GESÙ CRISTO, ATTRAVERSO GLI INNI DELLE LETTERE DI PAOLO – FILIPPESI

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PIANAZZE VILLA REGINA MUNDI

ESERCIZI SPIRITUALI AL CLERO

GESÙ CRISTO, ATTRAVERSO GLI INNI DELLE LETTERE DI PAOLO

IX MEDITAZIONE – 1° SETTEMBRE 2000

Leggiamo la Lettera di Paolo ai Filippesi dall’inizio del capitolo 2° perché credo che anche il contesto abbia un suo significato. Scrive Paolo:
«1 Se c’è pertanto qualche consolazione in Cristo, se c’è conforto derivante dalla carità, se c’è qualche comunanza di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, 2 rendete piena la mia gioia con l’unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti. 3 Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso, 4 senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri. 5 Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, 6 il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; 7 ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, 8 umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. 9 Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; 10 perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; 11 e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre» (Fil 2, 1-11).

1. L’unanimità
L’Inno è inserito in un’esortazione, a una parenési paolina, all’unione fraterna e all’unanimità di cuore. Questa parenési paolina è un appello accorato, che vuole avere come suo fondamento e base l’evento compiutosi in Cristo.
In questo modo di pensare c’è un elemento importante: tra la fede e il comportamento c’è e deve esserci un legame interno di armonia. Quello che è avvenuto in Gesù Cristo diventa la regola di quello che il cristiano è chiamato a fare. Lo abbiamo già incontrato molte altre volte (nelle Lettere di San Paolo questo è usuale). Quando Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi vuole invitare i cristiani a partecipare alla colletta che lui sta facendo per la Chiesa di Gerusalemme, interpretando questa colletta come una solidarietà che nasce dalla decisione di vicinanza e di comunione, riporta il fondamento a Gesù Cristo, il quale «da ricco che era, si è fatto povero, per arricchire noi con la sua povertà» (2 Cor 8, 9). Se questo è il mistero che sta all’origine della nostra vita, non possiamo evidentemente tenere una ricchezza per noi senza avere la disponibilità alla condivisione, a sentire la povertà degli altri come qualche cosa che ci interpella, come Gesù Cristo ha fatto nei nostri confronti.
Credo che le applicazioni potrebbero essere tantissime. Il contenuto della nostra fede motiva, ma non solo, da una forma ai nostri pensieri e decisioni: «amatevi gli uni e gli altri; così come Dio ha amato voi in Cristo» (cfr. 1 Pt 1, 22-23); «perdonatevi come Dio vi ha perdonato» (Col 3, 13); «accoglietevi come siete stati accolti» (cfr. Rm 15, 17)… In pratica è molto chiaro: l’evento di Cristo deve diventare la forma dell’esistenza della comunità cristiana. In concreto, la forma che l’evento di Cristo trasmette è la comunione e il servizio reciproco.
L’inizio dell’Inno è molto solenne: «Se c’è pertanto qualche consolazione in Cristo». Quindi: “Se Cristo è sorgente di un’esperienza nuova che deve diventare consolazione e esortazione reciproca”.
«Se c’è conforto derivante dalla carità, se c’è comunanza di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, 2 rendete piena la mia gioia». La gioia di Paolo può essere completata solo attraverso l’unanimità dei cristiani di Filippi: «con l’unione dei vostri spiriti», che fondamentalmente (in modo molto banale) vuole dire: “tirate pari”. Cioè, camminate con lo stesso orientamento: il vostro sforzo nell’indirizzo delle vostre decisioni deve essere solidale e orientato in un’unica direzione.
