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San Gennaro

San Gennaro dans immagini sacre Saint_Januarius

http://it.wikipedia.org/wiki/San_Gennaro

Publié dans:immagini sacre |on 18 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

19 SETTEMBRE: SAN GENNARO

http://it.wikipedia.org/wiki/San_Gennaro

(traggo la biografia da Wikipedia perchè non ci sono molte notizie, o, perlomeno, che non mi sembrano sicure)

19 SETTEMBRE: SAN GENNARO

VESCOVO E MARTIRE

Nascita Benevento o Caroniti, 272
Morte Pozzuoli, 19 settembre 305
Venerato da Chiesa cattolica
Santuario principale Duomo di Napoli
Ricorrenza 19 settembre

Il nome Gennaro è molto diffuso in Campania e risale al latino « Ianuarius » che significa « consacrato al dio Giano » ed era in genere attribuito ai bambini nati a gennaio (Ianuarius), mese sacro al dio.
In realtà, poiché san Gennaro appartenne alla gens Ianuaria, non era il suo nome, che secondo la tradizione era Procolo, ma il gentilizio corrispondente e cioè l’attuale cognome.

Storia
Convenzionalmente si crede che Gennaro sia nato verso l’anno 272. Sul luogo esistono molte tradizioni, di cui la prima lo vuole nato a Benevento, città di cui sarà vescovo, dove la pietà popolare individua a tutt’oggi la sua casa natale in dei ruderi romani siti nella via ad egli intitolata. In mancanza di prove certe è ovviamente impossibile risalire alla verità storica.
Vicende del santo
Il fatto che portò alla consacrazione di Gennaro sarebbe avvenuto all’inizio del IV secolo, durante la persecuzione dei cristiani da parte dell’imperatore Diocleziano.
Gennaro era il vescovo di Benevento e si recò insieme al lettore Desiderio e al diacono Festo in visita ai fedeli a Pozzuoli. Il diacono di Miseno Sossio – già amico di Gennaro che lo era venuto a trovare in passato a Miseno per discutere di fede e leggi divine – volendo recarsi ad assistere alla visita pastorale, fu invece arrestato lungo la strada per ordine del persecutore Dragonzio, governatore della Campania. Gennaro insieme a Festo e Desiderio si recò allora in visita dal prigioniero, ma, avendo intercesso per la sua liberazione ed avendo fatto professione di fede cristiana, furono anch’essi arrestati e da Dragonzio condannati ad essere sbranati dai leoni nell’anfiteatro di Pozzuoli. Il giorno dopo, tuttavia, per l’assenza del governatore stesso, impegnato altrove o, secondo altri, perché si era accorto che il popolo dimostrava simpatia verso i condannati e quindi per evitare disordini, il supplizio fu sospeso. Secondo la tradizione invece, il supplizio fu mutato per l’avvenimento di un miracolo, infatti, le fiere si inginocchiarono al cospetto dei sette condannati, dopo una benedizione fatta da Gennaro.
Dragonzio comandò allora che a Gennaro e ai suoi compagni venisse troncata la testa. Condotti nei pressi del Forum Vulcani (l’attuale Solfatara di Pozzuoli), essi furono decapitati nell’anno 305. La stessa sorte toccò anche a Procolo, diacono della chiesa di Pozzuoli, e ai due laici Eutiche e Acuzio che avevano osato criticare la sentenza di morte per i quattro. Gli Atti affermano che nel luogo del supplizio sorse una chiesa in ricordo del loro martirio, mentre il corpo di Gennaro sarebbe stato sepolto nell’Agro Marciano[1] e solo nel V secolo traslato dal duca-vescovo di Napoli Giovanni I nelle Catacombe di San Gennaro.
Negli Atti Vaticani si narrano molti altri episodi mitici. I più conosciuti narrano di Gennaro e dei suoi compagni che si sarebbero recati a Nola, dove avrebbero incontrato il perfido giudice Timoteo. Questi, avendo sorpreso Gennaro mentre faceva proselitismo, lo avrebbe imprigionato e torturato. Poiché le tremende torture inflittegli non sortivano effetto, lo avrebbe infine gettato in una fornace ardente; una volta riaperta la fornace, non solo Gennaro vi uscì illeso e senza che neppure le sue vesti fossero state minimamente intaccate dal fuoco, ma le fiamme investirono i pagani venuti ad assistere al supplizio[2]. Caduto malato e nonostante fosse guarito da Gennaro, Timoteo non mostrò alcuna gratitudine ma lo fece condurre all’anfiteatro di Pozzuoli affinché fosse sbranato dalle fiere. Per questi racconti è chiara la derivazione dalla Bibbia, in modo particolare dal Libro del profeta Daniele, a cui il redattore degli Atti Vaticani deve essersi ispirato.
Durante il cammino verso il luogo dell’esecuzione, situato presso la Solfatara, un mendicante chiese a Gennaro un lembo della sua veste, da conservare come reliquia. Gennaro rispose che, una volta eseguita la sentenza, avrebbe potuto prendere il fazzoletto con cui sarebbe stato bendato.
La tradizione vuole che, mentre il carnefice si preparava a vibrare il colpo mortale, Gennaro si fosse portato un dito alla gola per sistemarsi il fazzoletto. In quell’istante il carnefice calò la scure, recidendo anche il dito. Quella notte, Gennaro apparve in sogno a colui che era incaricato di portare via il corpo, invitandolo a raccogliere anche il dito.
Sempre secondo la tradizione, subito dopo la decapitazione sarebbe stato conservato del sangue, come era abitudine a quel tempo, raccolto da una pia donna di nome Eusebia che lo racchiuse in due ampolle; esse sono divenute un attributo iconografico tipico di san Gennaro. Il racconto della pia donna è tuttavia recente, e compare pubblicato per la prima volta solo nel 1579, nel volume del canonico napoletano Paolo Regio su « Le vite de’ sette Santi Protettori di Napoli ».
I vari ed interessanti testi agiografici (inni, carmi e lodi) in onore di san Gennaro e dei suoi compagni martiri si possono consultare nella Bibliotheca Sanctorum edita dalla Pontificia Università Lateranense nel 1965.

La datazione
Gli Atti Bolognesi indicano il 305 come l’anno del martirio.
Documenti liturgici molto antichi, come il calendario cartaginese (redatto poco dopo il 505) ed il Martirologio Geronimiano del V secolo assegnano come data del martirio di Gennaro e dei suoi compagni il 19 settembre; indicano invece nel 13 aprile la data della prima traslazione dei resti del santo. Anche in un altro martirologio risalente all’VIII secolo, redatto dal monaco inglese Beda, il 19 settembre viene indicato come data del martirio.
Nel calendario marmoreo di Napoli la data del 19 settembre viene indicata come « dies natalis » di San Gennaro.
Tutte queste fonti, e numerose altre ancora, attestano che la venerazione per San Gennaro ha origini antichissime che risalgono all’epoca del suo martirio o al più tardi a quella della prima traslazione delle sue spoglie, avvenuta nel V secolo.

Storia delle reliquie
Il duca e vescovo di Napoli Giovanni I trasportò fra il 413 e il 431 le reliquie del santo dall’Agro Marciano nella parte inferiore delle catacombe napoletane di Capodimonte, le quali assunsero così il nome del santo, e qui esse furono centro di vivissimo culto.
Il principe longobardo di Benevento Sicone I, assediando la città di Napoli nel 831, ne approfittò per impossessarsi dei resti mortali che, da lì portò nella sua città, sede episcopale. Le sante reliquie furono deposte nella cattedrale – che allora si chiamava Santa Maria di Gerusalemme – ove restarono fino al 1154. In quell’anno infatti, considerando che la città di Benevento non era più sicura, il normanno Guglielmo I il Malo provvide affinché esse venissero traslate nell’Abbazia di Montevergine.
A Montevergine però la devozione dei pellegrini che vi si recavano era rivolta soprattutto a San Guglielmo e alla popolarissima icona bizantina della Madonna chiamata « Mamma Schiavona », sicché di San Gennaro si perse ben presto la memoria e addirittura la cognizione del suo luogo di sepoltura. A Napoli invece rimaneva vivissimo il culto per San Gennaro, anche per la presenza delle altre sue reliquie: il capo e le ampolle con il suo sangue.
Carlo II d’Angiò dopo aver fatto eseguire dai maestri orafi francesi Stefano Godefroy, Guglielmo di Verdelay e Milet d’Auxerre un preziosissimo busto-reliquiario in argento dorato per contenere la testa e le ampolle con il sangue del santo, espose per la prima volta la reliquia alla pubblica venerazione nel 1305. Suo figlio Roberto d’Angiò invece fece realizzare la teca d’argento che custodisce le due ampolle del sangue. Tuttavia la liquefazione del sangue non è attestata prima del 17 agosto 1389, allorché il miracolo si compì durante una solenne processione intrapresa per una grave carestia.
Quando a Montevergine per merito del cardinale Giovanni di Aragona furono ritrovate le ossa di San Gennaro, collocate al di sotto dell’altare maggiore, la potente famiglia dei Carafa si impegnò, grazie soprattutto all’interessamento del cardinale Oliviero e con il sostegno di suo fratello l’arcivescovo napoletano Alessandro Carafa, affinché le reliquie tornassero a Napoli, la qual cosa avvenne nel 1497[3], non senza l’opposizione da parte dei monaci di Montevergine. Come degno luogo per ospitarle, il cardinale Oliviero Carafa fece costruire nel Duomo di Napoli, al di sotto dell’altare maggiore, una cripta d’eccezione in puro stile rinascimentale: la Cappella del Succorpo.
A seguito di una terribile pestilenza che imperversò a Napoli fra il 1526 ed il 1529, i napoletani fecero voto a San Gennaro di edificargli una nuova cappella all’interno del Duomo. Benché i lavori fossero iniziati solo nel 1608 e siano durati quasi quarant’anni, la sfolgorante e ricca Cappella del Tesoro di San Gennaro venne infine consacrata nel 1646. Al di sopra del suo splendido cancello realizzato da Cosimo Fanzago, figura l’iscrizione Divo Ianuario e fame bello peste ac Vesaevi igne miri ope sanguinis erepta Neapolis civi patr. vindici (« A San Gennaro, al cittadino salvatore della patria, Napoli salvata dalla fame, dalla guerra, dalla peste e dal fuoco del Vesuvio, per virtù del suo sangue miracoloso, consacra »). Nel 1633 la città di Napoli, sulla cappella del tesoro, nel suo Duomo scolpiva la sua riconoscenza con la seguente dedica: Divo Jannuario – Patriae, regnique praesentissimo tutelari – grata Neapolis.
Il 25 febbraio 1964 il cardinale arcivescovo Alfonso Castaldo fece la ricognizione canonica delle venerate reliquie: « Le ossa furono trovate ben custodite, in un’olla di forma ovoidale che reca incisa l’iscrizione calligrafica, Corpus Sancti Jannuarii Ben. E.P. » [4]. Una ricognizione scientifica eseguita il 7 marzo 1965 dal professore G. Lambertini stabilì che il personaggio a cui appartengono le ossa è da individuarsi in un uomo di età giovane (35 anni) di statura molto alta (1,90 m).[5]
Secondo la tradizione, il sangue di san Gennaro si sarebbe sciolto per la prima volta ai tempi di Costantino I, quando il vescovo Severo (secondo altri il vescovo Cosimo) trasferì le spoglie del santo dall’Agro Marciano, dove era stato sepolto, a Napoli. Durante il tragitto avrebbe incontrato la nutrice Eusebia con le ampolline del sangue del santo: alla presenza della testa, il sangue nelle ampolle si sarebbe sciolto.[6]
Storicamente, la prima notizia documentata dell’ampolla contenente la presunta reliquia del sangue di San Gennaro risale soltanto al 1389, come riportato nel Chronicon Siculum (ma dal testo si può dedurre che doveva avvenire già da molto tempo): nel corso delle manifestazioni per la festa dell’Assunta di quell’anno, vi fu l’esposizione pubblica delle ampolle contenenti il cosiddetto « sangue di San Gennaro ». Il 17 agosto 1389 vi fu una grandissima processione per assistere al miracolo: il liquido conservato nell’ampolla si era liquefatto « come se fosse sgorgato quel giorno stesso dal corpo del santo ». La cronaca dell’evento sembra suggerire che il fenomeno si verificasse allora per la prima volta. Del resto, la Cronaca di Partenope, precedente di qualche anno (1382), pur parlando di diversi « miraculi » attribuiti alla potenza di San Gennaro, non menziona mai una reliquia di sangue del martire.
Oggi le due ampolle, fissate all’interno di una piccola teca rotonda realizzata con una larga cornice in argento e provvista di un manico, sono conservate nella cassaforte dietro l’altare della Cappella del Tesoro di San Gennaro. Delle due ampolle, una è riempita per 3/4, mentre l’altra più alta è semivuota poiché parte del suo contenuto fu sottratto da re Carlo III di Borbone che lo portò con sé in Spagna. Tre volte l’anno (il sabato precedente la prima domenica di maggio e negli otto giorni successivi; il 19 settembre e per tutta l’ottava delle celebrazioni in onore del patrono, ed il 16 dicembre), durante una solenne cerimonia religiosa guidata dall’arcivescovo, i fedeli accorrono per assistere al miracolo della liquefazione del sangue di San Gennaro. La liquefazione del tessuto durante la cerimonia è ritenuto foriero di buoni auspici per la città; al contrario, si ritiene che la mancata liquefazione sia presagio di eventi fortemente negativi e drammatici per la città.
Un analogo fenomeno, anch’esso ritenuto miracoloso, si suppone che avvenga anche a Pozzuoli, dove, nella chiesa di San Gennaro presso la Solfatara, su di una lastra marmorea su cui si afferma che Gennaro fosse stato decapitato e che sia impregnata del suo sangue, ancora oggi c’è chi sostiene che delle tracce rosse diventino di colore più intenso e trasuderebbero in concomitanza con il miracolo più importante che avviene a Napoli.[7]
Secondo studi recenti però sembra che la pietra sia in realtà il frammento di un altare paleocristiano di due secoli posteriore alla morte del martire sul quale vi siano depositate tracce di vernice rossa e di cera e che il tutto sia solo frutto di una suggestione collettiva.[8]

