Archive pour septembre, 2013

DIO HA SCELTO LE COSE DEBOLI: ATTI 16:6-15.

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Missione Cristiana Evangelica

DIO HA SCELTO LE COSE DEBOLI

TESTO: ATTI 16:6-15.

16:6 Poi attraversarono la Frigia e la regione della Galazia, perché lo Spirito Santo vietò loro di annunziare la parola in Asia; 16:7 e, giunti ai confini della Misia, cercavano di andare in Bitinia; ma lo Spirito di Gesù non lo permise loro; 16:8 e, oltrepassata la Misia, discesero a Troas. 16:9 Paolo ebbe durante la notte una visione: un macedone gli stava davanti, e lo pregava dicendo: « Passa in Macedonia e soccorrici ». 16:10 Appena ebbe avuta quella visione, cercammo subito di partire per la Macedonia, convinti che Dio ci aveva chiamati là, ad annunziare loro il vangelo. 16:11 Perciò, salpando da Troas, puntammo diritto su Samotracia, e il giorno seguente su Neapolis; 16:12 di là ci recammo a Filippi, che è colonia romana e la città più importante di quella regione della Macedonia; e restammo in quella città alcuni giorni. 16:13 Il sabato andammo fuori dalla porta, lungo il fiume, dove pensavamo vi fosse un luogo di preghiera; e sedutici parlavamo alle donne là riunite. 16:14 Una donna della città di Tiatiri, commerciante di porpora, di nome Lidia, che temeva Dio, ci stava ad ascoltare. Il Signore le aprì il cuore, per renderla attenta alle cose dette da Paolo. 16:15 Dopo che fu battezzata con la sua famiglia, ci pregò dicendo: « Se avete giudicato ch’io sia fedele al Signore, entrate in casa mia, e alloggiatevi ». E ci costrinse ad accettare.

« Non abbiate l’animo alle cose alte, ma aspirate alle cose umili ».
 A volte siamo propensi o indotti a pensare che le opere promosse da Dio siano quelle sensazionali: grandi folle riunite o interventi eccezionali della potenza divina, a volte accade, ma non sempre Dio agisce allo stesso modo, non sempre i « risvegli » hanno inizio da grandi riunioni o da grandi movimenti, e non sempre questi movimenti sono sinonimo di risveglio. Il testo in questione ci pone di fronte all’inizio di uno dei più grandi movimenti di risveglio, e vediamo che è iniziato con estrema semplicità, ma indiscutibilmente con estrema efficacia, poiché ha dato inizio alla nascita della chiesa in Europa, la chiesa di Filippi è stata la prima comunità cristiana fondata in Europa, e con certezza nata da un movimento promosso dallo Spirito Santo.
La missione di Paolo.
Il secondo viaggio missionario di Paolo.
Paolo, dopo essersi bruscamente separato da Barnaba, si mette in viaggio con altri collaboratori, Sila e Luca che oltre ad essere un testimone oculare è anche l’autore del libro degli Atti. Raggiungono Derba e Listra, qui si unisce a loro il giovane Timoteo, cercano di entrare in Asia, ma accade a questo punto qualche cosa di particolare. Paolo ed i suoi collaboratori godevano della presenza di un accompagnatore d’eccezione: « Lo Spirito Santo », è Lui che li guida nella giusta direzione, che apre e chiude le porte, lo Spirito Santo impedisce loro di parlare in quei posti, si rimettono in cammino, attraversano la Frigia a la Galizia, e tentano di entrare in Bitinia (Turchia), ma lo « Spirito di Gesù » glielo impedisce, e questa definizione dello Spirito Santo unito al nome di Gesù, dovrebbe far riflettere tutti i moderni « ariani » che non riconoscono la divinità di Cristo. Il primo insegnamento che riceviamo da questa meditazione è che se vogliamo lavorare per il Signore, dobbiamo ascoltare le sue direttive!
Guidato dallo Spirito Santo.
Cosa significa essere guidati dallo Spirito Santo? Significa essere sensibili alla Sua voce, cogliere le direttive, ubbidire per fede. Paolo avrebbe potuto forzare la situazione e procedere secondo i suoi piani, ma non agisce così, ubbidisce, ascolta, si muove in armonia con lo Spirito Santo. Se tu vuoi servire nella pienezza dello Spirito Santo, devi imparare a sottomettere i tuoi piani al Signore, assicurarti che siano in armonia con la Sua volontà, impara ad esaminare le Scritture, esaminare le tue motivazioni, e se necessario chiedere consiglio a credenti più anziani e maturi nella fede, chiedi a Dio di « aprire o chiudere », secondo i Suoi piani.
La visione.
Dio non lascia i Suoi servitori nell’incertezza, dopo averli guidati per l’intervento dello Spirito Santo. Se guardiamo attentamente una cartina noteremo come lo Spirito imponesse loro una direzione precisa, adesso diventa ancora più specifico con la visione di un uomo macedone che rende chiaro il piano del Signore per la loro missione, ora sapevano con esattezza dove il Signore li aveva chiamati.
« Soccorrici ».
Lo stesso grido che noi ascoltiamo ogni giorno attorno a noi, di gente disperata, sofferente, inconsapevole della loro condanna, « salva quelli che vacillando vanno al supplizio, che se tu dici non ne sapevo nulla, tu sarai ritenuto colpevole », Dio mette ogni giorno davanti ai nostri occhi una visione, migliaia di essere umani che non conoscendo Gesù Cristo vivono nella schiavitù del peccato, « soccorrici » è il grido. Chi andrà, come andremo, cosa gli porteremo? Sono domande che ogni credente è in dovere di porsi, ma questo grido in ogni caso ci dà la certezza della volontà di Dio e della sua chiamata per ciascuno di noi.
La certezza della volontà di Dio.
Certamente la volontà di Dio è che ogni uomo sia salvato, ma da parte nostra non smettiamo di supplicare lo Spirito Santo che ci conduca presso quelle persone che Dio ha già preparato per incontrarlo, non lasciamo che sia il « caso » a guidarci, ma chiediamo a Dio che conosce e governa le circostanze.
Lo zelo, l’entusiasmo.
Paolo e i suoi collaboratori a questo punto sicuri e confermati partono all’attacco per strappare anime al demonio, e per conquistarle a Cristo, c’è vigore quando il Signore ci conferma, ricevuta la Sua approvazione siamo pieni di energie perché siamo in armonia con la Sua volontà, ma anche tutto questo non significa che vedremo ciò che noi desideriamo!!
La delusione, poche donne, una sola ascolta.
Dopo tutto quest’impegno, un viaggio di tanti chilometri, lo Spirito Santo, che agisce, ferma, chiude, dirige, quantomeno ci si aspetta una città intera da evangelizzare, radunamento da mille persone, mega riunioni, ma non è così, o meglio non sempre è così. Paolo si trova di fronte una città in cui nemmeno si trova una sinagoga, dalla quale era solito cominciare le sue azioni evangelistiche, forse è costretto a prendere informazioni per cercare qualche giudeo, trova questo posto fuori città, « Persechè », luogo di preghiera, dove poche donne si riunivano per pregare, e la maggior parte di loro non è nemmeno tanto interessata alla predicazione di Paolo, una sola sembra essere attenta. Di fronte ad una situazione così poco rilevante, forse noi ci saremmo persi d’animo, ma Paolo è sicuro di trovarsi nel posto giusto, nel centro della volontà del Signore, e questo gli dà la forza di perseverare e fare ciò che la sua chiamata gli impone « guai a me se non evangelizzo ».
La gioia di Dio.
« vi è gioia nel cielo per un solo peccatore che si ravvede », è la stessa gioia che deve muovere ogni credente, ogni comunità che vive per la potenza dello Spirito Santo. Ricordiamoci delle parabole della perla, della pecora perduta, della dracma, allo stesso modo dovremmo essere solleciti per cercare i perduti, e nel provare la stessa gioia del Signore nel vedere un’anima convertirsi. L’esempio dell’incontro avuto da Gesù con la donna samaritana al pozzo di Giacobbe dovrebbe essere per ogni credente un argomento di profonda riflessione, così come il risultato che ne derivò, una città che venne coinvolta dalla sua testimonianza!
Lidia una donna sulla via della salvezza.
La condizione di Lidia.
Molto normale, non si trattava di una tossicodipendente o di una alcolizzata, niente liberazioni da operare anzi, una donna ricca benestante, molto probabilmente stimata per la sua attività, che bisogno aveva di Gesù Cristo? Ma il bisogno di salvezza e di giustificazione presso Dio non dipende dalla nostra condizione sociale, dalla nostra statura morale, dalla nostra etica religiosa, queste cose possono essere presenti o no nella vita di una persona, ed è cosa giusta essere in una buona condizione morale, ma noi tutti abbiamo bisogno di essere salvati semplicemente perché siamo per natura peccatori e figli d’ira come dice la Scrittura
Cercava un rapporto con Dio.
Il fatto che una donna non giudea si riunisse a pregare l’Eterno, significava che le ricchezze, il successo, gli idoli della cultura occidentale non le davano soddisfazione
Temeva Dio.
Lidia era una « proselita », non era di nascita giudea, ma temeva Jahweh, per tanto si era unita alla religione ebraica, seguiva i loro riti, le loro preghiere, le loro feste, ma questo non faceva di lei una figliola di Dio, non lo era per l’eredità promessa ai figlioli d’Israele, e non lo era per adozione, era una buona religiosa certamente, moralmente sana, visto che temeva Dio, ma non era salvata, ed ora vedremo perché.
Lidia una donna salvata.
L’esperienza di Lidia c’insegna il modo di agire di Dio nei confronti dei peccatori bisognosi di essere salvati. Molte persone al pari di Lidia sono alla ricerca di Dio senza sapere che Dio le sta’ già cercando, e questa vicenda c’insegna che ci sono delle condizioni affinché si concretizzi questo incontro, perché non basta sapere che Dio esiste, non è sufficiente frequentare delle riunioni di preghiera, non basta avere timore di Dio, Dio non cerca dei « proseliti », ma dei peccatori che riconoscendo la loro condizione disperata accettino la grazia in Cristo Gesù, e che per tanto diventino suoi figli legittimi attraverso l’esperienza spirituale della nuova nascita.
L’opera della grazia di Dio.
Dio non è un burattinaio, Dio non sceglie alcuni ed altri no, Dio opera affinché ogni uomo sia salvato, Dio ci ha eletti a salvezza prima della fondazione del mondo, ma attenzione « In Cristo Gesù » al di fuori di Cristo noi restiamo dei buoni religiosi, ma perduti, fuori di Cristo noi siamo sotto la legge, per tanto sotto maledizione, perché dice la Scrittura di coloro che si affidano alla legge: « Maledetto chiunque non persevera in tutte queste cose », e chi mai potrà adempiere a tutta la Legge perfetta e giusta di Dio, ma Dio per grazia cerca l’uomo peccatore, lo raggiunge, lo prepara, gli annuncia il suo amore, fa in modo che il cuore sia aperto per ricevere il suo dono di perdono e salvezza, e lo strumento efficace è la Parola.