È su questo che si gioca l’unanimità, evitando alcuni atteggiamenti e vizi, che sono distruttivi per la vita della comunità. Il primo è la erizeian, cioè «lo spirito di parte». Ricordate che a Corinto non erano stati immuni da questo “spirito di parte”, erano sorte delle piccole fazioni interne alla comunità (cfr. 1 Cor 1, 10-12). Lo “spirito di parte” ti pone di fronte all’altro con un preconcetto, per cui uno se sta dalla tua parte va tutto bene e se eventualmente l’altro è dalla parte opposta va tutto male (c’è sempre un motivo per trovare “il pelo nell’uovo”). Questa parzialità, “spirito di parte”, è fuori dalla verità e quindi dalla carità.
Insieme allo “spirito di parte” la kenodocsian, la vanagloria; il cercare l’affermazione di sé nell’apparenza senza orientare in realtà la vita a quello che effettivamente è importante e decisivo. Allora: «Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria». Un passo parallelo (relativamente) è nella Lettera di Giacomo, dove scrive: «Chi è saggio e accorto tra voi? Mostri con la buona condotta le sue opere ispirate a saggia mitezza» (Gc 3, 13). Vuole dire: la saggezza non si misura dalle parole ma dai comportamenti; deve essere dimostrata nella condotta. «Ma se avete nel vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa, non vantatevi e non mentite contro la verità» (Gc 3, 14). Vuole dire: non cercate delle motivazioni false per decisioni o atteggiamenti che sono determinati da gelosia e da spirito di contesa; non andate a cercare dei motivi per sostenere le vostre ragioni (:“l’ho fatto per questo e per quest’altro, che è per la ricerca della verità e del bene”). Tutto questo è semplicemente l’espressione di un animo che è deformato di dentro, che è determinato da una gelosa amarezza. «Non è questa la sapienza che viene dall’alto: è terrena, carnale, diabolica; perché dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. La sapienza che viene dall’alto invece è anzitutto pura (“pura” vuole dire: non doppia, non falsa); poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia» (Gc 3, 15-17). Allora è come un ritornare alla radice dei propri comportamenti nella comunità per vedere se queste radici sono sane o malate.
2. L’umiltà
«3 Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso, 4 senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri». Viene fuori la virtù, che poi sarà richiamata anche nel corso dell’Inno, dell’umiltà. Una virtù, per certi aspetti, tipicamente cristiana o giudeo-cristiana, ma certamente lontana dal pensiero greco. L’umiltà nel pensiero greco è spesso equiparata alla meschinità, all’uomo che ha dei pensieri bassi, che non sa rendersi conto della dignità, della libertà, della responsabilità e del valore della persona. Invece in una concezione cristiana l’umiltà è fondamentale, anzi è una virtù sociale e non individuale. Non è semplicemente qualche cosa che serve all’edificazione della persona, ma edifica la comunità, anzi le permette di sopravvivere. Al di fuori dell’umiltà scompare la possibilità di tenere in piedi una comunità autentica. Questa umiltà intendetela innanzitutto in riferimento a una presa di posizione nei confronti degli altri: considerare gli altri superiori a se stessi senza cercare il proprio interesse ma anche quello degli altri. È questo che decide dell’umiltà.
Ricordate che tra le tante cose che sono dette nell’Inno all’amore sulla carità una è proprio questa: l’amore non cerca ciò che è suo. In italiano è stato tradotto in un modo un po’ diverso: “non cerca il suo interesse”. Il testo dice qualche cosa di più: “non cerca ciò che è suo”; è capace di dimenticare qualche cosa di sé, anche dei propri diritti, pur di cercare il bene della comunità attraverso la valorizzazione e l’onore reso agli altri: «considerare gli altri superiori a se stesso».
Paolo sa che questo appello all’amore e all’umiltà tocca i punti sensibili della persona, perché l’autocompiacimento è uno degli atteggiamenti istintivi più usuali in noi. Proprio perché sotto sotto sappiamo che vagliamo poco, abbiamo bisogno di apparire molto per coprire un po’ la realtà di quello che sappiamo di noi stessi. Il bisogno di vanità, di affermazione, nasce dalla consapevolezza, in fondo autentica, che di fronte alla realtà del mondo siamo ben poca cosa. Diceva il mio insegnante di Sacra Scrittura: “Quello che sappiamo è solo una piccola porzione rispetto agli spazi infiniti della nostra ignoranza”. Quindi consapevoli di questo abbiamo bisogno di sentirci approvati e riconosciuti. È un’autodifesa. Un’esortazione all’umiltà non è così facile da accettare; ci vuole una capacità di liberazione interiore da se stessi.
