MORIRE AL PECCATO PER VIVERE CON CRISTO, Padre Cantalamessa
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MORIRE AL PECCATO PER VIVERE CON CRISTO
(Cantalamessa, Conferenze 21 giugno 2010)
Non so se ho mai condiviso con voi la mia primissima esperienza con il Rinnovamento nello Spirito. Non fu il famoso Congresso di Kansas City. Quella fu la seconda. Quando ero ancora nella fase di studio, anzi di critica del Rinnovamento, fui invitato un giorno a un incontro di preghiera a Roma. Ed ero lì visibilmente come un osservatore molto critico tanto che gli animatori di quel gruppo dicevano in segreto alla gente: “Non andate da quel frate lì che è un nemico del Rinnovamento”. Però i fratelli vedendo un sacerdote in mezzo a loro, con semplicità, venivano a confessarsi e ascoltare quelle confessioni fu il mio primo, vero contatto con la realtà del Rinnovamento nello Spirito Santo. Io non avevo mai visto un pentimento così sincero, così profondo dei peccati come in quelle confessioni. Mi sembrava che i peccati che accusavano cadevano come pietre dal loro cuore. Alla fine lacrime di gioia. Capivo cosa Gesù intendeva dire quando diceva: “Il Paraclito, quando verrà, convincerà il mondo di peccato”. Che cosa impedisce che quell’esperienza si ripeta oggi qui, su larga scala, quello che avvenne in quella piccola sala tanti anni fa? Nulla, se lo vogliamo. Il Paraclito è qui per fare la stessa cosa.
1. Il peccato e i peccati
La parola scelta come tema di questo insegnamento è: “Se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato…” (Rom 8,10). Poco prima, nella stessa Lettera ai Romani, si legge: “Anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio in Cristo Gesù… Il peccato non regni più nel vostro corpo mortale” (Rom 6,11-12).
Cosa hanno in comune queste diverse frasi? In ognuna si parla del peccato al singolare, come fosse una realtà personificata, una potenza che domina da dietro le quinta e schiavizza; come se ci fosse una fonte e una radice unica da cui tutti i singoli peccati derivano. Immaginiamo la realtà del peccato come una pianta velenosa e parassitaria, un albero selvatico che succhia la linfa all’albero buono che gli cresce accanto. Noi di solito ci limitiamo , nei nostri esami di coscienza e nelle confessioni, a spuntare le estremità di esso, a raccogliere i frutti marci che ritroviamo regolarmente al loro posto alla prossima confessione. L’Apostolo ci propone una soluzione “radicale”, nel senso letterale della parola: mettere la scure alla radice! Vogliamo seguirlo in questo cammino?
L’anno in cui finì la guerra non c’era sale, non c’era lo zucchero, mancava tutto, tra cui la legna per fare il fuoco. Con mio padre andavamo al vicino fiume Tronto per scavare i ceppi dei pioppi appena tagliati. Io ero piccolo, avevo dodici anni, ma volevo fare la mia parte e aiutare mio padre. Sceglievo il mio ceppo, cercavo di mettere allo scoperto le radici laterali, con la mia piccola accetta, le tagliavo. Spingevo il ceppo, sicuro che doveva cadere, e invece non si muoveva di un millimetro. Allora mio padre mi spiegava: il pioppo, come moltissimi alberi, ha il fittone. Il fittone è una radice madre che cala a perpendicolo giù sotto il tronco e finché non si mette la scure a quella radice madre, al fittone, il ceppo non si smuove. È stata sempre per me è un’immagine eloquente di quello che si deve fare nella lotta contro il peccato. Lasciamoci spiegare da san Paolo cos’è il fittone nel campo spirituale e cos’è la scure.
All’inizio della lettera ai Romani S. Paolo mette allo scoperto la radice-madre di ogni peccato. Scrive:
“L’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli; di quadrupedi e di rettili” (Rm 1, 18-23).
Il peccato fondamentale, l’oggetto primario dell’ira divina, è individuato da san Paolo nell’asebeia, cioè nell’empietà. In che consiste, esattamente, tale empietà, lo spiega subito, dicendo che essa consiste nel rifiuto di “glorificare” e di “ringraziare” Dio. In altre parole, nel rifiuto di riconoscere Dio come Dio, nel non tributare a lui la considerazione che si deve. Consiste, potremmo dire, nell’“ignorare” Dio, dove, però, ignorare non significa tanto “non sapere che esiste”, quanto “fare come se non esistesse”.
