“ORA ET LABORA”: MOTTO PAOLINO
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“ORA ET LABORA”: MOTTO PAOLINO.
Il motto “ora et labora” ormai viene attribuito, anche nei discorsi ufficiali degli ultimi Sommi Pontefici, a san Benedetto.
Leggendo, però, la sua Regola non troviamo mai il motto in questione, né l’accostamento immediato tra preghiera e lavoro.
Storicamente, dobbiamo risalire indietro nel tempo e andare agli inizi stessi del monachesimo, per trovare nella biografia di sant’Antonio Abate, scritta da sant’Atanasio, la vera origine di questo binomio.
Nella Vita di Antonio è narrato l’episodio nel quale un Angelo, alternando preghiera e lavoro, consegna al grande Anacoreta e al monachesimo cristiano “la Regola” che supera l’apparente contraddizione tra il comando divino: «Mangerai il tuo pane solo dopo avertelo sudato con un duro lavoro» (Gen 3,19), e l’invito di Gesù a «pregare sempre, senza stancarci» (Lc 18,1).
Prima di Antonio, l’apostolo Paolo aveva già risolto questo dilemma, scrivendo ai suoi discepoli di Tessalonica motivato dal fatto che alcuni di essi avevano stravolto, in modo strumentale, il suo invito a «pregare ininterrottamente» (1Ts 5,17) e, con questa scusa, «vivevano disordinatamente, senza far nulla», pretendendo di essere mantenuti dalla Comunità.
L’Apostolo si ribella a tale interpretazione, ed «esorta tutti nel Signore Gesù Cristo, a mangiare il pane, lavorando in pace» (2Ts 3,11-12).
San Paolo dichiara che questa è la “Regola” che lui ha consegnato ai suoi discepoli, insieme al “suo vangelo”. Tutti devono osservarla, perché, conclude in modo perentorio: «Chi non vuole lavorare, non dovrebbe neanche mangiare» (3,10).
Dell’osservanza di questa “Regola” e di come l’Apostolo, prima di proporla agli altri, l’abbia lui stesso vissuta, ci parla Luca negli Atti degli Apostoli, quando ci ricorda che Paolo, a Corinto, prese alloggio nella casa di Aquila e Priscilla «dove lavorava insieme a loro, perché faceva lo stesso mestiere di fabbricante di tende» (At 18,3); perciò, nel discorso d’addio agli Anziani di Efeso, egli può dire di se stesso, senza falsa umiltà: «Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: Vi è più gioia nel dare che nel ricevere!» (At 20,34-35).
Forse san Benedetto si è ispirato a questi testi paolini quando, nell’eventualità che i monaci «si occupino personalmente della raccolta dei prodotti agricoli», li invita a non lamentarsi, anzi a vedere in ciò un dono della divina Provvidenza, «perché i monaci sono veramente tali, quando vivono del lavoro delle proprie mani come i nostri Padri e gli Apostoli» (RB, 48,7-8).
E, a proposito dei “Padri” (monastici) a cui ci rimanda il fondatore di Montecassino: nei “Detti dei Padri del deserto” ce n’è uno attribuito all’abate Lucio, dove si smonta, con sottile ironia, l’eresia monastica dei messaliani, i quali presumevano di poter attuare alla lettera il comando paolino di «pregare senza interruzione».
Il saggio Anziano non interrompendo neppure per la mensa la preghiera dei suoi ospiti – che di questo si lamentarono con lui – fece loro capire come il lavoro manuale, accettato per il proprio mantenimento e per poter aiutare i poveri, permetta al monaco d’imitare l’Apostolo e lo stesso Signore Gesù, che a Nazaret, fino all’età di trent’anni, così visse.
Il monaco che sa unire la preghiera al lavoro, arriva, di fatto, alla “preghiera ininterrotta”, perché con l’elemosina, frutto del suo stesso lavoro, egli troverà dei poveri che, per riconoscenza, pregheranno per lui quando egli, fisicamente, non potrà farlo. Il “detto” sembra la riproposizione letterale di ciò che disse Paolo agli Anziani di Efeso.
Anche in questo caso potremmo constatare come “ci sia più gioia nel dare (ai poveri il frutto del proprio lavoro), che nel ricevere (da Dio ciò che gli chiediamo con la nostra povera preghiera)”.
Possiamo, dunque, dire che il motto “ora et labora” più che benedettino è paolino.
Dall’Apostolo, infatti, impariamo a vivere bene i due momenti, non come contrapposti, ma come complementari l’uno all’altro.
Non a caso la «continua agitazione» (1Ts 3,12) che egli rimprovera agli oranti “fannulloni” di Tessalonica, Gesù ha cercato di correggerla nell’ospitale e “laboriosa” sua amica, Marta (Lc 10,41).
Con questi insegnamenti, noi dovremmo vivere senza agitazione, perciò con «con tranquillità» (2Ts 3,12), sia il momento della “preghiera” (che ha la giusta priorità nella RB, in quanto riguarda il nostro rapporto interpersonale con Dio), e sia il tempo del “lavoro” (anch’esso necessario perché è attuazione pratica dell’amore verso il prossimo).
È significativo che in greco san Paolo ci chieda di lavorare «µet? ?s???a?» (2Ts 3,12); una parola: l’esichia, che nell’Oriente cristiano indica “la preghiera del cuore” e la pace interiore che da essa proviene. Dunque:“Ora et labora” ma sempre con esichia.

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