QUEL CHE RESTA DI PAOLO – ANNO PAOLINO
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ANNO PAOLINO – UN PRIMO BILANCIO
QUEL CHE RESTA DI PAOLO
DI GIUSEPPE PULCINELLI
(Jesus, 7 luglio 2007)
Durante quest’anno si sono moltiplicate le iniziative « paoline ». Uno stimolo per i cristiani affinché attingano all’esempio dell’Apostolo: non una superficiale imitazione, dunque, ma una conformazione al modello di chi ha sposato totalmente la causa di Cristo.
È forse presto per trarre dei bilanci dall’Anno Paolino appena concluso, e tuttavia si può già tentare qualche riflessione sulle possibili prospettive che esso ha aperto.
Sicuramente ha fornito tantissime occasioni per ripensare alla figura dell’Apostolo: pellegrinaggi, catechesi, spettacoli, mostre, convegni, simposi internazionali, ma anche programmi diocesani e parrocchiali; si può dire che ogni realtà ecclesiale è stata direttamente o indirettamente coinvolta in qualche iniziativa « paolina ». E soprattutto ha stimolato molti cristiani a riprendere in mano i suoi scritti, come ha incitato a fare anche Benedetto XVI al termine delle catechesi che gli ha dedicato: «Proprio questo può ancora e sempre fare l’apostolo Paolo. Attingere a lui, tanto al suo esempio apostolico quanto alla sua dottrina, sarà quindi uno stimolo, se non una garanzia, per il consolidamento dell’identità cristiana di ciascuno di noi e per il ringiovanimento della Chiesa» (4 febbraio 2009; il terzo volume che raccoglie le sue catechesi viene ora pubblicato dalla San Paolo, Paolo e il suo insegnamento).
Molti hanno detto giustamente che se anche l’Anno Paolino avesse ottenuto quest’unico scopo, avrebbe visto ampiamente giustificata la sua indizione. E accostare personalmente i suoi scritti – oltre alle occasioni offerte dalla liturgia (troppo raramente i testi paolini vengono commentati nelle omelie!) – non può mai lasciare indifferenti: la perenne freschezza e radicalità dell’Evangelo da lui predicato è davvero un grande stimolo per ripensare il nostro essere cristiani del XXI secolo. Di fatto tantissimi aspetti del suo pensiero, del suo insegnamento, trovano facile connessione con l’attualità: la ministerialità (maschile e femminile) nella Chiesa, la tensione tra carisma e autorità, la rilevanza del dono della profezia, il rischio delle fazioni-divisioni, il rapporto tra fede e morale, l’universalismo e l’inculturazione dell’Evangelo, la parresìa come stile ecclesiale… solo per nominarne alcuni.
Un aspetto che potrebbe suscitare imbarazzo se non è ben compreso, è quello della « imitazione » dell’Apostolo, di cui Paolo stesso parla in vari passaggi delle sue lettere: «Fatevi miei imitatori» (1Cor 4,16; cf. 1Ts 1,6; 2,14; Fil 3,17; 4,9; Gal 4,12; ecc.). Non è un invito da presuntuosi o esaltati, come potrebbe sembrare; è invece il segno di un rapporto intimo, profondo, da collocare nell’ottica familiare della genitorialità (cfr. 1Cor 4,14-17), in cui ci si mette in gioco con tutto sé stessi a favore di chi, entrando a far parte della Chiesa nascente, non aveva ancora antenati nella fede a cui guardare per orientarsi nella vita.
Ultimamente, in quella che viene definita una situazione di emergenza educativa, si parla molto della mancanza di modelli positivi nella formazione dei giovani, e dell’antitetico dilagare di modelli che poco o nulla hanno a che fare con la prospettiva cristiana o più in generale con i valori etici; e ci si è pure interrogati se è ancora effettivamente praticabile la metodologia pedagogica del « conformarsi al modello », per i rischi che essa potrebbe comportare, non ultimo quello della riproduzione pedissequa e tutto sommato sterile degli atteggiamenti esteriori del modello. Di fatto però l’avere dei modelli è connaturale all’essere umano; questo vale già nell’ambito familiare, con il bambino che impara imitando i genitori, e poi in quello scolastico, professionale… Ciò continua a valere nel campo religioso-ecclesiale. Ogni credente ha fatto l’esperienza di quanto siano state decisive per il proprio cammino di maturazione nella fede e nelle scelte di vita alcune figure di riferimento: genitori, maestri, sacerdoti, suore, catechisti, ecc. Volti, parole, gesti significativi che ci sono rimasti impressi, quando in certi frangenti abbiamo avuto come l’illuminazione: «Questo è il modo giusto di reagire, il modo per aderire alla realtà e coglierne la sua verità più profonda». È in questo senso che conserva tutta la sua validità la pedagogia dell’esempio, il « conformarsi al modello ». Nell’ottica paolina, l’imitazione (in greco: mìmesis) è tutt’altro che un « mimare » atteggiamenti esteriori di chi si trova in una posizione preminente come modello-testimone, e ancor meno un mitizzare la figura dell’apostolo: Paolo si oppone drasticamente a ogni minimo insorgere di qualcosa che assomigli al culto della personalità: «Che cosa è mai Apollo? Che cosa è Paolo? Servitori… Né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa crescere… Nessuno ponga il suo vanto negli uomini!» (cfr. 1Cor 3,5.7.22).
