Archive pour septembre, 2013

29 SETTEMBRE I TRE ARCANGELI – L’ARCANGELO GABRIELE

http://www.tanogabo.it/religione/san_gabriele_arcangelo.htm

sul sito, tutti e tre gli Arcangeli a pag:

http://www.tanogabo.it/religione/Creature_angeliche.htm

L’ARCANGELO GABRIELE

(domenica è il mio onomastico…Gabriella, ho sempre festeggiato l’Arcangelo)

L’Arcangelo della maternità, della comunicazione dell’amore, della comunione tra le persone.

Il nome deriva dall’ebraico e significa: « La forza di Dio » « Dio è forte », o anche « l’eroe di Dio ». È il primo ad apparire nel Libro di Daniele della Bibbia. Era anche rappresentato come « la mano sinistra di Dio ». I cristiani crediamo che abbia predetto la nascita di Giovanni Battista e di Gesù, e i musulmani credono che sia il tramite attraverso cui Dio rivelò il Corano a Maometto.
Nella tradizione biblica è a volte rappresentato come l’angelo della morte, uno dei Messaggeri di Dio: anche come angelo del fuoco e della neve, che impugna la spada.
Il Talmud lo descrive come l’unico angelo che può parlare siriaco e caldeo.
Nell’Islam, Gabriele è uno dei capi Messaggeri di Dio.
Nella tradizione cristiana è conosciuto come uno degli arcangeli.
Nell’Antico Testamento Gabriele interpreta la visione profetica del capro e del montone (Daniele 8:15-26) e spiega la predizione delle settanta settimane di anni (490 anni) dell’esilio da Gerusalemme (Daniele 9:21-27); Gabriel appare ad Abramo per annunciargli che sua moglie Sara, ormai avanti negli anni e ritenuta sterile, gli darà il figlio che ha atteso invano per tutta la sua giovinezza e che, da questo figlio, nascerà un popolo eletto.
Nel nuovo testamento, Gabriele è l’angelo che rivela a Zaccaria che Giovanni Battista nascerà da Elisabetta, e che visita Maria rivelandole che sarà lei la madre di Gesù. La visita di Gabriele a Maria nel Vangelo di Luca è spesso detta « L’annunciazione » (Luca 1:26-38), un evento celebrato il 25 marzo dalla Chiesa Cattolica Romana. È anche commemorato come « il Primo Mistero della Gioia » ogni volta che si prega il rosario.
Gabriele può anche essere l’angelo che visitò Giuseppe. Dopo aver appreso della gravidanza di Maria, Giuseppe considera l’ipotesi di non sposarla più, ma « un angelo del Signore » appare a Giuseppe in sogno e gli dice che il concepimento avvenne mediante lo Spirito Santo. (Matteo 1:18-25).
Secondo la tarda leggenda, è anche l’angelo non identificato del Libro della Rivelazione (Apocalisse di Giovanni) che soffia il corno annunciando il Giorno del Giudizio. Sia per i cattolici sia per gli ortodossi, è San Gabriele l’Arcangelo, conosciuto come il santo patrono dei lavoratori delle comunicazioni. Come tale è ricordato il 29 settembre.
Gabriele compare anche in vari scritti apocrifi dell’Antico e del Nuovo Testamento. Il Dizionario delle Creature spirituali (in I mondi ultraterreni di Giordano Berti, Milano 1998) riporta l’immagine battagliera di quest’angelo descritta nel Libro di Enoch etiope; da qui deriva un’iconografia diffusissima presso i cristiani ortodossi, che rappresentano Gabriele mentre trafigge il demonio con una lancia.
 L’arcangelo Gabriele in un mosaico sulla facciata della chiesa di Sant’Antimo a Piombino
L’Arcangelo Gabriele ha sempre avuto nell’ambito delle Sacre Scritture, compreso il Corano, il compito di annunciatore, messaggero, divulgatore della Parola di Dio nei confronti dell’umanità; egli si manifesta in prevalenza per annunciare l’incarnazione e la nascita di fanciulli molto speciali… Il suo ruolo è particolarmente legato alla sfera della maternità. Le nascite annunciate da Gabriele non sono mai comuni, avverranno sempre in un ambito di prodigio, e i bambini che nasceranno avranno dinanzi a sé un grande compito da svolgere.
Oltre al ruolo di annunciatore, Gabriele pare avere anche un compito importante nella protezione dei fanciulli « speciali » che ha accompagnato dal cielo al ventre delle madri. Ferma la mano di Abramo che sta per sacrificare il piccolo Isacco. Fa sgorgare l’acqua per dissetare il piccolo Ismaele nel deserto. Avvisa Giuseppe di levarsi e fuggire col bambino perché Erode lo cerca per ucciderlo. Da tutto questo, Gabriele può essere ben definito come il custode della creatività espressa in tutti i campi dello scibile: è colui che apre la mente dell’uomo alla comprensione del genio e della bellezza, colui che fa appunto « concepire » le idee, poiché a lui attiene tutto quanto concerne il concepimento, sia sui piani fisici che su quelli puramente astratti. Gabriel, dunque, agendo attraverso le Legioni dei suoi Angeli, estende il suo dominio su tutto quanto concerne la creazione fisica e spirituale di un nuovo Essere, accompagnandolo lungo il viaggio verso l’incarnazione.
Confidare negli angeli come saggi custodi e amorevoli guide, e intrattenere con le creature celesti un rapporto di amichevole familiarità significa poter contare sul loro appoggio quando la nostra inadeguatezza ci fa sentire impotenti dinanzi a complesse e spinose questioni personali o alle dolorose e strazianti tragedie che si verificano nel mondo. Invocare l’assistenza angelica può miracolosamente contribuire alla soluzione dei problemi del pianeta e del nostro quotidiano, e in particolare l’intercessione di Gabriele consente alla saggezza divina di illuminare il nostro cammino quando le circostanze e gli eventi ci impongono scelte che evidenziano la nostra umana fragilità e il nostro bisogno di aiuto.

Publié dans:immagini sacre |on 27 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

LA PRIMA EPISTOLA DI PAOLO A TIMOTEO – CAPITOLO 6, COMMENTO

http://www.bibbiaweb.org/hr/hr_1timoteo.html#T06

(credo che sia un sito della Chiesa Evangelica) – (è un lungo commento a tutta la lettera, naturalmente metto solo il capitolo 6)

LA PRIMA EPISTOLA DI PAOLO A TIMOTEO

CAPITOLO 6, COMMENTO

6.1 Doveri dei servi
Vers. 1-2: — «Tutti quelli che sono sotto il giogo della schiavitù, stimino i loro padroni degni di ogni onore, perché il nome di Dio e la dottrina non vengano bestemmiati. Quelli che hanno padroni credenti, non li disprezzino perché sono fratelli, ma li servano con maggiore impegno, perché quelli che beneficiano del loro servizio sono fedeli e amati. Insegna queste cose e raccomandale».

Questi versetti contengono le istruzioni per i servi. L’apostolo, innanzitutto, tratta dei loro rapporti coi padroni increduli. Parlando a tutti i servi, si indirizza infatti soltanto a coloro che fanno parte della casa di Dio. Li riconosce in una posizione di dipendenza e di inferiorità rispetto agli uomini liberi; eppure, lungi dall’insorgere contro i loro padroni, anche se la loro condotta era tirannica, dovevano stimarli degni di ogni onore. Abbiamo visto più sopra (5:17) ciò che questa parola significa. Questa raccomandazione ha una grande portata. Non si tratta qui di obbligarli ad una soggezione forzata sotto un giogo subìto con impazienza; ma il servo cristiano riconosce al suo padrone, qualunque egli sia, ogni dignità, e gli rende moralmente ed effettivamente ogni servizio. Con quale scopo? Affinché il nome di Dio, di cui questi servi erano i portatori, e la dottrina, segno distintivo della «casa» della fede di cui facevano parte, non fossero biasimati da questi padroni increduli. Da quel momento, questi servi cristiani erano posti da Dio presso tali padroni per fare conoscere loro il Suo nome e la dottrina di Cristo, affidata, perché se ne renda testimonianza, alla casa di Dio quaggiù; dottrina sulla quale è fondata tutta la vita pratica del cristiano.
L’apostolo si rivolge in seguito ai servi che hanno dei padroni credenti. C’è il pericolo di essere portati a comportarsi verso di loro in modo differente che verso padroni increduli, ad esempio disprezzandoli. Un tale sentimento carnale andrebbe contro l’autorità stabilita da Dio e contraddirebbe tutti i principi della sana dottrina. Il servo, anziché elevarsi al livello del suo padrone cristiano o di abbassarlo al suo livello, deve essere felice di servirlo e amarlo, poiché un tale padrone è un fedele, quanto alla sua testimonianza verso il Signore, e un diletto, nel cuore di Dio e nel mezzo della famiglia cristiana.
Incombeva a Timoteo di dare questa esortazione, come pure l’insegnamento che essa comportava, perché l’una e l’altra facevano parte del dono di questo caro «figlio» in fede dell’apostolo Paolo (4:13).

