22 SETTEMBRE 2013 – 25A DOMENICA : « NON POTETE SERVIRE A DIO E A MAMMONA »

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(vi consiglio di leggere anche l’Omelia di Father Ron – in inglese se potete, ben spiegato l’intreccio ed istruttiva
http://fatherronstephens.wordpress.com/ )

22 SETTEMBRE 2013  | 25A DOMENICA – T. ORDINARIO C  |  APPUNTI ESEGESITICO-SPIRITUALI

« NON POTETE SERVIRE A DIO E A MAMMONA »

In questa Domenica e nella seguente il tema fondamentale è quello della « ricchezza » che, pur essendo un dono di Dio, diventa per gli uomini il più delle volte un laccio di strangolamento sia per sé che per gli altri.
S. Luca raggruppa nel capitolo 16 del suo Vangelo due interessanti parabole, quella dell’amministratore infedele e quella del ricco epulone, con alcuni ammonimenti circa il buon uso delle ricchezze per aiutare i cristiani a sfuggire alla loro forza di seduzione, che non sembra risparmiare nessuno, non solo nella società in cui viviamo, ma perfino nella Chiesa. Le due parabole, con accentuazioni diverse, vogliono segnalare il « rischio » dell’attaccamento ai beni di questo mondo, per renderci disponibili e aperti a quelli del « regno », che già è operante in mezzo a noi attraverso Cristo e il suo Vangelo.
Prendiamo oggi in considerazione la prima parabola, inserita però nel quadro generale del contesto liturgico.

« Ascoltate questo, voi che calpestate il povero… »
La prima lettura ci dà un quadro desolante della società israelita del tempo del profeta Amos, che opera nell’VIII secolo a.C. nel regno di Samaria, sotto Geroboamo II (783-743), in un periodo economicamente assai prospero per il paese.
Come quasi sempre avviene in simili circostanze, i ricchi cercavano di sfruttare il momento favorevole sulla pelle dei poveri. Di qui la collera di questo rude Profeta, allevatore di bestiame (Am 1,1 ), contro tutte le ingiustizie e gli strozzinaggi del suo tempo, che da alcuni si cercava addirittura di accoppiare con il rispetto puramente formale verso il sabato e la festa della « nuova luna », in cui erano proibite dalla Legge le transazioni commerciali.
« Ascoltate questo, voi che calpestate il povero / e sterminate gli umili del paese, / voi che dite: « Quando sarà passato il novilunio / e si potrà vendere il grano? / E il sabato, perché si possa smerciare il frumento, / diminuendo le misure e aumentando il siclo, / e usando bilance false, / per comprare con denaro gli indigenti / e il povero per un paio di sandali? / Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe (cioè per se stesso): / certo non dimenticherò mai le loro opere » (Am 8,4-7).
Sono le tipiche forme di sfruttamento che da sempre opprimono i poveri, impedendo loro di crescere e di acquistare la coscienza non solo della loro dignità, ma anche della loro capacità di trasformazione della società verso traguardi più umani e più giusti. Oggi forse la situazione è anche più grave, se si pensa che lo sfruttamento avviene non solo da parte di individui e di società, nazionali o multinazionali, ma perfino di certi regimi, di destra o di sinistra che siano.
Proprio per questo, la irruenta pagina di Amos è più che mai attuale e deve spingere i cristiani, dovunque si trovino, a ribellarsi a una situazione del genere e a riproporre a sé e agli altri il « senso » dei beni terreni, perché questi non diventino strumento di oppressione, ma di « comunione » e di « fraternità » degli uomini fra di loro.

« C’era un uomo ricco che aveva un amministratore disonesto »
Mi sembra che a questo miri soprattutto la parabola così detta dell’ »amministratore infedele » (Lc 16,1-9), ma che forse meglio sarebbe chiamare dell’ »amministratore astuto », perché di fatto l’applicazione che ne fa Gesù punta precisamente sull’abilità con cui egli ha saputo trarsi dai guai, per proporla a esempio ai suoi discepoli: « Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce » (16,8). C’è dunque da imparare anche dai cattivi, non per la cattiveria in sé e per sé, ma per il « modo » abile, tenace, suasivo con cui compiono il male e inducono altri ad associarsi a loro.
Il « padrone », di cui qui si parla, non può essere il proprietario terriero ai cui danni era stata giocata una così ignobile truffa, ma è certamente Cristo (cf 7,6; 11,39), che si svela attraverso la trasparenza della parabola. Così come i « figli della luce » sono i suoi discepoli.
C’era dunque « un uomo ricco che aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi; lo chiamò e gli disse: « Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore ». L’amministratore disse tra sé: Che farò ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ho forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua. Chiamò uno per uno i debitori del padrone e disse al primo: « Tu quanto devi al mio padrone? ». Quello rispose: « Cento barili d’olio ». Gli disse: « Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito, cinquanta… ». Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce » (Lc 16,1-8).
La manovra speculativa qui descritta, che viene come ultimo gesto di corruzione dello spregiudicato amministratore, si capisce meglio se si pensa che nell’antico Oriente i responsabili amministrativi di un latifondo non venivano stipendiati regolarmente dal padrone; dovevano arrangiarsi, invece, ricavando il loro compenso dai prestiti che facevano, ad alto interesse, dei frutti del fondo agricolo.
Questa volta però il fattore escogita la più brillante delle sue birbonate: approfittando della notevole libertà amministrativa concessagli dalle abitudini del tempo, falsifica i dati relativi al quantitativo dei suoi debitori: condona o abbona il 50% al primo debitore (quello dell’olio) e il 20% al secondo (quello del grano). In tal modo egli si assicurava la gratitudine dei suoi clienti, legati a lui nella truffa, nonché una buona percentuale personale sull’abbono del debito?
A ragione perciò il padrone « lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza » (v. 8). Con la sua operazione, infatti, si era procurato un doppio vantaggio: quello del guadagno immediato personale, e quello dell’amicizia dei suoi clienti, che non avrebbero potuto non essergli grati. Su questo ultimo fatto soprattutto insiste la lode del padrone, perché « i figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce » (v. 8).