3. L’imitazione di Gesù Cristo nasce da un’esperienza presente
Allora cerchiamo il fondamento di tutto questo: «5 Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù». La traduzione di questo versetto è piuttosto problematica e in ogni modo non è come dice qui. Innanzitutto “abbiate in voi” vuole dire: “abbiate tra di voi”, e non “dentro di voi”. Quindi: “Abbiate tra di voi”, nei vostri rapporti gli uni con gli altri. Qui si tratta di un’etica comunitaria da impostare. Dice Paolo: quello che dovete avere tra di voi è un pensiero, un atteggiamento, che è anche in Cristo Gesù. Il senso è essenzialmente questo: la vostra esistenza di comunità cristiana è un’esistenza in Cristo. “In Cristo” vuole dire: il Signore risorto, attraverso il suo Spirito, esercita una vera e propria signoria sulla vostra esistenza. Il Cristo risorto è un Cristo vivo, operante, che esercita un influsso. E la comunità cristiana è dentro a questo influsso, è animata da questa realtà viva di Gesù Cristo. Allora, voi pensate e agite lì dentro: pensate tutto quello che vi pare, purché sia coerente con il fatto che voi siete in Cristo Gesù; fate tutto quello che volete, purché sia coerente con il fatto che voi siete in Cristo Gesù. Non potete essere in Cristo Gesù e usare dei comportamenti radicalmente in contraddizione con il Signore nel quale voi credete e vivete. Il senso è che l’appartenenza della comunità a Cristo deve determinare il suo stile di vita: i suoi pensieri e desideri, le sue decisioni, i suoi comportamenti e le sue speranze. “Abbiate tra di voi quel tipo di sentimenti”, di pensiero e di atteggiamento che è giusto e possibile avere in Cristo Gesù.
Per capire meglio quali tipi di sentimenti sia possibile avere in Cristo Gesù bisogna conoscere Cristo Gesù, che Gesù Cristo e il suo Spirito sia entrato nella nostra riflessione, nel nostro cuore e nella nostra vita. Allora Paolo richiama questo Inno che ci mette davanti il mistero di Cristo.
Credo che il discorso non riguardi solo l’imitazione di Gesù Cristo (ma da questo punto di vista ci sono esegeti che la pensano in modo diverso), cioè non vuole dire solo: pensate che sentimenti aveva Gesù Cristo e voi cercate di averne dei simili; guardate come si è comportato lui e voi imitate il comportamento di Cristo. Cioè tutto questo è molto vero, non è sbagliato e ci sta dentro bene, ma c’è qualche cosa di più. Voglio dire: il comportamento cristiano non nasce dall’esame di un avvenimento del passato che io cerco di ricordare perché è bello e giusto e poi cerco di imitare. Il comportamento cristiano nasce da un’esperienza presente. Non è che devo pensare a Cristo di duemila anni fa perché è stato grande e dico: adesso provo a fare lo stesso. Il problema è che il Cristo di duemila anni fa è il Cristo vivente, presente, efficace e attivo. Io sono sotto la sua sovranità, al suo Spirito, ed è con questa presenza viva del Signore che ho a che fare. La comunione che come credenti viviamo con lui, non è senza conseguenze sui nostri rapporti reciproci. Inevitabilmente, se l’esperienza di Gesù è vera, condiziona in un modo o nell’altro il rapporto con i fratelli.