Nell’Antico Testamento sentiamo Mosè che grida al popolo: “Riconoscete che Dio è Dio!” (cf Dt 7, 9) e un salmista riprende tale grido, dicendo: “Riconoscete che il Signore è Dio: egli ci ha fatti e noi siamo suoi!” (Sal 100, 3). Ridotto al suo nucleo germinativo, il peccato è negare questo “riconoscimento”; è il tentativo, da parte della creatura, di cancellare, di propria iniziativa, quasi di prepotenza, la differenza infinita che c’è tra essa e Dio.
Tale rifiuto ha preso corpo, concretamente, nell’idolatria, per la quale si adora la creatura al posto del Creatore (cf Rm 1, 25). Nell’idolatria l’uomo non “accetta” Dio, ma si fa un dio; è lui a decidere di Dio, non viceversa. Le parti vengono invertite: l’uomo diventa il vasaio e Dio il vaso che egli modella a suo piacimento (cf Rm 9, 20 ss).
Fin qui, l’Apostolo ha mostrato il ripiegamento avvenuto nel cuore dell’uomo, la sua opzione fondamentale contro Dio. Ora passa a mostrare i frutti che ne derivano sul piano morale. Tutto ciò ha dato luogo a una generale dissoluzione dei costumi, un vero e proprio “torrente di perdizione” che trascina l’umanità in rovina, senza che essa neppure se ne accorga. A questo punto, san Paolo traccia quel quadro impressionante dei vizi della società pagana: omosessualità maschile e femminile, ingiustizia, malvagità, cupidigia, invidia, inganno, maldicenza, superbia, tracotanza, ribellione ai genitori, slealtà… La lista dei vizi è presa dai moralisti pagani, ma il ritratto d’insieme che ne risulta è quello dell’“empio” della Bibbia.
San Paolo ha denunciato, fin qui, il peccato della società pagana del suo tempo e cioè l’empietà che si manifestava nell’idolatria e che portava con sé, come conseguenza, il disordine morale. Se vogliamo ora seguire il suo esempio e raccogliere veramente la sua lezione, non possiamo fermarci qui e fare anche noi una semplice denuncia dell’idolatria della società greco-romana del tempo dell’Apostolo. Dobbiamo fare ciò che ha fatto lui e cioè guardare alla nostra società – come lui ha guardato alla sua – e scoprire la forma che ha assunto in essa l’empietà.
L’Apostolo ha strappato la maschera dal volto dei pagani; ha rivelato come dietro tutta la fierezza di sé, l’elevatezza dei discorsi sul bene e sul male e gli ideali etici, si nascondesse, in realtà, l’auto-glorificazione e l’autoaffermazione dell’uomo, cioè empietà e falsità. Dobbiamo ora lasciare agire la parola di Dio e vedremo come essa strapperà la maschera dal volto del mondo d’oggi e dal nostro stesso volto!
Portiamoci dunque al mondo d’oggi; attualizziamo e storicizziamo la parola di Dio, cercando di vedere se, e in che misura, essa riguarda anche noi, intendendo, per il momento, “noi” nel senso più generico di “noi uomini d’oggi”. San Paolo ha individuato la radice del peccato nel rifiuto di glorificare e ringraziare Dio, nella irreligiosità, che egli chiama, con termine biblico, empietà. In altre parole, nel rifiuto di Dio come “creatore” e di se stessi come creature. Ora noi sappiamo che tale rifiuto ha preso, in epoca moderna, una forma cosciente e aperta che non aveva certamente al tempo dell’Apostolo e che non ha avuto, forse, in nessun’altra epoca della storia. Dobbiamo perciò riconoscere subito che “il mistero dell’iniquità è in atto” (cf 2 Ts 2, 7); esso è una realtà presente, non una semplice rievocazione storica, o una speculazione metafisica.
Marx ha motivato così il suo rifiuto dell’idea di un “creatore”: “Un essere non si presenta indipendente se non in quanto è signore di se stesso, e non è signore di se stesso se non in quanto deve a se stesso la sua esistenza. Un uomo che vive per la “grazia” di un altro si considera un essere dipendente [...]. Ma io vivrei completamente per la grazia di un altro, se egli avesse creato la mia vita, se egli fosse la sorgente della mia vita e questa non fosse mia propria creazione”.