« Procuratevi amici con la disonesta ricchezza »
È infatti su questo invito a saper usare della ricchezza per farsi degli « amici » che si chiude la parabola: « Ebbene io vi dico: procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand’essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne » (v. 9).
È interessante questa frase perché, mentre per un verso è assai polemica contro la ricchezza che viene chiamata « disonesta » (l’espressione semitica originaria è « mammona d’iniquità ») – essendo il più delle volte frutto di ingiustizie, di sotterfugi e di compromessi con la propria coscienza -, per un altro verso dice che anche la ricchezza può servire a fare del bene, a procurarci appunto degli « amici », che a loro volta ci aiutino presso il Padre al momento della nostra morte. Le « dimore eterne » infatti, espressione di tipo apocalittico, stanno a designare il luogo della salvezza, cioè il Paradiso. Si pensi alla frase di Gesù: « Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore » (Gv 14,2).
Chi siano questi « amici » indeterminati non è facile dirlo, ma possiamo arguirlo da tutta la tematica teologica di Luca che insiste nell’aiuto ai poveri, ai bisognosi: « Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fate vi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma. Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore » (Lc 12,33-34). In concreto, perciò, gli « amici » che ci dobbiamo « procurare » con la ricchezza sono tutti coloro che avremo beneficato e che saranno nostri intercessori presso Dio; in astratto, sono tutte le opere di bene, le elemosine, che avremo fatto al nostro prossimo e che vengono qui come personificate.
Questo è l’unico modo, per Luca, di giustificare il possesso della ricchezza: altrimenti, anche se acquistata legittimamente, essa viene usata illegittimamente e perciò può anche diventare « disonesta ». Infatti, la ricchezza o viene adoperata per condividerla con gli altri, dilatando così gli spazi dell’amore e dell’amicizia, o diventa occasione di egoismo personale, e perciò di invidia e di contesa da parte degli altri, elemento di inquietudine e di squilibrio sociale. Si manifesta allora, come Gesù ha detto, una vera « maledizione » per chi la possiede e per chi non la possiede: « Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione » (Lc 8,24).
È proprio su questo terreno che si può « saggiare » l’autenticità del discepolo di Cristo: perché solo se egli avrà il cuore libero dalla ricchezza di questo mondo, potrà essere degno della ricchezza « vera », abbondante, quella che gli apparterrà in proprio e che nessuno potrà mai rapirgli perché è il Padre che gliel’ha « affidata », cioè la ricchezza del « regno ». E questo, se non andiamo errati, il senso delle sentenze che seguono, le quali, pur essendo piuttosto disparate, sono collegate fra di loro da alcuni vocaboli che hanno funzione di aggancio: ricchezza disonesta o mammona, fedeltà, affidare, ecc. « Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto. Se dunque non siete stati fedeli nella disonesta ricchezza, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? » (Lc 16,10-12). La ricchezza è detta « altrui », in quanto è destinata non a essere goduta egoisticamente, ma partecipata anche agli « altri ».

« Nessuno può servire a due padroni »
E infine l’espressione più dura di tutto il discorso, quella che elimina ogni possibilità di legittimazione della ricchezza: « Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire a Dio e a mammona » (v. 13).
La ricchezza è un « rischio » permanente, perché tende di per sé ad « asservire » l’uomo, assorbendone tutti gli interessi. In queste condizioni Dio diventa solo un accessorio, anzi di meno: un « avversario » che bisogna far fuori! Ma c’è anche il caso contrario: quanto più Dio conquista il cuore dell’uomo, più si allenta l’amore alla ricchezza, fino a scomparire del tutto, come in Francesco d’Assisi e in tanti altri Santi. Il cristiano perciò ha una cartina di tornasole a sua disposizione per controllare l’autenticità della sua fede: esaminare il suo atteggiamento verso la ricchezza propria o altrui, se essa è per lui strumento di « partecipazione » e di « amicizia », oppure di chiusura egoistica e di rancore.
Era l’insegnamento degli antichi Padri: « Non sei forse un ladro, tu che delle ricchezze, di cui hai ricevuto la gestione, disponi come se fossero tue proprie? (…) All’affamato appartiene il pane che tu conservi, all’ignudo il mantello che tieni nel baule, a chi è scalzo le scarpe che marciscono a casa tua, al bisognoso il denaro che tu tieni nascosto. Così tu commetti tante ingiustizie quanta è la gente cui potevi donare » (S. Basilio).
Ed è l’insegnamento anche oggi della Chiesa: « Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e popoli, e pertanto i beni creati debbono, secondo un equo criterio, essere partecipati a tutti, essendo guida la giustizia e assecondando la carità ».
Ciò nonostante, rimane lo scandalo che la quasi totalità della ricchezza è ancora nelle mani dei cristiani e circa due terzi dell’umanità, normalmente non cristiani, sono nella miseria. Come si spiega tutto questo? Non dipende in parte anche dal fatto che i cristiani hanno voluto « servire » allo stesso tempo « Dio e mammona », tradendo così il Vangelo?
Proprio per questo c’è da pregare, come ci raccomanda S. Paolo nella seconda lettura (1 Tm 2,1-8), perché Dio trasformi il cuore di tutti, onde « possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità » (v. 2).

Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola. Riflessioni biblico-liturgiche

Publié dans : immagini sacre |le 20 septembre, 2013 |Pas de Commentaires »

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