Studi ed indagini scientifiche
A seguito del Concilio Vaticano II, la Chiesa apportò delle modifiche al calendario liturgico (che comprende solennità, feste, memorie obbligatorie e memorie facoltative) rendendo obbligatorie alcune memorie di santi e facoltative altre prima obbligatorie: così la memoria liturgica di San Gennaro (che sino ad allora era obbligatoria in tutta la Chiesa universale) fu trasformata in memoria facoltativa al di fuori dell’arcidiocesi di Napoli.
La Chiesa precisò che lo scioglimento del sangue di San Gennaro, pur essendo scientificamente inspiegabile, non obbliga i fedeli cattolici a prestare l’assenso della propria fede: tale evento venne definito come un fatto prodigioso e venne approvata la venerazione popolare, essendo impossibile, allo stato dell’attuale conoscenza dei fatti, un giudizio scientifico che spieghi il fenomeno della liquefazione.[9]
Una prima analisi spettroscopica sull’ampolla fu fatta dai professori Sperindeo e Januario (25 settembre 1902) e rivelò lo spettro dell’ossiemoglobina[10].
Tre ricercatori del CICAP (Luigi Garlaschelli, Franco Ramaccini, Sergio Della Sala) hanno fornito una prova scientifica sull’ottenibilità di uno « scioglimento » come quello che è alla base del cosiddetto « miracolo ». Lo spirito dell’indagine del CICAP non è stato quello di determinare la composizione della sostanza nell’ampolla, ma l’aver riprodotto i comportamenti più documentati della reliquia è servito a dimostrare che è possibile farlo e che era possibile anche all’epoca della sua comparsa, confutando così le affermazioni sull’irriproducibilità del suo comportamento o sull’impossibilità della scienza di spiegarlo. Il loro lavoro è stato pubblicato sulla rivista scientifica Nature (« Working bloody miracles »[11], 13 settembre 1991). Nell’articolo si avanza l’ipotesi secondo cui all’origine del cosiddetto « miracolo di San Gennaro » vi sia il fenomeno noto come tissotropia, la proprietà di alcuni materiali (detti appunto tissotropici) di diventare più fluidi se sottoposti a una sollecitazione meccanica, come piccole scosse o vibrazioni, e di tornare allo stato precedente se lasciati indisturbati (un esempio di questa proprietà è la salsa ketchup, che si può mostrare in uno stato quasi solido fino a quando delle scosse non la fanno diventare d’un tratto molto più liquida). È sensato formulare l’ipotesi tissotropica poiché, durante la cerimonia che precede lo scioglimento del sangue di San Gennaro, il sacerdote agita e muove l’ampolla tenendola con le mani, come sostenuto da Franco Ramaccini, CICAP[12].
I ricercatori hanno realizzato l’esperimento ottenendo una sostanza tissotropica, dal colore rosso sangue, con il solo utilizzo di sostanze e materiali reperibili all’epoca a cui risalirebbero le ampolle (fine Trecento):
cloruro ferrico, sotto forma di molisite, un minerale presente sul Vesuvio come in genere nelle zone vulcaniche;
carbonato di calcio, presente ovunque, per esempio nei gusci d’uovo, che ne sono una fonte pura al 93,7%;
cloruro di sodio, (o sale comune);
acqua
Secondo un articolo comparso sul web nel marzo 2005 a firma A. Ruggeri, il gel tissotropico ottenuto da Garlaschelli manteneva le sue proprietà tissotropiche per solo 2 anni, quindi non supererebbe il test dei diversi secoli cui invece è stato sottoposto il fluido presente nell’ampolla della teca San Gennaro[13].
Tuttavia Garlaschelli controbatte all’affermazione di Ruggeri: Circa la durata del nostro gel: Non mi sono mai preoccupato della stabilità nel tempo del gel stesso. So che alcuni campioni hanno resistito per dieci anni. Altri durano molto meno. Non ho mai trovato un esperto di colloidi che mi desse dei suggerimenti. Ma del resto, mi sono anche preoccupato poco, addirittura, di sigillare in modo perfetto i miei boccettini. [14]
All’indomani della pubblicazione dell’articolo del CICAP (pubblicato su quale rivista scientifica e quale impact factor?) l’ufficio stampa della curia di Napoli replicò con la seguente domanda: «Già, ma perché allora nel maggio 1976 il sangue non si sciolse affatto, malgrado otto giorni di attesa?».
In altre occasioni, al contrario, il fenomeno della liquefazione si era manifestato già prima dell’apertura della teca che custodisce le ampolle. Un analogo fenomeno avviene senza scuotimenti a Ravello in un’ampolla che contiene il sangue di san Pantaleone.
Alcune recenti analisi spettroscopiche sostengono che nelle ampolle conservate nel Duomo di Napoli sia presente emoglobina umana, anche se una risposta chiara sulla natura della sostanza potrebbe essere data solo da un’analisi diretta. Il CICAP ha espresso perplessità sul metodo con cui tali analisi sono state condotte:
« I risultati di quella spettroscopia non sono stati sottoposti al giudizio di referee di una rivista scientifica; la loro qualità, nella più favorevole delle ipotesi, richiede troppo il contributo dell’interpretazione di chi li osserva, per costituire un argomento convincente. Inesplicabilmente è stato impiegato uno spettrometro a prisma, invece di un moderno spettrometro elettronico. Più spettri, ottenuti a qualche minuto di distanza l’uno dall’altro vengono interpretati come rivelatori ognuno di un diverso derivato dell’emoglobina, e spiegati con un miracolo in progresso, mentre, si noti bene, la sostanza era da tempo in fase liquida, e non in liquefazione. »
([15])
Un esperimento condotto dal dipartimento di Biologia Molecolare dell’Università Federico II di Napoli su un’ampolla di sangue, una reliquia simile a quella conservata nel duomo, ha mostrato che essa contiene effettivamente sangue ed effettivamente può cambiare stato, ma che questa proprietà è posseduta, nelle stesse condizioni di conservazione, dal sangue di qualsiasi persona.[16]

IL CAMMINO DI FEDE DELL’APOSTOLO PAOLO – Don Claudio Doglio

www.sgbattista.it/www…/Fede-di-Paolo-4-La-battaglia-della-fede.doc

CORSO BIBLICO

IL CAMMINO DI FEDE DELL’APOSTOLO PAOLO

Riflessioni di don Claudio Doglio

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UOMO DI FEDE PROPRIO NELLE DIFFICOLTÁ

(25 ottobre 2012)

