi della vita quotidiana che si svolge in basso, Geremia deve vegliare sulla parola che Dio gli ha affidato finché quelle predizioni non si realizzeranno nelle vicende del mondo. Nella seconda visione, Geremia vede poi una caldaia sul fuoco, inclinata da nord verso sud, pronta a riversare il suo bollente contenuto. Dio ne spiegò il significato come il trionfo di un nemico «dal settentrione» (Ger 1,14), di Babilonia cioè, che egli avrebbe utilizzato per distruggere Giuda. Nella chiamata di Geremia, però, Dio offre anche una nota di speranza, dicendo che vuole «edificare e piantare» (Ger 1,10), un riferimento alla restaurazione della nazione dopo la sua distruzione nel 586 a.C.
I primi 18 anni del ministero di Geremia furono forse i più felici per lui, perché il pio Giosia «cominciò a ricercare il Dio di Davide, suo padre» (2 Cr 34,3). Ma quando il faraone egiziano Necao guidò il suo esercito verso nord attraverso Israele per aiutare l’Assiria contro il crescente potere di Babilonia, Giosia imprudentemente cercò di fermarlo e fu colpito mortalmente nella battaglia di Meghiddo, nel 609 a.C. Il vittorioso Necao nominò allora re di Giuda il figlio maggiore di Giosia, Ioiakim, invece del figlio più giovane, Ioacaz, che era stato scelto dal popolo.
Per far capire la sua disapprovazione per l’apostasia del nuovo re, il Signore comandò a Geremia di pronunciare nel tempio le seguenti parole: «Se non mi ascolterete, se non camminerete secondo la legge che ho posto davanti a voi e se non ascolterete le parole dei profeti miei servi che ho inviato a voi con costante premura [...] farò di questa città un esempio di maledizione per tutti i popoli della tera» (Ger 26,4-6). Re Ioiakim, inizialmente un burattino nelle mani dell’Egitto, fu in seguito costretto a pagare il tributo alla trionfante potenza babilonese per riuscire a salvaguardare una fragile indipendenza nei territori del suo regno (609-598 a.C.). Quando Geremia e altri profeti annunciarono che Babilonia era in realtà un agente del giudizio di Dio e che avrebbe più tardi invaso Giuda, Ioiakim rispose uccidendo il profeta Uria, mentre altri tentavano di uccidere Geremia. Ma i suoi difensori, appellandosi all’ispirazione divina di Geremia, ottennero la sospensione dell’esecuzione.
A Geremia fu proibito di parlare nel tempio e allora dettò i suoi oracoli a Baruc e lo inviò a leggere il rotolo nel recinto sacro. Quando alcuni funzionari di corte udirono quelle parole, avvertirono Baruc di nascondersi con il suo maestro, ma prima gli chiesero di consegnare loro il rotolo per portarlo al re. Ioiakim volle farselo leggere e man mano che ne ascoltava i brani, tagliava quelle parti del rotolo con un temperino da scriba e le gettava in un braciere finché bruciò tutto il rotolo. Obbedendo a Dio, Geremia dettò un secondo rotolo, non solo salvando il messaggio originale, ma aggiungendo anche altre dure parole di condanna nei confronti del re: «Il suo cadavere sarà esposto al calore del giorno e al freddo della notte. Io punirò lui, la sua discendenza e i suoi ministri per le loro iniquità» (Ger 36,30-31).
Nel 598 a.C., Ioiakim morì e fu sostituito dal figlio diciottenne, Ioiachin. Ma tre mesi dopo, Nabucodonosor di Babilonia conquistò Gerusalemme, saccheggiò il tempio e il suo tesoro e deportò gran parte della famiglia reale e gli altri capi del popolo. Le cronache babilonesi citano Ioiachin tra i prigionieri. Nel 597 Nabucodonosor mise sul trono di Giuda il terzo figlio di Giosia, Sedecia; egli sarebbe stato l’ultimo re del regno del Sud.
In quei giorni Dio mandò a Geremia una visione di due cesti di fichi, uno buono e l’altro cattivo. I fichi buoni rappresentavano il popolo di Giuda che era andato in esilio con Ioiachin, perché sarebbero ritornati nel paese. I fichi cattivi rappresentavano Sedecia e gli altri capi che erano rimasti in Giuda. Così Geremia rivelava che parte della popolazione in cattività si sarebbe salvata e avrebbe continuato a osservare la Legge di Dio. Questi fedeli superstiti avrebbero infine ripopolato il paese e ricostruito la nazione.
Geremia confermò la promessa di restaurazione di Dio con un gesto provocatorio. Mentre Nabucodonosor cingeva d’assedio Gerusalemme, il Signore disse a Geremia di comprare alcune proprietà che suo cugino possedeva in Anatot. Quanto doveva apparire stolto comprare della terra che presto sarebbe appartenuta ai Babilonesi, tanto più che era lo stesso Geremia ad avere predetto la caduta di Giuda!
Nondimeno, il profeta svolse tutte le pratiche necessarie all’acquisto di una proprietà, comprese le due copie del contratto che dovevano essere conservate in un’anfora di terracotta, affinché nessuno potesse impugnare il suo diritto di proprietà. Geremia, alquanto sconcertato, si rivolse a Dio, e Dio replicò che il profeta aveva appena testimoniato a tutti che un giorno si sarebbe ancora comprato e venduto in Giuda. Con quel gesto, il profeta faceva una promessa alle generazioni future che pochi dei suoi contemporanei potevano capire.
Molti gesti di Geremia lo fecero apparire anticonformista. Mentre tutti gli altri si recavano alla casa del lutto per manifestare la loro disperazione per gli attacchi di Babilonia contro Giuda, il Signore chiese a Geremia di non fare lamento, ma di dedicarsi alle solite occupazioni, come se nulla fosse. Mentre il popolo si mostrava spensierato di fronte al pericolo incombente, Dio disse a Geremia di tagliarsi i capelli in segno di umiliazione e di lutto. E come simbolo del futuro senza speranza di Giuda, il Signore ingiunse a Geremia di non sposarsi e di non avere figli. Un’altra volta, il profeta comprò una cintura nuova di lino, poi andò sulle rive dell’Eufrate e la nascose in una fessura della roccia, seguendo fedelmente le istruzioni divine. Quando Geremia, qualche tempo dopo, recuperò la cintura, fece vedere a tutti che «la cintura era marcita, non era più buona a nulla» (Ger 13,7). Indipendentemente dal fatto se il profeta avesse davvero percorso oltre un migliaio di chilometri per giungere fino all’Eufrate e altrettanti per tornare, o aveva solo romanzato un viaggio su scala più ridotta, Geremia mostrò in pratica le conseguenze dell’esilio babilonese. In un’altra occasione egli comprò una brocca nuova, quindi invitò alcuni sacerdoti e capi del popolo a seguirlo fuori città, nella valle di Ben-Innom, e lì la fece in frantumi per far vedere la gravita dell’imminente punizione di Giuda da parte del Signore.