Un’altra voce molto nota in questo campo è quella di J.-P. Sartre che fa dire a un suo personaggio: “Io stesso oggi mi accuso e solo io posso anche assolvermi, io l’uomo. Se Dio esiste l’uomo è nulla [...]. Dio non esiste! Felicità, lacrime di gioia! Alleluja! Non più cielo. Non più inferno! Nient’altro che la terra”.
Tale situazione di rifiuto consapevole e positivo di Dio non è così remota come tanti cristiani potrebbero pensare; è anzi una voragine aperta a due passi dall’indifferenza e dalla “neutralità” in cui vivono. Si parte dall’abbandono di ogni pratica religiosa e si finisce, un triste giorno, tra i nemici aperti e dichiarati di Dio. E questo o per l’adesione a organizzazioni, il cui scopo (tenuto nascosto ai più, all’inizio) è fare guerra a Dio e sovvertire i valori morali, o a causa di aberrazioni sessuali e di un certo consumo di pornografia, o in seguito a incauti contatti con maghi, spiritisti, occultismo, sette esoteriche e altra gente del genere.
La magia, infatti, è un altro modo, il più plateale, di soccombere all’antica tentazione di essere “come Dio”. Ho letto in un manuale di magia: “La forza che, nascosta, guida la magia è la sete di potere. L’obiettivo del mago venne definito per la prima volta abbastanza appropriatamente dal serpente nel giardino dell’Eden. [...] L’eterna ambizione dell’adepto delle Arti Nere consiste nell’acquistare potere su tutto l’universo e fare di se stesso un dio”.
Non importa se, nella maggioranza dei casi, si tratta poi di ciarlataneria e nulla più; basta l’intenzione empia con cui si esercita quest’arte, o ci si rivolge a essa, per far cadere sotto il potere di Satana. Egli opera proprio attraverso la menzogna e il bluff, ma gli effetti del suo operare sono tutt’altro che immaginari. Nella Bibbia Dio dice: “Non si trovi in mezzo a te [...] chi esercita la divinazione, o il sortilegio, o l’augurio, o la magia; né chi faccia incantesimi, né chi consulti gli spiriti, o gli indovini, né chi interroghi i morti, perché chiunque fa queste cose è in abominio al Signore” (Dt 18, 10-12).E nel profeta Isaia troviamo questo severo ammonimento: “Il Signore colpirà il paese perché esso “rigurgita di maghi orientali e di indovini” (cf Is 2, 6).
Gli uomini hanno due sole vie lecite per ottenere potere su se stessi, sulle malattie, sugli eventi, sugli affari, e queste due vie sono la natura e la grazia. La natura indica l’intelligenza, la scienza, la medicina, la tecnica e tutte le risorse che l’uomo ha ricevuto da Dio nella creazione, per dominare la terra nell’obbedienza a lui; la grazia indica la fede e la preghiera con cui si ottengono, a volte, anche guarigioni e miracoli, sempre però da parte di Dio, poiché “il potere appartiene a Dio” (Sal 62, 12). Quando si imbocca una terza via, quella della ricerca di poteri occulti, ottenuti con mezzi occulti, quasi di nascosto a Dio, senza bisogno del suo benestare, o abusando addirittura del suo nome e dei suoi segni, allora entra subito in scena, in un modo o in un altro, il maestro e il pioniere di questa terza via, quello che un giorno disse che tutto il potere della terra è suo e che egli lo dà a chi vuole, se lo si adora (cf Lc 4, 6).
La rovina è, in questi casi, sicura; il moscerino è caduto nella tela del “grande ragno” e non ne uscirà facilmente vivo. Sta avvenendo nella nostra società, tecnologica e secolarizzata, esattamente ciò che notava Paolo: “Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti” (Rm 1, 22): hanno abbandonato la fede per abbracciare ogni sorta di superstizione, anche la più puerile.