6.2 Esortazioni e raccomandazioni generali
Vers. 3-5: — «Se qualcuno insegna una dottrina diversa e non si attiene alle sane parole del Signore nostro Gesù Cristo e alla dottrina che è conforme alla pietà, è un orgoglioso e non sa nulla; ma si fissa su questioni e dispute di parole, dalle quali nascono invidia, contese, maldicenza, cattivi sospetti, acerbe discussioni di persone corrotte di mente e prive della verità, le quali considerano la pietà come una fonte di guadagno».
Ecco, dunque, ciò che Timoteo doveva insegnare nell’esortare i servi. Colui che insegna in altro modo e non si attiene alle sane parole di Cristo, come pure alla sua dottrina, è orgoglioso e ignorante. La sana dottrina ha in vista la pietà, ed ha lo scopo di produrre delle relazioni di timore e di fiducia fra l’anima e Dio; tutto ciò che non ha questo carattere non può essere la dottrina di Gesù Cristo. Essa deve condurci sempre a coltivare le nostre relazioni con Dio, a gioirne e a valorizzare il suo carattere dinanzi al mondo. Se non si segue questo cammino, si è orgogliosi e si ignora lo scopo e i pensieri di Dio; si disputa sulle parole, segno di un triste declino nella casa di Dio, e il risultato non può essere né la pace, né l’amore, ma delle tristi querele, da cui nascono i cattivi sentimenti che riempiono il cuore di amarezza e di odio. È lo stato di spiriti completamente estranei alla verità e che cercano di trarre un profitto materiale da questa apparenza di pietà, che si danno a dispute religiose che non hanno niente a che vedere con la dottrina della pietà. L’odio, la scontentezza prodotti da queste dispute, la dimenticanza completa di relazioni con Dio, caratterizzano questi uomini.

***

Vers. 6-8: — «La pietà, con animo contento del proprio stato, è un grande guadagno. Infatti non abbiamo portato nulla nel mondo, e neppure possiamo portarne via nulla; ma avendo di che nutrirci e di che coprirci, saremo di questo contenti».
Quale contrasto tra l’uomo dei versetti 3 a 5 e il credente fedele dei versetti 6 a 8! Vi è, infatti, un grande guadagno in queste due cose: la pietà che ha la promessa della vita presente e della vita a venire (4:8), e l’animo contento del proprio stato, che non cerca guadagno nelle cose di quaggiù. Il cristiano d’animo contento sa benissimo che non porterà via nulla delle cose delle quali può essergli dato di godere per un momento; starà attento, dunque, a non mettervi il cuore. Questo cristiano è semplice. Avendo tutto il suo interesse nelle cose future che gli sono promesse, è ampiamente soddisfatto che Dio gli assicuri quaggiù il nutrimento e il vestire, e ne gioisce con azioni di grazie. Qualsiasi altra cosa per lui è piuttosto un ostacolo, perché sa che non può portare via nulla da questo mondo, dove non ha portato niente (Salmo 49:17; Ecclesiaste 5:15); se si attaccasse a qualche cosa, sarebbero dei legami che un giorno dovrebbe spezzare. Godendo delle cose eterne, nelle quali la pietà si compiace, e sapendo che il possesso delle cose visibili dividerebbe il suo cuore fra questi due centri, la terra e il cielo, la sua pietà preferisce le cose invisibili che durano sempre, perché delle prime nulla resterà e nulla si porterà nell’eternità.
Il guadagno reale della pietà non è quello a cui gli uomini ambiscono, perdendosi in vane dispute e discussioni religiose con le quali pensano di acquistarsi reputazione, guadagno e profitto; la vera pietà introduce sempre più l’anima del fedele nella gioia delle sue relazioni con Dio, e troverà il suo coronamento quando godrà di queste relazioni senza alcuna nube, nel cielo.

***
Vers. 9-10: — «Invece quelli che vogliono arricchire cadono vittime di tentazioni, di inganni e di molti desideri insensati e funesti, che affondano gli uomini nella rovina e nella perdizione. Infatti l’amore del denaro è radice di ogni specie di mali; e alcuni che vi si sono dati, si sono sviati dalla fede e si sono procurati molti dolori».
In generale, coloro che cercano di conquistare la ricchezza cadono in ogni genere di male. (Parlerà più tardi di coloro che sono ricchi secondo la dispensazione del governo di Dio al versetto 17). Questo desiderio e questa ricerca di guadagno gettano l’uomo nella rovina e nella perdizione. Possiamo parlare dettagliatamente di tutte le miserie che sono, per il mondo e il cristiano, la conseguenza dell’amore del denaro:
la tentazione e l’insidia nella quale cadono;
diversi desideri insensati e perniciosi, potendosi concedere la soddisfazione delle bramosie della loro carne;
la rovina materiale e morale, poi la perdizione eterna.
L’uomo ha creduto di soddisfarsi con le ricchezze ed ecco che è inghiottito, lontano da Dio, nell’abisso!
Alcuni di coloro che appartengono alla casa di Dio hanno, purtroppo, ambito questa parte. La conseguenza è stata per loro più ancora che la rovina materiale. Si sono trafitti di molti dolori, dolori incessanti, per la minaccia di perdere tutto, per le preoccupazioni continue. Ma ancor più, si sono sviati dalla fede. Questo stato non è il naufragio della fede (1:19), né l’apostasia della fede (4:1), o il rifiuto della prima fede (5:12); è uno stato meno grave dei precedenti, ma che getta l’anima del cristiano in una miseria senza nome. Essi si sono allontanati, sviati, staccati dalla fede per non ritrovarla mai più. Questa ha perduto per loro tutto il suo sapore, tutto il suo interesse (si tratta qui dell’insieme delle verità che la costituiscono), perché l’hanno sostituita con l’interesse per le cose più attraenti, anche se più vuote, di questo mondo.
La fede è la felicità, la salvaguardia, la delizia di coloro che sono rimasti fedeli e che sono i portatori della testimonianza di Dio quaggiù. Ma gli altri, quando saranno sul punto di lasciare questo mondo per comparire davanti a Dio, saranno trovati «vestiti»? Dove sarà la loro corona? Sarà data ad altri! Chi fra noi cristiani oserebbe augurare il benessere materiale in cambio della gioia, della sicurezza e della pace che danno il possesso delle cose celesti?