Lo strumento efficace è la Predicazione della Parola. I Cor.1:21-22, Romani 10:17.
Non cerchiamo altre soluzioni alternative, più facili, scorciatoie spirituali, lo strumento efficace per toccare i cuori è la Parola, la predicazione dell’evangelo, tutto il resto deve essere complementare, una bella cornice valorizza il quadro, ma il valore è nel dipinto.
La risposta.
« Ecco Io sto alla porta… se uno ode…se uno apre io entrerò ». A questo punto tutta la responsabilità è dell’uomo che ascolta, Gesù si presenta alla porta, ti fa udire la Sua voce, ma entrerà solo se tu aprirai la porta, questa è in sintesi la dottrina del Nuovo Testamento, la grazia sovrana di Dio, che cerca, raggiunge, convince, prepara, ma che in ogni caso non prevarica il libero arbitrio dell’uomo chiamato a scegliere se essere salvato in Cristo, o di essere perduto per sempre lontano dall’amore di Dio. Se la tua risposta è: « si, voglio appartenere a Cristo », ricorda che la tua vita cambierà, e la tua scelta può cambiare influenzare alcune circostanze attorno a te, tu puoi e devi diventare uno strumento di salvezza per altre persone!
Lidia una donna salvata per grazia che porta frutto.
La decisione di battezzarsi.
A volte i Pastori trascurano l’esortazione al battesimo, perché si pensa sia sconveniente forzarlo, altre volte con troppa semplicità si amministra il battesimo a persone che in realtà non sono nate di nuovo, ma come vediamo dalla Scrittura il battesimo è una spontanea conseguenza della conversione di chi ha udito la predicazione del vangelo, che comprende l’incoraggiamento ad ubbidire al comandamento del Signore, « chi avrà creduto e sarà stato battezzato sarà salvato », è la scelta di chi ha creduto in Cristo, e riconoscendosi peccatore lo ha accettato come personale Salvatore e Signore. Ai Pastori, agli Anziani della chiesa dunque il delicato compito di valutare la « fedeltà », la sincerità della fede del neo convertito.
La testimonianza.
Se siamo decisi e fedeli vedremo frutto, nella famiglia e attorno a noi le persone saranno coinvolte dalla nostra testimonianza. Valutiamo con serietà l’esempio lasciatoci dalla sorella Lidia, se desideriamo vedere le nostre famiglie convertite, i nostri parenti, amici, colleghi, la conversione deve essere sincera, la testimonianza decisa, l’impegno preso con il Signore e con la comunità deve essere serio e costante!
La fedeltà.
Per Lidia la conversione al cristianesimo può essere costata, consideriamo che era una donna dedita al commercio, presumibilmente ricca, e noi sappiamo quanto i criteri del mondo siano contrari ai principi della fede cristiana, ma la vediamo fedele e costante, pronta ad accogliere i fratelli anche quando le cose si mettono male. Atti 16:40.
« Poiché chi potrà disprezzare il giorno delle piccole cose ».
Se Dio ti ha chiamato a compiere l’opera d’evangelista, non disprezzare le « piccole occasioni », se hai creduto e ti senti nella condizione di Lidia, il solo o la sola nella tua città, nella tua famiglia sul posto di lavoro, se ti senti inadeguato, impreparato, indegno, non all’altezza, guarda alla scelta fedele di Lidia, e considera i risultati, tutta la famiglia si convertì, poca cosa? Considera allora che pochi anni dopo in quella città nacque un gloriosa testimonianza, una chiesa prospera, ricordata con gioia dall’apostolo Paolo, non pensare di essere inutile nell’opera di Dio, tu sei « debole », ma Dio ha scelto le cose deboli per svergognare le forti! Dio vuole fare di te una « colonna del suo tempio ». Se invece ti trovi ancora in bilico tra il versetto 14 e il 15 di Atti 16, se ancora sei un buon religioso alla ricerca del vero rapporto con Dio, Cristo è la via la verità e la vita, ed è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini, se non sei ancora sicuro di quale sarà la tua destinazione eterna, scegli oggi! Non limitarti a sapere che Dio esiste, non affidare la tua eternità ai deboli elementi del mondo, sacrifici, pratiche religiose, sforzi umani di buone opere, che per quanto giuste siano non ti possono far guadagnare ciò che Dio vuole donarti in Cristo Gesù, non limitarti a sapere che Dio e amore, lasciati amare da Lui, lascia che il suo amore entri nel tuo cuore per mezzo dello Spirito Santo.

Publié dans:LETTURE DAGLI ATTI DEGLI APOSTOLI |on 23 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

Guido Reni, San Matteo

Guido Reni, San Matteo dans immagini sacre 499px-Guido_Reni_043

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Publié dans:immagini sacre |on 20 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

21 SETTEMBRE SAN MATTEO APOSTOLO – IL VANGELO DI SAN MATTEO

  http://www.pastoraleliturgica.it/varie/matteo/sintesi_matteo.htm

21 SETTEMBRE SAN MATTEO APOSTOLO

IL VANGELO DI SAN MATTEO

AUTORE, DATA E LUOGO DI COMPOSIZIONE
Il Vangelo secondo Matteo è scritto in greco. Il testo non dice nulla a proposito dell’autore, ma il nome di Matteo compare nel racconto della chiamata di un funzionario che riscuoteva le imposte a Cafàrnao (9,9-13) e nell’elenco dei dodici apostoli, dove è accompagnato dal soprannome «il pubblicano». (10,3).
Un vescovo del II secolo (Papia) e altri dopo di lui hanno affermato che l’apostolo Matteo ha scritto in lingua «ebraica», cioè nell’aramaico parlato ai tempi di Gesù, un testo che potremmo chiamare un «Vangelo».
Dopo aver analizzato con molta precisione le caratteristiche letterarie del Vangelo di Matteo nel testo che è arrivato fino a noi, gli studiosi sono attualmente propensi a credere che quello di Marco sia più antico.
Nel Vangelo secondo Matteo troviamo alcune allusioni alla distruzione di Gerusalemme come a un fatto già avvenuto (22,7); vediamo inoltre riflettersi nelle sue pagine l’aspra lotta tra il giudaismo ortodosso dei farisei e la nascente chiesa cristiana. Possiamo concludere che è stato scritto non prima dell’anno 70 d.C., probabilmente intorno all’80.
Gli studiosi sono abbastanza concordi anche nel ritenere che sia stato redatto in Siria (Antiochia) o in Fenicia, due zone dove i cristiani provenivano in gran parte dal giudaismo. La cosa più importante comunque è sapere che il primo Vangelo, come tutti i libri della sacra Scrittura, è stato composto sotto la guida dell’ispirazione divina.