MONITI SENZA TEMPO
Molte parole di Geremia sono riportate senza riferimenti a date o circostanze specifiche, e questo conferisce loro un valore atemporale, non legato al periodo o al luogo in cui furono pronunciate. Il profeta sollevò serie obiezioni contro una condotta religiosa priva di introspezione, di pentimento e di cambiamento. L’osservanza rituale, diceva, è autentica solo se il devoto vi infonde una convinzione interiore. Secondo lui, il tempio non era più una casa di preghiera, ma una «spelonca di ladri» (Ger 7,11), un’espressione che Gesù riprenderà quando scaccerà dal tempio i cambiavalute. Mise in discussione l’efficacia dei sacrifici che non erano accompagnati dalla buona volontà di ascoltare e seguire la parola di Dio. Invece che sottomettersi alla circoncisione per ottemperare a un rito imposto, Geremia diceva agli uomini che sarebbe stato meglio circoncidere «il [...] cuore [...] a causa delle [...] azioni perverse» (Ger 4,4). Invece di accarezzare false promesse di pace mentre il mondo era in fiamme, sarebbe stato meglio ascoltare l’aspra parola dei profeti fedeli. Invece di limitarsi a possedere un libro di insegnamenti rivelati, sarebbe stato meglio capire e obbedire a Dio.
Pubblicamente Sedecia si opponeva a Geremia, ma in segreto mandò messaggeri al profeta perché chiedesse a Dio quali erano le intenzioni di Nabucodonosor e pregasse per la liberazione della nazione. Poi Sedecia incontrò personalmente Geremia in privato, per chiedere il suo aiuto, ma gli fece giurare che avrebbe detto a chiunque lo avesse interrogato in merito che la visita era stata richiesta dal profeta stesso. E quando Sedecia fece un viaggio a Babilonia, nel suo quarto anno di regno, forse per professare lealtà a Naducodonosor, Geremia mandò un libro di profezie per mezzo del capo degli alloggiamenti di Sedecia: si chiamava Seraia ed era fratello di Baruc. Geremia diede istruzioni a Seraia di leggere quegli oracoli contro Babilonia e poi di legare il rotolo a una pietra e gettarlo nell’Eufrate. Seraia avrebbe dovuto gridare: «Così affonderà Babilonia e non risorgerà più dalla sventura che io le farò piombare addosso» (Ger 51,64).
Geremia spesso si oppose anche ai profeti favoriti del re, uomini che enunciavano premonizioni diverse dalle sue e che egli descriveva come usurpatori che conducevano una vita corrotta e profetizzavano per denaro. Così accadde, per esempio, che il Signore avesse detto a Geremia di indossare un giogo di legno mentre diceva al popolo di Giuda di sottomettersi al giogo di Babilonia. Anania, uno dei profeti del re, affrontò Geremia nel tempio, annunciando che Dio avrebbe rimosso «il giogo del re di Babilonia» e che entro due anni le suppellettili del tempio portate via da Nabucodonosor sarebbero tornate in Gerusalemme. Geremia disse semplicemente: «Così sia! Così
faccia il Signore!» (Ger 28,2;6). Ma quando espresse i suoi dubbi, Anania gli strappò il giogo dalle spalle e lo spezzò per dimostrare il suo disprezzo per i timori dell’avversario e la certezza della sua previsione. Qualche tempo dopo, Dio diede a Geremia un nuovo messaggio per Anania: «Tu hai otto un giogo di legno, ma io, al suo posto, ne farò uno di ferro. [...] Io porrò un giogo di ferro sul collo di tutte queste nazioni perché siano soggette a Nabucodonosor» (Ger 28,13-14).
Nonostante gli ammonimenti di Geremia, Sedecia sfidò i Babilonesi, rifiutando di pagare il tributo. Nabucodonosor rispose conquistando per la seconda volta Gerusalemme nel 586 a.C. Dopo aver ucciso i figli di Sedecia sotto i suoi occhi, i vincitori accecarono il re e lo deportarono in catene, assieme alla maggior parte degli artigiani e delle persone benestanti della città, nella lontana Mesopotamia.
In un momento in cui l’assedio di Gerusalemme venne interrotto per l’intervento degli Egiziani contro i Babilonesi, Geremia fu preso mentre cercava di raggiungere Anatot per questioni personali e messo in prigione. Più tardi il re gli permise di stare nell’atrio della prigione. Sempre durante gli ultimi giorni del regno di Giuda, il profeta fu gettato in una cisterna abbandonata perché aveva consigliato di arrendersi, ma fu salvato da una morte quasi certa da un etiope di nome Ebed-Melech.
Dopo la caduta di Gerusalemme e la deportazione a Babilonia della maggior parte dei suoi abitanti, Geremia andò verso nord, a Mizpa, una città distante alcuni chilometri dalla capitale, dove Nabucodonosor aveva insediato Godolia come governatore fantoccio, perché si occupasse di quel che restava di Giuda. Ma quando Godolia venne assassinato, alcuni tra i Giudei rimasti proposero di fuggire in Egitto per evitare la rappresaglia di Babilonia. Parlando in nome di Dio, Geremia consigliò loro di rimanere: «Se continuate ad abitare in questa regione, vi renderò stabili e non vi [...] sradicherò, perché ho pietà del male che vi ho arrecato» (Ger 42,10). I ribelli non solo disobbedirono a Geremia, partendo per l’Egitto, ma portarono con sé anche Geremia e Baruc. In Egitto, Geremia dovette combattere il culto che i rifugiati rendevano alla dea Astarte e mise fine ai suoi oracoli predicendo che quel resto di Giuda sarebbe morto nella terra del volontario esilio. Di fatto, sia essi sia Geremia scomparvero presto dalle pagine della storia.
Poiché Geremia «compose un lamento su Giosia» che «tutti i cantori e le cantanti [...] ripetono ancora nei lamenti su Giosia» (2 Cr 35,25), il libro delle Lamentazioni è stato tradizionalmente attribuito a Geremia. Tuttavia i salmi delle Lamentazioni piangono la distruzione di Gerusalemme e non la morte del re, e per concetti e stile sono talmente diversi dagli oracoli di Geremia da far pensare a un altro autore o ad altri autori. La cosiddetta Lettera apocrifa di Geremia è un’invettiva contro l’idolatria basata sull’oracolo di Geremia che «gli dei che non hanno fatto il cielo e la terra scompariranno dalla terra e sotto il cielo» (Ger 10,11): forse fu scritta 300 anni dopo la morte del profeta.

Twelve Years Later – Remembering 9/11

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L’ OBBEDIENZA DELLA FEDE, NON È COSTRIZIONE, MA ABBANDONO TOTALE ALL’AMORE DI DIO – SU SAN PAOLO

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L’ OBBEDIENZA DELLA FEDE, NON È COSTRIZIONE, MA ABBANDONO TOTALE ALL’AMORE DI DIO – SU SAN PAOLO