Lo Spirito convince noi stessi di peccato
Che parte abbiamo noi (intendo adesso “noi” nel senso di noi che siamo qui, di noi credenti), in questa tremenda requisitoria contro il peccato che abbiamo ascoltato? Stando a quanto detto fin qui, sembrerebbe, infatti, che noi abbiamo, più che altro, un ruolo di accusatori. Ma ascoltiamo bene ciò che segue. Ho detto sopra che l’Apostolo, con le sue parole, avrebbe strappato la maschera dal volto del mondo e dal nostro stesso volto ed è venuto il momento di vedere come la parola di Dio porta a compimento questa seconda e più difficile operazione.
La Bibbia narra questa storia. Il re David aveva commesso un adulterio; per coprirlo aveva fatto morire in guerra il marito della donna, sicché, a quel punto, il prendersela per moglie poteva apparire addirittura un atto di generosità, da parte del re, nei confronti del soldato morto combattendo per lui. Una vera catena di peccati. Venne allora da lui il profeta Natan, mandato da Dio, e gli narrò una parabola (ma il re non sapeva che era una parabola). C’era – disse –, in città, un uomo ricchissimo che aveva greggi di pecore e c’era anche un poveretto che aveva una sola pecorella a lui molto cara, dalla quale traeva il suo sostentamento e che dormiva con lui. Arrivò al ricco un ospite ed egli, risparmiando le sue pecore, prese per sé la pecorella del povero e la fece uccidere per imbandire la mensa all’ospite. All’udire questa storia, l’ira di David si scate-
nò contro quell’uomo e disse: “Chi ha fatto questo merita la morte!”. Allora Natan, abbandonando di colpo la parabola e puntando il dito contro di lui, disse a David: “Tu sei quell’uomo!” (cf 2 Sam 12, 1 ss).
È ciò che fa con noi l’apostolo Paolo. Dopo averci trascinato dietro di sé in un giusto sdegno e orrore per l’empietà del mondo, passando dal capitolo primo al capitolo secondo della sua Lettera, come se si volgesse di colpo verso di noi, egli ci ripete: “Tu sei quell’uomo!”.
“Sei dunque inescusabile chiunque tu sia, o uomo che giudichi, perché mentre giudichi gli altri condanni te stesso; infatti tu che giudichi fai le medesime cose. Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità contro quelli che commettono tali cose. Pensi, forse, o uomo che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, di sfuggire al giudizio di Dio?” (Rm 2,1-3).
La ricomparsa, a questo punto, del termine “inescusabile” (anapologetos), usato sopra per i pagani, non lascia dubbi sulle intenzioni di Paolo. Mentre giudicavi gli altri – egli viene a dire –, tu condannavi te stesso. L’orrore che hai concepito per il peccato è ora di rivolgerlo contro di te.
Il “giudicante”, nel corso del capitolo secondo, si rivela essere il giudeo che qui, però, è preso, più che altro, come tipo. “Giudeo” è il non-greco, il non-pagano (cf Rm 2, 9-10); è l’uomo pio e credente che, forte dei suoi principi e in possesso di una morale rivelata, giudica il resto del mondo e, giudicando, si sente al sicuro. “Giudeo” è, in questo senso, ognuno di noi. Origene diceva addirittura che, nella Chiesa, a essere presi di mira da queste parole dell’Apostolo sono i vescovi, i presbiteri e i diaconi, cioè le guide, i maestri8.
Paolo ha subito egli stesso questo shock quando, da fariseo, divenne cristiano e perciò può ora parlare con tanta sicurezza e additare ai credenti la strada per uscire dal fariseismo. Egli smaschera la strana e frequente illusione delle persone pie e religiose di ritenersi al riparo dalla collera di Dio, solo perché hanno una chiara idea del bene e del male, conoscono la legge e, all’occasione, la sanno applicare agli altri, mentre, quanto a se stessi, essi pensano che il privilegio di stare dalla parte di Dio o, comunque, la “bontà” e la “pazienza” di Dio, che conoscono bene, faranno un’eccezione per loro.
“O ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu, però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente, accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio” (Rm 2, 4-5).
Che terremoto il giorno che ti accorgi che la parola di Dio sta parlando in questo modo proprio a te e che quel “tu” sei proprio tu! Qui la parola di Dio è impegnata in un vero e proprio tour de force; essa deve capovolgere la situazione di colui che la sta trattando. Qui non c’è scampo: bisogna “crollare” e dire come David: “Ho peccato!” (2 Sam 12, 13), oppure avviene un ulteriore indurimento del cuore e si rafforza la impenitenza. Dall’ascolto di questa parola di Paolo si esce o convertiti o induriti.
