UGUALI SÌ, MA DIVERSI: UOMINI E DONNE NELL’ASSEMBLEA LITURGICA (1COR 11,2-6)

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 UGUALI SÌ, MA DIVERSI: UOMINI E DONNE NELL’ASSEMBLEA LITURGICA  (1COR 11,2-6)

Franco E.

1. Un testo difficile e problematico
Le difficoltà del brano sono note. Si tratta di uno di quei testi che hanno alimentato la visione negativa della donna e il suo stato di inferiorità rispetto all’uomo: l’Apostolo imporrebbe alle donne prima «il velo» (1Cor 11,2-16) e poi «il silenzio» (1Cor 14,33b-36) nelle assemblee liturgiche come segno della loro sottomissione, esplicitamente richiesta poi in Ef 5,22. A questa difficoltà generale che esegeti antichi e moderni hanno cercato di risolvere,[1] si aggiungono, per il nostro testo, problemi particolari di interpretazione. Qual è il senso di alcuni termini nelle varie espressioni in cui sono usati?[2] A quale situazione concreta si riferisce Paolo? Qual è il tono delle sue affermazioni? Ribadisce semplicemente una prassi particolare legata al costume del tempo oppure, riprendendo e precisando affermazioni o forse slogans degli interlocutori o di qualche «contestatrice», indica un criterio valido per tutti i tempi riguardo all’essere-donna e all’essere-uomo in quella comunione che è «il corpo di Cristo», la Chiesa?
Per tentare di rispondere a questi interrogativi, rileggiamo il testo di Paolo seguendone l’articolazione letteraria e rendendo ragione di alcune scelte interpretative allo scopo di coglierne il messaggio nell’insieme della lettera e dell’epistolario paolino.

2. L’articolazione del discorso
Anche se a un primo ascolto il testo può sembrare non immediatamente chiaro e comprensibile, perché riferito a una situazione concreta che di fatto ci sfugge, una lettura più attenta scopre dei segnali di articolazione e di senso che ci aiutano a entrare nel pensiero di Paolo percependone quasi il tono e la voce.

2.1. L’inizio (11,2)
L’espressione: «Vi lodo perché…» (11,2) – in contrasto con: «Non vi lodo perché…» (11,17) – non solo indica chiaramente l’inizio del brano e della sezione, ma stabilisce anche una condizione di comunicazione/comprensione ottimale tra mittente e destinatari dal momento che tra loro c’è un’intima comunione di vita espressa dal «ricordo continuo» («vi ricordate di me in ogni cosa») e dal «tenere ferme», cioè custodire e osservare le «tradizioni» che l’Apostolo ha tramandato ai corinzi e che essi hanno accolte. Il termine «tradizione» (parádosis con il verbo paradídômi) nel contesto della sezione (cf. 11,23), della lettera (cf. 15,3) e dell’intero epistolario (cf. Gal 1,14; 2Ts 2,15; 3,6) non può avere il senso moderno e attenuato di «cose passate» o «costumi tramandati», ma ha il senso forte e teologico di «tradizione o consegna di vita» a partire dalla nuova relazione d’essere fondata sull’annuncio/accoglienza del Vangelo che trasfigura l’esistenza nella comunione e rende uomini e donne quello che sono e devono essere di fronte a Dio e di fronte agli altri.
Non semplice captatio benevolentiae, dunque, ma profonda comunicazione di vita, a partire dalla quale ora Paolo vuole correggere e mettere in guardia da abusi o tendenze incoerenti col Vangelo.