4. Il mistero dell’Incarnazione
Allora guardiamo chi è questo Cristo Gesù nel quale siamo inseriti, per comprendere la dinamica della nostra esistenza: «6 il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; 7 ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, 8 umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. 9 Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; 10 perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; 11 e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre». Dal punto di vista esegetico i problemi sono infiniti ma non ci interessano (quindi non interessa sapere se l’Inno l’ha scritto San Paolo o se è precedente o ci ha aggiunto delle parole o dei versetti o se va diviso in due strofe o in tre… sono tutte questioni molto interessanti, però diventerebbero lunghissime). Lo prendiamo nel suo dinamismo: due movimenti contrapposti uno all’altro.
4.1. Movimento di abbassamento

Innanzitutto è un movimento di discesa. Punto di partenza: «6 il quale, pur essendo di natura divina». Vuole dire: la sua esistenza è determinata dalla forma di Dio; è la forma di Dio che lo qualifica. Tanto che un po’ più avanti dice che è pari a lui. Siccome la sua forma è divina, il suo status, la sua dignità è di Dio, pari pari: «pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio». Vuole dire: non ha considerato lo status che gli competeva per la sua identità (siccome era in forma divina gli competeva lo stato dell’uguaglianza con Dio, quindi aveva ogni diritto). Questa uguaglianza con Dio la poteva considerare come un tesoro da sfruttare, come una ricchezza da custodire con le unghie e con i denti perché non gli venisse tolta, quindi aveva la possibilità di esercitare ogni potere perché gli competeva, ne aveva il diritto. Ma in realtà ha rinunciato a consideralo così, non l’ha considerato come un’occasione da non lasciarsi sfuggire: «non considerò un tesoro geloso». “Tesoro geloso” è una modalità di esprimersi: è un tesoro che uno tiene gelosamente per sé per timore che gli sia portato via.
Ma al contrario: «7 spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini». Sono tre espressioni che esprimono fondamentalmente il mistero dell’Incarnazione. Notate che siamo di fronte ad un atto libero. Questa persona preesistente assume un’esistenza da schiavo; l’assume, quindi significa che non lo era; era libero e liberamente ha assunto questa condizione. Si annuncia in questo modo un atto, una decisione, che trasforma essenzialmente il mondo, perché introduce nel mondo il mistero stesso di Dio. È l’avvenimento fondamentale e centrale dell’Incarnazione, che ha superato una volta per sempre la frattura tra il mondo di Dio e il mondo degli uomini.
«Se tu squarciassi i cieli e scendessi!» (Is. 63, 19b); è esattamente questo che viene annunciato: «spogliò se stesso», «svuotò se stesso»; «da ricco che era, si fece povero» (2 Cor 8, 9).
C’è un’ode di Salomone che dice: «poiché la sua bontà fece piccola la sua grandezza, egli divenne come io sono»; ed è in questa povertà della condizione umana che Dio si è rivelato. Si potrebbe dire: si è mostrato così nobile da non avere paura di farsi plebeo, di farsi piccolo.
È così grande che la sua grandezza non è costretta a difenderla, è capace di donarla, di metterla in gioco: «assumendo la condizione di servo», cioè il modo di esistere dello schiavo. Chiaramente la sottolineatura vuole evidenziare il contrasto: in forma di Dio, pari a Dio – in forma in condizione di servo.
Forse questo discorso del servo può fare riferimento alla condizione umana, come sottomessa a delle potenze dalle quali è condizionata: la morte (che abbiamo già detto, quindi non c’è bisogna di ritornarci sopra). La condizione dell’uomo è essenzialmente un’esperienza condizionata. L’uomo può desiderare l’infinito, però è costretto a fare i conti (con i casuali), con l’effimero, con il frammentario, perché l’esistenza dell’uomo è questa: «assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini».
Tutte queste tre espressioni insieme dovrebbero indicare l’Incarnazione.