L’apostolo Paolo eleva un inno,  una preghiera di benedizione a Dio, (Ef. 1,3-14) Padre del Signore nostro Gesù Cristo, questa preghiera ci accompagni a vivere l’anno della fede e la nostra vocazione di consacrati. Tema di questo inno di lode è il progetto di Dio nei  confronti dell’uomo, presentato con termini pieni di gioia, di stupore e di ringraziamento, come un “disegno di benevolenza, di misericordia e di amore.
Domandiamoci perché Paolo innalza a Dio, dal profondo del suo cuore, questa benedizione. Certamente l’apostolo guarda all’agire di Dio nella storia della salvezza, manifestato nell’incarnazione del Figlio, sua morte e risurrezione, e guarda come il Padre ci abbia scelti prima ancora della creazione del mondo, per divenire suoi figli, nel Figlio
Unigenito.
      Rm 8,14 – Nella mente di Dio noi esistiamo fin dall’eternità, in quel grande progetto custodito        da Dio nel suo cuore e che ha deciso di attuare e manifestare, come è scritto: “nella pienezza dei tempi” – Ef 1,10 – Con l’aiuto di Paolo scopriamo come l’uomo e la donna non sono frutto del caso, ma seguono un disegno di grazia della ragione di Dio che con la potenza creatrice e redentrice della sua Parola si manifesta nella creazione del mondo. Questa affermazione ci dice che siamo scelti da Dio, ancora prima della creazione del mondo, nel Figlio, e non che la nostra vocazione non è semplicemente esistere, o essere inseriti in una storia, e neppure soltanto essere creature di Dio. Noi quindi esistiamo già nel pensiero di Dio, o meglio nel suo cuore, perché già ci contempla in
Cristo, come figli adottivi.
Questa benevolenza di Dio, che Paolo qualifica come – disegno d’amore – Ef 1,5 – è detto – il mistero della volontà divina, prima nascosto e ora manifestato nell’opera di Cristo. Questo è un dono del suo amore, infatti l’iniziativa di Dio precede ogni nostra risposta. Ma
domandiamoci perché tutto questo, quale il centro della volontà di Dio? San Paolo ci suggerisce: ricondurre a Cristo, unico capo, tutte le cose. Qui si rivela il suo progetto di amore verso l’intera umanità, tanto che sant’Ireneo di Lione annuncia come nucleo della sua cristologia: – ricapitolare tutta la realtà in Cristo -.questo vuol dire che Cristo si leva come centro dell’intero cammino del mondo, che attira a Sé l’intera realtà, per superare la dispersione e condurre tutto alla pienezza voluta dal Padre – Ef 1,23. – Questo progetto non è rimasto nel segreto, ma lo ha fatto conoscere mettendosi in relazione con l’uomo, al quale ha rivelato Se stesso. Non ha semplicemente comunicato alcune verità, ma si è comunicato a noi, facendosi uno di noi, incarnandosi. Così tramite Cristo gli uomini
hanno accesso al Padre diventando partecipi della divina natura. Dio si comunica, non dice solo qualcosa, ci attira a Se, così che anche noi siamo coinvolti in essa, cioè divinizzati. Attraverso il suo disegno d’amore Dio entra in relazione con l’uomo, fino al punto di farsi uomo.
Il Dio invisibile ora parla agli uomini come ad amici e vive tra essi per invitarli e ammetterli ad una piena comunione con Sé. L’uomo con le sue capacità e intelligenza non sarebbe mai riuscito a raggiungere questa rivelazione così grande dell’amore di Dio. E’ Lui che ha
guidato l’uomo nell’abisso del suo amore abbassandosi verso di lui.
Queste cose le ha preparate Dio per coloro che lo amano, non potevano entrare nel cuore dell’uomo.
E’ attraverso lo Spirito, che conosce ogni cosa, anche le profondità di Dio, che Dio si è manifestato a noi. Pertanto siamo invitati a gustare tutta la bellezza di – questo disegno di benevolenza – rivelato in Cristo dal Padre. Cosa ci manca? Siamo diventati immortali, liberi, figli, giusti, fratelli, coeredi e con Cristo regniamo e siamo glorificati.
Tutto attraverso lui ci è stato donato. Questa comunione in Cristo per opera dello Spirito, offerta da Dio a tutti gli uomini con la luce della Rivelazione , non si sovrappone alla nostra umanità, ma è il compimento delle aspirazioni più profonde, del desiderio d’infinito e di pienezza che alberga nell’intimo dell’essere umano, tanto che lo apre ad una felicità eterna, e non momentanea o limitata.
San Bonaventura, parlando di Dio che si rivela  e ci parla attraverso le Scritture per attirarci a Sé, afferma: – La Scrittura è il libro nel quale sono scritte parole di vita eterna perché, non solo crediamo, ma anche possediamo la vita eterna, in cui vedremo, ameremo e saranno realizzati tutti i nostri desideri – . il beato Giovanni Paolo II, ricordava che – la Rivelazione immette nella storia un punto di riferimento da cui l’uomo non può tralasciare, se vuole arrivare a comprendere il mistero della sua esistenza, però questa conoscenza rinvia costantemente al mistero di Dio, che la mente non può esaurire, ma solo accogliere nella fede -. Cosa è dunque l’atto di fede?
E’ certamente la risposta dell’uomo alla Rivelazione di Dio, che si fa conoscere, che manifesta il suo progetto di benevolenza; è lasciarsi afferrare dalla Verità che è Dio, una Verità che è Amore. San Paolo ci suggerisce che a Dio che ha rivelato il suo mistero, si debba “l’Obbedienza della Fede”. E’ questo l’atteggiamento con il quale – l’uomo liberamente si abbandona tutto a Lui, prestando la piena adesione dell’intelletto e della volontà a Dio che rivela e assentendo volontariamente la Rivelazione che egli dà – . Obbedienza non è dunque un atto di costrizione, è un lasciarsi, un abbandonarsi alla bontà di Dio. Questa obbedienza chiede un nuovo modo di rapportarsi con la realtà; si tratta di una vera – conversione – fede è un cambiamento di mentalità, perché Dio che si è rivelato in Cristo e ha fatto conoscere il suo amore, ci afferra e ci attira a Sé, è il nuovo senso che sostiene la nostra vita, la roccia su cui essa deve trovare stabilità.
Si legge nel profeta Isaia, mandato al re Acaz, – Se non crederete, cioè se no sarete fedeli a Dio – non resterete saldi – Is 7,9b . C’è qui un legame tra lo stare e il comprendere, che esprime come la fede sia un accogliere nella vita la visione di Dio sulla realtà, lasciare
che sia Dio a guidarci con la Parola e i Sacramenti nel capire che cosa dobbiamo fare, qual è il cammino che dobbiamo percorrere, come vivere. Sappiamo che il solo comprendere secondo Dio, il vedere con i suoi occhi rende salda la vita, e ci permette di – stare in piedi -.
Cioè di non cadere.

LA TEMPESTA, IL VENTO, LO SPIRITO (PAOLO, IL VIAGGIO A MALTA)

http://www.incontripioparisi.it/lectiodivina/2003-04_Atti_degli_Apostoli/La_tempesta_il_vento_lo_spirito.html

(ho un calendarietto giornaliero, ci sono brevi citazioni dalla Bibbia per ogni giorno, oggi c’era un breve passagio sul nafragio di Paolo a Malta, ho preso la Bibbia ed ho letto il capitolo 27, così ho cercato qualcosa per riproporlo anche a voi)

LA TEMPESTA, IL VENTO, LO SPIRITO (PAOLO, IL VIAGGIO A MALTA)