***
Vers. 11-12: — «Ma tu, uomo di Dio, fuggi queste cose, e ricerca la giustizia, la pietà, la fede, l’amore, la costanza e la mansuetudine. Combatti il buon combattimento della fede, afferra la vita eterna alla quale sei stato chiamato e in vista della quale hai fatto quella bella confessione di fede in presenza di molti testimoni».
L’apostolo ritorna ora al suo caro Timoteo. «Ma tu, uomo di Dio» — gli dice. Questo appellativo, così sovente usato nell’Antico Testamento, è sempre applicato ad uomini che hanno ricevuto una missione speciale da Dio. Tali furono i profeti Elia ed Eliseo e il vecchio profeta di 1 Re 13; tale fu anche Mosè, profeta legislatore, e Davide, il re profeta. Tutti ricevono, assieme al titolo di profeta, anche quello di uomo di Dio (cfr. 2 Pietro 1:21).
Nel Nuovo Testamento, questo titolo si ritrova solo due volte: qui e in 2 Timoteo 3:17, dove si applica prima a Timoteo, poi a colui che, nutrito della Parola, è incaricato, come Timoteo, di una missione speciale in questo mondo. Vediamo l’importanza della missione di quest’ultimo, perché essa gli era stata affidata con una solennità particolare, come dimostrano queste due epistole. Timoteo doveva vegliare sulla dottrina, insegnando come bisognava condursi nella chiesa del Dio vivente; ma egli stesso, in primo luogo, doveva condursi in modo da essere di modello agli altri. È così che, rappresentando Dio di fronte ai suoi fratelli, Timoteo doveva mostrare un carattere che lo facesse accreditare nel suo incarico. Doveva fuggire le cose di cui l’apostolo aveva parlato e procacciare:
La giustizia, quella giustizia pratica che rinnega il peccato e gli impedisce d’introdursi nelle nostre vie.
La pietà, i rapporti d’intimità con Dio, basati sul timore e la fiducia, rapporti impossibili senza la giustizia.
La fede, potenza spirituale per la quale ammettiamo come vera ogni parola uscita dalla bocca di Dio, e per mezzo della quale afferriamo le cose invisibili.
L’amore, il carattere stesso di Dio, conosciuto in Gesù Cristo e manifestato da coloro che sono partecipi della natura divina.
La costanza, che fa attraversare e sopportare tutte le difficoltà in vista dello scopo glorioso da raggiungere.
La mansuetudine, uno spirito benigno e pacifico che è di gran prezzo davanti a Dio (1 Pietro 3:4).
A tutte queste cose Paolo aggiunge due pressanti raccomandazioni. La prima è: «Combatti il buon combattimento della fede». Si tratta qui della lotta nello stadio (1 Corinzi 9:25), al quale si è chiamati per riportare il premio. È di questo «combattimento» che l’apostolo parlava al momento di terminare la sua carriera: «Ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho conservato la fede» (2 Timoteo 4:7).
La seconda raccomandazione, che si collega alla prima, è: «Afferra la vita eterna». La vita eterna non è qui la vita che abbiamo possedendo Cristo, «il vero Dio e la vita eterna», quella vita divina che ci è comunicata per mezzo della fede in Lui e che ci introduce, già da quaggiù, nella comunione del Padre e del Figlio; essa ci è presentata, in questo passo, come la gioia finale e definitiva di tutte le benedizioni celesti, ricompensa del «buon combattimento della fede». Tuttavia, non è come in Filippesi 3:12 una meta non ancora raggiunta che il cristiano persegue e che cerca di afferrare. L’apostolo vuole che, durante lo svolgimento stesso del combattimento, questa meta sia afferrata come una grande ed assoluta realtà: il possesso e la gioia attuale, per fede, di tutte le cose che appartengono alla vita eterna. Che grazia quando la vita eterna è stata afferrata in questo modo!
È per tali benedizioni che Timoteo era stato chiamato. L’apostolo ci fa risalire all’inizio della carriera del suo caro figlio nella fede. Non appena questa prospettiva di una vita avente un solo scopo e un solo oggetto, quello che l’apostolo stesso s’era imposto (2 Timoteo 4:7), era stata posta dinanzi a lui, egli aveva reso testimonianza e «fatto quella bella confessione di fede in presenza di molti testimoni». La sua confessione riguardava la vita eterna, afferrata come il tutto della chiamata cristiana. La chiamata faceva di Timoteo il campione di questa verità. I numerosi testimoni non sono gente del mondo, ma quelli che facevano parte dell’assemblea del Dio vivente, nella quale il suo ministero doveva svolgersi con l’insegnamento e le esortazioni.
***

Vers. 13-16: — «Al cospetto di Dio che dà vita a tutte le cose, e di Cristo Gesù che rese testimonianza davanti a Ponzio Pilato con quella bella confessione di fede, ti ordino di osservare questo comandamento da uomo senza macchia, irreprensibile, fino all’apparizione del nostro Signore Gesù Cristo, la quale sarà a suo tempo manifestata dal beato e unico sovrano, il Re dei re e Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità e che abita una luce inaccessibile; che nessun uomo ha visto né può vedere; a lui siano onore e potenza eterna. Amen».
Questi versetti sono come un riassunto dello scopo di tutta l’epistola. «Io ti ordino», dice l’apostolo. Timoteo aveva ricevuto da lui un incarico e doveva attenervisi. Essendo stato stabilito per rappresentare l’apostolo durante la sua assenza, doveva dare ordini lui stesso (1:3,5,18; 4:11; 5:7; 6:17). Paolo ordinava a Timoteo molte cose e lo faceva nel modo più solenne, dinanzi al Dio Creatore che egli invocava come Colui che ha chiamato tutto all’esistenza quando non vi era ancora nulla, Colui che si è fatto conoscere a esseri infimi come noi per mezzo di un atto che ha mostrato tutto il suo compiacimento negli uomini. Non è forse un motivo supremo per obbedire? Ma ciò che l’apostolo ordinava lo faceva anche nel cospetto di Gesù Cristo che rese testimonianza «davanti a Ponzio Pilato». Poteva non essere importante per il governatore romano che Gesù fosse Re dei Giudei, e Pilato lo dimostra sia dicendo «Sono io forse Giudeo?», sia scrivendo «Gesù il nazareno, il Re dei Giudei» come motivo d’accusa sulla croce (Giovanni 18:35). Ma Pilato, amico di Cesare, non è indifferente al fatto che oltre all’imperatore vi sia un altro uomo che abbia delle pretese di regnare. Rigettato dai Giudei, come Re, il Signore davanti a Pilato attribuisce al suo regno tutt’altra dimensione quando dice: «Il mio regno non è di questo mondo», perché ha per dominio esclusivo una sfera interamente celeste. E aggiunge: «Ora il mio regno non è di qui». Avrebbe rivendicato più tardi, quaggiù, una sovranità più vasta di quella di Re dei Giudei, ed è ciò che inquieta Pilato e gli fa dire: «Ma dunque, sei tu Re?». A questa domanda Gesù risponde: «Tu lo dici; io sono Re». Rende così testimonianza alla verità, mantenendo ad ogni prezzo il carattere della sua sovranità; e aggiunge: «Io sono nato per questo, e per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità». Infatti, dichiarare la sua sovranità per nascita (Matteo 2:1-2) dinanzi a Pilato, amico di Cesare, una sovranità che sorpassava di molto i limiti giudaici, significava firmare egli stesso la propria condanna a morte. Questa confessione è la «bella confessione davanti a Ponzio Pilato» del nostro passo.
Questa bella confessione, il Signore doveva farla per essere fedele alla verità di cui era venuto a rendere testimonianza in questo mondo. La sua sovranità vi partecipava, e se avesse esitato un istante davanti alla necessità di fare questa confessione, non avrebbe potuto aggiungere: «Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce». La confessione che egli era Re si legava dunque intimamente al fatto che egli era venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità.
La bella confessione di Timoteo davanti a molti testimoni cristiani non metteva la sua vita in pericolo. Non era nemmeno la testimonianza alla verità, era la bella confessione delle immense benedizioni della fedeltà, benedizioni afferrate da Timoteo nella testimonianza cristiana alla quale dedicava la sua carriera. La bella confessione di Cristo davanti a Ponzio Pilato era la testimonianza alla verità (di cui la sovranità attuale e futura di Cristo, ben più importante della sovranità giudaica, faceva parte), perché «la grazia e la verità sono venute per mezzo di Gesù Cristo». Nulla poteva distogliere il Signore dalla confessione della verità tutt’intera, neppure la morte.
Ma quale immenso privilegio per Timoteo essere associato al Signore Gesù confessando di avere afferrato una meta che nessuno poteva strappargli, come Gesù aveva confessato interamente la verità che la morte stessa non poteva fargli abbandonare!
Al versetto 14, l’apostolo ordina a Timoteo «di osservare questo comandamento», vale a dire ciò che gli aveva ordinato: «fuggi» «ricerca» «combatti» «afferra». Era stato chiamato a realizzare queste cose davanti a testimoni fedeli e davanti al mondo, e doveva serbarle «da uomo senza macchia e irreprensibile». L’apostolo aggiunge al versetto 20: «O Timoteo, custodisci il deposito». È il riassunto del contenuto di tutta l’epistola. L’apostolo aveva già detto, a proposito della sua condotta riguardo agli anziani: «Ti scongiuro… di osservare queste cose senza pregiudizi» (5:21).
Il comandamento Timoteo doveva osservarlo «da uomo senza macchia», senza alcuna falsificazione, e da «irreprensibile», senza che nessuno avesse occasione di riprenderlo o di accusarlo, e innanzi tutto per ricevere l’approvazione del nostro Signore Gesù Cristo fino alla sua «apparizione». È sempre parlato dell’apparizione e non della venuta del Signore quando si tratta della responsabilità del servizio. Ed è per questo che si può parlare «d’amare la Sua apparizione» anche se è sempre accompagnata dalla vendetta sul mondo (2 Tessalonicesi 1:8), La ragione di questo è che se la venuta del Signore è il «giorno di grazia», la sua apparizione è il «giorno delle corone», delle ricompense per i servitori di Cristo.
Quest’apparizione sarà mostrata al tempo stabilito dal beato e unico Sovrano, già chiamato il «beato Dio» (1:11). Allora, il solo Sovrano, Re dei re e Signore dei signori, manifesterà questa gloria. Di chi parla l’apostolo? Di Dio, certamente, ma è impossibile separare Dio da Cristo; Dio è tutto questo quando «manifesta» l’apparizione di Cristo; Cristo sarà tutto questo, quando apparirà come Re dei re e Signore dei signori. È la seconda volta in questa epistola (cfr. 1:17) che la lode suprema s’innalza a Dio nei luoghi eterni. Nel primo caso, per la venuta in questo mondo di Cristo uomo come Salvatore; nel secondo, per la sua apparizione come Signore e uomo vittorioso. Qui, sale a Colui che «solo possiede l’immortalità e che abita una luce inaccessibile; che nessun uomo ha veduto né può vedere; a lui siano onore e potenza eterna. Amen». È dunque proprio del Dio eterno, inaccessibile, invisibile, che qui è parlato, ma noi lo conosciamo nel suo figlio Gesù Cristo: Egli è «il vero Dio e la vita eterna».