4.1.1. L’obbedienza

Poi la carriera umana di Gesù. Fatto uomo: «apparso in forma umana»; il testo continua: «8 umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce». «Umiliò se stesso», è probabilmente il motivo per cui l’Inno è stato scelto. Perché c’era stato detto prima di «non fare nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma… con tutta umiltà, considerare gli altri superiori a noi stessi». Il Cristo incarnato «8 umiliò se stesso facendosi obbediente». Il modo concreto dell’umiltà è esattamente l’obbedienza; e che l’obbedienza sia evento fondamentale nella vita di Gesù lo abbiamo già ricordato con la Lettera agli Ebrei: «Pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti quelli che obbediscono ai suoi comandi» (Eb 5, 8-9).
E soprattutto bisognerebbe leggere il cap. 5, 12ss della Lettera ai Romani, dove il discorso è la contrapposizione Adamo-Cristo, che è essenzialmente la contrapposizione tra disobbedienza-obbedienza: per la disobbedienza di uno siamo tutti in una condizione di miseria; per l’obbedienza di uno solo tutti sono costituiti giusti. Quindi si può dire che nel cap. 5° della Lettera ai Romani il dramma del mondo è descritto come dramma tra disobbedienza e obbedienza.
Gesù Cristo, uomo, ha percorso il cammino dell’esistenza umana, l’agire e il patire storico, in tutte le esperienze di limitatezza, di povertà, di condizionamento e di provvisorietà. Fino all’ultima espressione della povertà umana: la morte. Il Cristo ha detto di sì alla vita umana e al suo punto finale che è la morte.
Notate che il discorso per il nostro Inno è soprattutto dell’indicare un cammino di abbassamento. Dio-uomo, ma uomo-servo, ma «servo… fino alla morte e alla morte di croce». Questo è l’unico accenno nel nostro Inno al significato salvifico della morte di Gesù. Perché quello che l’Inno vuole descrivere non è l’opera di redenzione in quanto tale, ma è il mistero di abbassamento nel quale la redenzione è compiuta. Quindi la parola “croce” richiama la redenzione immediatamente in un contesto cristiano, ma non è come gli inni della Lettera ai Colossesi e agli Efesini centrati proprio sull’opera redentiva. Qui è centrato sul cammino di abbassamento e di obbedienza fino alla morte.
4.2. Movimento di innalzamento
A questo punto l’Inno ha la sua svolta, all’improvviso cambia tutto: l’itinerario è arrivato al termine, alla morte di croce, oltre quello non si può andare. Ma «9 Per questo Dio l’ha esaltato». Qui cambia il soggetto. Finora il soggetto era Cristo Gesù, ora il soggetto diventa Dio. Vuole dire: questa è la risposta di Dio al percorso che Gesù Cristo ha fatto. Gesù Cristo ha vissuto una carriera a rovescio, che dalla condizione divina lo ha portato alla morte in croce; ebbene Dio non è stato muto di fronte a questa scelta di Gesù Cristo, ma ha risposto con la sua potenza: «9 Per questo Dio lo ha esaltato». Anche qui la traduzione non è esatta, perché il testo dice: «lo ha sovraesaltato», uperipsosen, quindi lo ha innalzato ancora al di sopra (dopo vediamo in che senso). In ogni modo quello che si vuole dire è che Dio ha dato a Cristo una posizione di sovranità, lo ha innalzato «e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome». Chiaramente “nome” vuole dire un potere, una dignità, una forza, una energia che lo pone al di sopra di qualunque altro potere, si può dire che lo ha innalzato al di sopra dei cieli. Se voi pensate ad una visione cosmologica dove l’innalzamento significhi un aumento di potere, “salire sopra i cieli” vuole dire: acquistare potere sopra i cieli e sopra la terra, chi è in cielo domina la terra, chi è al di sopra dei cieli domina i cieli e la terra. Ebbene, è questo che è stato dato a Gesù Cristo.