L’esperienza di fede dell’Apostolo Paolo è stata caratterizzata dall’incontro personale con Gesù Cristo e questo incontro ha trasformato il discepolo in un maestro.
È rimasto discepolo tutta la vita, ha imparato continuamente da Cristo ma ha comunicato ad altri la ricchezza di quello che aveva capito ed è diventato il grande maestro della giustificazione per fede.
Ha insegnato con forza e decisione, ispirato da Dio chiaramente, che l’uomo è messo in buona relazione con Dio sulla base della fede.
Superando la visione giudaizzante, condivisa da alcuni cristiani che ritenevano necessaria l’obbedienza alla legge in tutti i particolari e l’esenzione delle opere della legge, Paolo dice che la fede di Cristo è sufficiente,è quella che salva.
Nella Lettera ai Galati, capitolo 5 versetto 6, troviamo una frase emblematica:
In Cristo Gesù non è la circoncisione che conta o la non circoncisione ma la fede che opera per mezzo della carità.
Questa è una frase sintetica, che ci permette di riassumere la meditazione dell’incontro precedente e di lanciare l’ultima questione: essendo inseriti in Cristo Gesù, quello che conta non è la circoncisione, che ci sia o che non ci sia; non è determinante. Che cosa conta?
La fede che opera per mezzo della carità.
E qui Paolo avvicina la fede alle opere, dicendo che è importante una fede operativa, una fede che agisce, che compie le opere della carità cristiana.
In tutte le sue Lettere, infatti, l’Apostolo ha ripetutamente insistito sulla necessità di vivere bene e ha dato tanti consigli, molte indicazioni pratiche sul comportamento da tenere.
È quindi un fraintendimento di Paolo nel vedere che insegnasse una fede avulsa dalla vita, e non è semplicemente una accettazione di teorie, ma una adesione alla persona di Gesù Cristo che giustifica, cioè mette nella buona relazione con Dio.
Trasforma la persona, la rende capace di una vita nuova.
Questa capacità di vita si traduce nelle opere.
Non ha senso essere capaci di qualche cosa e non fare quello che siamo stati resi capaci di fare.
Quindi le opere sono importanti, ma sono conseguenza.
Questa è un’idea cardine che dobbiamo avere ben chiara: la vita morale è conseguenza della fede, non causa. Non siamo salvati perché ci comportiamo bene ma essendo stati salvati possiamo comportarci bene.
Se io verifico la mia vita, e mi accorgo che è buona, e posso dire che compio delle opere di bene, allora so che il Signore mi ha salvato, e io ho accolto la salvezza nella pratica della mia vita.
Non mi sono guadagnato la salvezza, ma ho messo in opera il dono che ho ricevuto. La fede causa la salvezza, la salvezza porta alla vita buona.
La salvezza è essere con Dio; è essere in comunione con il Signore. È l’amicizia che ci lega a Lui e segna, cambiandola, la nostra vita.
Ed è in forza di questa amicizia che ci ha cambiato, che noi siamo in grado di vivere una vita buona.
Quello che conta è la fede che opera per mezzo della carità.
Dunque, una fede operativa.
Ma, dal momento che Paolo parlava spesso in polemica con i giudaizzanti, sostenendo che le opere della legge non bastano e non servono per la salvezza, qualcuno fraintendeva gli insegnamenti di Paolo.
E abbiamo degli indizi, nel Nuovo Testamento, in base ai quali si può affermare che era cambiato; cioè qualcuno riportava l’insegnamento di Paolo in modo scorretto, attribuendogli degli insegnamenti sbagliati.
Una generazione, seguente a Paolo, dovette affrontare il problema serio di questo paolinismo deteriore, cioè una situazione in cui l’insegnamento di Paolo era stato deformato, si era deteriorato ed era diventato lassismo.
Come dire: il Signore ci ha salvati, non serve nient’altro. Ognuno viva come vuole, tanto, basta credere; la salvezza è automatica, la vita morale non conta; l’ha detto Paolo.
Non è vero! Paolo non ha mai detto una cosa del genere!
Ha detto che ciò che conta è la fede operativa per mezzo della carità. Ha detto che le opere della legge non salvano. Ma cosa intendeva per opere della legge?
Facciamo tre esempi, mettiamoceli in testa come elementi cardini: circoncisione, sabato, cibi puri e impuri; queste sono osservanze giudaiche che difatti noi abbiamo lasciato perdere.
La circoncisione, l’osservanza del sabato, la distinzione dei cibi, sono regole rituali giudaiche, che la chiesa ha ritenuto superate, non necessarie.
Queste sono le opere che non servono, mentre sono assolutamente necessarie le opere della carità,che non sono le opere rituali ma è la vita buona.
Però le opere della carità sono possibili solo come conseguenza, e il rischio è che noi pensiamo di essere buoni, sostanzialmente buoni.
È un po’ una mentalità diffusa quella di immaginare l’umanità come una serie di brave persone; è una idea che attraversa anche la storia del pensiero: in fondo siamo tutti buoni.
D’altra parte c’è un filone opposto che teorizza la condizione dell’uomo come radicalmente corrotta, irrecuperabile, un non senso: l’uomo è un groviglio di cattiveria, di malizia, di disgrazia, un nucleo impazzito nell’universo.
Abbiamo gli eccessi opposti di pessimismo e ottimismo: visione negativa dell’uomo assolutamente corrotto, visione idealizzata dell’uomo come buono in sé; e questi due estremi poi, si concretizzano, banalmente, in molti ragionamenti quotidiani: tutto va male, sono tutti cattivi, sono tutti corrotti, sono tutti ladri, tutti delinquenti, il mondo ormai è alla fine; oppure: ma in fondo siamo tutti buoni, va bene così, ognuno faccia un po’ come vuole, perché, in fondo, c’è questa bontà.
Sono due atteggiamenti pratici diffusissimi, sbagliati.
Per il pessimista la salvezza non è possibile; l’uomo è irrecuperabile, è cattivo e resterà cattivo, non c’è speranza di salvezza. Pensate a qualche poeta tragico, esistenzialista; magari ci prende anche il cuore e l’affetto, ma ci lascia in una posizione disperata.
Per il buonista, invece, la salvezza non è necessaria perché siamo già salvi; siamo già buoni, non è possibile e non è necessaria. È una mentalità diffusa, sebbene con motivazioni diverse; nel nostro mondo la salvezza è messa ai margini perché o ritenuta impossibile o ritenuta inutile.
La nostra fede cristiana, invece, riguarda proprio Gesù che è il salvatore dell’uomo e affermiamo che è necessaria, perché non è vero che siamo buoni. Siamo cattivi!
In fondo siamo cattivi, tutti. E abbiamo bisogno di salvezza e di redenzione.
Questa salvezza è possibile.
È possibile in forza di Gesù Cristo e può redimere l’uomo. E lo libera.
La nostra fede nella persona di Gesù ritiene che Egli sia il Salvatore necessario, e la sua opera è realmente possibile, ne abbiamo bisogno; possiamo diventare buoni e quindi c’è un cammino, una crescita, una dinamica di trasformazione.
Questo insegna Paolo.
Il punto di partenza è la fede; è il momento iniziale in cui la persona si apre all’incontro con Dio, riconosce di non farcela e di avere bisogno di aiuto. E accoglie così il Salvatore, che entra nella sua vita, e inizia un’opera di redenzione; cioè lo salva da se stesso, dal proprio carattere, dai propri difetti, dai propri peccati e lo rende capace di una vita buona.
È possibile compiere le opere buone, come conseguenza della salvezza.
 Se non si capisce questa dinamica, e si pensa che la fede sia sufficiente, si cade in un cristianesimo lassista, dove, solo una teoria accettata con la testa mette a posto una persona ma lasciandola come prima; diventa un discorso banale.
 Contro questa banalizzazione di Paolo si scaglia l’apostolo Giacomo, nella Lettera di Giacomo; al capitolo 2 dal versetto 14 al 26, troviamo una polemica che non è rivolta a Paolo ma al paolinismo deteriore, a quei maestri che deformavano l’insegnamento di Paolo e dicevano che basta solo la fede.

Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti di cibo quotidiano e uno di voi dice loro: ‘Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi’ , ma non date loro il necessario, che giova?Così anche la fede se non ha le opere è morta in se stessa.

Paolo sarebbe perfettamente d’accordo; soltanto che Paolo parla dell’inizio, mentre Giacomo insiste sulla continuità; non sono le opere che iniziano la salvezza, ma la fede; una volta che la persona ha incontrato il Salvatore, e si lascia redimere, allora conta la fede, che opera per mezzo della carità.
Se la fede non ha le opere è morta. Se la fede non segna la vita, non è fede!
Il rischio di questi predicatori paolinisti deteriori era quello di accontentarsi di una fede teorica, quella che i teologi chiamano fides quae creditur: la fede che si crede, cioè il contenuto gli articoli del credo.
Questa è la nostra fede: credo in Dio Padre, in Gesù Cristo suo unico Figlio, nello Spirito Santo, credo la Santa Chiesa Cattolica, la comunione di Santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne, la vita eterna.
Questa è la nostra fede. Se io mi fermo ad un elenco teorico, ad una accettazione di verità, ma la mia vita non ne è segnata, è una fede morta.
Paolo invece parla di quella che i teologi chiamano fides qua creditur: la fede per mezzo della quale si crede, cioè l’atteggiamento.
Molte volte anche noi facciamo confusione tra queste due sfumature; parlando di fede rischiamo di pensare soprattutto ad un discorso intellettuale, teorico, legato alla conoscenza di verità astratte, magari astruse, che si accettano senza capirle, appunto si accettano per fede.
Ma questa concezione di fede, puramente teorica, non segna la vita.
Uno accetta una dottrina e continua a vivere come l’altro che tale dottrina non accetta; invece, quando si parla di fede, dobbiamo soprattutto intendere quella relazione personale con la persona di Gesù.
Attraverso di Lui conosciamo il Padre, riceviamo lo Spirito, entriamo in comunione con le persone divine; è l’atteggiamento di fiducia, di affidamento con cui una persona si abbandona al Signore.
Questo atteggiamento permette al Signore di salvarci.
Inizia così la personale storia di salvezza; ognuno di noi, affidandosi al Signore, inizia un cammino di purificazione, di trasformazione, di santificazione; e questo cammino formativo porta alle opere.
Se si ferma a livello cerebrale di conoscenza teorica e astratta di verità, e non ha le opere, è morta in se stessa, è un parlare a vuoto. Se al povero dici: mangia pure, non serve a niente; è una presa in giro. Per dirgli mangia pure, devi dargli qualcosa da mangiare.

Al contrario uno potrebbe dire: Tu hai la fede e io ho le opere mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede.