Ma qual è l’accusa specifica che l’Apostolo muove contro i “pii”? Quella – dice – di fare “le medesime cose” che giudicano negli altri. In che senso “le medesime cose”? Nel senso di materialmente le stesse? Anche questo (cf Rm 2, 21-24); ma soprattutto le medesime cose, quanto alla sostanza, che è l’empietà e l’idolatria. C’è un’idolatria larvata che è tuttora in atto nel mondo. Se idolatria è “adorare l’opera delle proprie mani” (cf Is 2, 8; Os 14, 4), se idolatria è “mettere la creatura al posto del Creatore”, io sono idolatra quando metto la creatura – la mia creatura, l’opera delle mie mani – al posto del Creatore.
La mia creatura può essere la casa o la chiesa che costruisco, la famiglia che creo, il figlio che ho messo al mondo (quante mamme, anche cristiane, senza rendersene conto, fanno del loro figlio, specie se unico, il loro dio!); può essere il lavoro che compio, la scuola che dirigo, il libro che scrivo… C’è poi l’idolo principe che è il mio stesso “io”. Al fondo di ogni idolatria c’è infatti l’autolatria, il culto di sé, l’amor proprio, il mettere se stesso al centro e al primo posto nell’universo, sacrificando a esso tutto il resto. La “sostanza” è sempre l’empietà, il non glorificare Dio, ma sempre e solo se stessi, il far servire anche il bene, anche il servizio che prestiamo a Dio – anche Dio! –, alla propria riuscita e alla propria affermazione personale. Il peccato che san Paolo denuncia nei “giudei” lungo tutta la Lettera è proprio questo: di cercare una propria giustizia, una propria gloria e di cercarla anche dall’osservanza della legge di Dio.
LA SCURE
Abbiamo messo a nudo fin qui la radice del peccato , il fittone: mettere se stessi, il proprio “io” al posto di Dio. Ma cos’è la scure per tagliarla? Ce lo rivela lo stesso Apostolo: “Prendete, dice, la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio” (Ef 6,17). “Infatti la parola di Dio è vivente ed efficace, più affilata di qualunque spada a doppio taglio, e penetrante fino a dividere l’anima dallo spirito, le giunture dalle midolla; essa giudica i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12).
La parola di Dio che fa allo scopo nostro è la parola più autorevole che ci sia, anche all’interno della Bibbia, perché uscita dalla bocca stessa di Gesù e riferita in modo identico in ognuno dei tre vangeli sinottici: “Se uno vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso” (Mt 16,24; Mc 8, 34; Lc 9,23).
Dal punto di vista della fede, ci sono due soli modi di vivere: o si vive per se stessi o si vive per il Signore. È ancora l’Apostolo che lo spiega: “ Nessuno di noi infatti vive per se stesso, e nessuno muore per se stesso; perché, se viviamo, viviamo per il Signore; e se moriamo, moriamo per il Signore. Sia dunque che viviamo o che moriamo, siamo del Signore” (Rom 14, 7-8); “Egli morì per tutti, affinché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro” (2 Cor 5,15).
Che significa “vivere per se stessi” e che significa “vivere per il Signore”. L’esempio degli apostoli a Pentecoste: Pentecoste e Babele. Agostino e il De civitate Dei.
Una rivoluzione copernicana! L’esperienza di Gianfranco.
Al termine di questo cammino possiamo gridare con l’Apostolo: “NON SONO PIU’ IO CHE VIVO, CRISTO VIVE IN ME!”
Tutto si riassume nella proclamazione di Gesù come Signore. Cosa fa chi proclama “Gesù è il Signore!”. Prende una decisione. De-cidere, viene dal verbo latino ceduo e significa tagliare via, rompere gli indugi, ri-solvere, scegliere.
La Scrittura ci presenta un caso esemplare di scelta collettiva di campo che ci può ispirare in questo momento. È la scelta che Giosuè impone al popolo:
“Scegliete oggi chi volete servire: o gli dèi che i vostri padri servirono di là dal fiume o gli dèi degli Amorrei, nel paese dei quali abitate; quanto a me e alla casa mia, serviremo il Signore. Allora il popolo rispose e disse: Lungi da noi l’abbandonare il Signore per servire altri dèi! … Anche noi serviremo il Signore, perché lui è il nostro Dio” (Giosuè 24, 15 ss.).
