PAOLO A FILEMONE: LA PIÙ BREVE E… LA PIÙ IMPORTANTE?

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PAOLO A FILEMONE: LA PIÙ BREVE E… LA PIÙ IMPORTANTE?

BY RAI VATICANO | LUGLIO 8, 2009

(nel blog ci sono due commenti se li volete leggere)

Strano, ma vero: la più breve lettera dell’apostolo Paolo (25 versetti appena) è uno degli scritti più importanti di tutto il Nuovo Testamento, per certi versi il più importante. La sua importanza è stata colta dalla Chiesa antica, la quale non ha esitato a includerlo nel Nuovo Testamento (per essendo solo un biglietto privato su una questione privata), rendendolo così “canonico”, cioè normativo per la fede e la vita della Chiesa di tutti i tempi. Questo è accaduto certamente in primo luogo per l’autorità apostolica del suo autore, Paolo, ma anche – non c’è dubbio – per il suo contenuto: questo biglietto, infatti, oltre che un capolavoro di azione pastorale (di Paolo nei confronti di Filemone) e un modello di teologia politica o, meglio, sociale, è uno specchio nel quale si riflettono con eccezionale chiarezza la vita interna della neonata comunità cristiana e la qualità dei rapporti al suo interno: qui si vede meglio che altrove come la fede in Cristo cambi le relazioni umane e si vede anche in che cosa consista l’autorità apostolica esercitata da Paolo, che si definì «il minimo degli apostoli» (1Cor 15,9), mentre in realtà fu il maggiore di tutti, il più fedele interprete e seguace di Gesù, pur non appartenendo al gruppo dei Dodici. Ecco alcuni spunti suggeriti da questo straordinario biglietto.
1. Colpisce il titolo col quale Paolo si presenta all’inizio della Lettera – la sua firma, diremmo oggi – che non è quello abituale di «apostolo» ma è «prigioniero di Gesù Cristo», nei due significati di questa espressione: prigioniero perché Cristo lo aveva vinto e arruolato al suo servizio, e perché era arrestato per la sua attività missionaria. Ma questa doppia prigionia non toglie nulla alla sua autorità di apostolo, anzi la manifesta, perché è proprio in quelle che egli chiama le sue «debolezze» (cioè carcerazioni, oltraggi, percosse, pericoli di ogni genere, persecuzioni, angosce e altri patimenti) che appare l’autenticità del suo ministero (2Cor 11,23-29; 12,7-10): la croce di Cristo si riverbera in quella del suo apostolo e lo qualifica e accredita in maniera inconfondibile. Ma Paolo come usa la sua autorità di apostolo? Non per comandare (come avrebbe il diritto di fare) imponendo la sua volontà a quella di Filemone, ma al contrario per «pregare» Filemone (v. 10) appellandosi al suo amore («in nome dell’amore» v. 9), affinché il bene che Filemone farà «non sia come forzato, ma volontario» (v. 14). L’autorità apostolica si fa valere non attraverso leggi e imposizioni, ma attraverso la dolce persuasione dello Spirito, senza mai violare o forzare le coscienze, ma liberandole all’amore.
Ma oltre a non comandare nulla a Filemone, Paolo manifesta la sua libertà e autorità di apostolo identificandosi con lo schiavo Onesimo e assumendo su di sé il suo destino di uomo, dopo averlo «generato» alla fede (v. 10): «Ricevilo come se ricevessi me» (v. 19), lui «che è come dire le mie viscere» (v. 12), cioè la parte di me stesso in cui albergano gli affetti più cari. E «pagherò» per lui gli eventuali debiti che ha con te. Ecco un altro aspetto della libertà e autorità apostolica: non starsene appartati, fuori dalla mischia, ma prendere il posto dell’ultimo dei fratelli, com’era Onesimo, per di più colpevole e a rischio anche della vita. Identificandosi con lui, Paolo mette a repentaglio la sua autorità: potrebbe perderla (gli basta di essere considerato da Filemone «come partner» v. 17), e invece la guadagna. C’è vera autorità dove ci sono condivisione e partecipazione, un’autorità solidale, non autoritaria, vissuta nella fraternità e nella partnership missionaria.