Questo è un discorso che molte volte possiamo incontrare; se ci sono delle persone che hanno le opere e dicono teoricamente di non avere la fede, è tutto da vedere che non abbiano la fede; perché se ci sono le opere, e sono opere buone, c’è anche una fede. Magari non è quella teorica, non è quella espressa dalla dottrina, ma c’è una fiducia nel Signore, un affidamento profondo.
Al contrario se uno dice di avere la fede, ma non ha le opere, non è vero, ha solo delle fissazioni religiose, oppure conosce delle dottrine e quante dottrine conosciamo! Quante ricette per fare da mangiare o segreti per fare certi lavoretti, quante conoscenze teoriche di lunghezze di fiumi o di altezze di monti abbiamo!
E cosa ci servono per la salvezza? A niente.
È come sapere le dottrine religiose; se non mi cambiano la vita, a cosa mi servono? Non ho fede se la mia vita non è segnata.
Tu credi che c’è un Dio solo?
Notate, non dice tu credi a un Dio solo; non dice nemmeno tu credi in un Dio solo; ma tu credi che c’è un Dio solo.
Fai bene, anche i demoni lo credono e tremano!
È una frase tremenda: credere che c’è un Dio solo ci mette alla pari del diavolo. Anche il diavolo crede che c’è un Dio solo, ma non crede a Dio e tanto meno si fida affidandosi a Lui. Semplicemente ne accetta l’esistenza. Non è questo che determina la vita.
Vuoi sapere, o insensato, come la fede senza le opere è senza valore?
Abramo nostro padre non fu forse giustificato per le opere quando offrì Isacco suo figlio sull’altare? Vedi che la fede cooperava con le opere di lui e che per le opere quella fede divenne perfetta.
Non dice il contrario di Paolo, dice la stessa cosa.
Paolo sottolinea l’inizio, Giacomo la continuazione.
Abramo si fidò. Cosa vuol dire si fidò?
Nel momento in cui Dio gli chiese il figlio, Abramo lo fece; proprio perché si è fidato, è passato alle opere concretamente; è arrivato fin sul monte, ha alzato la mano e Dio lo ferma in quel momento.
Abramo dimostra di avere fede nel momento della difficoltà, quando gli sembra impossibile credere, quando il Dio, che gli ha dato il figlio, glielo chiede.
E come è possibile ? Può crollare tutto; Dio è cattivo, è invidioso, ma perché mi chiede una cosa del genere?
Domande di questo tipo significano: non mi fido, mi difendo, non gli credo, faccio di testa mia.
Abramo si fidò e, concretamente nella fede, operò.
La fede coopera con le opere; è chiaro, la fede è operativa, la fede autentica porta ad un atteggiamento concreto, nuovo, buono.
Vedete che l’uomo viene giustificato in base alle opere e non soltanto in base alla fede.
La differenza fra Giacomo e Paolo sta anche nella visione delle opere.
Lo ripeto: Paolo parla delle opere della legge giudaica rituali; Giacomo, invece, parla delle opere della carità cristiana.
Quelle non sono necessarie, lo dicono tutti e due; queste sono necessarie, lo dicono tutti e due. Quindi dobbiamo leggere con attenzione i testi, perché l’apparente contraddizione non esiste, sono perfettamente concordi; Giacomo ribadisce soprattutto la fede della vita cristiana che diventa operativa.
Come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta.
E Paolo visse una fede vivace, non morta.
La sua non fu un’esperienza di fede teorica, discussione su verità astratte; ma, come ho detto molte volte, la sua esperienza fu l’incontro con una persona, fu un incontro che coinvolse la sua vita, la segnò, fu innamorato, conquistato da Cristo.
Di conseguenza visse una vita in comunione con Cristo, e la fede si dimostra proprio nei momenti di difficoltà, e Paolo visse situazioni molto dolorose.
Essere diventato cristiano non gli semplificò la vita, anzi, gli creò una infinità di problemi.
Proprio la sua predicazione cristiana gli diede molti problemi e nelle difficoltà concrete egli manifestò la fede, e si impegnò ad una vita buona, e insegnò a tutte le persone, con cui entrava in contatto, a impegnarsi in questa docilità allo Spirito per diventare nuove creature, per vivere bene, come a Dio piace.
Mi soffermo su un passaggio della seconda lettera ai Corinzi, capitolo 12, dove l’Apostolo fa riferimento a situazioni difficili della propria vita.
Ha accennato a doni di grazia, visioni, grandi momenti di spiritualità che ha vissuto ma, insieme a questi doni di grazia, sa di aver attraversato molte difficoltà e accenna ad una situazione per noi oscura che egli chiama:
..una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi. A causa di questo, per ben tre volte, ho pregato il Signore che lo allontanasse da me.
 Non sappiamo di preciso che cosa fosse questa spina nella carne; qualcuno pensa ad una malattia, una malattia cronica, con momenti di aggravamento, per cui si trovava in situazioni molto dolorose, faticose nel ministero.
Qualcun altro pensa che si tratti piuttosto di una tentazione o di una inclinazione al male, di qualche difetto che portava dentro e non riusciva a superare; altri ancora pensano che si tratti di qualche persona.
Io, personalmente, propendo per quest’ultima interpretazione, in riferimento concreto alla situazione di Corinto, dove c’era una comunità particolarmente litigiosa, e c’era qualcuno, nella comunità, che si poneva contro Paolo, lo criticava, lo contestava e sobillava la gente ad andare contro Paolo.
E questa persona rovinava l’ambiente comunitario. Una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarlo.
Probabilmente fu proprio un fatto concreto; Paolo fu preso a schiaffi da questo personaggio che in una riunione pubblica lo insultò e lo mandò via. Paolo confida:
 Per tre volte ho pregato il Signore che lo allontanasse da me tre volte vuol dire con insistenza ripetutamente ho chiesto al Signore liberami da questo problema ma egli mi ha detto: ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza.
Qualunque sia l’interpretazione che diamo, Paolo ha un problema serio, chiede al Signore: allontanalo da me e il Signore gli dice no, tienilo pure questo problema, ti basta la mia grazia.
La mia grazia ti dà la capacità di vivere, non ostante quel problema; ti permette di attraversare il problema e di superarlo.
Ecco la dimensione della fede operativa; non semplicemente come una fede che porta a fare delle opere di bene, ma una fede che dà coraggio, che consola, che rende la persona capace di affrontare le difficoltà.
Non risolve automaticamente i problemi, non elimina le spine; aiuta a sopportarle, a superarle, a vivere nonostante quelle difficoltà.
La mia potenza- dice il Signore a Paolo- si manifesta proprio nella debolezza.
Nel momento in cui la persona è debole, e riconosce la propria debolezza, si manifesta la potenza di Dio.
E Paolo continua, confidandoci:
allora io mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze.  
Non intende i suoi difetti.
Attenzione al nostro modo di parlare, perché talvolta ci inganna. Noi se parliamo di debolezze intendiamo piuttosto i nostri peccati i nostri difetti ..è una mia debolezza cioè non riesco a resistere a questo peccato.
No, Paolo sta intendendo qualcos’altro, parla di una sua condizione umana debole, ad esempio una sua malattia, o di inferiorità nei confronti di questa persona; è calunniato, è criticato, è contestato; si trova ad avere delle persone della comunità contro, perché quel tizio parla male di Paolo. Paolo è lontano e non può difendersi è in una situazione di debolezza.
Mi vanterò volentieri della mia situazione debole perché dimori in me la potenza di Cristo perciò mi compiaccio nelle mie infermità non significa provo piacere ma sono contento, capisco che hanno un senso non mi fanno paura, le accetto le infermità, gli oltraggi, le necessità, le persecuzioni, le angosce sofferte per Cristo Quando sono debole è allora che sono forte.
Questo è l’atteggiamento di fede: io sono debole ma non sono solo proprio perché mi sono affidato a Cristo e mi sono messo nelle sue mani; sono con Lui.
Lui diventerà la mia forza. Se faccio forza io, la tolgo a Lui; e invece, fidandomi di Lui, posso affrontare le debolezze, tutte le fatiche e le angosce della vita, perché Lui è la mia forza.
Tutto posso in Colui che mi dà forza.
Questo è l’atteggiamento di fede dell’Apostolo che, scrivendo a Timoteo, dice:
So a chi ho creduto.
È un’altra espressione sintetica, che illumina l’atteggiamento di Paolo.
So, conosco personalmente Colui a cui ho creduto; non ho creduto a delle idee, ho creduto ad una persona, mi sono fidato di una persona e la conosco. So a chi ho creduto, per cui posso continuare nel mio impegno.
Paolo adopera proprio nelle Lettere Pastorali, l’immagine della battaglia della fede; lo dice scrivendo a Timoteo, esortandolo ad un impegno cristiano.
 Uomo di Dio fuggi queste cose, tendi alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità alla pazienza, alla mitezza; combatti la buona battaglia della fede.Cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato.
Ecco un impegno di vita cristiana: combattere la buona battaglia della fede.
La battaglia della fede non si combatte contro i non credenti, ma si combatte con noi stessi, si combatte con le avversità della vita, col nostro carattere.
La battaglia della fede è quell’impegno a lasciare agire il Signore nella nostra vita, a permettergli di salvarci.
La battaglia della fede è la vita cristiana immaginata come un combattimento spirituale, dove continuamente dobbiamo lottare contro il male, per far vincere il bene.
Possiamo vincere il male grazie a Cristo; abbiamo creduto in Lui.
Lui è la nostra forza. Con Lui possiamo combattere, con Lui possiamo vincere e quando, poco prima di morire, scrive l’ultima lettera a Timoteo, dal carcere di Roma, Paolo traccia un breve ritratto della propria esistenza:
Quanto a me il mio sangue sta per essere versato in libagione ed è giunto il momento della partenza; ho combattuto la bella battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede.
Poche pennellate per fare uno splendido ritratto.
Sto per essere versato in libagione.
La libagione era un sacrificio di liquidi; era pratica degli antichi offrire dei liquidi, ad esempio, anche ai defunti; anziché portare dei fiori o dei ceri, gli antichi romani portavano latte o vino e versavano il liquido sulla tomba. Era un modo di dare da bere, da mangiare al defunto; è un’offerta sacrificale, ma il liquido, versato per terra, è perso.
È un sacrificio versare il liquido e Paolo pensa alla propria vita come ormai versata; non sprecata, offerta.
Io sto per essere versato come una libagione, come un liquido che si spande nel terreno; ormai la mia vita si scioglie, è giunto il momento il kairos cioè l’occasione buona della analysis.
La vecchia traduzione diceva ‘ il momento di sciogliere le vele;’ le vele non ci sono nel testo; in base al testo italiano molti hanno immaginato la scena di chi arriva in porto. Sciogliere le vele, ammainare le vele, perché la nave sta arrivando. Ma non è questa l’immagine; sta parlando proprio di scioglimento nel senso che le membra perdono la connessione, e il morto lascia cadere le braccia, si scioglie, non sta più in piedi; il corpo si dissolve.
La stessa espressione l’adopera nella lettera ai Filippesi, quando dice:
Per me il vivere è Cristo, il morire è un guadagno.
In latino si traduceva la frase: cupio dissolvi et esse cum Christo (desidero essere sciolto per essere con Cristo). Essere sciolto è proprio il sinonimo di morire, versare e sciogliere.
La mia vita ormai sta per sciogliersi ho combattuto la bella battaglia. Non c’è buona ma bella e propriamente non c’è nemmeno battaglia ma agone.
Agone è anche qualcosa di sportivo, è una gara, una corsa; mi sono impegnato in questa bella corsa.
Il discorso non è tanto militare; piuttosto che una metafora bellica è una metafora sportiva: mi sono impegnato in questa gara che è bella la vita, è una bella gara e io l’ho gareggiata con tutto me stesso, ho terminato la corsa.
Quest’altra immagine rafforza la precedente; ormai sono arrivato alla fine, ho corso dietro a Cristo e adesso sto arrivando, sto arrivando alla meta.
Sto arrivando all’incontro con il Cristo e in questo impegno, in questa corsa ho conservato la fede.
Capite che non è un’idea statica di fede? Paolo credente è un uomo impegnato che corre verso la meta. Fuori metafora è uno che diventa santo.
L’incontro con Cristo, credergli, ha fatto sì che potesse mettersi in cammino; e non un cammino lento e faticoso, ma un cammino di corsa verso la meta e in tutto questo cammino la fede lo ha accompagnato.
Ho conservato la fede, l’ho custodita.
Quella relazione con il Signore Gesù l’ho custodita come il tesoro, il deposito della fede il mio capitale, il deposito bancario. Il mio patrimonio è la fede e l’ho fatta rendere, mi ha dato la forza per correre bene e per arrivare alla meta.
Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno ma non solo a me anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione.
E noi vogliamo imparare da Paolo, per recuperare l’entusiasmo nel nostro cammino di fede.
Abbiamo creduto, stiamo credendo, vogliamo conservare la fede e correre in questo cammino verso la meta.
Fede come relazione con il Signore che ci ha conquistati e lo seguiamo per raggiungerlo. Ciò che conta è la fede in Cristo Gesù, una fede che opera per mezzo della carità.
E vi auguro che questo anno della fede, appena iniziato, possa essere una buona occasione per rinnovare l’impegno in questa corsa verso la meta.
Buon cammino nella bella battaglia della fede!
Conservatela, fatela crescere, diffondetela perché è proprio credendo che s’impara a credere, ed è parlando ad altri della propria fede che la nostra fede cresce.
Auguri e buon cammino.