Vogliamo ripetere da credenti in Cristo, da uomini del Nuovo Testamento, questa meravigliosa esperienza di una scelta corale, comunitaria e convinta di Cristo come Signore? La nostra situazione non è tanto differente da quella del tempo di Giosuè. Gli “idoli del paese nel quale abitiamo”, hanno cambiato nome, ma non la sostanza: non si chiamano più con nomi propri: Moloch, Astarte, Marte o Venere, ma con nomi comuni: denaro, sesso, piacere, potere…L’idolo principe poi è rimasto sempre lo stesso: se stessi, il proprio io, l’egoismo.
La nostra scelta, noi l’abbiamo fatto nel battesimo, ma allora la maggior parte di noi non era cosciente, altri hanno scelto per noi. Vogliamo ratificare quella scelta consapevolmente, liberamente, gioiosamente? Vogliamo anche noi scegliere “oggi”?
- Rinunciate al peccato, per vivere nella libertà dei figli di Dio?
- Rinunciamo.
- Rinunciate alle seduzioni del male, per non lasciarvi dominare dal peccato?
- Rinunciamo.
- Rinunciate a satana, origine e causa di ogni peccato?
- Rinunciamo.
- Rinunciate a voi stessi, per vivere per il Signore?
- Rinunciamo.
-Credete in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra?
-Crediamo.
-Credete in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore,
che nacque da Maria vergine,
morì e fu sepolto,
è risuscitato dai morti
e siede alla destra del Padre?
-Crediamo.
-Credete nello Spirito Santo,
la santa Chiesa cattolica,
la comunione dei santi,
la remissione dei peccati,
la risurrezione della carne e la vita eterna?
-Crediamo.
Di solito, nel Rinnovamento nello Spirito, come nelle assemblee pentecostali, si riassume tutto quello che abbiamo detto nella frase: “Far entrare Gesù nella propria vita, accettarlo come Signore e Salvatore personale”. Io credo però che per la maggioranza dei presenti qui, me compreso, il problema vero non è di far entrare Gesù nella nostra vita, ma farlo uscire! Mi spiego.
Quando si tratta della prima conversione, dall’incredulità alla fede, o dal peccato alla grazia, Cristo è fuori e bussa alle pareti del cuore per entrare; quando si tratta di successive conversioni, da uno stato di grazia a uno più alto, dalla tiepidezza al fervore, avviene il contrario: Cristo è dentro e bussa alle pareti del cuore per uscire!
Nel battesimo abbiamo ricevuto lo Spirito di Cristo; esso rimane in noi come nel suo tempio (1 Cor 3,16), finché non ne viene scacciato dal peccato mortale. Ma può succedere che questo Spirito finisca per essere come imprigionato e murato dal cuore di pietra che gli si forma intorno. Non ha la possibilità di espandersi e permeare di sé le facoltà, le azioni e i sentimenti della persona. Quando leggiamo la frase di Cristo: “Ecco io sto alla porta e busso” (Ap 3, 20), dovremmo capire che egli non bussa dall’esterno, ma dall’interno; non vuole entrare, ma uscire. In questo senso è rivolto anche a noi il grido di Giovanni Paolo II: “Aprite, anzi spalancate, le porte a Cristo!”
L’Apostolo dice che Cristo deve essere “formato” in noi (Gal 4, 19), cioè svilupparsi e ricevere la sua piena forma; è questo sviluppo che è impedito dalla tiepidezza e dal cuore di pietra. A volte si vedono ai lati delle strade grossi alberi (a Roma sono in genere pini) le cui radici, imprigionate dall’asfalto, lottano per espandersi, sollevando a tratti lo stesso cemento. Così dobbiamo immaginare che è il regno di Dio nel cuore dell’uomo.
Vi sono ovviamente gradi diversi in questa situazione. Nella maggioranza delle anime impegnate in un cammino spirituale Cristo non è imprigionato dentro una corazza, ma per così dire in libertà vigilata. È libero di muoversi, ma dentro limiti ben precisi. Questo avviene quando tacitamente gli si fa capire cosa può chiederci e cosa non può chiederci. Insomma l’uso delle mezze misure.