I DESTINATARI DEL PRIMO VANGELO
Se vogliamo conoscere meglio il volto della giovane chiesa a cui probabilmente è indirizzato il primo Vangelo dobbiamo soffermarci su tre sue caratteristiche:
I suoi membri sono cristiani provenienti dal giudaismo.
Prendono decisamente le distanze dalla dottrina ufficiale dei farisei.
Si sforzano di aprire progressivamente le porte ai pagani.
 CRISTIANI PROVENIENTI DAL GIUDAISMO
  Ebrei di razza, fino a poco tempo prima questi cristiani erano anche di religione giudaica. Sono riconoscibili nel Vangelo secondo Matteo situazioni, problemi, residui di tradizioni e preoccupazioni che rivelano un ambiente e un’origine giudaica. Molti particolari lo indicano chiaramente: la presenza di una genealogia dettagliata che risale fino ad, Abramo; l’importanza attribuita alla legge di Mosè e all’insegnamento dei dottori della legge; l’interesse per il mantenimento delle tradizioni degli antichi (preghiera, elemosina, digiuno); il rispetto per il sabato; l’aspirazione alla «giustizia» che apre le porte del regno tanto atteso.
È evidente tuttavia che i destinatari del Vangelo secondo Matteo non sono giudei, ma cristiani che hanno bisogno di una «catechesi» per consolidare la propria fede in Gesù, il Messia figlio di Davide. Essi sanno che la legge è stata portata a compimento dal Cristo. Non ignorano che la celebrazione del culto eucaristico esige una vita di perdono, di amore e di misericordia. Sanno che i responsabili della comunità e tutti i suoi membri hanno bisogno di essere continuamente stimolati a preoccuparsi con amore dei più piccoli e dei più deboli, a perdonare senza misura, a denunciare l’ipocrisia e a non lasciarsi trascinare dal desiderio degli onori umani. E poiché l’attesa della venuta del Signore si prolunga, sono minacciati dal pericolo della stanchezza. Di qui il pressante invito: vegliate, tenetevi pronti, perché non conoscete né il giorno né l’ora.
PRENDONO LE DISTANZE DALLA DOTTRINA UFFICIALE DEI FARISEI
L’autore del primo Vangelo ha compreso l’enorme pericolo che correrebbe la comunità cristiana se intendesse la legge del Cristo come i farisei intendono la legge di Mosè. L’insistente affermazione: « Ma io vi dico», contrapposta all’espressione: «Avete inteso che fu detto», mette davanti agli occhi dei discepoli la distanza tra l’antica e la nuova legge, che si può osservare soltanto con la grazia del Cristo e che trasforma il mondo e i rapporti fra gli uomini.
In molte pagine del primo Vangelo si avverte la contrapposizione al fariseismo. Certi farisei non hanno visto la luce che brillava in Gesù. Una parte del popolo si è lasciata trascinare al punto da prendere su di sé la responsabilità della condanna del Cristo («II suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli») (27,23-25). Il regno sarà tolto loro e sarà dato ad altri (21,43). Un primo segnale del castigo è la distruzione della città santa e del suo tempio (24,2). Nel giorno del giudizio costoro avranno una sorte più dura di quella degli abitanti di città come Sòdoma e Gomorra (10,15) o come Tiro e Sidone (11,22-24).
Notiamo tuttavia che le minacce non sono soltanto per i farisei, ma anche per i cristiani che non amano Dio. L’opposizione al fariseismo inoltre non è un invito alla vendetta e all’odio. Il richiamo all’amore per i nemici viene ricordato in maniera molto esplicita (5,44-47).
SI SFORZANO DI APRIRE PROGRESSIVAMENTE LE PORTE AI PAGANI
Si tratta di una preoccupazione reale, che in Marco e Luca emerge con molta maggior forza ma che è riconoscibile anche in Matteo. La comunità per cui scrive l’evangelista ha i suoi problemi sul piano dell’organizzazione, della vita morale, della preghiera e della pratica sacramentale, ma non tralascia per questo di sforzarsi di essere una comunità in cui possano trovare posto tutti gli uomini.
Il racconto dei magi (i primi adoratori del Messia) (2,1-12) e le ultime parole di Gesù risorto (che chiede ai suoi di portare l’annuncio evangelico a tutti i popoli) (28,19) inquadrano una serie di allusioni all’idea che la salvezza di Dio è per tutti: «Questo vangelo del regno sarà annunziato in tutto il mondo» (24,14). «Molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli» (8,11). Gesù infatti è « il servo che annunzierà la giustizia alle genti», come ricorda Matteo (12,18-21) citando il profeta Isaia (Is 42,1-4).

UNO SCRIBA DIVENUTO DISCEPOLO DEL REGNO DEI CIELI
L’autore del primo Vangelo redige il suo testo dando un’interpretazione nuova a tradizioni preesistenti. Cura attentamente il suo stile. È chiaro e preciso nelle sue espressioni. Usa un linguaggio raffinato. Non trascura i piccoli particolari e li inserisce armoniosamente all’interno dei blocchi dottrinali.
Nel Vangelo di Matteo troviamo espressioni e procedimenti letterari molto usati dagli ebrei della Palestina.
Fra le prime, le principali sono: «il regno dei cieli», «la Legge e i Profeti», «legare e sciogliere», «prendere sopra di sé il giogo».
Fra i secondi ricordiamo:
I raggruppamenti numerici, molto in uso presso i giudei. Hanno valore simbolico e rendono più facile imparare il testo a memoria. (Abbiamo ad esempio una serie di sette parabole. Sette sono anche le invettive contro i farisei e le domande del Padre nostro. I grandi discorsi sono cinque e le tentazioni tre).
ll parallelismo sinonimico o antitetico, cioè l’introduzione di formule parallele facili da ricordare («Avete inteso che fu detto… Ma io vi dico»).
La ripetizione di determinate espressioni («Guai a voi, scribi e farisei»; « Tu invece»; «Il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà»).
Matteo è attratto, più degli altri evangelisti sinottici, dagli insegnamenti di Gesù maestro. Li raggruppa in cinque discorsi, lunghi, densi di contenuto e molto più completi di quelli riportati da Marco o da Luca nei rispettivi Vangeli:
Il cosiddetto discorso della montagna, che si apre con le « beatitudini» e costituisce una specie di dichiarazione programmatica o di grande annuncio del regno di Dio (5-7).
Il discorso ai missionari, che raccoglie i consigli dati da Gesù ai discepoli inviati a predicare il regno di Dio (10).
Le parabole del regno. Il regno è un mistero e non solo una legge nuova. Attraverso una serie di parabole Gesù ci rivela i misteri di Dio (13).
Il discorso ai responsabili della comunità, in cui si raccomanda vivamente la sollecitudine per i più piccoli, la fraternità e il perdono delle offese (18).
Il discorso sulla fine dei tempi, in cui risuona il pressante invito a vegliare in modo attivo e responsabile, dedicandosi al servizio dei più umili (24-25).
Matteo si rifà molto spesso all’Antico Testamento. Nel suo Vangelo è possibile rintracciare quarantatré riferimenti molto chiari. La formula introduttiva più usata è: «Perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta». L’Antico Testamento viene citato ad esempio per quanto riguarda:
il concepimento verginale di Gesù (1,22);
l’adorazione dei magi (2,5);
la fuga in Egitto (2,15);
la strage degli innocenti (2,17);
il ritorno di Gesù a Nàzaret (2,23);
la predicazione iniziale in Galilea (4,14);
l’insegnamento per mezzo di parabole (13,14.35);
la guarigione di indemoniati e di altri infermi (8,17;12,17);
l’ingresso trionfale in Gerusalemme (21,4);
la triste fine di Giuda (27,9).
In tutti questi casi l’evangelista afferma non solo che si compie ciò che era stato predetto, ma anche che il disegno di Dio raggiunge in Gesù la piena realizzazione prevista da Dio stesso.
 Le indicazioni geografiche del primo Vangelo sono vaghe e non permettono di ricostruire un itinerario preciso. Alcuni studiosi pensano che potrebbero anche avere un significato religioso.
Bambino, Gesù ritorna dall’Egitto e si stabilisce in Galilea. Proprio in questa regione, che aveva ben poco valore agli occhi degli abitanti di Gerusalemme, Gesù comincia a predicare il regno di Dio. Matteo vede in questo fatto la grande luce annunciata da Isaia per il popolo che camminava nelle tenebre (4,15-16).
Gesù risorto si manifesta ai discepoli in Galilea. Da questa terra disprezzata dai giudei la parola di Dio rimbalzerà in tutto il mondo: «Andate e ammaestrate tutte le nazioni» (28,19). Tranne qualche rapida puntata in terra pagana, Gesù esce soltanto due volte dalla Galilea: la prima per essere battezzato da Giovanni sulla riva del fiume Giordano. Qui egli riceve e accetta la sua missione. Il Padre dichiara Gesù Figlio e Messia. Sullo sfondo si delinea la figura del servo sofferente preannunciato da Isaia (3,17).
Gesù esce una seconda volta dalla Galilea per andare a morire nella città santa. A Gerusalemme si consumerà il rifiuto del Cristo da parte dei capi e del popolo. Matteo segnala questo fatto riferendo nel suo Vangelo che alla morte di Gesù il velo del tempio si squarcia da cima a fondo (27,51).
«Vi precede in Galilea; là lo vedrete» (28,7). «Ecco, noi stiamo salendo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato…, lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani… perché sia crocifisso…» (20,18-19). Galilea e Gerusalemme. Due luoghi e anche due simboli. La regione disprezzata si apre alla luce. La città santa si chiude e porta fino in fondo il rifiuto di Dio.