Publié dans:Docenti: Claudio Doglio |on 18 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

The creation of Eve, The 12th Century New Roman Mosaics of the Cathedral of the Nativity of the Most Holy Mother of God in Monreale, Italy

The creation of Eve, The 12th Century New Roman Mosaics of the Cathedral of the Nativity of the Most Holy Mother of God in Monreale, Italy dans immagini sacre

http://01varvara.wordpress.com/2008/09/18/the-12th-century-new-roman-mosaics-of-the-cathedral-of-the-nativity-of-the-most-holy-mother-of-god-in-monreale-in-sicily/

Publié dans:immagini sacre |on 17 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

GESÙ CRISTO, ATTRAVERSO GLI INNI DELLE LETTERE DI PAOLO – FILIPPESI

http://www.cistercensi.info/monari/2000/m200009019.htm

PIANAZZE VILLA REGINA MUNDI

ESERCIZI SPIRITUALI AL CLERO

GESÙ CRISTO, ATTRAVERSO GLI INNI DELLE LETTERE DI PAOLO

IX MEDITAZIONE – 1° SETTEMBRE 2000

Leggiamo la Lettera di Paolo ai Filippesi dall’inizio del capitolo 2° perché credo che anche il contesto abbia un suo significato. Scrive Paolo:
«1 Se c’è pertanto qualche consolazione in Cristo, se c’è conforto derivante dalla carità, se c’è qualche comunanza di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, 2 rendete piena la mia gioia con l’unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti. 3 Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso, 4 senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri. 5 Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, 6 il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; 7 ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, 8 umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. 9 Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; 10 perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; 11 e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre» (Fil 2, 1-11).

1. L’unanimità
L’Inno è inserito in un’esortazione, a una parenési paolina, all’unione fraterna e all’unanimità di cuore. Questa parenési paolina è un appello accorato, che vuole avere come suo fondamento e base l’evento compiutosi in Cristo.
In questo modo di pensare c’è un elemento importante: tra la fede e il comportamento c’è e deve esserci un legame interno di armonia. Quello che è avvenuto in Gesù Cristo diventa la regola di quello che il cristiano è chiamato a fare. Lo abbiamo già incontrato molte altre volte (nelle Lettere di San Paolo questo è usuale). Quando Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi vuole invitare i cristiani a partecipare alla colletta che lui sta facendo per la Chiesa di Gerusalemme, interpretando questa colletta come una solidarietà che nasce dalla decisione di vicinanza e di comunione, riporta il fondamento a Gesù Cristo, il quale «da ricco che era, si è fatto povero, per arricchire noi con la sua povertà» (2 Cor 8, 9). Se questo è il mistero che sta all’origine della nostra vita, non possiamo evidentemente tenere una ricchezza per noi senza avere la disponibilità alla condivisione, a sentire la povertà degli altri come qualche cosa che ci interpella, come Gesù Cristo ha fatto nei nostri confronti.
Credo che le applicazioni potrebbero essere tantissime. Il contenuto della nostra fede motiva, ma non solo, da una forma ai nostri pensieri e decisioni: «amatevi gli uni e gli altri; così come Dio ha amato voi in Cristo» (cfr. 1 Pt 1, 22-23); «perdonatevi come Dio vi ha perdonato» (Col 3, 13); «accoglietevi come siete stati accolti» (cfr. Rm 15, 17)… In pratica è molto chiaro: l’evento di Cristo deve diventare la forma dell’esistenza della comunità cristiana. In concreto, la forma che l’evento di Cristo trasmette è la comunione e il servizio reciproco.
L’inizio dell’Inno è molto solenne: «Se c’è pertanto qualche consolazione in Cristo». Quindi: “Se Cristo è sorgente di un’esperienza nuova che deve diventare consolazione e esortazione reciproca”.
«Se c’è conforto derivante dalla carità, se c’è comunanza di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, 2 rendete piena la mia gioia». La gioia di Paolo può essere completata solo attraverso l’unanimità dei cristiani di Filippi: «con l’unione dei vostri spiriti», che fondamentalmente (in modo molto banale) vuole dire: “tirate pari”. Cioè, camminate con lo stesso orientamento: il vostro sforzo nell’indirizzo delle vostre decisioni deve essere solidale e orientato in un’unica direzione.
È su questo che si gioca l’unanimità, evitando alcuni atteggiamenti e vizi, che sono distruttivi per la vita della comunità. Il primo è la erizeian, cioè «lo spirito di parte». Ricordate che a Corinto non erano stati immuni da questo “spirito di parte”, erano sorte delle piccole fazioni interne alla comunità (cfr. 1 Cor 1, 10-12). Lo “spirito di parte” ti pone di fronte all’altro con un preconcetto, per cui uno se sta dalla tua parte va tutto bene e se eventualmente l’altro è dalla parte opposta va tutto male (c’è sempre un motivo per trovare “il pelo nell’uovo”). Questa parzialità, “spirito di parte”, è fuori dalla verità e quindi dalla carità.
Insieme allo “spirito di parte” la kenodocsian, la vanagloria; il cercare l’affermazione di sé nell’apparenza senza orientare in realtà la vita a quello che effettivamente è importante e decisivo. Allora: «Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria». Un passo parallelo (relativamente) è nella Lettera di Giacomo, dove scrive: «Chi è saggio e accorto tra voi? Mostri con la buona condotta le sue opere ispirate a saggia mitezza» (Gc 3, 13). Vuole dire: la saggezza non si misura dalle parole ma dai comportamenti; deve essere dimostrata nella condotta. «Ma se avete nel vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa, non vantatevi e non mentite contro la verità» (Gc 3, 14). Vuole dire: non cercate delle motivazioni false per decisioni o atteggiamenti che sono determinati da gelosia e da spirito di contesa; non andate a cercare dei motivi per sostenere le vostre ragioni (:“l’ho fatto per questo e per quest’altro, che è per la ricerca della verità e del bene”). Tutto questo è semplicemente l’espressione di un animo che è deformato di dentro, che è determinato da una gelosa amarezza. «Non è questa la sapienza che viene dall’alto: è terrena, carnale, diabolica; perché dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. La sapienza che viene dall’alto invece è anzitutto pura (“pura” vuole dire: non doppia, non falsa); poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia» (Gc 3, 15-17). Allora è come un ritornare alla radice dei propri comportamenti nella comunità per vedere se queste radici sono sane o malate.
2. L’umiltà
«3 Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso, 4 senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri». Viene fuori la virtù, che poi sarà richiamata anche nel corso dell’Inno, dell’umiltà. Una virtù, per certi aspetti, tipicamente cristiana o giudeo-cristiana, ma certamente lontana dal pensiero greco. L’umiltà nel pensiero greco è spesso equiparata alla meschinità, all’uomo che ha dei pensieri bassi, che non sa rendersi conto della dignità, della libertà, della responsabilità e del valore della persona. Invece in una concezione cristiana l’umiltà è fondamentale, anzi è una virtù sociale e non individuale. Non è semplicemente qualche cosa che serve all’edificazione della persona, ma edifica la comunità, anzi le permette di sopravvivere. Al di fuori dell’umiltà scompare la possibilità di tenere in piedi una comunità autentica. Questa umiltà intendetela innanzitutto in riferimento a una presa di posizione nei confronti degli altri: considerare gli altri superiori a se stessi senza cercare il proprio interesse ma anche quello degli altri. È questo che decide dell’umiltà.
Ricordate che tra le tante cose che sono dette nell’Inno all’amore sulla carità una è proprio questa: l’amore non cerca ciò che è suo. In italiano è stato tradotto in un modo un po’ diverso: “non cerca il suo interesse”. Il testo dice qualche cosa di più: “non cerca ciò che è suo”; è capace di dimenticare qualche cosa di sé, anche dei propri diritti, pur di cercare il bene della comunità attraverso la valorizzazione e l’onore reso agli altri: «considerare gli altri superiori a se stesso».
Paolo sa che questo appello all’amore e all’umiltà tocca i punti sensibili della persona, perché l’autocompiacimento è uno degli atteggiamenti istintivi più usuali in noi. Proprio perché sotto sotto sappiamo che vagliamo poco, abbiamo bisogno di apparire molto per coprire un po’ la realtà di quello che sappiamo di noi stessi. Il bisogno di vanità, di affermazione, nasce dalla consapevolezza, in fondo autentica, che di fronte alla realtà del mondo siamo ben poca cosa. Diceva il mio insegnante di Sacra Scrittura: “Quello che sappiamo è solo una piccola porzione rispetto agli spazi infiniti della nostra ignoranza”. Quindi consapevoli di questo abbiamo bisogno di sentirci approvati e riconosciuti. È un’autodifesa. Un’esortazione all’umiltà non è così facile da accettare; ci vuole una capacità di liberazione interiore da se stessi.
3. L’imitazione di Gesù Cristo nasce da un’esperienza presente
Allora cerchiamo il fondamento di tutto questo: «5 Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù». La traduzione di questo versetto è piuttosto problematica e in ogni modo non è come dice qui. Innanzitutto “abbiate in voi” vuole dire: “abbiate tra di voi”, e non “dentro di voi”. Quindi: “Abbiate tra di voi”, nei vostri rapporti gli uni con gli altri. Qui si tratta di un’etica comunitaria da impostare. Dice Paolo: quello che dovete avere tra di voi è un pensiero, un atteggiamento, che è anche in Cristo Gesù. Il senso è essenzialmente questo: la vostra esistenza di comunità cristiana è un’esistenza in Cristo. “In Cristo” vuole dire: il Signore risorto, attraverso il suo Spirito, esercita una vera e propria signoria sulla vostra esistenza. Il Cristo risorto è un Cristo vivo, operante, che esercita un influsso. E la comunità cristiana è dentro a questo influsso, è animata da questa realtà viva di Gesù Cristo. Allora, voi pensate e agite lì dentro: pensate tutto quello che vi pare, purché sia coerente con il fatto che voi siete in Cristo Gesù; fate tutto quello che volete, purché sia coerente con il fatto che voi siete in Cristo Gesù. Non potete essere in Cristo Gesù e usare dei comportamenti radicalmente in contraddizione con il Signore nel quale voi credete e vivete. Il senso è che l’appartenenza della comunità a Cristo deve determinare il suo stile di vita: i suoi pensieri e desideri, le sue decisioni, i suoi comportamenti e le sue speranze. “Abbiate tra di voi quel tipo di sentimenti”, di pensiero e di atteggiamento che è giusto e possibile avere in Cristo Gesù.
Per capire meglio quali tipi di sentimenti sia possibile avere in Cristo Gesù bisogna conoscere Cristo Gesù, che Gesù Cristo e il suo Spirito sia entrato nella nostra riflessione, nel nostro cuore e nella nostra vita. Allora Paolo richiama questo Inno che ci mette davanti il mistero di Cristo.
Credo che il discorso non riguardi solo l’imitazione di Gesù Cristo (ma da questo punto di vista ci sono esegeti che la pensano in modo diverso), cioè non vuole dire solo: pensate che sentimenti aveva Gesù Cristo e voi cercate di averne dei simili; guardate come si è comportato lui e voi imitate il comportamento di Cristo. Cioè tutto questo è molto vero, non è sbagliato e ci sta dentro bene, ma c’è qualche cosa di più. Voglio dire: il comportamento cristiano non nasce dall’esame di un avvenimento del passato che io cerco di ricordare perché è bello e giusto e poi cerco di imitare. Il comportamento cristiano nasce da un’esperienza presente. Non è che devo pensare a Cristo di duemila anni fa perché è stato grande e dico: adesso provo a fare lo stesso. Il problema è che il Cristo di duemila anni fa è il Cristo vivente, presente, efficace e attivo. Io sono sotto la sua sovranità, al suo Spirito, ed è con questa presenza viva del Signore che ho a che fare. La comunione che come credenti viviamo con lui, non è senza conseguenze sui nostri rapporti reciproci. Inevitabilmente, se l’esperienza di Gesù è vera, condiziona in un modo o nell’altro il rapporto con i fratelli.
4. Il mistero dell’Incarnazione
Allora guardiamo chi è questo Cristo Gesù nel quale siamo inseriti, per comprendere la dinamica della nostra esistenza: «6 il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; 7 ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, 8 umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. 9 Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; 10 perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; 11 e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre». Dal punto di vista esegetico i problemi sono infiniti ma non ci interessano (quindi non interessa sapere se l’Inno l’ha scritto San Paolo o se è precedente o ci ha aggiunto delle parole o dei versetti o se va diviso in due strofe o in tre… sono tutte questioni molto interessanti, però diventerebbero lunghissime). Lo prendiamo nel suo dinamismo: due movimenti contrapposti uno all’altro.
4.1. Movimento di abbassamento