Di Pino Stancari

nella miseria del mondo

Paolo, nella sua esperienza di carcerazione e di solitudine, scopre di essere sempre più disponibile ad accogliere la realtà degli uomini, la miseria del mondo, la storia con tutte le sue complessità e con tutte le sue contraddizioni. Il mistero della misericordia di Dio trova in Paolo una interlocutore sempre più docile, sempre più paziente, sempre più disponibile ad accogliere e ad offrire da parte sua quello che in totale gratuità gli viene donato.
Paolo adesso è proprio lui ad essere abitato da quel mistero. E’ proprio lui che, indipendentemente da qualunque intenzione, da qualunque moralismo, da qualunque proposito di ordine pastorale, si configura come un sacramento vivente di quel mistero che si è rivelato a noi, nella incarnazione del Figlio, nella sua Pasqua di morte e resurrezione. Ecco, con potenza di Spirito Santo c’è un cristiano in mezzo a noi, un uomo con il cuore aperto per tutte le creature, comunque siano situate – in ambienti inquinati e addirittura inabitabili sulla scena del mondo-  un cuore umano che si apre esprimendo una imprevedibile capacità di accoglienza, di benedizione, di misericordia, una disponibilità a comprendere sempre  e ad interpretare tutto in una prospettiva di amore vero e gratuito.
La situazione del nostro personaggio tende a raccogliersi in un contesto sempre più nascosto, sempre più meschino, sempre più periferico. E d’altra parte noi abbiamo constatato come per l’evangelista Luca, Paolo, in questo suo carcere a Cesarea, è un cristiano che è in grado, e non per una sua particolare virtù acquisita in base a qualche esercizio ascetico, ma proprio per come è coinvolto nel mistero di Dio e nel mistero del Signore Gesù, di accogliere il mondo, accogliere la storia degli uomini, è in grado di intrattenere ogni relazione con le creature di Dio nel tempo e nello spazio, in una dimensione di vero amore, un povero amore. D’altra parte, l’amore vero è sempre povero, non può essere vero l’amore se non è povero e nella povertà del nostro Paolo un amore sempre più autentico e aperto e libero e gratuito e universale. Gli casca nel cuore il mondo, sempre più sprofondato il nostro Paolo in quella zona oscura che lì per lì sembra dimostrare il suo fallimento irreparabile. In quel suo sprofondamento in fondo ad un abisso Paolo scopre che gli entra nel cuore, gli cade nel cuore, gli si incide nel cuore la realtà del mondo intero. A lui tutto è affidato in una gratuita responsabilità d’amore. 

l’inizio del viaggio verso Roma

Cap. 27 Il viaggio di Paolo da Cesarea a Roma. Questo racconto ci presenta una teologia della vita cristiana.
Paolo si è appellato al tribunale di Cesare, il procuratore romano ha dovuto accettare questa richiesta, anche se si è mostrato molto imbarazzato per non avere in mano una documentazione che dia motivo sufficiente a questo invio presso il tribunale di Cesare di un imputato che addirittura dovrebbe essere condannato a morte, stando alla richiesta dell’accusa. Non si riesce a determinare il contenuto di una imputazione convincente. In ogni caso Paolo deve essere rinviato. Anzi, in questo modo il procuratore romano pensa di eliminare un fastidio con il quale non vuole più fare i conti.
Fino la v. 8 sembra che tutto si svolga secondo un programma logico, coerente, lineare. Nei vv. 9-12 cominciamo a percepire alcuni segni di incertezza che pregiudicano lo svolgimento del viaggio.
« Quando fu deciso che ci imbarcassimo per l’Italia ». Ritorna il pronome di prima persona plurale: noi. Lo abbiamo incontrato già precedentemente e ci siamo resi conto che quando Luca usa la prima persona plurale vuole conferire un particolare rilievo agli eventi che ci stanno narrando; sono momenti che dal suo punto di vista meritano una piena e generale partecipazione, nel senso di un coinvolgimento intenso, affettuoso, di coloro che come noi sono lettori del testo. Noi: si intende che c’è anche Luca tra coloro che adesso si imbarcano; accanto a Paolo c’è anche lui, e, se c’è lui, ci siamo anche noi. Noi, nel senso di  lettori, siamo coinvolti personalmente in questa avventura di Paolo che ricapitola tutto il lungo viaggio.
« Quando fu deciso che ci imbarcassimo per l’Italia, consegnarono Paolo, insieme ad alcuni altri prigionieri, a un centurione di nome Giulio della coorte Augusta ».
La partenza viene decisa da qualcun altro, Paolo non decide, non ha voce in capitolo, obbedisce alle autorità che fanno di lui secondo quanto è di loro gradimento. Paolo è imbarcato. C’è di mezzo un centurione, di nome Giulio.
« Salimmo su una nave di Adramitto, che stava per partire verso i porti della provincia d’Asia e salpammo, avendo con noi Aristarco, un Macèdone di Tessalonica ».
Di lui si è già parlato precedentemente, dunque sarebbe anche lui presente su quella nave, almeno per un tratto del viaggio. « Il giorno dopo facemmo scalo a Sidone e Giulio, con gesto cortese verso Paolo, gli permise di recarsi dagli amici e di riceverne le cure ». Giulio è un uomo buono (philantropos, in greco). E’ interessante vedete come ci sono altri prigionieri accanto a Paolo, ci sono anche alcuni più vicini a lui per altri motivi, Aristarco, forse Luca, ci siamo noi. Il viaggio, comunque, consente contatti che precedentemente erano impediti. Luca sa bene che Paolo nel suo carcere, per quanto abbia potuto muoversi, studiare, pregare, avere contatti con gli altri all’interno di quell’ambiente così ristretto, non ha avuto contatti con l’esterno. Magari avesse avuto contatti con l’esterno! Il procuratore romano si aspettava che qualcuno intervenisse per versare somme di denaro che egli avrebbe gradito non poco. Non è avvenuto questo. Ora Paolo è in viaggio e molti contatti sono resi possibili. Il nostro Luca segnala momenti di solidarietà, di immediata simpatia, attorno a Paolo: c’è gente buona, persone brave. Il centurione è un uomo sorridente che permette  a Paolo di recarsi dagli amici e di riceverne le cure. A Sidone c’è una comunità dei discepoli del Signore e Paolo può sbarcare, può sostare per qualche tempo, il tempo della sosta prevista, perché la nave è una nave che scarica e carica merci. Paolo può godere  delle cure che quegli amici gli riservano. Il nostro Luca segnala questi momenti di sollievo dopo l’esperienza del carcere.  Paolo è particolarmente gratificato per queste testimonianze di disponibilità positiva nei suoi confronti, di affettuosa comprensione, di servizievole devozione da parte di quelli che incontra. Le cose stanno così perché questi sono i fatti, ma stanno così,  perché dopo l’esperienza del carcere, Paolo è più che mai predisposto a cogliere quei segnali. Se ne accorge. Paolo è lui predisposto, motivato interiormente ad intrattenere relazioni, ad aprire il dialogo, a riscontare un gesto cortese nel centurione, o a godere delle cure benevole con cui gli amici di Sidone si occupano di lui. Sono dei fatti, ma c’è una novità che è oramai una dimensione intrinseca del nostro personaggio, una sua sapienza interiore che gli consente di gustare con cuore aperto tutte le situazioni e i segnali di una positività gratuita.