2.2. Le premesse (11,3)
Con la formula: «Voglio però che voi sappiate…» (11,3a) l’Apostolo richiama un’affermazione fondamentale e introduce subito due distinguo che potrebbero orientare la soluzione del problema che si era creato a Corinto. Si tratta molto probabilmente di alcune donne che pretendevano l’assimilazione e/o confusione con i maschi in forza della fondamentale uguaglianza in Cristo e durante le assemblee ostentavano questa loro pretesa nell’acconciatura dei capelli o comunque nell’abbigliamento.
Le tre espressioni «di ogni uomo il capo è il Cristo», «ma capo della donna è l’uomo» e «capo del Cristo è Dio» (11,3) possono essere fraintese se non si coglie il senso proprio di kephalê e di anêr e la correlazione dei tre sintagmi. «Capo (kephalê)» in senso anatomico o fisico-spaziale, in quanto parte di un corpo, significa «testa», ma in senso metaforico o anche temporale, implica «origine», «inizio» o «principio di origine».[3] Lo sviluppo successivo conferma questa possibilità di senso con l’uso delle preposizioni ek/ex e dià in 11,8s.12: «Non l’uomo dalla (ek) donna, ma la donna dall(ek)’uomo; non fu creato infatti l’uomo attraverso (dià) la donna, ma la donna attraverso (dià) l’uomo» e «come infatti la donna dall(ek)’uomo, così anche l’uomo attraverso (dià) la donna. E tutto da (ek) Dio». «Uomo (anêr)» indica in genere il «maschio» adulto o «marito» in opposizione a «donna», ma può significare anche «l’essere umano» o «ognuno/ciascuno» e in questo senso include sia l’uomo che la donna.[4]
Con queste precisazioni è possibile cogliere la pregnanza teologica delle tre espressioni. È vero che «di ogni essere umano il principio originante è il Cristo» (11,3b): infatti, «tutti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù; quanti infatti in relazione a Cristo siete stati battezzati, di Cristo vi siete rivestiti. Non c’è Giudeo né Greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschio e femmina: tutti voi infatti siete uno solo in Cristo Gesù» (Gal 3,26-28). Nella nuova creazione, iniziata con la risurrezione di Gesù, mediante la fede e il battesimo a tutti è donata la nuova relazione d’essere che rende figli nel Figlio e trasforma l’intera esistenza rendendola corporalmente partecipe della morte e risurrezione del Cristo (cf. Rm 6,3-5). In questa uguaglianza fondamentale, tutti i credenti sono già «uno solo in Cristo Gesù», cioè «un solo corpo» (1Cor 6,15; 10,17; 12,12.13.20; Rm 12,4.5); non nella confusione, ma nella comunione. L’unità del corpo di Cristo non annulla, ma valorizza la diversità delle singole persone (cf. 1Cor 12).[5]
Perciò, richiamato il livello dell’uguaglianza fondamentale in Cristo – su cui certamente facevano leva le contestatrici di Corinto – Paolo, anticipando il riferimento al racconto della creazione (Gn 2,7.21-23) che riprenderà al v. 9, precisa subito: «Ma principio originante della donna è l’uomo» (1Cor 11,3c). Nel divenire storico dell’edificazione ecclesiale, nel compito che nasce dal dono ricevuto, la diversità, cioè la specificità dell’essere uomo e dell’essere donna, è indispensabile. È attraverso la valorizzazione della diversità che si manifesta, nell’edificazione reciproca, la comune relazione d’essere ricevuta nell’interdipendenza di rapporti autentici.
Perciò Paolo, con una seconda precisazione: «E principio originante di Cristo e Dio» (11,3d), richiama quella particolare «sintassi» che coordina e unifica creazione e redenzione, uguaglianza fondamentale e differenziazione sessuale, unità e pluralità nel piano di Dio. Il caso concreto dell’acconciatura o dell’atteggiarsi di alcune donne nell’assemblea liturgica è così subito inquadrato nel contesto ampio della professione di fede che abbraccia inizio e fine, dono e compito, edificazione storica e futuro compimento: «Per noi uno [è] Dio il Padre dal quale tutte le cose e noi in relazione/tensione verso di lui; e uno [è] il Signore Gesù Cristo attraverso il quale tutte le cose e noi attraverso di lui» (1Cor 8,6).