Innanzitutto è un movimento di discesa. Punto di partenza: «6 il quale, pur essendo di natura divina». Vuole dire: la sua esistenza è determinata dalla forma di Dio; è la forma di Dio che lo qualifica. Tanto che un po’ più avanti dice che è pari a lui. Siccome la sua forma è divina, il suo status, la sua dignità è di Dio, pari pari: «pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio». Vuole dire: non ha considerato lo status che gli competeva per la sua identità (siccome era in forma divina gli competeva lo stato dell’uguaglianza con Dio, quindi aveva ogni diritto). Questa uguaglianza con Dio la poteva considerare come un tesoro da sfruttare, come una ricchezza da custodire con le unghie e con i denti perché non gli venisse tolta, quindi aveva la possibilità di esercitare ogni potere perché gli competeva, ne aveva il diritto. Ma in realtà ha rinunciato a consideralo così, non l’ha considerato come un’occasione da non lasciarsi sfuggire: «non considerò un tesoro geloso». “Tesoro geloso” è una modalità di esprimersi: è un tesoro che uno tiene gelosamente per sé per timore che gli sia portato via.
Ma al contrario: «7 spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini». Sono tre espressioni che esprimono fondamentalmente il mistero dell’Incarnazione. Notate che siamo di fronte ad un atto libero. Questa persona preesistente assume un’esistenza da schiavo; l’assume, quindi significa che non lo era; era libero e liberamente ha assunto questa condizione. Si annuncia in questo modo un atto, una decisione, che trasforma essenzialmente il mondo, perché introduce nel mondo il mistero stesso di Dio. È l’avvenimento fondamentale e centrale dell’Incarnazione, che ha superato una volta per sempre la frattura tra il mondo di Dio e il mondo degli uomini.
«Se tu squarciassi i cieli e scendessi!» (Is. 63, 19b); è esattamente questo che viene annunciato: «spogliò se stesso», «svuotò se stesso»; «da ricco che era, si fece povero» (2 Cor 8, 9).
C’è un’ode di Salomone che dice: «poiché la sua bontà fece piccola la sua grandezza, egli divenne come io sono»; ed è in questa povertà della condizione umana che Dio si è rivelato. Si potrebbe dire: si è mostrato così nobile da non avere paura di farsi plebeo, di farsi piccolo.
È così grande che la sua grandezza non è costretta a difenderla, è capace di donarla, di metterla in gioco: «assumendo la condizione di servo», cioè il modo di esistere dello schiavo. Chiaramente la sottolineatura vuole evidenziare il contrasto: in forma di Dio, pari a Dio – in forma in condizione di servo.
Forse questo discorso del servo può fare riferimento alla condizione umana, come sottomessa a delle potenze dalle quali è condizionata: la morte (che abbiamo già detto, quindi non c’è bisogna di ritornarci sopra). La condizione dell’uomo è essenzialmente un’esperienza condizionata. L’uomo può desiderare l’infinito, però è costretto a fare i conti (con i casuali), con l’effimero, con il frammentario, perché l’esistenza dell’uomo è questa: «assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini».
Tutte queste tre espressioni insieme dovrebbero indicare l’Incarnazione.
4.1.1. L’obbedienza