GESÙ È IL MESSIA ATTESO. LA CHIESA LO PROCLAMA SIGNORE

 Il Vangelo secondo Matteo è costruito su due idee chiave:
Gesù è il Messia atteso da Israele. Ma in seno al suo popolo questa verità non è stata riconosciuta.
Gesù fonda una nuova comunità e la chiama chiesa. È il nuovo Israele. Il suo capo è Pietro. Questa comunità è depositaria delle promesse di Dio e viene incaricata di annunciare a tutti i popoli il regno dei cieli.
Matteo vuol rivelare il mistero meraviglioso di Gesù. Per questo presenta il Cristo con nomi e titoli che sono molto significativi per i suoi ascoltatori giudeo-cristiani.
Gesù è il figlio di Abramo, il figlio di Davide, il re dei giudei. Secondo le antiche promesse, il Messia sarebbe venuto dalla stirpe di Abramo (Gn 12,2) e il suo regno avrebbe reso eterno il regno di Davide (2Sam 7,12).
Gesù è anche il Figlio dell’uomo. Questo misterioso personaggio del libro di Daniele riceve da Dio il potere divino di giudicare (Dn 7). Gesù riceverà questo potere il giorno della sua risurrezione. Di conseguenza è il titolo che Gesù preferisce, perché esprime velatamente la gloria che egli possiede come Figlio eterno del Padre e che lo attende come uomo.
Gesù è il servo sofferente che si carica della nostra miseria e versa il suo sangue per la remissione dei nostri peccati (Is 42,1 = Mt 12,18; Is 53,4 = Mt 8,17; Is 53,12 = Mt 26,28). Egli rivela così la misericordia di Dio verso tutti.
Il Cristo del Vangelo di Matteo si presenta rivestito di una maestà e di una dignità straordinaria. È il maestro per eccellenza, che vive in mezzo alla comunità. Insegna la nuova «giustizia» e interpreta la legge con autorità e in maniera definitiva. Non la sopprime, ma ne mette in luce l’essenza e la porta a compimento: Dio vuole che amiamo anche i nemici.
 Il Cristo di Matteo infine è il Signore onnipotente. Questo titolo, ripetuto per ottanta volte nel corso del Vangelo, equivale all’affermazione che Gesù è Dio (il termine «Signore» traduce l’ebraico JHWH). Gesù vive nella sua chiesa e agisce in essa con potenza.
Il contenuto del primo Vangelo si potrebbe sintetizzare in una frase: «La salvezza di Dio è Gesù Cristo per mezzo della chiesa».

UN POSSIBILE SCHEMA DEL VANGELO SECONDO MATTEO
Per la sua semplicità e chiarezza, presentiamo come semplice guida di lettura il seguente schema del primo Vangelo:

Vangelo dell’infanzia del Cristo                                1,1-2,23
Il regno dei cieli: proclamazione
                – Sezione narrativa                                           3,1-4,25
                – Discorso della montagna                                5,1-7,29
Il regno dei cieli: istruzioni agli apostoli
                – Sezione narrativa (miracoli)                            8,1-9,38
                – Discorso ai missionari                                    10,142
Il mistero del regno dei cieli
                – Sezione narrativa                                            11,1-12,50
                – Le parabole del regno                                     13,1-52
Il primo frutto del regno dei cieli: la chiesa
                – Sezione narrativa                                             13,53-17,27
                – Discorso alla comunità                                     18,1-35
L’avvento prossimo del regno dei cieli
                – Sezione narrativa                                              19,1-22,46
                – Discorso contro i capi del popolo                      23,1-39
                – Insegnamenti sulla fine                                      24,1-25,46
Vangelo della passione e della risurrezione                      26,1-28,20

22 SETTEMBRE 2013 – 25A DOMENICA : « NON POTETE SERVIRE A DIO E A MAMMONA »

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/12-13/05-Ordinario/Omelie/25-Domenica-2913_C/25-Domenica-2013_C-SC.html

(vi consiglio di leggere anche l’Omelia di Father Ron – in inglese se potete, ben spiegato l’intreccio ed istruttiva
http://fatherronstephens.wordpress.com/ )

22 SETTEMBRE 2013  | 25A DOMENICA – T. ORDINARIO C  |  APPUNTI ESEGESITICO-SPIRITUALI

« NON POTETE SERVIRE A DIO E A MAMMONA »

In questa Domenica e nella seguente il tema fondamentale è quello della « ricchezza » che, pur essendo un dono di Dio, diventa per gli uomini il più delle volte un laccio di strangolamento sia per sé che per gli altri.
S. Luca raggruppa nel capitolo 16 del suo Vangelo due interessanti parabole, quella dell’amministratore infedele e quella del ricco epulone, con alcuni ammonimenti circa il buon uso delle ricchezze per aiutare i cristiani a sfuggire alla loro forza di seduzione, che non sembra risparmiare nessuno, non solo nella società in cui viviamo, ma perfino nella Chiesa. Le due parabole, con accentuazioni diverse, vogliono segnalare il « rischio » dell’attaccamento ai beni di questo mondo, per renderci disponibili e aperti a quelli del « regno », che già è operante in mezzo a noi attraverso Cristo e il suo Vangelo.
Prendiamo oggi in considerazione la prima parabola, inserita però nel quadro generale del contesto liturgico.