i venti

Fatto sta che di nuovo:
« Salpati di là, navigammo al riparo di Cipro a motivo dei venti contrari e, attraversato il mare della Cilicia e della Panfilia, giungemmo a Mira di Licia. Qui il centurione trovò una nave di Alessandria in partenza per l’Italia e ci fece salire a bordo. Navigammo lentamente parecchi giorni, giungendo a fatica all’altezza di Cnido..  il vento non ci permetteva di approdare, prendemmo a navigare al riparo di Creta, dalle parti di Salmone, e costeggiandola a fatica giungemmo in una località chiamata Buoni Porti, vicino alla quale era la città di Lasèa ».
Per due volte è comparso il termine animos (vento). Ci sono venti contrari, soffiano in modo tale da determinare una certa deviazione nella rotta, un certo deviamento che esige ai naviganti, per quelle che sono le tecniche dell’epoca, di ricorrere a tutti gli accorgimenti necessari per poter ancora procedere. Tutto è possibile per arrivare finalmente ad un porto che consenta di svernare. Ci sono venti contrari che impongono misure nuove al programma. Siamo all’inizio del viaggio e già la situazione si sta inquadrando. C’è un programma, ma i venti soffiano in modo tale da imporre delle soluzioni alternative. Basta questa immagine perché noi troviamo modo di re-inquadrare tutto il percorso che Paolo ha compiuto lui, in prima persona, con il suo vissuto di cristiano, con la sua esperienza di evangelizzatore,  lungo tutto quel cammino di conversione che ha consentito anche a noi di accompagnarlo. Adesso siamo insieme sulla stessa nave.
Un particolare. Negli Atti per l’ultima volta è stato usato il termine pneuma, (spirito, soffio) nel cap. 21, esattamente vv. 4 e 11, in cui si descrive la situazione nella quale intervenivano gli amici che volevano intrattenere Paolo, deciso a salire a Gerusalemme. Poi Paolo è salito a Gerusalemme, qui è stato arrestato e così via.  Dal cap. 21 in poi non succede niente. Tutto negli Atti è determinato da quella effusione di Spirito Santo che, promessa dal Signore risorto e asceso al cielo, poi si è manifestata in quella pienezza traboccante di cui Luca ci ha dato notizia nel racconto della Pentecoste. Tutto procede negli Atti in continuità con quella spinta, in obbedienza a quella corrente così energica e risoluta che oramai pervade la scena del mondo, che irrompe e raccoglie lo svolgimento della storia umana in ralazione all’evento che si è compiuto una volta per tutte: la pasqua del Figlio di Dio, morto e risorto.
Dal cap. 21 in poi non compare il termine spirito.

il mare e la nave
Dunque venti contrari e adesso noi ci accorgiamo che questo irrompere del vento diviene sempre più vorticoso, travolgente. Il mare viene spazzato dal vento, ci troveremo tra non molto in piena tempesta. Il mare è un’immagine che ricapitola la realtà della storia umana e sulla superficie del mare galleggia una nave. Anche questa è una immagine, è un pezzo di mondo, è il mondo, è l’umanità che procede nel suo viaggio, è la storia umana che espone questa realtà tutto sommato così fragile, anche se così geniale. Una nave in grado di affrontare un viaggio con  prospettive  grandiose: la traversata del mare, contatti, commerci, le tecnologie necessarie per costruire quella nave, per governarla, per renderla strumento valido al servizio di un complesso di contatti, di incontri, di scambi che raccolgono la partecipazione dell’umanità intera. La nave è l’umanità che affronta il grande viaggio. Venti. Venti che soffiano fuori programma, che soffiano contro il programma. E soffiano esprimendo il massimo delle contraddizioni. Adesso verremo a sapere che all’improvviso tutti i venti irrompono provocando uno sconvolgimento tale per cui la scena non è più oggetto di un discernimento sereno, coerente, costruttivo. La stessa nave diventa una espressione di quanto sia assurda la storia degli uomini abbandonata a se stessa. E li è Paolo. Non è più comparso il termine pneuma. Adesso siamo alle prese con una vicenda esemplare che conduce Paolo a ritrovarsi nell’occhio del ciclone, che è la storia degli uomini, là dove il vento soffia. Paolo è condotto, in obbedienza a un disegno provvidenziale da lui non programmato, nell’occhio di quel ciclone che fa di lui un uomo finalmente, pienamente carismatico, l’uomo che è in grado di discernere con piena e matura intelligenza interiore l’opera dello Spirito di Dio. La scena è il mondo e  i contenuti di questa opera che lo Spirito di Dio sta realizzando nella gratuità della sua iniziativa, sono gli abitanti della nave, gli uomini, la storia umana. Là dove l’iniziativa umana è così tragicamente sconvolta, in questa evidenza epifania di cui Paolo sta contemplando il mistero, rivelazione della iniziativa di Dio, i venti soffiano.

leggendo il libro di Giona
vv. 9-12. La  situazione comincia a diventare più preoccupante. « Essendo trascorso molto tempo ed essendo ormai pericolosa la navigazione poiché era gia passata la festa dell’Espiazione ».
Il Kippur, una festa autunnale, siamo in ottobre-novembre, siamo sulla soglia dell’inverno, è già inverno. Non è più consigliabile navigare. E’ vero che l’equilibrio climatico po’ variare da un anno a quell’altro, quindi bisogna intendersi di queste cose e scegliere con competenza.
« Paolo li ammoniva dicendo: Vedo, o uomini, che la navigazione comincia a essere di gran rischio e di molto danno non solo per il carico e per la nave, ma anche per le nostre vite ».
Questo è l’oggetto della preoccupazione di Paolo: le nostre vite. Nostre, dal momento che siamo insieme sulla stessa nave, perché questa è un’unica storia, è l’unica storia umana, e siamo tutti insieme e su quella nave ci sono tutti: marinai, commercianti, soldati, centurione, Paolo, forse con lui c’è qualcuno dei suoi, o forse è solo, gli altri sono rimasti indietro. E’ un’unica storia e  la vita di tutti è proprio questa nave, il campione rappresentativo dell’umanità intera. Non è un fatto nuovo nella rivelazione. Ci sono altri testi dell’AT che possiamo senz’altro interpretare alla luce di questa stessa immagine simbolica. Tanto per ricordarne uno il libro di Giona profeta e il viaggio di Giona su quella nave che si trova nella tempesta e che non può procedere nel suo viaggio, fino a quando Giona, proprio lui, scenderà dalla nave.
E’ come se lo stesso Paolo stesse leggendo il libro di Giona, stesse facendo la sua lettura spirituale, stesse facendo la sua  lettura biblica, quotidiana: mentre affronta il viaggio in nave, sta leggendo la storia di Giona profeta, che è la sua storia. Qui c’è il rischio che siano compromesse le nostre vite. E’ in questione la vita degli uomini, è in questione il senso complessivo e universale della storia umana. E per Paolo non c’è dubbio: il senso della storia umana si illumina in una prospettiva di salvezza. In questa prospettiva  bisogna assumersi delle responsabilità, bisogna esercitare esercitare le proprie competenze, per la salvezza, in obbedienza a questo disegno. Paolo non ha alcun dubbio: è meglio non procedere nel viaggio perché si pregiudicherebbe la salvezza delle nostre vite. Fatto sta che invece, quelli che hanno potere di decidere in un caso come questo, stabiliscono un comportamento ben diverso.