***
Vers. 17-19: — «Ai ricchi in questo mondo ordina di non essere d’animo orgoglioso, di non riporre la loro speranza nell’incertezza delle ricchezze, ma in Dio, che ci fornisce abbondantemente di ogni cosa perché ne godiamo; di far del bene, d’arricchirsi di opere buone, di essere generosi nel donare, pronti a dare, così da mettersi da parte un tesoro ben fondato per l’avvenire, per ottenere la vera vita».
Resta ancora un ordine da aggiungere riguardo a coloro ai quali, in mezzo ai suoi, Dio ha elargito dei beni di questo mondo. Si tratta della loro situazione «in questo mondo», situazione che non ha niente a che fare, o piuttosto che è in contrasto, con quella del mondo futuro (vers. 13-16).
Questa non deve esaltarli ai loro propri occhi, perché l’orgoglio per la ricchezza che si ha è una delle tendenze più frequenti fra gli uomini. Bisogna che i cristiani non si lascino trascinare a basarsi sull’incertezza delle ricchezze che possono svanire in un momento; essi devono confidare in Colui che li ha riccamente favoriti dando loro di godere di queste cose. Impieghino, dunque, le loro ricchezze per fare del bene, in buone opere, in prontezza nel dare con liberalità. Tale è lo scopo della ricchezza che è loro dispensata; essa deve sviluppare, nella testimonianza di chi le possiede, delle virtù che non potrebbero mostrarsi se non dove Dio dà dei beni terrestri.
«Così da mettersi da parte un tesoro ben fondato per l’avvenire». Si tratta di abbandonare le cose visibili anche se sono il frutto della bontà di Dio, date ai suoi affinché acquistino «un tesoro ben fondato per l’avvenire» ed afferrino «la vera vita». Tale doveva essere il comportamento dei ricchi. Timoteo, che non possedeva nessuno dei loro vantaggi, si offriva loro ad esempio avendo egli stesso «afferrata la vita eterna».

***
Vers. 20-21: — «O Timoteo, custodisci il deposito; evita i discorsi vuoti e profani e le obiezioni di quella che falsamente si chiama scienza; alcuni di quelli che la professano si sono allontanati dalla fede. La grazia sia con voi».
Timoteo è esortato a custodire il deposito che gli è stato affidato. D’altra parte, vediamo che Paolo confida ciò che ha al Signore, il quale ha la potenza di custodirlo. In Lui è la vita, la potenza per sostenerla e per custodire nel cielo l’eredità di gloria che ci è destinata. Paolo sapeva in chi aveva creduto. Egli non aveva messo la sua fiducia nell’opera, ma in Cristo, che conosceva bene (2 Timoteo 1:12). Qui, è Timoteo che custodisce il deposito che il Signore gli ha affidato. Questo deposito è l’amministrazione della casa di Dio per mezzo della Parola, della dottrina, dell’esempio che egli stesso doveva dare. Il suo compito non era di discutere; doveva schivare le profane vacuità di parole e le opposizioni alla dottrina di Cristo dei ciarlatani che pretendevano di averne conoscenza. E già qualcuno, che professava di possederla, si era allontanato dalla dottrina cristiana.
L’ultima parola dell’apostolo a Timoteo, come a tutti i credenti, è: «Grazia», favore divino per il suo figlio in fede; ed è stata anche quella la sua prima parola (1:2)!

Publié dans:Lettera a Timoteo - prima |on 27 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

OMELIA 29 SETTEMBRE 2013 – 26A DOMENICA – T. ORDINARIO C : RICCHI E POVERI DAVANTI A DIO

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29 SETTEMBRE 2013  |  26A DOMENICA – T. ORDINARIO C  | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

RICCHI E POVERI DAVANTI A DIO

Il Vangelo di Luca è quello che più insiste sulla povertà. La pagina che si legge oggi è caratteristica a questo proposito. Il racconto che oppone il ricco senza nome al mendicante Lazzaro è preparato dalle severe parole del profeta Amos contro i ricchi che, sicuri di sé, si procurano i piaceri più raffinati. Il salmo responsoriale presenta il Signore come il protettore dei poveri e degli oppressi. Paolo ci ricorda che, al di sopra di ogni soddisfazione che possono dare la ricchezza e i piaceri, stanno l’ideale e il programma di vita che impegna il cristiano di fronte a Dio e a Gesù Cristo.

« Guai a voi, ricchi! »
Questa minaccia, che Luca fa seguire alla beatitudine dei poveri (6,24), trova nella 1ª lettura e nel Vangelo una illustrazione vivida e concreta, in due quadri che, pur visti nell’ambiente e nell’epoca (regno di Geroboamo [788-753] il primo, tempi di Gesù il secondo), possono trovare una facile traduzione nell’ambiente e nel tempo nostro. Anche oggi ci sono « gli spensierati… quelli che si considerano sicuri » pensando al loro conto in banca, meglio se in banche svizzere, contando sull’appoggio di una clientela che hanno favorito magari a spese dello Stato, cioè di tutti i contribuenti; che si concedono tutte le raffinatezze della mensa e investono i loro soldi in pezzi di antiquariato, spesso rubati su commissione nelle chiese; che spendono per le vacanze somme che basterebbero a sfamare una famiglia per tutto l’anno. « Della rovina di Giuseppe », cioè del regno del nord, « non si preoccupano ». Gente che pensa a star bene, senza muovere un dito per aiutare la società che è in crisi profonda, anzi contribuendo ad accelerarne la rovina (salvo a prendere le precauzioni per scampare loro al naufragio e sfruttare a proprio vantaggio la miseria degli altri).
La presentazione che Luca fa del ricco è sobria: « C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente ». Ma la ricchezza e il lusso prendono risalto dal contrasto col mendicante Lazzaro. Dio fa sentire la sua minaccia contro i ricchi per bocca di Amos. Il brano comincia con un « Guai! » e si conchiude con la predizione del castigo: « Perciò andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei buontemponi ». Gesù presenta il ricco « nell’inferno tra i tormenti », assetato e torturato dalle fiamme. Sono parole chiare. Se ci fosse bisogno d’un commento, basterebbe citare s. Giacomo: « E ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! Le vostre ricchezze sono imputridite, le vostre vesti sono state divorate dalle tarme; il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si leverà a testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida; e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti. Avete gozzovigliato sulla terra e vi siete saziati di piaceri, vi siete ingrassati per il giorno della strage » (5,1-5).
E perché? Ascoltiamo s. Gregorio Magno: « Questo ricco non è rimproverato per aver rubato, ma per non aver dato del suo. Non si dice che abbia oppresso qualcuno con violenza ma solo che si vantava di quanto aveva ricevuto… Nessuno dunque si ritenga sicuro col dire: io non rapisco le cose altrui ma mi godo giustamente ciò che mi appartiene; poiché quel ricco non fu punito per aver tolto le cose altrui ma per essersi malamente servito delle cose ricevute ». « Ricordati », dice Abramo al ricco, « che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita ». Dice ancora s. Gregorio: « Voi che avete dei beni in questo mondo, quando ricordate d’aver fatto qualcosa di bene, tremate per voi; la prosperità che vi è concessa potrebbe essere la ricompensa di questo bene. E quando vedete un povero qualsiasi commettere qualcosa di riprensibile, non lo disprezzate, non disperate di lui: forse quel peccato ben leggero che lo contamina viene bruciato nel crogiuolo della sua povertà ».