« Ascoltate questo, voi che calpestate il povero… »
La prima lettura ci dà un quadro desolante della società israelita del tempo del profeta Amos, che opera nell’VIII secolo a.C. nel regno di Samaria, sotto Geroboamo II (783-743), in un periodo economicamente assai prospero per il paese.
Come quasi sempre avviene in simili circostanze, i ricchi cercavano di sfruttare il momento favorevole sulla pelle dei poveri. Di qui la collera di questo rude Profeta, allevatore di bestiame (Am 1,1 ), contro tutte le ingiustizie e gli strozzinaggi del suo tempo, che da alcuni si cercava addirittura di accoppiare con il rispetto puramente formale verso il sabato e la festa della « nuova luna », in cui erano proibite dalla Legge le transazioni commerciali.
« Ascoltate questo, voi che calpestate il povero / e sterminate gli umili del paese, / voi che dite: « Quando sarà passato il novilunio / e si potrà vendere il grano? / E il sabato, perché si possa smerciare il frumento, / diminuendo le misure e aumentando il siclo, / e usando bilance false, / per comprare con denaro gli indigenti / e il povero per un paio di sandali? / Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe (cioè per se stesso): / certo non dimenticherò mai le loro opere » (Am 8,4-7).
Sono le tipiche forme di sfruttamento che da sempre opprimono i poveri, impedendo loro di crescere e di acquistare la coscienza non solo della loro dignità, ma anche della loro capacità di trasformazione della società verso traguardi più umani e più giusti. Oggi forse la situazione è anche più grave, se si pensa che lo sfruttamento avviene non solo da parte di individui e di società, nazionali o multinazionali, ma perfino di certi regimi, di destra o di sinistra che siano.
Proprio per questo, la irruenta pagina di Amos è più che mai attuale e deve spingere i cristiani, dovunque si trovino, a ribellarsi a una situazione del genere e a riproporre a sé e agli altri il « senso » dei beni terreni, perché questi non diventino strumento di oppressione, ma di « comunione » e di « fraternità » degli uomini fra di loro.

« C’era un uomo ricco che aveva un amministratore disonesto »
Mi sembra che a questo miri soprattutto la parabola così detta dell’ »amministratore infedele » (Lc 16,1-9), ma che forse meglio sarebbe chiamare dell’ »amministratore astuto », perché di fatto l’applicazione che ne fa Gesù punta precisamente sull’abilità con cui egli ha saputo trarsi dai guai, per proporla a esempio ai suoi discepoli: « Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce » (16,8). C’è dunque da imparare anche dai cattivi, non per la cattiveria in sé e per sé, ma per il « modo » abile, tenace, suasivo con cui compiono il male e inducono altri ad associarsi a loro.
Il « padrone », di cui qui si parla, non può essere il proprietario terriero ai cui danni era stata giocata una così ignobile truffa, ma è certamente Cristo (cf 7,6; 11,39), che si svela attraverso la trasparenza della parabola. Così come i « figli della luce » sono i suoi discepoli.
C’era dunque « un uomo ricco che aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi; lo chiamò e gli disse: « Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore ». L’amministratore disse tra sé: Che farò ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ho forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua. Chiamò uno per uno i debitori del padrone e disse al primo: « Tu quanto devi al mio padrone? ». Quello rispose: « Cento barili d’olio ». Gli disse: « Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito, cinquanta… ». Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce » (Lc 16,1-8).
La manovra speculativa qui descritta, che viene come ultimo gesto di corruzione dello spregiudicato amministratore, si capisce meglio se si pensa che nell’antico Oriente i responsabili amministrativi di un latifondo non venivano stipendiati regolarmente dal padrone; dovevano arrangiarsi, invece, ricavando il loro compenso dai prestiti che facevano, ad alto interesse, dei frutti del fondo agricolo.
Questa volta però il fattore escogita la più brillante delle sue birbonate: approfittando della notevole libertà amministrativa concessagli dalle abitudini del tempo, falsifica i dati relativi al quantitativo dei suoi debitori: condona o abbona il 50% al primo debitore (quello dell’olio) e il 20% al secondo (quello del grano). In tal modo egli si assicurava la gratitudine dei suoi clienti, legati a lui nella truffa, nonché una buona percentuale personale sull’abbono del debito?
A ragione perciò il padrone « lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza » (v. 8). Con la sua operazione, infatti, si era procurato un doppio vantaggio: quello del guadagno immediato personale, e quello dell’amicizia dei suoi clienti, che non avrebbero potuto non essergli grati. Su questo ultimo fatto soprattutto insiste la lode del padrone, perché « i figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce » (v. 8).

« Procuratevi amici con la disonesta ricchezza »
È infatti su questo invito a saper usare della ricchezza per farsi degli « amici » che si chiude la parabola: « Ebbene io vi dico: procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand’essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne » (v. 9).
È interessante questa frase perché, mentre per un verso è assai polemica contro la ricchezza che viene chiamata « disonesta » (l’espressione semitica originaria è « mammona d’iniquità ») – essendo il più delle volte frutto di ingiustizie, di sotterfugi e di compromessi con la propria coscienza -, per un altro verso dice che anche la ricchezza può servire a fare del bene, a procurarci appunto degli « amici », che a loro volta ci aiutino presso il Padre al momento della nostra morte. Le « dimore eterne » infatti, espressione di tipo apocalittico, stanno a designare il luogo della salvezza, cioè il Paradiso. Si pensi alla frase di Gesù: « Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore » (Gv 14,2).
Chi siano questi « amici » indeterminati non è facile dirlo, ma possiamo arguirlo da tutta la tematica teologica di Luca che insiste nell’aiuto ai poveri, ai bisognosi: « Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fate vi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma. Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore » (Lc 12,33-34). In concreto, perciò, gli « amici » che ci dobbiamo « procurare » con la ricchezza sono tutti coloro che avremo beneficato e che saranno nostri intercessori presso Dio; in astratto, sono tutte le opere di bene, le elemosine, che avremo fatto al nostro prossimo e che vengono qui come personificate.
Questo è l’unico modo, per Luca, di giustificare il possesso della ricchezza: altrimenti, anche se acquistata legittimamente, essa viene usata illegittimamente e perciò può anche diventare « disonesta ». Infatti, la ricchezza o viene adoperata per condividerla con gli altri, dilatando così gli spazi dell’amore e dell’amicizia, o diventa occasione di egoismo personale, e perciò di invidia e di contesa da parte degli altri, elemento di inquietudine e di squilibrio sociale. Si manifesta allora, come Gesù ha detto, una vera « maledizione » per chi la possiede e per chi non la possiede: « Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione » (Lc 8,24).
È proprio su questo terreno che si può « saggiare » l’autenticità del discepolo di Cristo: perché solo se egli avrà il cuore libero dalla ricchezza di questo mondo, potrà essere degno della ricchezza « vera », abbondante, quella che gli apparterrà in proprio e che nessuno potrà mai rapirgli perché è il Padre che gliel’ha « affidata », cioè la ricchezza del « regno ». E questo, se non andiamo errati, il senso delle sentenze che seguono, le quali, pur essendo piuttosto disparate, sono collegate fra di loro da alcuni vocaboli che hanno funzione di aggancio: ricchezza disonesta o mammona, fedeltà, affidare, ecc. « Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto. Se dunque non siete stati fedeli nella disonesta ricchezza, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? » (Lc 16,10-12). La ricchezza è detta « altrui », in quanto è destinata non a essere goduta egoisticamente, ma partecipata anche agli « altri ».

« Nessuno può servire a due padroni »
E infine l’espressione più dura di tutto il discorso, quella che elimina ogni possibilità di legittimazione della ricchezza: « Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire a Dio e a mammona » (v. 13).
La ricchezza è un « rischio » permanente, perché tende di per sé ad « asservire » l’uomo, assorbendone tutti gli interessi. In queste condizioni Dio diventa solo un accessorio, anzi di meno: un « avversario » che bisogna far fuori! Ma c’è anche il caso contrario: quanto più Dio conquista il cuore dell’uomo, più si allenta l’amore alla ricchezza, fino a scomparire del tutto, come in Francesco d’Assisi e in tanti altri Santi. Il cristiano perciò ha una cartina di tornasole a sua disposizione per controllare l’autenticità della sua fede: esaminare il suo atteggiamento verso la ricchezza propria o altrui, se essa è per lui strumento di « partecipazione » e di « amicizia », oppure di chiusura egoistica e di rancore.
Era l’insegnamento degli antichi Padri: « Non sei forse un ladro, tu che delle ricchezze, di cui hai ricevuto la gestione, disponi come se fossero tue proprie? (…) All’affamato appartiene il pane che tu conservi, all’ignudo il mantello che tieni nel baule, a chi è scalzo le scarpe che marciscono a casa tua, al bisognoso il denaro che tu tieni nascosto. Così tu commetti tante ingiustizie quanta è la gente cui potevi donare » (S. Basilio).
Ed è l’insegnamento anche oggi della Chiesa: « Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e popoli, e pertanto i beni creati debbono, secondo un equo criterio, essere partecipati a tutti, essendo guida la giustizia e assecondando la carità ».
Ciò nonostante, rimane lo scandalo che la quasi totalità della ricchezza è ancora nelle mani dei cristiani e circa due terzi dell’umanità, normalmente non cristiani, sono nella miseria. Come si spiega tutto questo? Non dipende in parte anche dal fatto che i cristiani hanno voluto « servire » allo stesso tempo « Dio e mammona », tradendo così il Vangelo?
Proprio per questo c’è da pregare, come ci raccomanda S. Paolo nella seconda lettura (1 Tm 2,1-8), perché Dio trasformi il cuore di tutti, onde « possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità » (v. 2).

Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola. Riflessioni biblico-liturgiche

Publié dans:immagini sacre |on 20 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

MARTIRI COREANI, ANDREA KIM TAEGON

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20 SETTEMBRE , MEMORIA: MARTIRI COREANI, “ESEMPIO PERFETTO ” DELL’AMORE A CRISTO E AI FRATELLI

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20 SETTEMBRE , MEMORIA:  MARTIRI COREANI, “ESEMPIO PERFETTO ” DELL’AMORE A CRISTO E AI FRATELLI

I vescovi coreani spingono i fedeli a conoscere la vita dei 103 martiri, canonizzati da Giovanni Paolo II e morti durante le persecuzioni anti-cristiane che hanno scosso il Paese per più di un secolo. Il loro sangue “ha fatto sbocciare i semi piantati da Dio in Corea”.

Seoul (AsiaNews) – La Chiesa universale e quella coreana “hanno bisogno della testimonianza dei martiri, oggi più che mai. Si tratta di una testimonianza perfetta ed eterna che spiega il bisogno di Cristo nelle nostre vite e l’amore che proviamo per i nostri fratelli. Ecco perché è importante ricordare chi sono stati e cosa hanno fatto, in vita, i martiri di ogni Paese. Ecco perché pubblichiamo le vite dei martiri coreani”. Sono le parole con cui la Conferenza episcopale coreana presenta una nuova iniziativa: le biografie dei 103 Santi martiri canonizzati da Giovanni Paolo II. Riportiamo di seguito il testo completo dell’introduzione.
 I 103 Santi martiri della Corea sono stati canonizzati da Giovanni Paolo II nel corso di una cerimonia che si è svolta il 6 maggio 1984 nella piazza Yoido di Seoul. Come disse in quell’occasione il defunto pontefice, “dal trentenne Pietro Yu Tae-chol al settantaduenne Mark Cong; maschi e femmine; sacerdoti e laici; ricchi e poveri; persone ordinarie e nobili; tutti sono stati felici di morire per testimoniare Cristo. I Santi martiri coreani hanno voluto testimoniare il Cristo crocifisso e risorto.
 Attraverso il sacrificio delle loro vite sono divenuti simili al Salvatore. Beati coloro che vengono perseguitati a causa della giustizia, perché loro è il Regno dei Cieli (Mt, 5;10). La verità di queste parole pronunciate da Gesù, la verità delle Beatitudine è manifestata dall’eroica testimonianza di questi martiri coreani”. È per questo che presentiamo il breve riassunto delle loro vite (v. http://english.cbck.or.kr/?mid=Saints103&page=2&document_srl=413), le stesse che sono state presentate alla cerimonia della loro canonizzazione. Dio, che vuole la salvezza di tutti i popoli, ha piantato i semi della fede cattolica in Corea in maniera egregia: quei semi sono sbocciati.
 La comunità cristiana ha iniziato il suo cammino quando Yi Sung-hun ha deciso di studiare da solo la dottrina cristiana: viene battezzato con il nome di Pietro nel 1784. All’inizio, proprio a causa della loro fede in Dio, i primi cristiani della Corea sono stati perseguitati in maniere diverse: rinnegati dalle loro famiglie, sono stati costretti a rinunciare non soltanto al loro rango sociale ma persino ai loro diritti umani fondamentali. Eppure, nonostante queste persecuzioni, la fede ha continuato a diffondersi. La comunità cristiana della Corea, nata senza alcun sacerdote, ha avuto la gioia di avere due pastori che provenivano dalla Cina.
 Ma il loro ministero è stato breve, e sono passati altri 40 anni prima che la Società per le missioni estere di Parigi iniziasse a lavorare anche qui. Il padre Mauban ha messo piede in Corea nel 1836, accolto da una comunità cristiana che desiderava ardentemente la grazia dei sacramenti. Prima di questo arrivo una delegazione era stata scelta e inviata a Pechino a piedi, oltre 750 miglia, per chiedere al vescovo con le lacrime agli occhi di inviare anche in Corea dei sacerdoti. Lo stesso appello era stato inviato al Santo Padre, a Roma.
 Bisognava considerare i seri rischi che pendevano sulla testa di quei missionari che avessero scelto di vivere nel Paese: i vescovi e i sacerdoti che scelsero di affrontare questo pericolo, così come i laici che li hanno aiutati e spesso difeso, hanno vissuto nel pericolo costante di morire. Insieme ai loro pastori spirituali si sono uniti uomini e donne, giovani e anziani, colti e analfabeti: nessuna distinzione di classe sociale. Tutti uniti dalla fede comune e dal desiderio di testimoniare la chiamata di Dio a tutti i popoli, senza eccezioni, per poter vivere la perfezione della vita. I primi missionari stranieri ad abbracciare per l’amore del Signore una cultura differente sono stati mons. Lauren Imbert e altri dieci sacerdoti francesi del Mep.
 Di giorno erano costretti a nascondersi, ma di notte viaggiavano a piedi per rispondere ai bisogni spirituali dei fedeli e amministrare loro i sacramenti. Il primo sacerdote coreano fu Andrea Kim Tae-gon: spinto dall’amore di Dio e dal desiderio di aiutare i suoi confratelli nella fede, decise di vivere i pericoli di un missionario nella sua stessa patria. Tanto che, tredici mesi dopo la sua ordinazione, venne messo a morte a 26 anni. Con l’olio della consacrazione ancora fresco sulle sue mani. Paolo Chong Ha-sang, Agostino Yu Chin-gil e Carlo Cho Shin-chol fecero diverse altre visite a Pechino, per trovare un modo di portare in Corea altri missionari; dalle persecuzioni del 1801, infatti, nessun sacerdote si prendeva cura della comunità.
 Fra i martiri che onoriamo vi erano quindici vergini; fra queste ricordiamo le due sorelle Agnese e Colomba Kim Hyo-ju, che “hanno amato Gesù con cuore unico” (I Cor. 7, 32-34). Queste donne, un un’epoca in cui la vita religiosa era una realtà sconosciuta per la Corea, hanno vissuto in comunità prendendosi cura degli ammalati e dei poveri. Allo stesso modo, Giovanni Yi Kwang-hyol è morto martire dopo una vita passata nel celibato, in una sorta di servizio consacrato alla Chiesa.
 Nelle persecuzioni anti-cristiane che hanno attraversato la Corea per più di un secolo sono morti circa 10mila martiri. Di questi, 79 sono stati beatificati nel 1925, altri 34 martiri sono stati beatificati nel 1968. Tutti insieme, per volontà della Chiesa, sono stati canonizzati sulle rive del fiume Han, da dove si vedono i loro santuari. Lì dove riposano, nella loro ricompensa eterna.