la tempesta
« Il centurione però dava più ascolto al pilota e al capitano della nave che alle parole di Paolo. E poiché quel porto era poco adatto a trascorrervi l’inverno, i più furono del parere di salpare di là nella speranza di andare a svernare a Fenice, un porto di Creta esposto a libeccio e a maestrale ». A sud-ovest, a riparo dai venti freddi, in un porto più accogliente. Compaiono i nomi dei venti: libeccio, maestrale. Nei vv. 13-26  siamo nel pieno della tempesta.
« Appena cominciò a soffiare un leggero scirocco convinti di potere ormai realizzare il progetto, levarono le ancore e costeggiavano da vicino Creta »
Un vento meridionale discreto e gradevole, che consente dunque di muoversi lungo la costa sud di Creta, senza temere l’irruenza dei venti invernali, venti che vengono da nord. « Ma dopo non molto tempo si scatenò contro l’isola un vento d’uragano, detto allora Euroaquilone ». E’ la bora, è la tramontana, è vento da nord-est. Non c’è niente da fare, il vento vince l’iniziativa gestita con tanta meticolosa puntualità, energia, attenzione, lucidità da coloro che hanno armato la nave, l’hanno costruita, la sanno condurre, la sanno utilizzare.  Il vento vince, un vento d’uragano detto allora Euroaquilone. « La nave fu travolta nel turbine e, non potendo più resistere al vento, abbandonati in sua balìa, andavamo alla deriva ». Siamo in piena tempesta, c’è il vento e poi le correnti, le onde, i flutti, i marosi. Non c’è niente da fare, non è più possibile controllare la nave, governarla, in nessun modo. Questa è la storia umana: dove va? L’iniziativa umana dove conduce il bastimento? Dove stiamo andando a finire? Appunto, è la fine, è il naufragio. Quale situazione si prospetta? Paolo ha detto fin dall’inizio che il senso di questa storia nostra è dato da una prospettiva di salvezza. Ma qui siamo alle prese con una situazione che incombe sempre più drammaticamente come premonizione di una tragedia irreparabile: il vento vince.
« Mentre passavamo sotto un isolotto chiamato Càudas, a fatica riuscimmo a padroneggiare la scialuppa; la tirarono a bordo e adoperarono gli attrezzi per fasciare di gòmene la nave. Quindi, per timore di finire incagliati nelle Sirti.. calarono il galleggiante e si andava così alla deriva ».
Il galleggiante è una specie di freno che dovrebbe consentire alla nave di sostenere  l’impatto con le onde, in ogni caso la nave non è più governabile.
« Sbattuti violentemente dalla tempesta, il giorno seguente cominciarono a gettare a mare il carico ».
E’ il motivo per cui la nave è stata messa in grado di compiere il viaggio: per trasportare quel carico. Adesso il carico è abbandonato appunto perché si riduce all’essenziale: la sopravvivenza di coloro che sono raccolti, raggomitolati, rannicchiati su quella nove che orami è trascinata dal vento nel vortice di una tempesta indomabile.
« Il terzo giorno con le proprie mani buttarono via l’attrezzatura della nave ». Non solo il carico, ma anche l’attrezzatura. « Da vari giorni non comparivano più né sole, né stelle e la violenta tempesta continuava a infuriare, per cui ogni speranza di salvarci sembrava ormai perduta ». C’è una disperazione circa la salvezza, salvezza nel senso del viaggio e nel senso della storia umana. Paolo fin dall’inizio aveva detto la sua: guardate che qui è in questione la salvezza delle nostre vite; la vita umana è il senso della storia degli uomini. Non salvezza come obiettivo privilegiato riservato ad alcuni, ma  il senso della storia umana, la storia di tutti, di tutti quelli che sono su quella nave, che è lo stesso bastimento in cui tutti sono coinvolti nella medesima vicenda. E li c’è Paolo! Paolo evangelizzatore, poi carcerato,  adesso si trova coinvolto in questa vicenda sconcertante. Al di là di ogni programma, si rende conto di essere inserito nella storia degli uomini al punto di condividere la medesima tragedia e la medesima sorte. Intanto il cielo è oscurato. Da vari giorni non comparivano più né sole né stelle. Siamo al buio. Nei vv. 21-26, nel contesto di quella tempesta, là dove il vento è vincitore. Il vento. Si riparla di un soffio, di un fiato, di un sospiro, di una potenza che irrompe nella storia degli uomini. L’immagine è diventata una esperienza empirica: la superficie del mare è sconvolta dal vento. Se ne riparla dopo che per un pezzo  avevamo perso la memoria dello Spirito di Dio. Ma dove è andato a finire lo Spirito?

lo Spirito che travolge e trascina
Lo Spirito di Dio soffia, irrompe, invade, trascina, travolge. La storia degli uomini nella tempesta precipita verso una fine disgraziata. Gli uomini, spaventati e disperati come sono, riescono soltanto a immaginare come tutto si concluderà in un naufragio infernale. C’è Paolo su quella nave e Paolo è in grado di interpretare il senso di quello che sta avvenendo. Paolo è profeta, evangelizzatore, non tanto perché elabora un certo messaggio e poi lo propone. Non soltanto questo. Paolo evangelizzatore si esprime con quel linguaggio profetico che nella maniera più immediata e diretta testimonia da parte sua qual è la interpretazione da dare a quella scena, a quel disegno, a quel complesso di eventi nel quale la nave è travolta. Là dove il vento soffia è l’opera di Dio che si compie, e l’opera di Dio si compie mentre così potentemente squalificata è l’iniziativa umana. In questo sconquasso generale niente resta più come prima, ma una novità che è in tutto  e per tutto affidata all’iniziativa di Dio si sta manifestando. Di questo nessuno può parlare, a riguardo di queste cose nessuno può rendere testimonianza, se non Paolo.
« Da molto tempo non si mangiava, quando Paolo, alzatosi in mezzo a loro, disse »
Il fatto che non si mangi conferma lo stato di disperazione generale, sono tutti diventati anoressici e non c’è più il gusto del cibo, non c’è più un’istanza che  motivi dall’interno la speranza di vivere. Paolo interviene e dice: « Sarebbe stato bene, o uomini, dar retta a me e non salpare da Creta.. avreste evitato questo pericolo e questo danno. Tuttavia ora vi esorto a non perdervi di coraggio, perché non ci sarà alcuna perdita di vite in mezzo a voi, ma solo della nave ».
Paolo insiste, e questa  terminologia che già abbiamo riscontrato precedentemente, adesso viene ripresa quasi come un ritornello: non ci sarà alcuna perdita di vite in mezzo a voi, questa non è una storia per la perdizione, ma per la salvezza. Questa è storia di salvezza, proclama Paolo, intanto siamo in mezzo alla tempesta, i venti turbinano, la nave è derelitta come un guscio di noce esposto ai moti ondosi più incontrollabili. Questa è una storia di salvezza, dice Paolo. E spiega: non ci sarà perdita di vite ma solo della nave. Niente resta più come prima, è veramente un mondo quello che si prospetta. La nave si sta consumando,  sbriciolando, è vero, ma tutto questo non in una prospettiva di  perdizione per la vita degli uomini, ma di una salvezza per la vita umana, attorno alla quale è un mondo nuovo che si sta delineando. E’ una nuova creazione.
Non è la prima volta che si parla del mare nella rivelazione divina. E’ come se questa esperienza del viaggio con la tempesta e con il naufragio, acquistasse  nel racconto degli Atti degli apostoli, il significato del grande battesimo di Paolo, battesimo che in realtà è già avvenuto per lui fin dall’inizio della sua vita cristiana, ma è un battesimo che adesso lo riguarda nell’esercizio dell’evangelizzazione, nel momento in cui è coinvolto nell’unico disegno che coinvolge la sorte dell’umanità intera. Stiamo andando a fondo, stiamo facendo naufragio, stiamo morendo perché è l’opera di Dio che si compie. L’opera di Dio non è per lasciare alla morte l’ultima parola. E’ l’iniziativa umana che giunge a questo termine, ma l’opera di Dio si compie in modo tale da instaurare una novità che apre prospettive di vita oltre la morte. Questo vale per ogni singola creatura che oramai è battezzata in Cristo morto e risorto. Questo riguarda il senso della storia umana, il senso della grande tempesta. Il naufragio, cui non si sfugge, è il battesimo. « Mi è apparso infatti questa notte un angelo del Dio al quale appartengo e che servo, dicendomi: Non temere, Paolo; tu devi comparire davanti a Cesare ed ecco, Dio ti ha fatto grazia di tutti i tuoi compagni di navigazione ».