« Ora lui è consolato »
Luca non indugia nella descrizione dell’aldilà. Solo presenta la sorte dei defunti come passati per sempre, per il ricco senza cuore nei tormenti che non trovano sollievo, per chi nella vita ha soltanto sofferto, ha avuto « i suoi mali », accanto ad Abramo, a un posto d’onore nel soggiorno dei giusti, a quel banchetto messianico di cui parla volentieri Gesù, contrapposto ai banchetti che si concedeva il ricco. Gesù privilegia i poveri. Egli è stato mandato « per annunziare ai poveri un lieto messaggio » (Lc 4,18). Queste parole del Terzo Isaia (61,1), che Gesù applica a sé nella sinagoga di Nazaret, anticipavano il Vangelo presentando Dio come il difensore e l’amico dei poveri. Così il Sal 145, in parte richiamato oggi a commento della 1ª lettura: « Il Signore libera i prigionieri… Il Signore protegge lo straniero, egli sostiene l’orfano e la vedova, ma sconvolge le vie degli empi ». C’è una differenza, osserva sempre s. Gregorio Magno, fra il comportamento di Dio e quello che è abituale fra gli uomini. Il Vangelo dice il nome del povero, non quello del ricco. Di solito la gente conosce il nome dei ricchi più che dei poveri (il papa Gregorio faceva questa predica quando non c’era la cronaca nera del giornale, dove i nomi degli apprendisti scippatori vengono regolarmente pubblicizzati, mentre non si dicono mai i nomi della gente « bene » implicata nello sfruttamento delle « lolite »…): ma « Dio conosce gli umili e li approva, mentre i superbi li ignora ». Maria proclama con forti parole i disegni di Dio: « Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi » (Lc 1,51-53).
Tutto questo dev’essere motivo di fiducia per chi è povero: di denaro, di salute, di appoggi, di potere, di amicizia, di cultura. Per tutti quelli che soffrono nella solitudine, nell’abbandono, nell’oppressione, nell’emarginazione. Stimolo a tutti a imitare Dio che ama i poveri, gli umili, i sofferenti, adoperandoci a sollevarli dall’indigenza, a recare loro aiuto e conforto, a lavorare e lottare per cambiare quelle strutture sociali che sono un insulto alla giustizia, al senso di umanità, al Vangelo che proclama tutti gli uomini figli di Dio e fratelli in Cristo. La fede in Dio che ama i poveri e i sofferenti illumina il significato della povertà e del dolore accettati, quando li incontriamo sul nostro cammino e non è in nostro potere liberarcene, come momenti di un disegno divino che è sempre ispirato dall’amore, come via per giungere alla « vita eterna » alla quale siamo stati chiamati (2ª lettura). Non dimentichiamo poi che se Gesù volle essere povero, se « in cambio della gioia che gli era posta innanzi si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia » (Eb 12,2), c’è una vocazione alla povertà volontaria, alla sofferenza accettata con amore, che è dono di Dio.

« Al cospetto di Dio… e di Gesù Cristo »
Se l’essere ricco e potente, se il godersi la vita non è ciò che veramente conta per l’uomo, non è nemmeno l’essere povero e sofferente, come puro fatto che prescinde dalla disposizione di chi ne è il soggetto, che decide sul senso e sul valore dell’uomo e del cristiano. Bisogna completare gli insegnamenti attinti alla 1ª lettura e al Vangelo riflettendo sull’esortazione di Paolo a Timoteo: « Tendi alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede ». Sono le disposizioni che dobbiamo alimentare in noi nei rapporti con Dio e col prossimo. Ognuna delle virtù che raccomanda qui l’apostolo meriterebbe un serio esame di coscienza: « Cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato ». Nella luce della vita eterna che ci attende, denaro, potere e piacere si mostrano come cose che contano ben poco, che non estinguono la sete di felicità che portiamo in noi, che, in ogni caso, sono destinate a scomparire presto. Quello che veramente conta è la « manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, che al tempo stabilito sarà a noi rivelata dal beato e unico sovrano, il re dei regnanti e signore dei signori ». Allora si svelerà il vero senso e valore della nostra esistenza, nel momento in cui ci incontreremo con Gesù Cristo: « Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male » (2 Cor 5,10).
Allora si deciderà la nostra sorte per l’eternità. Allora capiremo l’energica protesta di Paolo: « Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti » (Fil 3,7-11). Perciò Paolo esorta, anzi scongiura il suo discepolo « al cospetto di Dio che dà vita a tutte le cose e di Gesù Cristo », ricordando la passione nella quale egli « ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato »: testimonianza di fedeltà alla sua missione, di obbedienza al Padre, di amore per gli uomini. Nel nome di lui e con l’aiuto che ci viene da lui siamo chiamati a liberarci dalla schiavitù del denaro, dell’orgoglio e del potere, a vivere nella povertà e nell’umiltà, ad amare come fratelli i poveri e gli umili.

Da: PELLEGRINO M., Servire la Parola, Anno C

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Santi Cosma e Damiano

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Publié dans:immagini sacre |on 26 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

26 SETTEMBRE: SS COSMA E DAMIANO

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26 SETTEMBRE: SS COSMA E DAMIANO

I due santi gemelli, che erano medici a Egea in Cilicia, dove vennero martirizzati nel IV secolo, sono considerati patroni dei medici e dei chirurghi, ma anche dei farmacisti e dei barbieri oltre ad essere invocati come risanatori di ogni male.