2.3. Il caso e la soluzione (11,4-6)
Anche se non conosciamo esattamente la situazione concreta che ha determinato l’intervento dell’Apostolo, il fatto che si rivolga alla donna con gli imperativi «si rada a zero [...] si copra (keirásthô [...] katakalyptésthô» (11,6), fa pensare che l’abuso riguardasse alcune credenti della comunità di Corinto. Paolo reagisce con una certa irritazione, percepibile nell’articolazione del discorso: due dichiarazioni uguali (11,4b e 5b) – «disonora la sua testa» (11,4 e 5), cioè svergogna se stesso o se stessa, manifestando una confusione d’essere che altera la relazione vitale in Cristo di fronte a Dio e agli altri –, qualificate però da due espressioni antitetiche (11,4a e 5a) – «ogni uomo che prega o profetizza a capo coperto (lett. «avendo giù dalla testa», cioè con i capelli lunghi [cf. 11,14] o con una acconciatura/atteggiamento femminei)» e «ogni donna che prega o profetizza a capo scoperto (cioè con capelli corti o con acconciatura/atteggiamento mascolinizzanti)» – seguite da una constatazione provocatoria e due comandi perentori che chiudono le due alternative riguardanti però solo la donna: «È la stessa cosa che se [pregasse o profetasse con la testa] rasata. Se infatti la donna non si copre, si rada a zero; e se è vergognoso per una donna radersi a zero o raparsi, si copra» (11,5c-6).
Il segno dunque della «testa coperta/scoperta» mentre si prega o si profetizza, cioè all’interno dell’assemblea liturgica che è la visibilità storica della Chiesa-koinônia come «corpo di Cristo», esprime la diversità dell’uomo e della donna nella comune reciproca relazione vitale dell’essere in Cristo. Usare quindi segni contrari, cioè uomo «coperto» e donna «scoperta», è rendere ambigua la relazione con una confusione d’essere. È quanto i termini «vergogna» e/o «disonore» (kataischynô, aischrón: 11,4.5.6; atimía: 11,14), opposti a «gloria» (dóxa: 11,7.15), lasciano intendere alla luce della tradizione biblica e del comune senso del «pudore», inteso come consapevolezza e manifestazione del proprio essere-in-relazione di fronte a Dio e di fronte agli altri.

2.4. Motivazione secondo le Scritture (11,7-12)
Ragionando sulle motivazioni del caso e della soluzione indicata, Paolo ci riporta al racconto della creazione dell’uomo dalla terra e della donna dall’uomo (Gn 2,7.21-23) per ribadire che l’uomo non deve coprirsi la testa «perché è immagine e gloria di Dio, mentre la donna è gloria dell’uomo» (11,7). Vorrebbe forse affermare la superiorità dell’uomo sulla donna o non, piuttosto, la diversità rispetto all’origine e l’interdipendenza nell’alterità che definisce l’identità propria di ciascuno?
Non deve sfuggire la «sintassi», cioè quel particolare ordine nel piano di Dio che abbraccia creazione e redenzione, origine e compimento, e che Paolo ha richiamato come premessa del suo discorso. All’interno di quella «sintassi» si può comprendere la motivazione che Paolo trae dalla Scrittura. La donna «gloria dell’uomo» non indica inferiorità perché non è «immagine dell’immagine». Infatti,  «noi tutti, a viso scoperto, contemplando come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore » (2Cor 3,18): creati a immagine e somiglianza di Dio (Gn 1,26), siamo chiamati e preorientati a diventare conformi all’immagine del Figlio, sul cui volto risplende la gloria di Dio (2Cor 4,6), affinché egli sia il primogenito tra molti fratelli (Rm 8,29). Paolo, quindi, non vuol negare l’uguaglianza fondamentale, ma vuole affermare la diversità dell’essere-uomo e dell’essere-donna.
In che senso allora l’uomo è «gloria di Dio» mentre la donna è «gloria dell’uomo»? Se il concetto biblico di «gloria (doxa, ebr. kavód)» implica nella sua radice ebraica (kbd) il senso di «pesantezza»,[6] cioè il peso specifico, il «valore» proprio di una realtà, allora l’uomo è gloria di Dio perché nel suo essere plasmato originariamente e sempre da Dio ne afferma l’assoluta alterità. Allo stesso modo la donna nel suo essere tratta originariamente dall’uomo è finalmente l’unico «faccia a faccia» creaturale che nella differenza rende possibile all’uomo la consapevolezza del valore proprio e altrui nell’interdipendenza della comunione: «Costei sì è ossa dalle mie ossa e carne dalla mia carne. Costei sarà chiamata ‘ishâ perché da ‘ish è stata tratta» (Gn 2,23).
«Per questo – conclude Paolo riguardo al caso concreto – la donna deve avere potere (exousia) sulla testa a motivo degli angeli» (11,10). Il termine exousia non ha mai un senso passivo e perciò non può essere tradotto con «un segno della sua dipendenza» (CEI 1971, corretta poi, seguendo l’interpretazione contraria, con «un segno dell’autorità», CEI 1997), perché il contesto si riferisce semplicemente all’acconciatura dei capelli che deve manifestare nell’assemblea la irrinunciabile identità dell’essere-donna. L’espressione «a motivo degli angeli» conferma e rafforza il riferimento all’ordine o «sintassi» che Dio, distinguendo e separando per un’armonia e un’unità superiore, ha stabilito nella creazione e alla quale queste creature angeliche presiedono affinché ciascuno, al suo posto, contribuisca nella diversità all’unità e armonia del tutto.
Sottolineata la diversità come elemento irrinunciabile dell’identità dell’essere-donna e dell’essere-uomo a partire dalla creazione, alla pretesa esagerata di uguaglianza e parità, che vorrebbe annullare le differenze tra uomo e donna a partire dalla relazione d’essere comunicata a tutti «nel Signore», l’Apostolo, senza negare la fondamentale uguaglianza, ribadisce invece l’interdipendenza reciproca: «Tuttavia né donna senza uomo, né uomo senza donna nel Signore» (11,11). E conclude coordinando nell’origine la reciproca e particolare interdipendenza con la comune dipendenza: «Come infatti la donna dall’uomo, così anche l’uomo attraverso la donna: tutto poi da Dio» (11,12).