«O TIMOTEO, CUSTODISCI IL DEPOSITO»

http://www.30giorni.it/articoli_id_20434_l1.htm

«O TIMOTEO, CUSTODISCI IL DEPOSITO»

Le Lettere pastorali di san Paolo mostrano che la custodia del depositum fidei è garantita dall’azione dello Spirito Santo, attraverso la grazia dell’imposizione delle mani e la grazia che risplende nelle opere buone. Eppure proprio queste Lettere, che costituiscono il fondamento della Chiesa-istituzione, «non isolano più la Chiesa dal mondo profano, al contrario ve la impiantano con un ottimismo e una sicurezza rimarchevoli». Riproponiamo alcune pagine del commentario di Ceslas Spicq alle Lettere pastorali

di Lorenzo Cappelletti

Da parecchi mesi l’espressione deposito della fede o il suo equivalente latino depositum fidei campeggia in titoli e articoli di 30Giorni. Ma il copyright non è di 30Giorni. «O Timoteo, custodisci il deposito» è la raccomandazione finale fatta da san Paolo nella prima Lettera indirizzata al suo discepolo prediletto. Ripetuta, poco prima di andare incontro al martirio, nella seconda Lettera. Prima di allora quell’espressione non era stata mai usata da san Paolo (e neanche dagli altri scrittori neotestamentari). Proprio nel momento in cui il suo sangue stava per essere sparso, san Paolo avvertiva che poteva disperdersi il tesoro che come un vaso debole eppure forte aveva custodito. Come avvertì quell’altro Paolo più vicino a noi quando scrisse il Credo del popolo di Dio. La grande alternativa – è stato scritto di recente – per la vita di un uomo e di un popolo è, infatti, tra ideologia e tradizione.
Forse non è appena un caso che le cosiddette Lettere pastorali (denominazione che insieme alle due Lettere a Timoteo ricomprende anche quella a Tito) siano venute di recente alla ribalta. Ad esse è stato dedicato il convegno dell’Associazione biblica italiana tenutosi lo scorso settembre a Termoli, la cittadina molisana che custodisce le reliquie di Timoteo nel suo Duomo incantevole. In attesa che vengano pubblicati gli atti di quel convegno ci facciamo accompagnare nella lettura di qualche brano di quelle Lettere dal grande esegeta domenicano Ceslas Spicq. È suo infatti il commento, apparso in terza edizione giusto cinquant’anni fa (Saint Paul. Les Épîtres pastorales, Éd. Gabalda, Paris 1947), che anche gli eminenti studiosi che si sono succeduti dopo di lui non possono fare a meno di tenere a modello.

Il deposito
«O Timoteo, custodisci il deposito; evita le chiacchiere profane e le obiezioni della cosiddetta gnosi, professando la quale taluni hanno deviato dalla fede» (1Tm 6, 20).

Può essere di aiuto anzitutto capire cosa sia l’istituto giuridico del deposito, al quale si ispira san Paolo. «A Roma “c’è deposito quando si mette una cosa al sicuro presso una persona che si impegna a custodirla e a renderla quando gliela si richiederà”. A differenza della cessione in modo fiduciario, dove c’è un vero trasferimento di proprietà, non c’è nel deposito che una cessione provvisoria di detenzione. Il depositario non possiede per sé stesso ma per il depositante; non è che un custode e conserva i beni a disposizione del tradens, che conserva i diritti legati alla proprietà. Peraltro, come il contratto di fiducia, il deposito si fa volentieri presso un amico che lo conserva gratuitamente. A lungo il deposito effettuato attraverso la semplice consegna (traditio), fu sprovvisto d’efficacia giuridica, essendo un atto senza forma» (p. 331).
Colpito evidentemente dalle caratteristiche di questo istituto, che come contratto «era una novità [datava infatti solo dall’epoca del triumvirato di Ottaviano] e una novità assai sorprendente perché è uno dei primi contratti non solenni» (p. 329), san Paolo lo adotta proprio nel momento del massimo pericolo per la fede. «Fino a quel momento l’Apostolo aveva insistito soprattutto sulla fedeltà al suo ministero, sulla lealtà verso i suoi discepoli; ora è condotto dal pericolo delle nascenti eresie a considerare l’integrità della dottrina per sé stessa, della quale è stato stabilito “araldo, apostolo e maestro”. L’ha ricevuta con incarico di trasmetterla, non gli appartiene. Presentendo la sua prossima fine, Paolo percepisce più vivamente ancora la responsabilità che gli incombe di custodire intatto questo tesoro; fino al termine fissato egli deve preservare la parola di Dio (1Tm 4, 6) da ogni errore e corruzione. È, infatti, un deposito che Dio gli ha confidato ed è prossimo il giorno in cui il divino creditore gliene chiederà conto. Questo deposito Paolo l’ha ricevuto da Dio, e più precisamente da Cristo, sulla strada per Damasco. Visto che questo contratto reale non presupponeva, in origine, per il suo modo di formazione che una semplice rimessa del possesso dei beni, è dunque al momento di questo incontro iniziale che è nato fra il Signore e il suo apostolo questo accordo – l’accordo delle loro due volontà – generatore d’obbligazione fin dal momento della trasmissione dell’oggetto affidato. Il contenuto di questo deposito è il Vangelo. La legge non autorizzava, salvo stipulazioni contrarie, alcun uso dei beni affidati. Ora, l’Apostolo non si è mai considerato che come un amministratore, un dispensatore, dei misteri divini (1Cor 4, 1). A differenza dei maestri che insegnano una dottrina originale, frutto di loro speculazioni, egli non è che un delegato. Quel che predica non lo inventa, non lo trasforma, l’ha appreso e ricevuto e deve trasmettere intatto – come un deposito – questo tesoro che è la parola divina ovvero l’oggetto della fede [...]. Ha terminato la corsa, il momento della sua dipartita è arrivato (2Tm 4, 6-8); esorta Timoteo a vegliare sul deposito che gli trasmette; è suonata l’ora in cui sta per comparire davanti a Dio che giudicherà il suo fedele depositario» (pp. 332-333).

L’imposizione delle mani
Ma sarà sufficiente l’esortazione di Paolo perché Timoteo, giovane e timido per natura, possa conservare il deposito?
«Con l’ordine di conservare il deposito, Paolo indica il mezzo di esservi fedele. Il compito non è facile. Molti hanno abbandonato la fede e l’Apostolo stesso sta per andarsene, ma lo Spirito Santo dimora nella Chiesa e illuminerà e fortificherà i suoi ministri (cfr. 2Tm 1, 7). San Paolo non ne dubita (cfr. 2Tm 1, 12). Questi due ultimi versetti fondano l’insegnamento cattolico relativo alla tradizione. Gli apostoli hanno ricevuto dal Signore la verità cristiana; loro stessi l’hanno trasmessa oralmente, specialmente ai loro collaboratori e ai loro successori nel ministero; ma questi ultimi hanno il dovere di conservarla in tutta la sua purezza e di non comunicarla a loro volta che a degli uomini provati e capaci di assicurare una nuova trasmissione (cfr. 2Tm 2, 2). Ora, questa conservazione e questa trasmissione non possono essere garantite a sufficienza dalle forze umane. È lo Spirito Santo che le preserva da ogni alterazione e da ogni deviazione e, secondo il versetto 7, si può precisare che questa azione dello Spirito Santo si esercita con una efficacia particolare nei membri della gerarchia ecclesiastica» (p. 320). In altre parole, Timoteo dovrà e potrà fare appello alla grazia dell’ordinazione ricevuta da Paolo stesso, che gli scrive:
«6Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani. 7Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza. 8Non vergognarti dunque della testimonianza da rendere al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma soffri anche tu insieme con me per il vangelo, aiutato dalla forza di Dio. 9Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia; grazia che ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, 10ma è stata rivelata solo ora con l’apparizione del salvatore nostro Cristo Gesù, che ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’immortalità per mezzo del vangelo, 11del quale io sono stato costituito araldo, apostolo e maestro.
12È questa la causa dei mali che soffro, ma non me ne vergogno: so infatti a chi ho creduto e son convinto che egli è capace di conservare il mio deposito fino a quel giorno. 13Prendi come modello le sane parole che hai udito da me, con la fede e la carità che sono in Cristo Gesù. 14Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi» (2Tm 1, 6-14).
In questo come nell’altro passaggio (1Tm 4, 14) in cui rammenta a Timoteo l’imposizione delle mani, «san Paolo designa il dono divino così comunicato con la medesima parola. Tale parola non è impiegata nelle Lettere pastorali che in questi due testi sull’ordinazione. Come nelle lettere precedenti, essa designa una specie particolare di grazia, che mette in rilievo un aspetto della sua gratuità; è donata meno per il beneficio del soggetto che per il bene della comunità cristiana, “l’utilità comune” (1Cor 12, 7), per edificare la Chiesa (1Cor 14, 12)» (p. 325). Spicq cita in nota, a questo proposito, il padre Lemonnyer, autore della voce Carismi nel Supplément au Dictionnaire de la Bible: «Questo carisma, la cui ricezione ha fatto di Timoteo il personaggio ufficiale che è, è il carattere sacramentale dell’Ordine. Il sacramento dell’Ordine, generatore della gerarchia ecclesiastica, e il sacramento della Confermazione, con cui sono costituiti i milites Christi, sono essenzialmente dei sacramenti carismatici. La gerarchia sacra è fatta di autorità e di capacità ugualmente soprannaturali. Questa capacità è stata sempre identificata in primo luogo col carattere impresso dall’Ordine a tutti quelli che lo ricevono, in qualunque grado, e che a dire di san Tommaso è una potentia, quasi una facoltà soprannaturale, un carisma di rango più elevato che abilita i membri della gerarchia a tutte le funzioni del loro ufficio. Al quale eventualmente s’aggiunge la concessione extra-sacramentale di carismi complementari: apostoli, dottori, predicatori, pastori etc. Ben lungi dall’essere fondata sulla scomparsa dei carismi, la gerarchia da sempre è fondata su dei carismi» (p. 325 nota 1).
«Bisogna sottolineare che il dono di Dio… in te…; Dio ci ha dato uno Spirito… (2Tm 1, 6. 7) non è senza legame con il deposito la cui conservazione si fa attraverso lo Spirito Santo che abita in noi (2Tm 1, 14). [...] Vuol dire che l’ordinazione assicura la perpetuità della dottrina ortodossa; questa è un legato santo, un “deposito”. La sua integrità in parte dipende senza dubbio dalla docilità e dalla fedeltà dei predicatori, non insegnare dottrine diverse(1Tm 1, 3); ma alla fin fine lo Spirito Santo ne è il primo custode e solo può preservare i ministri cristiani dall’errore. Si è dunque in diritto di identificare in qualche modo la grazia trasmessa con l’imposizione delle mani con l’azione immanente dello Spirito Santo che garantisce il deposito della fede da ogni pericolo d’alterazione. I pastori e i predicatori, avendo ricevuto il carisma dell’ordinazione, godono dell’assistenza dello Spirito Santo nella diffusione e nella conservazione della verità evengelica: «Chiesa del Dio vivente, colonna e fondamento della verità (1Tm 3, 15). Questo è il fondamento della dottrina cattolica sulla tradizione orale come norma della fede. Avendo ricevuto l’imposizione delle mani Timoteo ha la sicurezza di avere sempre la forza e l’attitudine soprannaturali per compiere degnamente il suo ufficio evangelico» (pp. 325-326). Spicq esplicita ulteriormente: «Non si tratta tanto di sforzi ascetici per acquisire un’energia umana, una forza di carattere, quanto della fedeltà alla grazia dell’ordinazione (2Tm 1, 6.7.8.12). Timoteo dovrà mettere in opera i poteri e la forza soprannaturali che ha ricevuto, esercitarli al meglio, a dispetto delle sofferenze e delle fatiche penose che comporta il suo ministero; ma per l’Apostolo con la grazia si può tutto!» (p. 340).