 Nel VI secolo i santi Cosma e Damiano erano così popolari a Roma che la regina dei Goti Amalasunta donò a papa Felice IV (526-530) una delle due biblioteche poste ai lati del tempio della Pace e il tempio roton­do dei Penati perché si costruisse il santuario in onore dei due taumaturghi considerati i patroni dei medici. Nello stesso periodo la loro basili­ca di Costantinopoli era un santuario nazionale in cui accorrevano cen­tinaia di malati che passavano la notte in chiesa secondo il rito dell’incubazione: durante il sonno i due santi venivano a curarli, consi­gliando loro un medicamento oppure applicando un impacco compo­sto di olio e cera o addirittura operandoli come chirurghi. Non diversamente si comportavano i pagani che chiedevano la guarigione al dio Asclepio – Esculapio in latino – oppure a Iside, a Serapide, ai gemelli Castore e Polluce. Sicché si è osservato che la straordinaria popolarità dei due martiri della Cilicia è dovuta al ruolo di guaritori che ereditarono dai gentili se­condo un’accorta regia della Chiesa che si preoccupava di cristianizzare tradizioni troppo radicate per essere cancellate senza traumi. Se si leg­gono le prime leggende sui miracoli dei due santi, si notano tante analo­gie con leggende precristiane. D’altronde straordinariamente simili sono gli ex voto, le tavole su cui era narrata la guarigione a lode e ringra­ziamento della divinità. Secondo la maggior parte delle fonti si può ragionevolmente sostenere che Cosma e Damiano erano medici a Egea, in Cilicia, dove oltre a curare convertirono al cristianesimo molte persone fino a meritare il martirio durante la persecuzione di Diocleziano. Da quella cittadina, che era un centro importante del culto ad Asclepio insieme con Epidau­ro e Pergamo, si irradiò la loro fama in tutto l’Oriente. Le reliquie vennero traslate a Kyros, in Siria, dove nel VI secolo Giustiniano, gua­rito da una gravissima malattia per loro intercessione, ricostrui la basilica dov’erano sepolti e da dove furono traslati a Roma in epoca imprecisata. Secondo la tradizione erano fratelli gemelli, come Castore e Polluce, e di origine araba: chi dice immigrati in Cilicia, chi invece nati in una famiglia che faceva parte di una colonia arabo-cristiana. Quanto al significato dei nomi, Kosmos in greco era un ipocoristico di nome composto il cui secondo termine era formato da k6smios, ornato, bene ordinato; e ipocoristico era pure Damianos, derivato da un composto il cui secondo termine era -damas, da damezein, domare. Come è sempre successo quando il nucleo della venerazione è di tipo rituale, fiorirono su di loro tante leggende, raccolte in due Passiones e poi nel medioevo nella Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine, che ispi­rarono un’iconografia tra le più ricche dell’Occidente, specie in Italia, Francia e Germania. È in Italia, nella basilica romana dei Santi Cosma e Damiano, la più antica rappresentazione dei due medici detti anargiri, cioè «senza denaro» perché secondo la tradizione praticavano la medi­cina senza chiedere compensi; un comportamento che corrispondeva fra l’altro a un’esortazione di Esculapio ai medici («Darete delle cure gratuitamente, se c’è da soccorrere un povero o uno straniero, perché dove c’è l’amore degli uomini c’è l’amore dell’arte») ed era consono all’insegnamento cristiano. Nel mosaico absidale del VI secolo, dove campeggia il Cristo come giudice, si vede a sinistra Pietro che in veste bianca accompagna Cosma con il borsello da medico al braccio e sulle mani la corona d’alloro dei martiri mentre sulla destra è Paolo ad accompagnare Damiano simile al fratello: entrambi barbati e baffuti. Ai lati estremi della scena appaiono a sinistra papa Felice IV con il modellino della basilica in mano e a de­stra il soldato san Teodoro, allora molto popolare perché fmo al IX se­colo era l’unico martire militare universalmente venerato e lo si conside­rava il patrono dell’esercito bizantino. Nella basilica romana vi è anche un ciclo di affreschi barocchi attri­huiti a Tullio Montagna e Simone Lagi, che narrano alcuni episodi leg­gendari della loro vita. Ma dei tanti mirabolanti miracoli soltanto due sono rappresentati: la guarigione di un dromedario e quella di una donna emorroissa, Palladia. Gli altri quadri rappresentano alcuni epi­sodi del martirio ordinato dal prefetto Lisia dopo che i due medici si fu­rono rifiutati di sacrificare agli dei: subite varie torture, fra cui la flagel­lazione, Cosma e Damiano vengono gettati dall’alto di una rupe in mare con un pesante macigno al collo, ma gli angeli li sorreggono sulle onde e li riportano a riva. Allora Lisia li condanna al rogo ma le fiamme evitano persino di lambirli, anzi assalgono i carnefici. Manca in questo ciclo l’e­pisodio delle frecce che, scoccate dagli arcieri sui due martiri legati nudi alle croci, non solo non li colpiscono ma come boomerang si ritorcono contro i soldati. E manca anche la lapidazione fallita, perché le pietre si comportano come le frecce. Esasperato dai loro portenti, Lisia li fa infine decapitare mentre da una nube si affaccia un angioletto con la simbolica palma. Questa scena, insieme con il seppellimento, conclude il ciclo sulle pareti mentre sul soffitto la Gloria dei martiri, che alcuni storici dell’arte attrihuiscono a Benedetto Cesari e altri a Montagna e Lagi, celebra la loro comunione divina. Nella basilica inferiore, ricavata nel XVII secolo quando venne rial­zato di sette metri il pavimento di quella attuale, è rimasto l’antico altare alabastrino nel cui pozzetto si conservano le reliquie dei santi Co­sma e Damiano traslate al tempo di san Gregorio Magno (590.604). Ma secondo un’altra tradizione – tedesca – le reliquie sarebbero state tra­slate nel IX secolo da sant’Alfredo nel Duomo di Hildesheim e, dopo una serie di spostamenti, prima a Brema e poi a Bamberga, sarebbero giunte nel XVI secolo, per ordine di Massimlliano Il, nella chiesa di San Michele di Monaco. Nel ciclo della basilica romana è dipinta anche la scena di Lisia che li condanna alle torture. Il Beato Angelico invece ha rappresentato l’interrogatorio non solo di Cosma e Damiano, ma anche degli altri tre loro fratelli, Antimo, Leonzio ed Euprepio, ricordati nella Passio araba e nella Leggenda Aurea. Ispirandosi a quest’ultima il frate dipinse fra gli altri l’e­pisodio di Palladia che, guarita da un inarrestabile flusso di sangue, offrì loro un modestissimo regalo: tre uova, che i santi rifiutarono. Allora la donna, preso da parte Damiano, lo scongiurò in nome del Cristo di ac­cettare quel piccolo omaggio; e il medico lo prese per non dare l’impressione di spregiare il nome del Cristo. Quando il fratello lo venne a sa­pere si adirò a tal punto che ordinò pubblicamente di non seppellirlo nello stesso sepolcro con Damiano. In un’altra scena è rappresentato il funerale col miracolo del dromedario che cominciò a parlare dicendo di seppellire tutti e cinque i fratelli insieme perché il Cristo aveva piena­mente scagionato Damiano. Il Beato Angelico, su impulso dei Medici che avevano eletto Cosma e Damiano loro patroni per l’omonimia del cognome della famiglia con la loro professione, dipinse più di una ventina di episodi sia nella pala di San Vincenzo di Annalena, commissionata espressamente da Cosimo, sia nell’altra pala di San Marco: fra questi il primo trapianto, pur leggen­dario, di una gamba che la storia conosca. Narra la Leggenda Aurea che il guardiano della basilica romana aveva la gamba rosa da un orribile can­cro. Ma una notte gli apparvero i due santi martiri con unguenti e un coltello in mano. Disse un fratello: «Dove possiamo prendere una gamba sana da applicare al posto di questa imputridita?». E l’altro ri­spose: «Oggi nel cimitero di San Pietro in Vincoli è stato sepolto un etiope; prendiamogli una gamba e mettiamola al nostro devoto. Quando il guardiano si svegliò si accorse di essere perfettamente gua­rito, sebbene la gamba non fosse più bianca ma nera. La Leggenda Aurea narra un altro episodio leggendario, dipinto invece dal Tintoretto a San Giorgio Maggiore di Venezia: un giorno un contadino, dopo aver falciato il grano, si addormentò nel campo a bocca aperta. Una serpe ne approfittò per entrare nello stomaco. Al ri­sveglio il contadino non sentì nessun dolore; ma alla sera cominciò a soffrire le pene dell’inferno fino a quando ebbe la felice idea di invocare i santi Cosma e Damiano. Poi si recò alla loro chiesa dove cadde in un sonno profondo: e la serpe gli uscì dallo stomaco. Col rinascimento l’iconografia di Cosma e Damiano si arricchì di nuovi attributi oltre a quello tradizionale del borsello per le medicine, che poteva essere ovale o rettangolare: veste di panno rosso, come quella dei medici dell’epoca, ampio mantello foderato di vaio, cappuccio o berretto cilindrico; in mano gli strumenti della professione, come la cassetta da chirurgo, il mortaio da farmacia, la scatola di unguenti, la spatola, il vaso per le urine. Ormai i due santi gemelli erano considerati i risanatori di ogni male, specie di quelli dei reni e della gola. Non soltanto i medici e i chirurghi li veneravano come patroni, ma anche i farmacisti perché le due professioni si erano differenziate molto tardi, soltanto verso l’XI Secolo. I farmacisti prediligevano Damiano, tant’è vero che lo facevano raffigurare come uno di loro. Anche i barbieri, che praticavano nel medioevo la medicina minore, li elessero a loro patroni: il Collegio dei parrucchieri e Barbieri di Roma, nato a Roma nel 1243, si chiamò infatti Compagnia dei santi Cosma e Damiano. A sua volta la facoltà di medicina di Bolo­gna volle sul proprio gonfalone e sul Sigillum magnum l’effigie dei santi Cosma e Damiano. In Italia si moltiplicarono le chiese in loro onore: a Roma le più anti­che avevano un ospizio per i malati dove i Benedettini o i Basiliani pre­stavano la loro opera caritatevole, come per esempio nell’Oratorio dei Santi Cosma e Damiano in xenodochio Tuscio, presso il Laterano. Oggi i santuari più importanti, oltre alla basilica romana, sono quelli di Alberobello, di Bitonto, di Gaeta, di Isernia, che conserva due reliquie ed è visitato da interminabili carovane di pellegrini, di Matera, di Oria, nei pressi di Brindisi, di Ravello e infine di Anela, in provincia di Sassari. Secondo il nuovo calendario romano generale la loro festa cade in Occidente il 26 settembre mentre una volta era al 27, considerato il giorno commemorativo della dedicazione della basilica a loro intitolata nel Foro Romano.