Il verbo tradotto con «gli ha dato il nome» è il verbo echarisato, che indica come una grazia, un dono. La prospettiva si gioca nel dono. Il Padre risponde con infinita liberalità e generosità all’atteggiamento e al comportamento di Gesù, e gli dà questo nome, potere, «al di sopra di ogni altro nome» perché è nel nome di Gesù. Ed è la prima volta che nell’Inno viene fuori “il nome”, e stranamente il nome Gesù. Perché il nome Gesù? Probabilmente perché sottolinea la dimensione umana, l’umanità. Poteva usare anche il nome Cristo, che avrebbe indicato una dignità messianica, invece usa il nome di “battesimo”, cioè il nome della sua umanità.
Il Gesù, che è il Gesù di Nazaret, «10 perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; 11 e ogni lingua proclami». E qui viene citato Isaia al cap. 45°, dove si annuncia che le nazioni pagane, quelle che finora hanno combattuto Israele, un giorno verranno e insieme con Israele si inchineranno, si prostreranno, davanti alla sovranità di Dio; Dio viene riconosciuto come sovrano da tutte le nazioni, e non solo da Israele, anche dai nemici degli israeliti insieme con loro e fanno la proskynesin, l’adorazione, e la proclamazione della grandezza di Dio (cfr. Is 45, 14).
Però qui cambia tutto, perché tutte queste realtà e potenze non s’inchinano davanti a Dio, ma davanti a Gesù Cristo, che ha percorso il cammino dell’umiliazione «fino alla morte e alla morte di croce», e lo proclamano Signore. “Signore” è il termine greco con cui la Bibbia dei LXX traduce il tetragramma. Quando nel testo ebraico c’è JHWH, la traduzione greca traduce Kirios. Quindi è un nome specificamente divino. Quel uperipsosen, che dicevo prima, il sovraesaltato, è usato ancora nella Bibbia greca solo per Dio. Allora l’onore che viene riconosciuto a Gesù Cristo non è semplicemente sovramondano, è un onore divino, pari pari.
Chiaramente non pensate che questo sia in contraddizione o in concorrenza con l’onore stesso di Dio, perché «11 ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre». Quindi è dentro a questo mistero immenso della gloria di Dio Padre che è riconosciuta effettivamente la divinità di Gesù Cristo.
Quando ritrovare: «ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra» intendetelo in riferimento alle “potenze” (di cui avevamo già detto nell’ottava meditazione). Non vuole dire gli angeli, gli uomini e i morti; ma tutte le potenze che dominano l’universo in qualunque luogo si trovino. C’è un riconoscimento di signoria offerto a questo Cristo che è proclamato Signore. È in questo, uperipsosen, (lo ha sovraesaltato), che ora ha qualche cosa che prima non aveva. È partito dalla forma divina, e uno potrebbe dire che aveva tutto. Si, è vero, aveva tutto, ma adesso nella sua umanità è Signore sopra l’universo, perché ha conquistato questa posizione di dominio con un itinerario paradossale di abbassamento.
5. Il significato dell’Inno
Credo che il significato di un testo di questo genere sia immenso, infinito. Si può leggere in tanti modi, quindi ne ricordo solo alcuni (poi ci può stare la meditazione personale).
5.1.1. Adamo, che desidera essere come Dio senza Dio
Una prima cosa che viene in mente è il confronto con il nostro grande padre Adamo, il quale anche lui aveva a che fare con l’uguaglianza con Dio di cui parla l’Inno; l’esperienza di Adamo è presente come dramma, come desiderio, all’inizio della storia umana. Ma qui c’è esattamente l’opposto. Nel caso di Adamo c’è una persona che è in forma di uomo – non in forma di Dio –, ma che non si accontenta della sua forma di uomo e vuole rapire l’uguaglianza con Dio. Per rapire l’uguaglianza con Dio cerca di percorrere un itinerario di autoaffermazione, cioè di autonomia, di taglio di ogni legame e sottomissione. Il risultato di un itinerario di questo genere è evidentemente la morte. Allora il contrasto non potrebbe essere più evidente. Diceva Ratzinger: “Non è proibito all’uomo desiderare di essere come Dio; il problema è desiderare di essere come Dio senza Dio”. Quindi “il come Dio” vuole dire: al posto di Dio. Questo è il dramma, una radice di peccato. Invece il cammino che l’uomo è chiamato a percorrere è di una sottomissione di un’obbedienza al Padre. In quello c’è il cammino che lo innalza, per grazia di Dio, alla condizione stessa del Signore.