Proclamiamo con il canto la nostra scelta senza riserve di Gesù come Signore: “È il Signore, è il Signor…”. “Il mio ginocchio si piega, e la mia lingua proclama che tu sei il mio Signore!”
II Parte
Dobbiamo velocemente completare il nostro cammino penitenziale. La Lettera agli Ebrei parla del peccato come di un tumore: “Circondati, dice, da una così grande schiera di testimoni, deponiamo ogni peso e il peccato che così facilmente ci avvolge, e corriamo con perseveranza la gara che ci è proposta” (Eb 12,1). “Ogni peso”, traduce la parola greca onkon, e il suono già ci ricorda qualcosa…
Abbiamo felicemente asportato il tumore, la scelta di noi stessi al posto di Dio. Ci resta da eliminare le metastasi. Le metastasi sono quello che all’inizio ho chiamato i rami e i frutti marci dell’albero, in altre parole i peccati attuali.
Anche per questi la scure o il bisturi è la parola di Dio. Con otto colpi ben assestati recidiamo altrettante ramificazioni del peccato. Si tratta delle otto beatitudini evangeliche. Ci serviamo di esse come di uno specchio per fare il nostro esame di coscienza e prepararsi al sacramento della riconciliazione.
“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”. Io sono povero di spirito, povero dentro, abbandonato in tutto a Dio? Sono libero e distaccato dai beni terreni? Cosa rappresenta il denaro per me? Cerco di condurre uno stile di vita sobrio e semplice, come si addice a chi vuole testimoniare il vangelo? Prendo a cuore il problema della spaventosa povertà non scelta ma imposta a tanti milioni di miei fratelli?
“Beati gli afflitti, perché saranno consolati”. Io considero l’afflizione una disgrazia e un castigo, come fa la gente del mondo, o una opportunità di rassomigliare a Cristo? Quali sono i motivi delle mie tristezze: gli stessi di Dio o quelli del mondo? Cerco di consolare gli altri, o solo di essere consolato io? So custodire come un segreto tra me e Dio qualche contrarietà, senza parlarne a destra e a sinistra?
“Beati i miti, perché erediteranno la terra”. Io sono mite? C’è una violenza delle azioni, ma anche una violenza delle parole e dei pensieri. Domino l’ira fuori e dentro di me? Sono gentile e affabile con chi mi sta vicino?
“Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati”. Io ho fame e sete di santità? Tendo alla santità, o mi sono da tempo rassegnato alla mediocrità e alla tiepidezza? La fame materiale di milioni di persone mette in crisi la mia continua ricerca di comodità, il mio stile di vita borghese? Mi rendo conto di quanto io e il mondo in cui vivo ci troviamo di fatto nella situazione del ricco epulone?
“Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia”. Io sono misericordioso? Davanti allo sbaglio di un fratello, di un collaboratore, reagisco con il giudizio o con la misericordia? Gesù sentiva compassione per le folle: e io? Sono stato anch’io qualche volta il servo perdonato che non sa perdonare? Quante volte ho chiesto e ricevuto alla leggera la misericordia di Dio per i miei peccati, senza rendermi conto a quale prezzo Cristo me l’ha procurata?
“Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”. Io sono puro di cuore? Puro nelle intenzioni. Dico: si, si, no, no, come Gesù? C’è una purezza del cuore, una purezza delle labbra, una purezza degli occhi, una purezza del corpo…Cerco di coltivare tutte queste purezze così necessarie specialmente alle anime consacrate? L’opposto più diretto della purezza di cuore è l’ipocrisia. Io, a chi mi sforzo di piacere nelle mie azioni: a Dio o agli uomini?
“Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”. Io sono un operatore di pace? Metto pace tra le parti? Come mi comporto nei conflitti di opinioni, di interessi? Mi sforzo di riferire sempre e solo il bene, le parole positive lasciando cadere nel vuoto il male, il pettegolezzo, quello che può seminare discordia? C’è la pace di Dio nel mio cuore, e se no perché?
“Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”. Sono pronto a soffrire qualcosa in silenzio per il vangelo? Come reagisco davanti a qualche torto o sgarbo che ricevo? Partecipo intimamente alle sofferenze dei tanti fratelli che soffrono davvero per la fede, o per la giustizia sociale e la libertà?