PREGHIERA
O Gloriosi Santi Cosma e Damiano, Voi, dopo una vita ripiena di opere di misericordia verso gli ammalati, genero­samente affrontaste i tormenti e sparge­ste il sangue in testimonianza di fede e di amore a Gesù Cristo. Per questo la Chiesa Vi onora come Martiri, si rallegra della vostra gloria e invoca il vostro aiuto nei mali dai quali siamo angustiati e oppressi. E noi siamo venuti qui, nel vostro Santuario, per venerare le vostre insigni reliquie e per implorare il vostro efficace aiuto. O Santi Cosma e Damiano, Voi siete fratelli: accendete in noi l’amore fraterno. Voi siete martiri: accrescete in noi la fede e l’amore al Signore. Voi siete medici potenti e pietosi: venite in nostro soccorso, guariteci dai mali dell’anima e dalle malattie del corpo, e confortateci sempre con la vostra bontà, con la vostra preghiera per noi e con la conti­nua e compassionevole vostra protezio­ne. Amen.

INTRODUZIONE AGLI ATTI DEGLI APOSTOLI – L’ORIGINALITÀ

http://www.ora-et-labora.net/bibbia/attinger.html

INTRODUZIONE AGLI ATTI DEGLI APOSTOLI

LA PAROLA CRESCEVA… 

Daniel Attinger

edizioni Qiqajon – Comunità di Bose 

L’ORIGINALITÀ DEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI

 Mentre vi sono nel NT quattro evangeli e molte lettere, solo gli Atti degli apostoli costituiscono una narrazione degli inizi della chiesa. Se si capisce facilmente il fascino che poteva suscitare il progetto di scrivere una “vita di Gesù” — non era forse l’evento di Dio nella nostra storia? — e se si comprendono anche senza difficoltà i motivi pastorali che hanno condotto alla redazione di lettere, meno evidenti appaiono le ragioni che hanno spinto Luca a scrivere gli Atti. Perché interessarsi alla storia della chiesa, senz’altro meno affascinante della vita del Figlio di Dio in mezzo agli uomini? Prima di rispondere a questa domanda va notato che gli Atti si presentano come un secondo libro, o meglio, come una seconda parola, rispetto a una “prima” che è l’Evangelo di Luca. Ambedue gli scritti hanno lo stesso destinatario, Teofilo, lo stesso linguaggio, la stessa teologia, Gli studiosi sono oggi unanimi nel dire che l’Evangelo di Luca e gli Atti degli apostoli formavano in origine un’opera sola in due volumi. Solo con la costituzione del canone e quando si cominciarono a leggere gli evangeli nelle assemblee cultuali (verso la meta del II secolo) Luca fu associato a Marco e Matteo, poi a Giovanni, e staccato dagli Atti, che diventarono una sorta di introduzione  generale alle epistole. Ciò significa che occorre ragionare sugli Atti come su di un libro che appartiene a un insieme più vasto del quale forma la seconda parte. Di conseguenza, la demanda da porre non è perché Luca si sia interessato alla storia della chiesa nascente, ma piuttosto perché abbia sentito la necessità di narrare l’evento della salvezza fine all’arrivo di Paolo a Roma, e non fino all’Ascensione soltanto.
Un’osservazione sul prologo degli Atti degli apostoli ci permette forse di intravedere una risposta. Atti 1, 3 dichiara che Gesù risorto apparve ai suoi discepoli per quaranta giorni parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Sappiamo che fin dall’inizio del sue ministero pubblico Gesù ha posto l’annuncio del regno di Dio al centro della sua predicazione:
Gesù disse [alle folle]: “E necessario che io annunci anche alle altre città la gioiosa notizia del regno di Dio; per questo sono state mandato” (Lc 4,43; cf. 8,1.10; 9,2.11,60; 10,9; eccetera).
Gesù parla quindi del Regno dall’inizio alla fine del suo ministero e anche dope la sua resurrezione, come ricorda l’inizio degli Atti:
Egli si mostrò [ai discepoli] vivo, dope la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio (At 1,3).
Ma ora, dopo che Gesù é tornato al Padre, come avviene questo annuncio? Alla fine degli Atti, Luca presenta Paolo a Roma, sotte sorveglianza, e scrive:
Dal mattino alla sera [Paolo] esponeva [agli ebrei] il Regno di Dio, dando testimonianza, e cercava di convincerli riguardo a Gesù, partendo dalla Legge di Mosè e dai profeti…Trascorse due anni interi… annunciando il Regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento (At 28,23.30-31).
Così si spiega il prolungamento dell’opera lucana. L’autore non intende raccontare la “vita di Gesù”, né la storia della chiesa o la vita di santi come Pietro, Stefano o Paolo, la sua preoccupazione è invece quella di spiegare come l’annuncio del Regno, iniziato da Gesù, continua dopo l’Ascensione fino a raggiungere noi: questo annuncio ci perviene tramite la chiesa che il Cristo ha istituito come testimone perché annunci dovunque e in tutti i tempi la gioiosa notizia del Regno. Luca-Atti appare così come un grande commento al detto di Gesù:
Il regno di Dio non viene in mode da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: “Eccolo qui”, oppure: “Eccolo là ». Perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi (o forse: a vostra portata)!” (Lc 17,20-21).

I destinatari e il testo
Fin dal primo versetto sappiamo che il destinatario degli Atti (come dell’Evangelo di Luca) è Teofilo, ma di lui non sappiamo nulla. Più che di un nome fittizio — come alcuni hanno pensato — si tratta probabilmente del mecenate che ha finanziato l’edizione e la diffusione del libro, operazione che era molto costosa all’epoca. In questo l’opera lucana appare molto diversa dagli altri evangeli. Soltanto essa si presenta come l`opera di un “io” che ha scritto il testo dopo accurate ricerche (cf. Lc 1,1-4; At 1,1). Ciò non significa che è solo Luca-Atti ad avere un “autore », mentre gli altri evangelisti sono dei compilatori. Vuol dire invece che, mentre gli evangeli di Matteo, Marco e Giovanni sono nati dalla preoccupazione di edificare la comunità nella quale viveva il loro autore e sono quindi delle opere “pastorali », Luca-Atti invece è nato come “opera letteraria » a scopo storico-teologico su richiesta di un individuo, Teofilo. Non è però indifferente per noi il fatto che questo individuo si chiami Teofilo, cioè “amico di Dio ». Anche noi, se ci consideriamo amanti di Dio e quindi amati da lui, possiamo diventare i destinatari dell’opera lucana, incaricati, nel contempo, di diffondere quest’opera attraverso la nostra testimonianza.
Il manoscritto di Luca non ci è rimasto e nemmeno le copie fatte dai copisti pagati da Teofilo. I più antichi manoscritti che contengono parti degli Atti risalgono al III secolo e i più antichi testi completi sono del IV secolo. Si possono raggruppare essenzialmente in due famiglie: la prima, chiamata « alessandrina », é rappresentata da grandi manoscritti del IV-V secolo (come il Sinaiticus, il Vaticanus o l’Alexandrinus) ed é il testo che seguono le nostre attuali traduzioni; la seconda, detta “occidentale” (ma che di occidentale ha solo il nome), si trova soprattutto nel codex Bezae, anch’esso del IV-V secolo; è un po’ più lunga dell’altra, maggiormente segnata da preoccupazioni etiche e anche più antigiudaica. Non sembra che una famiglia dipenda direttamente dall’altra; probabilmente le due famiglie sono coesistite fin dal II-III secolo. Sorge quindi un problema: perché gli Atti esistono sotto due forme abbastanza diverse, mentre in Luca — che conosce pure le due famiglie — le differenze sono minime? Questa diversità può trovare una spiegazione nello statuto dei testi: molto presto l’Evangelo di Luca ha assunto un aspetto “canonico », perché era diventato testo liturgico e la sua forma si è quindi presto stabilizzata; gli Atti invece furono considerati come un’opera “diversa » che solo più tardivamente entrò a far parte delle letture liturgiche. Non avendo un carattere “canonico” (forse fino al IV secolo), nulla impediva di fare qua e là dei ritocchi e dei miglioramenti, o di aggiungere qualche spiegazione là dove il testo mancava di chiarezza. In ogni caso, queste due famiglie — cui occorre forse aggiungerne una terza, “antiochena », rielaborazione di quella « alessandrina », che è la più diffusa nel mondo greco a partire dal IV secolo — attestano la popolarità di cui ha goduto il libro degli Atti nella chiesa antica, nonostante non appartenesse ancora al canone ufficiale delle Scritture.