bisogna che
Siccome ci sei tu che devi andare fino a Roma, tutti gli altri verranno con te. C’è una necessità: « bisogna che ». Questo è un verbo usato a più riprese dal nostro evangelista Luca, « è necessario che »… questo è un disegno provvidenziale.  Paolo deve arrivare a Roma: non c’è una prospettiva per te, non c’è una sorte per te, un disegno per te, una vocazione per te, che non sia la storia dell’umanità intera. E così come nel tuo battesimo, Paolo, tu sei condotto lungo un cammino di conversione per morire e risorgere in comunione con il Signore vivente, bene, vedi che questo è il senso della storia umana. Paolo sta realizzando in pienezza il suo ministero di evangelizzatore nel momento in cui, di per sé, sta condividendo il viaggio degli uomini che sono alle prese con una tempesta indomabile su quella stessa nave. Perciò dice Paolo: « Perciò non perdetevi di coraggio, uomini; ho fiducia in Dio che avverrà come mi è stato annunziato. E’ inevitabile che andiamo a finire su qualche isola ». C’è una necessità, anche qui ritorna in greco quello stesso verbo: « è necessario che »… C’è una necessità per me, c’è una necessità per voi, un’unica necessità, un unico disegno di salvezza universale.
Nei vv. 27-44, il naufragio. Il testo si suddivide in tre quadri. Primo quadro, vv. 27-32: la notte. Secondo quadro, vv. 33-38, l’alba. Terzo quadro, vv. 39-44, il giorno. E’ una sequenza che ci rimanda immediatamente alle misure della Pasqua. Anche noi celebriamo il grande, unico evento in cui tutto si ricapitola, nel passaggio dalle notte fonda all’alba e al giorno.

la quattordicesima notte
 Primo quadro, notte. « Come giunse la quattordicesima notte ».. Due settimane per dire che è sempre notte, è una notte permanente, una notte senza luna, è una totale immersione nei flutti della storia umana, sotto una cappa oscura che impedisce di contemplare orizzonti che siano nuovi e aperti rispetto a quell’angolo ristretto e oscuro nel quale ci si sta seppellendo.
« Come giunse la quattordicesima notte da quando andavamo alla deriva nell’Adriatico, verso mezzanotte i marinai ebbero l’impressione che una qualche terra si avvicinava. Gettato lo scandaglio, trovarono venti braccia; dopo un breve intervallo, scandagliando di nuovo, trovarono quindici braccia. Nel timore di finire contro gli scogli, gettarono da poppa quattro ancore, aspettando con ansia che spuntasse il giorno. Ma poiché i marinai cercavano di fuggire dalla nave e già stavano calando la scialuppa in mare, col pretesto di gettare le ancore da prora, Paolo disse al centurione e ai soldati: Se costoro non rimangono sulla nave, voi non potrete mettervi in salvo ».
Questa è la preoccupazione di Paolo: la salvezza di tutti su quella nave. I marinai non possono trovare una soluzione loro, privata, usando gli strumenti a loro disposizione, una scialuppa. « Allora i soldati recisero le gòmene della scialuppa e la lasciarono cadere in mare ». La sorte è comune, nel buio della notte, nella condivisione della paura che è già un modo di realizzare un drammatico, ma intenso evento di comunione su quella nave.

l’alba .. e spezzò il pane
Secondo quadro, l’alba. « Finché non spuntò il giorno, Paolo esortava tutti a prendere cibo ». All’alba Paolo incoraggia tutti a prendere cibo. Attenzione a questo « oggi »:  questo è un avverbio di tempo molto caro a Luca. « Oggi » è nato per voi (Lc 2,11), « oggi » queste parole si compiono (Lc 4,11), « oggi » io mi fermo a casa tua (Lc 19,5), « oggi » con me in paradiso (Lc 23,43). Qui è Paolo che dice « oggi », e questo « oggi » è l’alba che spunta, dopo quella notte; è all’interno di quella notte che sorge questo giorno nuovo che si chiama « oggi »: « Oggi è il quattordicesimo giorno che passate digiuni nell’attesa, senza prender nulla. Per questo vi esorto a prender cibo; è necessario per la vostra salvezza. Neanche un capello del vostro capo andrà perduto ». Un’affermazione che ricorre in Mt 10,30. Paolo incoraggia, in modo molto semplice e comprensibile. E’ gente affamata, allo sbando, disperata. Rifocillatevi. Ma guardate adesso il gesto che compie Paolo. « Ciò detto, prese il pane, rese grazie a Dio davanti a tutti, lo spezzò e cominciò a mangiare ». Paolo celebra l’eucarestia. Eucaristeo è un verbo molto forte, intenso, potente, teologicamente inconfondibile. E’ la grande preghiera di benedizione, è l’eucarestia. E’ la sua grande benedizione sul mondo. Il mondo più mondo di così non potrebbe essere per Paolo. E’ un mondo allo sbando, sull’orlo dell’abisso, esposto al naufragio, e di fatto il naufragio è in corso. Paolo celebra l’eucarestia sul mondo: spezzò, mangiò. Il gesto da lui compiuto, già diventa incoraggiamento per altri, che pure non sono in grado di interpretare il valore sacramentale dell’eucarestia celebrata da Paolo. « Tutti si sentirono rianimati, e anch’essi presero cibo ». Tutti vengono sollecitati dal gesto compiuto da Paolo, sono scossi nell’animo, percepiscono un impulso che li riconcilia con la speranza di una vita piena, di una vita nuova, vera. Presero cibo, di quello che avevano conservato. « Eravamo complessivamente sulla nave duecentosettantasei persone. Quando si furono rifocillati, alleggerirono la nave, gettando il frumento in mare ». Adesso non c’è più bisogno del cibo che avevano conservato, che tra l’altro avevano conservato rimanendo digiuni. Adesso hanno mangiato, perché Paolo all’alba, ha celebrato l’eucarestia, da solo, tutto solo, ma il gesto acquista una efficacia sacramentale che va al di là della comprensione a cui sono disponibili coloro che sono stati catechizzati, qualora su quella nave ci fossero già dei cristiani in grado di partecipare all’eucarestia. C’era lo stesso Luca? Ce lo chiedevamo fin dall’inizio. Paolo celebra l’eucarestia, è la grande preghiera di benedizione sul mondo, là dove oramai non c’è  più dubbio. Lo sconquasso che è determinato dal vortice dei venti è opera di Spirito Santo, perché in questo sconquasso generale tutto viene travolto perché tutto sia trasformato in comunione con la novità unica e definitiva: il corpo glorioso del Signore Gesù che è risorto dai morti. Oggi tutto si consuma, si disintegra, viene meno, perché oggi tutto si rinnova in Cristo.