Ecumenismo
Le Lettere pastorali mostrano dunque che la custodia del deposito è garantita dal carattere sacramentale dell’istituzione ecclesiastica. Eppure proprio queste Lettere che costituiscono il fondamento della Chiesa-istituzione (pare un paradosso) «non isolano più la Chiesa dal mondo profano, al contrario ve la impiantano con un ottimismo e una sicurezza rimarchevoli. L’esperienza ha provato che ogni cristiano è chiamato a vivere in mezzo ai suoi vecchi compagni d’errore e di peccato. Lungi dal disprezzarli e dal combatterli, si mostrerà loro come un uomo trasformato dalla grazia» (p. CXCVIII). Nelle Lettere pastorali si esprime al massimo grado l’ecumenismo di Paolo. Come si mostra in particolare in 1Tm 2, 1-5:
«1Ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, 2per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità. 3Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, 4il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. 5Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, 6che ha dato sé stesso in riscatto per tutti».
Commenta Spicq, citando san Giovanni Crisostomo: «Bisogna rendere grazie a Dio anche dei beni che egli accorda agli altri, per esempio che faccia risplendere il suo sole sui cattivi e sui buoni, che faccia piovere sui giusti e sugli ingiusti. Vedi come l’Apostolo non solo con le suppliche ma con l’azione di grazie ci unisce e ci lega insieme» (p. 53). E prosegue: «Tutte queste preghiere non sono limitate a interessi personali, né a una cerchia ristretta di fedeli; hanno di mira il prossimo e avranno un’applicazione universale “per tutti gli uomini”. Questo universalismo è una caratteristica del culto “cattolico”. La preghiera ha la stessa estensione della carità; l’una e l’altra lo stesso universalismo della salvezza (cfr. 1Tm 1, 15; Tt 2, 11). Non c’è nessuno, di qualsivoglia nazione o religione, per il quale la Chiesa non debba pregare, nessuno, nemmeno uno scomunicato di cui almeno l’esistenza non sia un motivo di rendere grazie a Dio» (p. 53). Commentando poi il versetto 3 («Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio»), Spicq aggiunge: «Questa intercessione che il popolo cristiano compie come un sacerdozio regale in favore di tutti gli uomini è una cosa a un tempo moralmente buona, eccellente in sé stessa, come un’opera eminente di carità, e bella e gradita al cospetto di Dio – hapax nel NT – può essere considerato come esplicativo di cioè “bello a vedersi”), perché è la migliore cooperazione che ci sia al piano divino di salvare gli uomini» (p. 57).

Le opere belle cioè buone
L’aggettivo “bello” è il vocabolo che più caratterizza le Pastorali. Delle 44 ricorrenze di esso nel corpus paolinum, ben 24 (più della metà) appartengono alle Pastorali. Tanto che Spicq si meraviglia di come proprio in età ormai avanzata «questa bellezza sembri essere diventata agli occhi di san Paolo una nota distintiva della vita cristiana, un’espressione della nuova fede; tutte le età, tutte le condizioni, ogni sesso, sono come rivestiti di bellezza» (p. 290). Ciò è tanto più notevole dal momento che «Aristotele ritiene che i vecchi non vivono più per il bello (cfr. Retorica II, 13, 1389b, 36); è un segno della forza di rinnovamento e di ringiovanimento della grazia nell’anima dell’Apostolo» (p. 290 nota 1). È «la prova estetica della speranza», scriveva Massimo Borghesi nel numero scorso di 30Giorni (n. 12, dicembre 1997, p. 84). Che si rivela, come abbiamo visto sopra, nella preghiera, come prima opera di carità, e nella carità in senso stretto, cioè in quelle buone opere cui proprio «le Lettere pastorali hanno donato il senso tecnico che la tradizione cristiana ha conservato [...], identificandole giustamente con le opere di misericordia» (pp. 294 e 282), scrive Spicq commentando la Lettera a Tito 3, 3-8:
«3Anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, degni di odio e odiandoci a vicenda. 4Quando però si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, 5egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, 6effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, 7perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna. 8Questa parola è degna di fede e perciò voglio che tu insista in queste cose, perché coloro che credono in Dio si sforzino di essere i primi nelle opere buone. Ciò è bello e utile per gli uomini».
Tito, che era di origine pagana, conosceva per esperienza il valore di queste parole. «Com’è possibile», si chiede Spicq nel commento a questo brano, «fare da un pagano un cristiano? È l’opera della sola grazia, gratis et gratiose. Il versetto Tt 3, 4 è parallelo a Tt 2, 11. Come i doveri reciproci dei cristiani erano fondati sull’iniziativa e la forza educatrice [Spicq più avanti parlerà, in contrasto con la pretesa pelagiana, di una «paideia della grazia» (p. 282)] della grazia di Dio in Cristo, così i doveri dei cristiani di fronte al mondo sono fondati sulla bontà e l’amore di Dio per gli uomini [...]. È l’amore di Dio per gli uomini la causa della conversione di pagani ciechi e peccatori a una vita santa. Questo amore s’è manifestato concretamente in un momento storico e sotto una duplice forma che contrasta con l’odio e la gelosia degli uomini gli uni per gli altri; mentre essi si detestavano, Dio li amava tutti teneramente e voleva loro bene. Anzitutto la benignità. Secondo l’etimologia, significa “quello di cui ci si può servire” e si impiega specialmente per gli alimenti di buona qualità [...]. La è dunque una delicata amabilità, ma implica anche liberalità» (p. 275). E poi la, cioè «una simpatia efficace; equivale al latino humanitas, che significa rispetto per l’uomo in quanto uomo [...]. Dunque un sinonimo di ma accentuando l’universalità di questo favore» (p. 276).
Preghiera, benignità, rispetto per l’uomo in quanto uomo: cose belle, cioè buone, gradite al cospetto di Dio.

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