5.1.2. Adamo, che vuole farsi Dio senza Dio
Un altro riferimento parallelo ad Adamo, c’è nel cap. 28° di Ezechiele. È una satira contro i re di Tiro. Tiro era costruita su un’isoletta a qualche centinaia di metri dalla costa e siccome era una grande potenza marinara si sentiva onnipotente. Perché una città può essere assediata e assalita, ma assediare un’isola è abbastanza complicato, soprattutto se in quell’isola domina il commercio, quindi le sue navi percorrono tutto il Mediterraneo. Da questo punto di vista Tiro si sente onnipotente: perché, chi mi prende, chi mi circonda? La satira sul re di Tiro (che chiaramente rappresenta la città, non è il re come singolo personaggio) gli dice: «Poiché il tuo cuore si è insuperbito e hai detto: Io sono un dio, siedo su un seggio divino in mezzo ai mari, mentre tu sei un uomo e non un dio, hai uguagliato la tua mente a quella di Dio, ecco, tu sei più saggio di Daniele, nessun segreto ti è nascosto. Con la tua saggezza e il tuo accorgimento hai creato la tua potenza e ammassato oro e argento nei tuoi scrigni; con la tua grande accortezza e i tuoi traffici hai accresciuto le tue ricchezze e per le tue ricchezze si è inorgoglito il tuo cuore. Perciò così dice il Signore Dio: Poiché hai uguagliato la tua mente a quella di Dio, ecco, io manderò contro di te i più feroci popoli stranieri; snuderanno le spade contro la tua bella saggezza, profaneranno il tuo splendore. Ti precipiteranno nella fossa e morirai della morte degli uccisi in mezzo ai mari. Ripeterai ancora: Io sono un dio, di fronte ai tuo uccisori? Ma sei un uomo e non un dio in balìa di chi ti uccide. Della morte dei non circoncisi morirai per mano di stranieri, perché io l’ho detto. Oracolo del Signore Dio» (Ez 28, 2-10).
La posizione marinara, che era il suo vanto – «io siedo su un seggio divino in mezzo ai mari», quindi nessuno mi può conquistare –, diventa l’umiliazione della sua tomba. Muori come quelli che non hanno sepolcro, come quelli che muoiono nel mare, lì è la tua umiliazione. È il discorso fondamentale che la Scrittura riprende dall’inizio alla fine, della ubris dell’uomo che vuole farsi Dio senza Dio.
Nel nostro caso c’è invece il cammino opposto, la carriera a rovescio: dell’umiliazione che conduce invece alla dignità, al potere stesso di Dio.
5.2. Il “quarto canto del servo di Jahve”
Una seconda traccia di lettura è il “quarto canto del servo di Jahve”. Qualcuno pensa che ci siano dei rapporti tra l’Inno della Lettera ai Filippesi e il “quarto canto del servo di Jahve” (ma è molto discusso, però si possono accostare certamente senza affermare che uno derivi dall’altro). Si possono accostare perché il “quarto canto del servo di Jahve” incomincia: «Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato» (Is 52, 13). Quindi incomincia con un’immagine di gloria, di potere, di elevazione. L’innalzamento di Giovanni (cfr. Gv 12, 32) viene di qui: «il mio servo avrà successo».