Infine, c’è da rilevare l’aspetto collegiale dell’autorità apostolica e la fraternità come caratteristica fondamentale della Chiesa. La collegialità è qui in particolare evidenza sia perché Paolo si affianca Timoteo come mittente, benché la Lettera sia solo sua, sia perché chiama lo stesso Filemone suo «collaboratore» (v. 1) e Archippo «nostro compagno d’armi» (v. 2). La missione cristiana è impresa comune: molti vi partecipano a vario titolo. Quanto alla fraternità è la nota spirituale dominante della Lettera e si rivela come la struttura portante della comunità cristiana. La «chiesa domestica» (v. 2) che si raduna in casa di Filemone è strutturata come una comunità di fratelli e sorelle creati dalla comune paternità divina. L’apostolo si sente qui inserito in una rete di rapporti fraterni, nella quale l’esercizio dell’autorità e della libertà non dà luogo a nessuna ombra né di gerarchia né di anarchia.
2. È proprio la fraternità in Cristo l’argomento teologico centrale che guida Paolo nel suo «appello» a Filemone. Onesimo è scappato come schiavo, e ora Paolo glielo rimanda come «libero in Cristo» e quindi come «fratello nel Signore» (v. 16), cioè in una veste e in una condizione completamente diversa da prima. È un nuovo Onesimo quello che Paolo gli rimanda. Filemone lo aveva perduto per qualche tempo (il tempo della fuga), ma ora lo ricupera «per sempre» (v. 15), perché la fraternità dura per sempre, oltre la morte, nell’eternità di Dio. Ma la domanda cruciale per Onesimo anzitutto, e anche per noi, è questa: alla fine dei conti e delle parole, Onesimo è ancora schiavo, sì o no? La risposta è: sì e no. Sì, perché Paolo lo rimanda al legittimo padrone, come imponevano le leggi allora vigenti. No, perché Paolo lo rimanda «non più come schiavo, ma come fratello carissimo» (v. 18). Se Paolo avesse detto: «Te lo rimando sempre come schiavo e, in più, come fratello carissimo», la portata del suo discorso sarebbe stata completamente diversa. Ma Paolo dice: «Non più come schiavo». Toccherà dunque a Filemone liberare Onesimo, cioè prendere sul serio la sua libertà in Cristo, che è uguale a quella di cui, come cristiano, gode lui, Filemone. Onesimo, ora, non è meno libero di Filemone. E come con la conversione Onesimo da schiavo è diventato libero, così ora anche Filemone deve diventare, con una seconda conversione, libero dalla teoria e pratica della schiavitù. La conversione dello schiavo deve, a sua volta, generare quella del padrone, in modo che la loro fraternità in Cristo, spezzando le catene mentali e sociali, trasformi anche la loro condizione civile, rendendoli non solo fratelli nella comunità cristiana, ma anche «fratelli», cioè uguali nei diritti e nei doveri, nella società civile. Che cosa significa tutto ciò? Significa che l’Evangelo della libertà in Cristo, pur non essendo di per sé un proclama di rivoluzione sociale, è però un messaggio che pone le premesse per un’effettiva rivoluzione dei rapporti umani anche in campo civile e sociale. Ma la rivoluzione che Paolo propone a Filemone (di vedere e trattare Onesimo «non più come schiavo») dovrà avvenire non contro Filemone o senza di lui, ma con lui, cioè, come si è detto, con una sua seconda conversione. E se Filemone non ci starà, cioè se continuerà a vedere Onesimo come schiavo, anche dopo che è diventato «fratello in Cristo»? A questa domanda il Nuovo Testamento non risponde. La Chiesa, nella sua storia, ha risposto, ma purtroppo male: non è lei che in Occidente ha abolito la schiavitù (anche se alcuni singoli cristiani si sono dati da fare – molto tardi – in questo senso).
3. Per concludere, un bel pensiero di Lutero: «Paolo si spoglia del suo diritto, costringendo così anche Filemone a rinunciare al suo. Proprio come Cristo ha fatto per noi nei confronti di Dio Padre, così fa san Paolo per Onesimo nei confronti di Filemone. Infatti, Cristo si è spogliato dei suoi diritti e ha vinto il Padre con l’amore e l’umiltà, in modo che questi ha dovuto abbandonare collera e diritti, prendendoci in grazia per amore di Cristo, che ci rappresenta [davanti a Dio] così bene e ci accoglie così cordialmente. Infatti, noi tutti siamo i suoi Onesimi, se lo crediamo».
Paolo Ricca

Facoltà Teologica Valdese di Roma
Da “Paulus” n. 9, pag. 179-180

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