l’approdo
Terzo quadro. Adesso è il giorno fatto. « Fattosi giorno non riuscivano a riconoscere quella terra ». Adesso si vede la terra, la nave è ancorata, « ma notarono un’insenatura con spiaggia » E’  un kolpos: Questo termine nel NT compare in alcuni momenti strategici. Per esempio è usato da Giovanni quando parla di quel discepolo amico che appoggia il capo sul seno del maestro durante l’ultima cena (Gv 13,23). C’è un seno, uno spazio interiore, che allude a un certo gioco che la veste portata da questi antichi consentiva di trasformare il drappeggio in una specie di tasca. E’ un kolpos, uno spazio interiore, un grembo. E anche questa terra che appare all’orizzonte ha un kolpos, ha una spiaggia, un’insenatura, un grembo che ti accoglie. Noi stiamo naufragando  e stiamo precipitando nel grembo di un mistero che ci chiama alla vita.
« Decisero, se possibile, di spingere la nave verso di essa. Levarono le ancore e le lasciarono andare in mare; al tempo stesso allentarono i legami dei timoni e spiegata al vento la vela maestra, mossero verso la spiaggia ».
Di nuovo il vento, questa volta è una brezza che li per li, dopo la grande tempesta sembra ancora di potere controllare, per cui mettono in funzione la vela maestra e muovono verso la spiaggia. « Ma incapparono in una secca e la nave vi si incagliò; mentre la prua arenata rimaneva immobile, la poppa minacciava di sfasciarsi sotto la violenza delle onde ».
Non c’è niente da fare, la nave non può arrivare fino a riva. « I soldati pensarono allora di uccidere i prigionieri, perché nessuno sfuggisse gettandosi a nuoto, ma il centurione, volendo salvare Paolo impedì loro di attuare questo progetto ».
Per salvare Paolo, perché la salvezza di Paolo è inseparabile dalla salvezza degli altri. La vita di Paolo è la vita degli uomini, è la vita di tutti, è il senso della storia umana, è un battesimo in corso. E l’evangelizzazione cui Paolo è consacrato oramai da tanto tempo, è orientata a illustrare la definitiva pregnanza sacramentale di questo unico e immenso battesimo che coinvolge la storia di tutti gli uomini e tutte le creature di questo mondo, perché tutto sia riconciliato in Cristo, perché tutto sia convertito e trasformato, perché tutto sia redento, perché tutto sia filtrato in comunione con la sua morte e resurrezione.
Adesso il centurione « diede ordine che si gettassero per primi quelli che sapevano nuotare e raggiunsero la terra; poi gli altri, chi su tavole, chi su altri rottami della nave. E così tutti poterono mettersi in salvo a terra ».

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IL SIGNORE TI BENEDICA (01.05.05) – LA BENEDIZIONE SACERDOTALE

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01/05/2005

IL SIGNORE TI BENEDICA (01.05.05)

Meditazione sulla “benedizione sacerdotale” (Nm 6,22-27), svolta nel corso del XII convegno di teologia della pace, Sacerdozio: una mediazione per la pace, Ferrara 10 aprile 2005.

PIETRO STEFANI

        «Il Signore aggiunse a Mosè: “Parla ad Aronne e ai suoi figli e dì loro: Voi benedirete così i figli d’Israele; direte loro:
Ti benedica il Signore
e ti  custodisca.
Il Signore faccia risplendere il suo volto per te
e ti faccia grazia.
Il Signore elevi il suo volto  su di te
e ponga su di te la pace.
Così porranno il mio nome sui figli d’Israele
e Io li benedirò». (Nm 6,22-27).

Quattro brevi pensieri.
1. L’azione sacerdotale non è un atto che ha valore in se stesso; non è dotata di alcun potere intrinseco: è obbedienza alla parola. Tutto inizia dall’ascolto prestato al comando di Dio che scende su Mosè e si dilata verso i sacerdoti: «Il Signore disse a Mosè: ‘Parla ad Aronne e ai suoi figli [i sacerdoti]…». Lo stesso vale per l’incipit del più sacerdotale tra tutti i libri biblici, il Levitico: «Il Signore chiamò Mosè dalla tenda del convegno e gli disse…» (Lv 1,1).
I figli di Aronne sono posti in mezzo tra la parola del Signore, giunta loro grazie a  Mosè, e i figli d’Israele. Il sacerdozio non ha significato senza ascolto obbediente e senza essere posto al servizio della comunità.
2. La mediazione sacerdotale è paragonabile al fermento catalitico: consente la reazione ma non ne fa parte in modo diretto, non è un protagonista in prima persona: «Così benedirete i figli d’Israele, dicendo loro: il Signore vi benedica e vi custodisca». La benedizione del sacerdote sta nel chiedere al Signore di benedire e custodire con impegno (si usa il verbo shamar, lo stesso adoperato per l’osservanza dei precetti)  il proprio popolo. Non c’è benedizione maggiore dell’obbligo di custodia assunto dal Signore nei confronti dei figli d’Israele. La benedizione sacerdotale è quella che chiama in causa in prima istanza il Signore: «Il Signore elevi il suo volto su di te e ponga su di te la pace. Porrete il mio nome sui figli d’Isarele e Io li benedirò». In ebraico la presenza del termine «io» (’ani) è  enfatica, qui dunque si vuole rimarcare volutamente l’azione di Dio. In questo senso i commenti rabbinici sono di una chiarità solare: «“E Io li benedirò”. Queste parole sono aggiunte perché i figli d’Israele non pensino che le loro benedizioni dipendano dai loro sacerdoti; allo stesso modo i sacerdoti non debbono dire “Siamo noi a benedire Israele”» (Sifre Numeri, Naso, par. 43).
3. La cornice della benedizione evoca una dimensione plurale. Inizia dicendo «Così benedirete i figli d’Israele» e si conchiude con la promessa divina «E Io li benedirò». Ci troviamo nell’ambito di una comunità. Nel mezzo però tutto si riferisce a un singolare di seconda persona: «Il Signore ti benedica e ti custodisca…». La benedizione sta nel fatto che il Signore ti riconosce come un soggetto davanti a lui e nel contempo come parte di una comunità. Dio non benedice nazioni, popoli, patrie o bandiere. Qui non lo fa neanche in relazione alla collettività d’Israele. Non si benedice però nemmeno l’individuo in quanto tale o il singolo. Si benedice il soggetto colto come parte di una comunità. Ben lo comprese Francesco d’Assisi quando, dopo aver trascritto la benedizione del libro dei Numeri, concluse con queste parole «il Signore benedica te, Frate Leone». In un documento autentico, inserita nel nome di Leone, si trova una tau vergata dal  pugno del santo. Lo spirito  di Francesco è esattamente quello biblico. Si benedice chi appartiene a un gruppo (Frate), ma ci si rivolge a lui come persona (Leone).
4. «Il Signore faccia risplendere il suo volto (ja’er) per te e  ti faccia grazia (wichunnekh)». Le due cose sono una: il far risplendere il volto (espressione non rara nella Scrittura, cfr. per es. Sal 31,167; 67,2; 80,4.8.20…) coincide con l’atto stesso di far grazia. Per comprenderlo appieno occorre guardare al suo opposto, vale a dire all’espressione che indica il nascondimento del volto (str panim)  di Dio. Essa nella Bibbia  è ancora più frequente (cfr. per es. Dt 31,17; 33,20; Is 8,17; 54,8; 59,2; 64,6; Ger 33,5; Ez 33,23; Gb 13,23-24). Il più delle volte indica un ritrarsi del Signore che lascia l’uomo in preda al suo peccato; in tali circostanze egli è temporaneamente escluso dalla grazia di Dio. Al contrario, quando il volto di Dio risplende su di te significa che il tuo peccato ti è stato cancellato. Questo atto di misericordia ti riconsegna a essere pienamente un soggetto benedetto davanti a Dio e riconciliato con i membri della tua comunità. La pace non è altro che questo: «Elevi il Signore il suo volto su di te [vale a dire non lo nasconda] e ponga su di  te la pace».

Piero Stefani

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