Poi la carriera umana di Gesù. Fatto uomo: «apparso in forma umana»; il testo continua: «8 umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce». «Umiliò se stesso», è probabilmente il motivo per cui l’Inno è stato scelto. Perché c’era stato detto prima di «non fare nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma… con tutta umiltà, considerare gli altri superiori a noi stessi». Il Cristo incarnato «8 umiliò se stesso facendosi obbediente». Il modo concreto dell’umiltà è esattamente l’obbedienza; e che l’obbedienza sia evento fondamentale nella vita di Gesù lo abbiamo già ricordato con la Lettera agli Ebrei: «Pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti quelli che obbediscono ai suoi comandi» (Eb 5, 8-9).
E soprattutto bisognerebbe leggere il cap. 5, 12ss della Lettera ai Romani, dove il discorso è la contrapposizione Adamo-Cristo, che è essenzialmente la contrapposizione tra disobbedienza-obbedienza: per la disobbedienza di uno siamo tutti in una condizione di miseria; per l’obbedienza di uno solo tutti sono costituiti giusti. Quindi si può dire che nel cap. 5° della Lettera ai Romani il dramma del mondo è descritto come dramma tra disobbedienza e obbedienza.
Gesù Cristo, uomo, ha percorso il cammino dell’esistenza umana, l’agire e il patire storico, in tutte le esperienze di limitatezza, di povertà, di condizionamento e di provvisorietà. Fino all’ultima espressione della povertà umana: la morte. Il Cristo ha detto di sì alla vita umana e al suo punto finale che è la morte.
Notate che il discorso per il nostro Inno è soprattutto dell’indicare un cammino di abbassamento. Dio-uomo, ma uomo-servo, ma «servo… fino alla morte e alla morte di croce». Questo è l’unico accenno nel nostro Inno al significato salvifico della morte di Gesù. Perché quello che l’Inno vuole descrivere non è l’opera di redenzione in quanto tale, ma è il mistero di abbassamento nel quale la redenzione è compiuta. Quindi la parola “croce” richiama la redenzione immediatamente in un contesto cristiano, ma non è come gli inni della Lettera ai Colossesi e agli Efesini centrati proprio sull’opera redentiva. Qui è centrato sul cammino di abbassamento e di obbedienza fino alla morte.
4.2. Movimento di innalzamento
A questo punto l’Inno ha la sua svolta, all’improvviso cambia tutto: l’itinerario è arrivato al termine, alla morte di croce, oltre quello non si può andare. Ma «9 Per questo Dio l’ha esaltato». Qui cambia il soggetto. Finora il soggetto era Cristo Gesù, ora il soggetto diventa Dio. Vuole dire: questa è la risposta di Dio al percorso che Gesù Cristo ha fatto. Gesù Cristo ha vissuto una carriera a rovescio, che dalla condizione divina lo ha portato alla morte in croce; ebbene Dio non è stato muto di fronte a questa scelta di Gesù Cristo, ma ha risposto con la sua potenza: «9 Per questo Dio lo ha esaltato». Anche qui la traduzione non è esatta, perché il testo dice: «lo ha sovraesaltato», uperipsosen, quindi lo ha innalzato ancora al di sopra (dopo vediamo in che senso). In ogni modo quello che si vuole dire è che Dio ha dato a Cristo una posizione di sovranità, lo ha innalzato «e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome». Chiaramente “nome” vuole dire un potere, una dignità, una forza, una energia che lo pone al di sopra di qualunque altro potere, si può dire che lo ha innalzato al di sopra dei cieli. Se voi pensate ad una visione cosmologica dove l’innalzamento significhi un aumento di potere, “salire sopra i cieli” vuole dire: acquistare potere sopra i cieli e sopra la terra, chi è in cielo domina la terra, chi è al di sopra dei cieli domina i cieli e la terra. Ebbene, è questo che è stato dato a Gesù Cristo.
Il verbo tradotto con «gli ha dato il nome» è il verbo echarisato, che indica come una grazia, un dono. La prospettiva si gioca nel dono. Il Padre risponde con infinita liberalità e generosità all’atteggiamento e al comportamento di Gesù, e gli dà questo nome, potere, «al di sopra di ogni altro nome» perché è nel nome di Gesù. Ed è la prima volta che nell’Inno viene fuori “il nome”, e stranamente il nome Gesù. Perché il nome Gesù? Probabilmente perché sottolinea la dimensione umana, l’umanità. Poteva usare anche il nome Cristo, che avrebbe indicato una dignità messianica, invece usa il nome di “battesimo”, cioè il nome della sua umanità.
Il Gesù, che è il Gesù di Nazaret, «10 perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; 11 e ogni lingua proclami». E qui viene citato Isaia al cap. 45°, dove si annuncia che le nazioni pagane, quelle che finora hanno combattuto Israele, un giorno verranno e insieme con Israele si inchineranno, si prostreranno, davanti alla sovranità di Dio; Dio viene riconosciuto come sovrano da tutte le nazioni, e non solo da Israele, anche dai nemici degli israeliti insieme con loro e fanno la proskynesin, l’adorazione, e la proclamazione della grandezza di Dio (cfr. Is 45, 14).
Però qui cambia tutto, perché tutte queste realtà e potenze non s’inchinano davanti a Dio, ma davanti a Gesù Cristo, che ha percorso il cammino dell’umiliazione «fino alla morte e alla morte di croce», e lo proclamano Signore. “Signore” è il termine greco con cui la Bibbia dei LXX traduce il tetragramma. Quando nel testo ebraico c’è JHWH, la traduzione greca traduce Kirios. Quindi è un nome specificamente divino. Quel uperipsosen, che dicevo prima, il sovraesaltato, è usato ancora nella Bibbia greca solo per Dio. Allora l’onore che viene riconosciuto a Gesù Cristo non è semplicemente sovramondano, è un onore divino, pari pari.
Chiaramente non pensate che questo sia in contraddizione o in concorrenza con l’onore stesso di Dio, perché «11 ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre». Quindi è dentro a questo mistero immenso della gloria di Dio Padre che è riconosciuta effettivamente la divinità di Gesù Cristo.
Quando ritrovare: «ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra» intendetelo in riferimento alle “potenze” (di cui avevamo già detto nell’ottava meditazione). Non vuole dire gli angeli, gli uomini e i morti; ma tutte le potenze che dominano l’universo in qualunque luogo si trovino. C’è un riconoscimento di signoria offerto a questo Cristo che è proclamato Signore. È in questo, uperipsosen, (lo ha sovraesaltato), che ora ha qualche cosa che prima non aveva. È partito dalla forma divina, e uno potrebbe dire che aveva tutto. Si, è vero, aveva tutto, ma adesso nella sua umanità è Signore sopra l’universo, perché ha conquistato questa posizione di dominio con un itinerario paradossale di abbassamento.
5. Il significato dell’Inno
Credo che il significato di un testo di questo genere sia immenso, infinito. Si può leggere in tanti modi, quindi ne ricordo solo alcuni (poi ci può stare la meditazione personale).
5.1.1. Adamo, che desidera essere come Dio senza Dio
Una prima cosa che viene in mente è il confronto con il nostro grande padre Adamo, il quale anche lui aveva a che fare con l’uguaglianza con Dio di cui parla l’Inno; l’esperienza di Adamo è presente come dramma, come desiderio, all’inizio della storia umana. Ma qui c’è esattamente l’opposto. Nel caso di Adamo c’è una persona che è in forma di uomo – non in forma di Dio –, ma che non si accontenta della sua forma di uomo e vuole rapire l’uguaglianza con Dio. Per rapire l’uguaglianza con Dio cerca di percorrere un itinerario di autoaffermazione, cioè di autonomia, di taglio di ogni legame e sottomissione. Il risultato di un itinerario di questo genere è evidentemente la morte. Allora il contrasto non potrebbe essere più evidente. Diceva Ratzinger: “Non è proibito all’uomo desiderare di essere come Dio; il problema è desiderare di essere come Dio senza Dio”. Quindi “il come Dio” vuole dire: al posto di Dio. Questo è il dramma, una radice di peccato. Invece il cammino che l’uomo è chiamato a percorrere è di una sottomissione di un’obbedienza al Padre. In quello c’è il cammino che lo innalza, per grazia di Dio, alla condizione stessa del Signore.
5.1.2. Adamo, che vuole farsi Dio senza Dio
Un altro riferimento parallelo ad Adamo, c’è nel cap. 28° di Ezechiele. È una satira contro i re di Tiro. Tiro era costruita su un’isoletta a qualche centinaia di metri dalla costa e siccome era una grande potenza marinara si sentiva onnipotente. Perché una città può essere assediata e assalita, ma assediare un’isola è abbastanza complicato, soprattutto se in quell’isola domina il commercio, quindi le sue navi percorrono tutto il Mediterraneo. Da questo punto di vista Tiro si sente onnipotente: perché, chi mi prende, chi mi circonda? La satira sul re di Tiro (che chiaramente rappresenta la città, non è il re come singolo personaggio) gli dice: «Poiché il tuo cuore si è insuperbito e hai detto: Io sono un dio, siedo su un seggio divino in mezzo ai mari, mentre tu sei un uomo e non un dio, hai uguagliato la tua mente a quella di Dio, ecco, tu sei più saggio di Daniele, nessun segreto ti è nascosto. Con la tua saggezza e il tuo accorgimento hai creato la tua potenza e ammassato oro e argento nei tuoi scrigni; con la tua grande accortezza e i tuoi traffici hai accresciuto le tue ricchezze e per le tue ricchezze si è inorgoglito il tuo cuore. Perciò così dice il Signore Dio: Poiché hai uguagliato la tua mente a quella di Dio, ecco, io manderò contro di te i più feroci popoli stranieri; snuderanno le spade contro la tua bella saggezza, profaneranno il tuo splendore. Ti precipiteranno nella fossa e morirai della morte degli uccisi in mezzo ai mari. Ripeterai ancora: Io sono un dio, di fronte ai tuo uccisori? Ma sei un uomo e non un dio in balìa di chi ti uccide. Della morte dei non circoncisi morirai per mano di stranieri, perché io l’ho detto. Oracolo del Signore Dio» (Ez 28, 2-10).
La posizione marinara, che era il suo vanto – «io siedo su un seggio divino in mezzo ai mari», quindi nessuno mi può conquistare –, diventa l’umiliazione della sua tomba. Muori come quelli che non hanno sepolcro, come quelli che muoiono nel mare, lì è la tua umiliazione. È il discorso fondamentale che la Scrittura riprende dall’inizio alla fine, della ubris dell’uomo che vuole farsi Dio senza Dio.
Nel nostro caso c’è invece il cammino opposto, la carriera a rovescio: dell’umiliazione che conduce invece alla dignità, al potere stesso di Dio.
5.2. Il “quarto canto del servo di Jahve”
Una seconda traccia di lettura è il “quarto canto del servo di Jahve”. Qualcuno pensa che ci siano dei rapporti tra l’Inno della Lettera ai Filippesi e il “quarto canto del servo di Jahve” (ma è molto discusso, però si possono accostare certamente senza affermare che uno derivi dall’altro). Si possono accostare perché il “quarto canto del servo di Jahve” incomincia: «Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato» (Is 52, 13). Quindi incomincia con un’immagine di gloria, di potere, di elevazione. L’innalzamento di Giovanni (cfr. Gv 12, 32) viene di qui: «il mio servo avrà successo».
Ma poi viene raccontato il come questo servo ha raggiunto il successo. È come quella tecnica del flex beech, si comincia dalla finale di un dramma e poi si racconta come ci si è arrivati; fa vedere il risultato e poi descrive il cammino. Ma il cammino è quello dell’umiliazione: «Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione?… Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per trovare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si vela la faccia, lo abbiamo disprezzato e non ne avevamo alcuna stima» (Is 53, 1.2-3). E continua a raccontare la carriera di questo servo del Signore: «Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti…» (Is 53, 4-5). Fa vedere tutto questo itinerario fino alla morte: «fu eliminato dalla terra dei viventi… con ingiusta sentenza fu tolto di mezzo» (Is 53, 8) Ma a questo punto: «Quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo… Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce… il giusto mio servo giustificherà molti… io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino» (Is 53, 10.11.12).
Le differenze sono enormi, rispetto al nostro testo, perché Isaia al cap. 52° e 53° è tutto giocato sul tema della redenzione, del riscatto, della liberazione. Però le due immagini dell’abbassamento e dell’innalzamento sono presenti.
5.3. Il Nuovo Testamento
Una terza lettura è il Nuovo Testamento: della vita di Gesù letta sotto la prospettiva del servizio: «il Figlio dell’uomo, non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per la moltitudine». (Mt 20, 28). E soprattutto il cap. 13° di Giovanni, in cui «Gesù (il giorno prima di morire), prima della festa di Pasqua, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine… Pur sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita» (Gv 13, 1.3-4). Giovanni sembra che giochi su questa immagine del deporre le vesti e del prendere l’asciugatoio, perché alla fine dice il contrario: «Quando ebbe finito di lavare loro i piedi e riprese le vesti, sedette di nuovo e disse loro…» (Gv 13, 12). Questa immagine – di Gesù che “depone le vesti” e prende “il grembiule”, che è il segno del servo, e poi “riprende le vesti” – per San Giovanni richiama immediatamente quello che Dio aveva detto nel cap. 10°: «Per questo il Padre mi ama: perché io do la vita da me stesso… Nessuno me la toglie, ma me lo do io da me stesso, ho il potere di darla e ho il potere di riprenderla di nuovo» (Gv 10, 17.18). Depone e riprende, in mezzo però c’è il servizio, la vita trasformata in umiltà, ma non semplicemente come sentimento, ma come gesto che fa vivere con il dono di se stesso.
5.4. Il significato del mistero di Dio è nel Crocefisso
Questo Inno si può leggere in risposta alla domanda per noi fondamentale: chi è Dio? Oppure: dove posso trovare nel mondo un’immagine reale ed effettiva di Dio? Ho bisogno di conoscere qualche cosa del mistero di Dio e cerco nel mondo una traccia; dove? Nella natura, negli avvenimenti belli dell’amore, ecc. Se ha ragione il nostro testo, questa traccia di Dio bisogna cercarlo in un Crocefisso. In quell’uomo innalzato e umiliato sulla croce, lì c’è la traduzione più significativa del mistero di Dio in termini umani. “Significativa” perché Dio, di fronte all’umiliazione del Figlio, lo proclama Signore. Quando il Figlio giunge «fino alla morte e alla morte di croce», lì Dio dice: questo è il Signore. Siccome Signore è il nome stesso di Dio, è come dire: questo è colui nel quale io mi compiaccio, nel quale mi ritrovo (cfr. Mt 3, 17). Ed è molto significativo che Dio si ritrovi esattamente lì: in una vita donata, in una vita trasformata in obbedienza e in amore.
Questo si aggiunge alle riflessioni che abbiamo fatto prima sugli altri due Inni e credo che insieme ci aiutino ad avere una cristologia ricca e una cristologia pregata in un contesto di inno e di lode e di riconoscenza a Dio.
* Documento rilevato dalla registrazione, adattato al linguaggio scritto, non rivisto dall’autore, ma dall’Ufficio Pastorale.