Ma poi viene raccontato il come questo servo ha raggiunto il successo. È come quella tecnica del flex beech, si comincia dalla finale di un dramma e poi si racconta come ci si è arrivati; fa vedere il risultato e poi descrive il cammino. Ma il cammino è quello dell’umiliazione: «Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione?… Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per trovare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si vela la faccia, lo abbiamo disprezzato e non ne avevamo alcuna stima» (Is 53, 1.2-3). E continua a raccontare la carriera di questo servo del Signore: «Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti…» (Is 53, 4-5). Fa vedere tutto questo itinerario fino alla morte: «fu eliminato dalla terra dei viventi… con ingiusta sentenza fu tolto di mezzo» (Is 53, 8) Ma a questo punto: «Quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo… Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce… il giusto mio servo giustificherà molti… io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino» (Is 53, 10.11.12).
Le differenze sono enormi, rispetto al nostro testo, perché Isaia al cap. 52° e 53° è tutto giocato sul tema della redenzione, del riscatto, della liberazione. Però le due immagini dell’abbassamento e dell’innalzamento sono presenti.
5.3. Il Nuovo Testamento
Una terza lettura è il Nuovo Testamento: della vita di Gesù letta sotto la prospettiva del servizio: «il Figlio dell’uomo, non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per la moltitudine». (Mt 20, 28). E soprattutto il cap. 13° di Giovanni, in cui «Gesù (il giorno prima di morire), prima della festa di Pasqua, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine… Pur sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita» (Gv 13, 1.3-4). Giovanni sembra che giochi su questa immagine del deporre le vesti e del prendere l’asciugatoio, perché alla fine dice il contrario: «Quando ebbe finito di lavare loro i piedi e riprese le vesti, sedette di nuovo e disse loro…» (Gv 13, 12). Questa immagine – di Gesù che “depone le vesti” e prende “il grembiule”, che è il segno del servo, e poi “riprende le vesti” – per San Giovanni richiama immediatamente quello che Dio aveva detto nel cap. 10°: «Per questo il Padre mi ama: perché io do la vita da me stesso… Nessuno me la toglie, ma me lo do io da me stesso, ho il potere di darla e ho il potere di riprenderla di nuovo» (Gv 10, 17.18). Depone e riprende, in mezzo però c’è il servizio, la vita trasformata in umiltà, ma non semplicemente come sentimento, ma come gesto che fa vivere con il dono di se stesso.
5.4. Il significato del mistero di Dio è nel Crocefisso
Questo Inno si può leggere in risposta alla domanda per noi fondamentale: chi è Dio? Oppure: dove posso trovare nel mondo un’immagine reale ed effettiva di Dio? Ho bisogno di conoscere qualche cosa del mistero di Dio e cerco nel mondo una traccia; dove? Nella natura, negli avvenimenti belli dell’amore, ecc. Se ha ragione il nostro testo, questa traccia di Dio bisogna cercarlo in un Crocefisso. In quell’uomo innalzato e umiliato sulla croce, lì c’è la traduzione più significativa del mistero di Dio in termini umani. “Significativa” perché Dio, di fronte all’umiliazione del Figlio, lo proclama Signore. Quando il Figlio giunge «fino alla morte e alla morte di croce», lì Dio dice: questo è il Signore. Siccome Signore è il nome stesso di Dio, è come dire: questo è colui nel quale io mi compiaccio, nel quale mi ritrovo (cfr. Mt 3, 17). Ed è molto significativo che Dio si ritrovi esattamente lì: in una vita donata, in una vita trasformata in obbedienza e in amore.
Questo si aggiunge alle riflessioni che abbiamo fatto prima sugli altri due Inni e credo che insieme ci aiutino ad avere una cristologia ricca e una cristologia pregata in un contesto di inno e di lode e di riconoscenza a Dio.
* Documento rilevato dalla registrazione, adattato al linguaggio scritto, non rivisto dall’autore, ma dall’Ufficio Pastorale.

Publié dans : Lettera ai Filippesi |le 17 septembre, 2013 |Pas de Commentaires »

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