D’altra parte si sbaglierebbe di grosso se si esaltasse – come a volte si è fatto – la figura di Paolo come quella del supereroe, dell’uomo perfetto, sempre all’altezza, che non sperimenta mai sconfitte e delusioni: non dimentichiamo che Nietzsche, alla ricerca di supporti alle sue idee sul superuomo, proprio per la mancanza di queste caratteristiche si scagliava furiosamente contro Paolo e il suo pensiero.
Paolo, al contrario, è profondamente cosciente della limitatezza, di quella propria e di coloro ai quali annuncia il Dio cristiano; la sua non è una teologia della trionfalistica onnipotenza e onniscienza, bensì quella della debolezza e stoltezza della croce, cioè la rivelazione del volto di Dio nel Cristo crocifisso: «Quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti» (1Cor 1,27). E anzi, con una forte dose di ironia, egli stigmatizza con l’appellativo di «superapostoli» (cfr. 2Cor 11,5; 12,11) coloro che presumono di essere «ministri di giustizia» (2Cor 11,15), probabilmente dei giudaizzanti che si consideravano in perfetta coerenza con i precetti della Legge e che avevano avuto molto seguito tra quei credenti di Corinto, sviandoli dalla giusta ermeneutica dell’Evangelo.
Al contrario, di sé stesso Paolo non afferma la forza, la capacità e l’efficienza, ma la limitatezza e l’imperfezione nell’essere umile strumento della grazia: «Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione» (1Cor 2,3); e se di qualcosa bisogna vantarsi, egli si vanta unicamente della grazia che viene dalla croce di Cristo (cfr. Gal 6,14) e della propria debolezza (cfr. 2Cor 12,5), perché essa fa in modo che sia unicamente la grazia di Dio a risplendere: «Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la forza di Cristo… quando sono debole è allora che sono forte» (2Cor 12,9.10).
Per Paolo il discernimento non avviene in base a precetti esteriori. Il cristiano infatti per le sue scelte deve confrontarsi con quelle paradossali che Dio ha compiuto in Cristo e che continua a compiere ancora oggi: scelte di tutt’altro segno rispetto all’ottica mondana della ricerca del potere, di cui un tratto caratteristico è quello che porta a farsi deboli con i forti e forti con i deboli; prima di concludere con la celebre frase «mi sono fatto tutto a tutti per salvare a ogni costo qualcuno», Paolo scrive: «Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli» (1Cor 9,22); e non aggiunge, come ci si sarebbe aspettato: «Mi sono fatto forte con i forti», tanto meno «mi sono fatto forte con i deboli».
«Siate miei imitatori come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1): imitare Paolo per imitare Cristo, questa è la finalità della mìmesis, arrivare ad avere lo stesso sentire di Cristo (cfr. Fil 2,5), cioè sposare la stessa causa, avere i suoi intenti, il suo stile, in particolare la sua umiltà e obbedienza (cfr. Fil 2,8); a questo serve l’imitazione di Paolo e dei suoi collaboratori.
Alla scuola di Paolo, scopriamo che essere modelli per gli altri (in un modo o nell’altro, anche se non lo scegliamo, lo siamo) non significa essere perfetti, ma essere convinti di permanere nella condizione di chi continua a imparare, anche dagli errori (Fil 3,12: «Non sono arrivato alla perfezione, ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù»). Non si deve temere di perdere credibilità nel rivelarsi vulnerabili e deboli: è invece un grande incoraggiamento per chi ci è affidato vedere qualcuno/a che continua a imparare; tra l’altro a livello psicologico chi è « perfetto » risulta inavvicinabile, suscita antipatia, ma soprattutto rischia moltissimo l’ipocrisia: «Quando pretendiamo di fare gli educatori con la presunzione di essere uomini arrivati che non hanno più bisogno di essere educati dalla vita, diventiamo ipocriti» (C. M. Martini).
E in questo processo, che potremmo inquadrare nell’ottica della « formazione permanente », un grande aiuto ci viene in primo luogo da chi per noi è modello di vita evangelica, ma anche da chiunque, credente o meno, è cercatore di verità e di senso, da tutti coloro che lottano per la giustizia, dai pensatori, dai poeti, dagli artisti… Da ogni persona e situazione può venirci una parola feconda per il presente. In questo Paolo ci insegna davvero a pensare in grande: «In conclusione, fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri. Le cose che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, mettetele in pratica. E il Dio della pace sarà con voi!» (Fil 4,8-9).
Giuseppe Pulcinelli
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