Autore e data
Fin dall’antichità gli Atti (e l’Evangelo di Luca) furono attribuiti a Luca, compagno di Paolo che l’Apostolo chiama il “caro medico” (Col 4,14; cf. Fm 24); a lui Paolo farebbe allusione quando parla del “fratello che ha lode in tutte le chiese a motivo dell’evangelo » (2Cor 8,18). Le sezioni in “noi” (cf. At 16,10-17; 20,5-15; 21,1-18; 27,1-28,16; il testo occidentale aggiunge 11,28) potrebbero corroborare questa attribuzione perché sembrano indicare che l’autore abbia accompagnato Paolo a partire da Troade. Questa attribuzione pone tuttavia molti problemi: se davvero Luca è compagno di Paolo, perché non si ritrovano, nella presentazione che Luca fa dell’Apostolo, alcuni temi centrali della teologia paolina, come la giustificazione per fede o la morte di Cristo “per noi » (a eccezione di At 20,28)? O perché non lo chiama mai « apostolo », titolo che invece Paolo ha rivendicato con forza(cf, 1Cor 1,1; 9,2; 15,8-10; 2Cor 1,1; 11,13-33; Gal 1,1; eccetera)? Anche la cronologia fa difficoltà perché è arduo far coincidere i dati delle lettere paoline con quelli degli Atti. Inoltre diversi tratti degli Atti (e particolarmente il discorso di Paolo a Mileto, cf. At 20,17-3 5) sembrano alludere a situazioni che meglio si capiscono alla luce del cristianesimo della terza generazione, dopo l’anno 80, Si possono evidentemente sempre trovare delle spiegazioni; ma credo che dobbiamo riconoscere, con la maggior parte degli studiosi, che ignoriamo chi sia l’autore di Luca-Atti, che continuerò, per convenzione, a chiamare Luca. Le sezioni in « noi” sembrano presupporre che egli provenisse dall’Asia Minore o da Filippi o forse che sia stato, ma solo temporaneamente, compagno di viaggio di Paolo.
Quanto alla data di composizione, gli esegeti sono abbastanza concordi nel fissarla attorno all’anno 80. Una tale datazione pone nuovamente due problemi non trascurabili. Innanzitutto perché, in un’epoca in cui le lettere paoline circolano già in tutte le chiese, gli Atti non dicono nulla dell’attività epistolare di Paolo? Si può forse rispondere che, raccontando l’attività missionaria di Paolo, Luca non ha menzionato le lettere di Paolo perché esse rientrano piuttosto nel quadro della sua attività pastorale e teologica. La seconda domanda é più seria: perché gli Atti non dicono nulla del martirio subito, circa vent’anni prima, da Pietro e da Paolo? Tornerò su questa domanda, per ora dico solo che questa « lacuna » sembra indicare che Luca non intendesse scrivere un “vita degli apostoli”. Il suo progetto infatti non si compie quando Pietro e Paolo (i suoi “eroi”, insieme a Stefano) muoiono, bensì quando l’evangelo è predicato a Roma “con tutta franchezza e senza impedimento » (At 28, 3 1).

Piano del libro
Come capita per quasi tutti i libri biblici, la ricerca di un piano è molto problematica e quasi ogni autore giunge a conclusioni diverse. Il problema deriva dal fatto che gli antichi manoscritti non hanno segni di punteggiatura né separazioni in capitoli o paragrafi, nemmeno spazi per separare le parole: tutto è scritto di seguito. Questo non vuol dire che l’autore non abbia un progetto che porta man mano avanti. Anzi, i manuali antichi danno molte indicazioni su come si debba procedere per scrivere un’opera storica di pregio, fra le quali anche quella di non passare a un punto successivo prima di aver esaurito la materia del punto precedente, e di elaborare accuratamente il passaggio dall’uno all’altro attraverso il procedimento dell’”intreccio », vale a dire: verso la fine di un paragrafo si devono inserire dei segnali che anticipino la parte successiva, e all’inizio di un nuovo paragrafo degli elementi che ricordino il paragrafo appena concluso. Ne abbiamo un chiarissimo esempio nel racconto dell’Ascensione che chiude l’Evangelo di Luca (24,50-53) e apre, in modo diverso, gli Atti degli apostoli (1,4-11). Le parti quindi non si distinguono quando si osserva una rottura nel testo, ma quando si nota un intreccio tematico. Tuttavia nemmeno questa regola consente di giungere a una conclusione unanime sulla struttura degli Atti.
La ricerca di un piano, seppure importante per noi, non è pero decisiva. Un testo é suscettibile di più interpretazioni e quindi di più architetture. L’importante é trovarne una che dia senso al testo. Di là si potranno poi scoprire altre strutture e nuovi significati nel libro che si legge. Tradizionalmente, si suddividevano gli Atti degli apostoli in due grandi parti consacrate ai due principali protagonisti: Pietro (cc. 1-12) e Paolo (cc. 13-28). Più recentemente, sottolineando l’importanza delle ultime parole di Gesù: “Di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra” (At 1,8) si e proposto un altro piano, sempre in due parti. Una prima (cc. 1-15) mostra come l’evangelo si radica saldamente a Gerusalemme e come, da questo centro, si estende in diverse province orientali dell’impero; in questa parte si assiste allo sviluppo teologico della chiesa: l’evangelo raggiunge ebrei, proseliti, samaritani e pagani, cioè tutte le categorie umane possibili. Questo sforzo missionario sfocia naturalmente nell’assemblea di Gerusalemme (c. 15). La seconda parte inizia da questa assemblea che è il punto di partenza di nuove missioni che devono permettere alla chiesa di raggiungere la sua piena statura geografica: l’evangelo arriva a Roma, segno che nulla potrà impedire alla testimonianza apostolica di raggiungere le estremità del mondo (dalla fine del c. 15 al c. 28). A partire dallo stesso testo di Atti 1,8, si potrebbero anche immaginare le seguenti grandi suddivisioni: Gerusalemme (cc. 1-7), Samaria e Giudea (cc. 8-12), apertura ai pagani e viaggio verso Roma (cc. 13-28); questo piano però misconosce il posto centrale che certamente Luca attribuisce all’assemblea di Gerusalemme. Nella lettura proposta in queste pagine si terrà conto soprattutto della presenza di una specie di ritornello sul progresso della parola del Signore:

-       La parola di Dio cresceva (At 6,7).
-       La parola di Dio cresceva e si moltiplicava (At 12,24).
-       Insegnavano e annunciavano la gioiosa notizia della parola del Signore (At 15,35).
-       Così la parola del Signore cresceva e si rafforzava (At 19,20).
-       [Paolo] proclamava il regno di Dio e insegnava le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento (At 7.8,31).

Aggiungiamo ancora la bella formula del discorso di Paulo a Mileto:
E ora vi affido al Signore e alla Parola della sua grazia, che ha la potenza di edificare e di concedere l’eredità fra tutti quelli che da lui sono santificati (At 20,32).
 Questo ritornello sembra indicate che i racconti che lo precedono narrano il grande e irresistibile progredire non tanto della missione degli apostoli, quanto della parola stessa di Dio nel mondo. Questo sarà quindi lo schema di lettura proposto in queste pagine:

1,1-11                        Prologo e Ascensione del Cristo.
1,12-6,7                     I. La Parola si diffonde a Gerusalemme.
6,8-12,25                   II. I testimoni: Stefano, Paolo e Pietro. L’evangelo raggiunge i pagani.
12,26-15,35 &             III. Prima missione fra i pagani,o:p> aassemblea di Gerusalemme.
15,36-21,16              IV. Le missioni di Paolo.
21,17-28,16              V. La “passione” di Paolo.
28,17-31                    Conclusione: la Parola non é incatenata.

Publié dans:LETTURE DAGLI ATTI DEGLI APOSTOLI |on 26 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

The Priesthood of Mary, The Annunciation: Mary’s Ordination?

The Priesthood of Mary, The Annunciation: Mary’s Ordination? dans immagini sacre mary-priest-2

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Publié dans:immagini sacre |on 25 septembre, 2013 |Pas de commentaires »
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