Publié dans:Lettera ai Filippesi |on 17 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

QUEL CHE RESTA DI PAOLO – ANNO PAOLINO

http://www.stpauls.it/jesus/0907je/0907jehp.htm

ANNO PAOLINO – UN PRIMO BILANCIO

QUEL CHE RESTA DI PAOLO

DI GIUSEPPE PULCINELLI

(Jesus, 7 luglio 2007)

Durante quest’anno si sono moltiplicate le iniziative « paoline ». Uno stimolo per i cristiani affinché attingano all’esempio dell’Apostolo: non una superficiale imitazione, dunque, ma una conformazione al modello di chi ha sposato totalmente la causa di Cristo.
  È forse presto per trarre dei bilanci dall’Anno Paolino appena concluso, e tuttavia si può già tentare qualche riflessione sulle possibili prospettive che esso ha aperto.
Sicuramente ha fornito tantissime occasioni per ripensare alla figura dell’Apostolo: pellegrinaggi, catechesi, spettacoli, mostre, convegni, simposi internazionali, ma anche programmi diocesani e parrocchiali; si può dire che ogni realtà ecclesiale è stata direttamente o indirettamente coinvolta in qualche iniziativa « paolina ». E soprattutto ha stimolato molti cristiani a riprendere in mano i suoi scritti, come ha incitato a fare anche Benedetto XVI al termine delle catechesi che gli ha dedicato: «Proprio questo può ancora e sempre fare l’apostolo Paolo. Attingere a lui, tanto al suo esempio apostolico quanto alla sua dottrina, sarà quindi uno stimolo, se non una garanzia, per il consolidamento dell’identità cristiana di ciascuno di noi e per il ringiovanimento della Chiesa» (4 febbraio 2009; il terzo volume che raccoglie le sue catechesi viene ora pubblicato dalla San Paolo, Paolo e il suo insegnamento).
Molti hanno detto giustamente che se anche l’Anno Paolino avesse ottenuto quest’unico scopo, avrebbe visto ampiamente giustificata la sua indizione. E accostare personalmente i suoi scritti – oltre alle occasioni offerte dalla liturgia (troppo raramente i testi paolini vengono commentati nelle omelie!) – non può mai lasciare indifferenti: la perenne freschezza e radicalità dell’Evangelo da lui predicato è davvero un grande stimolo per ripensare il nostro essere cristiani del XXI secolo. Di fatto tantissimi aspetti del suo pensiero, del suo insegnamento, trovano facile connessione con l’attualità: la ministerialità (maschile e femminile) nella Chiesa, la tensione tra carisma e autorità, la rilevanza del dono della profezia, il rischio delle fazioni-divisioni, il rapporto tra fede e morale, l’universalismo e l’inculturazione dell’Evangelo, la parresìa come stile ecclesiale… solo per nominarne alcuni.
Un aspetto che potrebbe suscitare imbarazzo se non è ben compreso, è quello della « imitazione » dell’Apostolo, di cui Paolo stesso parla in vari passaggi delle sue lettere: «Fatevi miei imitatori» (1Cor 4,16; cf. 1Ts 1,6; 2,14; Fil 3,17; 4,9; Gal 4,12; ecc.). Non è un invito da presuntuosi o esaltati, come potrebbe sembrare; è invece il segno di un rapporto intimo, profondo, da collocare nell’ottica familiare della genitorialità (cfr. 1Cor 4,14-17), in cui ci si mette in gioco con tutto sé stessi a favore di chi, entrando a far parte della Chiesa nascente, non aveva ancora antenati nella fede a cui guardare per orientarsi nella vita.
Ultimamente, in quella che viene definita una situazione di emergenza educativa, si parla molto della mancanza di modelli positivi nella formazione dei giovani, e dell’antitetico dilagare di modelli che poco o nulla hanno a che fare con la prospettiva cristiana o più in generale con i valori etici; e ci si è pure interrogati se è ancora effettivamente praticabile la metodologia pedagogica del « conformarsi al modello », per i rischi che essa potrebbe comportare, non ultimo quello della riproduzione pedissequa e tutto sommato sterile degli atteggiamenti esteriori del modello. Di fatto però l’avere dei modelli è connaturale all’essere umano; questo vale già nell’ambito familiare, con il bambino che impara imitando i genitori, e poi in quello scolastico, professionale… Ciò continua a valere nel campo religioso-ecclesiale. Ogni credente ha fatto l’esperienza di quanto siano state decisive per il proprio cammino di maturazione nella fede e nelle scelte di vita alcune figure di riferimento: genitori, maestri, sacerdoti, suore, catechisti, ecc. Volti, parole, gesti significativi che ci sono rimasti impressi, quando in certi frangenti abbiamo avuto come l’illuminazione: «Questo è il modo giusto di reagire, il modo per aderire alla realtà e coglierne la sua verità più profonda». È in questo senso che conserva tutta la sua validità la pedagogia dell’esempio, il « conformarsi al modello ». Nell’ottica paolina, l’imitazione (in greco: mìmesis) è tutt’altro che un « mimare » atteggiamenti esteriori di chi si trova in una posizione preminente come modello-testimone, e ancor meno un mitizzare la figura dell’apostolo: Paolo si oppone drasticamente a ogni minimo insorgere di qualcosa che assomigli al culto della personalità: «Che cosa è mai Apollo? Che cosa è Paolo? Servitori… Né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa crescere… Nessuno ponga il suo vanto negli uomini!» (cfr. 1Cor 3,5.7.22).
D’altra parte si sbaglierebbe di grosso se si esaltasse – come a volte si è fatto – la figura di Paolo come quella del supereroe, dell’uomo perfetto, sempre all’altezza, che non sperimenta mai sconfitte e delusioni: non dimentichiamo che Nietzsche, alla ricerca di supporti alle sue idee sul superuomo, proprio per la mancanza di queste caratteristiche si scagliava furiosamente contro Paolo e il suo pensiero.
Paolo, al contrario, è profondamente cosciente della limitatezza, di quella propria e di coloro ai quali annuncia il Dio cristiano; la sua non è una teologia della trionfalistica onnipotenza e onniscienza, bensì quella della debolezza e stoltezza della croce, cioè la rivelazione del volto di Dio nel Cristo crocifisso: «Quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti» (1Cor 1,27). E anzi, con una forte dose di ironia, egli stigmatizza con l’appellativo di «superapostoli» (cfr. 2Cor 11,5; 12,11) coloro che presumono di essere «ministri di giustizia» (2Cor 11,15), probabilmente dei giudaizzanti che si consideravano in perfetta coerenza con i precetti della Legge e che avevano avuto molto seguito tra quei credenti di Corinto, sviandoli dalla giusta ermeneutica dell’Evangelo.
Al contrario, di sé stesso Paolo non afferma la forza, la capacità e l’efficienza, ma la limitatezza e l’imperfezione nell’essere umile strumento della grazia: «Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione» (1Cor 2,3); e se di qualcosa bisogna vantarsi, egli si vanta unicamente della grazia che viene dalla croce di Cristo (cfr. Gal 6,14) e della propria debolezza (cfr. 2Cor 12,5), perché essa fa in modo che sia unicamente la grazia di Dio a risplendere: «Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la forza di Cristo… quando sono debole è allora che sono forte» (2Cor 12,9.10).
Per Paolo il discernimento non avviene in base a precetti esteriori. Il cristiano infatti per le sue scelte deve confrontarsi con quelle paradossali che Dio ha compiuto in Cristo e che continua a compiere ancora oggi: scelte di tutt’altro segno rispetto all’ottica mondana della ricerca del potere, di cui un tratto caratteristico è quello che porta a farsi deboli con i forti e forti con i deboli; prima di concludere con la celebre frase «mi sono fatto tutto a tutti per salvare a ogni costo qualcuno», Paolo scrive: «Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli» (1Cor 9,22); e non aggiunge, come ci si sarebbe aspettato: «Mi sono fatto forte con i forti», tanto meno «mi sono fatto forte con i deboli».
«Siate miei imitatori come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1): imitare Paolo per imitare Cristo, questa è la finalità della mìmesis, arrivare ad avere lo stesso sentire di Cristo (cfr. Fil 2,5), cioè sposare la stessa causa, avere i suoi intenti, il suo stile, in particolare la sua umiltà e obbedienza (cfr. Fil 2,8); a questo serve l’imitazione di Paolo e dei suoi collaboratori.
Alla scuola di Paolo, scopriamo che essere modelli per gli altri (in un modo o nell’altro, anche se non lo scegliamo, lo siamo) non significa essere perfetti, ma essere convinti di permanere nella condizione di chi continua a imparare, anche dagli errori (Fil 3,12: «Non sono arrivato alla perfezione, ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù»). Non si deve temere di perdere credibilità nel rivelarsi vulnerabili e deboli: è invece un grande incoraggiamento per chi ci è affidato vedere qualcuno/a che continua a imparare; tra l’altro a livello psicologico chi è « perfetto » risulta inavvicinabile, suscita antipatia, ma soprattutto rischia moltissimo l’ipocrisia: «Quando pretendiamo di fare gli educatori con la presunzione di essere uomini arrivati che non hanno più bisogno di essere educati dalla vita, diventiamo ipocriti» (C. M. Martini).
E in questo processo, che potremmo inquadrare nell’ottica della « formazione permanente », un grande aiuto ci viene in primo luogo da chi per noi è modello di vita evangelica, ma anche da chiunque, credente o meno, è cercatore di verità e di senso, da tutti coloro che lottano per la giustizia, dai pensatori, dai poeti, dagli artisti… Da ogni persona e situazione può venirci una parola feconda per il presente. In questo Paolo ci insegna davvero a pensare in grande: «In conclusione, fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri. Le cose che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, mettetele in pratica. E il Dio della pace sarà con voi!» (Fil 4,8-9).

Giuseppe Pulcinelli

Publié dans:ANNO PAOLINO |on 17 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

Jerusalem maps

Jerusalem maps dans immagini sacre JerusalemCenterPainting053011

http://woostergeologists.scotblogs.wooster.edu/2011/05/

Publié dans:immagini sacre |on 16 septembre, 2013 |Pas de commentaires »
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