2.5. Discernimento e «convenienza» (11,13-15)
La motivazione data a partire dalle Scritture può risultare difficile specialmente per orecchie poco abituate a una lettura di tipo rabbinico; di conseguenza Paolo, in modo più semplice e immediato, coinvolge i destinatari nel discernimento a partire dal buon senso: «Giudicate voi stessi» (11,13). Seguono due domande retoriche. La prima, basata sul senso comune della «convenienza» o del «decoro» (prépon è l’opposto di «indecoroso, sconveniente o vergognoso»: aischrón, cf. 11,6), suppone una risposta negativa da parte degli ascoltatori. Non possono quindi non essere d’accordo nell’affermare che «è sconvenente per una donna pregare Dio a capo scoperto» (11,13).
La seconda suppone invece una risposta affermativa, che trova i destinatari d’accordo col mittente sulla «differenziazione sessuale» dell’uomo e della donna, che si manifesta anche nella diversa capigliatura: «Non vi insegna forse la natura stessa che se l’uomo ha capelli lunghi è disonore a se stesso, mentre se la donna ha capelli lunghi è gloria a se stessa?» (11,14-15a). L’opposizione «disonore/gloria» richiama la presentazione del caso e la soluzione proposta ai vv. 4-6 e insieme la motivazione scritturistica dei vv. 7-12. Ci sono però delle differenze. Qui ci si riferisce a un sapere comune basato su una constatazione di fatto generale, confermata dall’ultima affermazione: «Dato che la chioma le è stata data al posto di (o a modo di) velo/mantello (antì peribolaíou)» (11,15b), mentre lì si insiste sul caso particolare all’interno dell’assemblea liturgica (l’uomo e la donna che pregano o profetizzano). La constatazione generale conferma, quindi, e avvalora la soluzione data al caso particolare. Inoltre, l’opposizione «disonore a se stesso / gloria a se stessa», richiama e conferma sia la soluzione data al caso, sia la motivazione scritturistica: non si tratta infatti di una disparità tra uomo e donna, ma della differenziazione sessuale che è la base del valore specifico di ciascuno nell’autoconsapevolezza del proprio essere grazie all’alterità, alla diversità che permette la realizzazione nell’interdipendenza della comunione avuta come dono e come compito.
Non è quindi la banalità del velo o di un’usanza locale che Paolo difende e ribadisce, ma si tratta della veridicità dell’essere uomo e dell’essere donna nella comunità, e in definitiva della veridicità del Vangelo di Dio nell’edificazione storica della comunità fino al compimento escatologico. Solo lì la differenziazione sessuale non ci sarà più, ma finché si è in cammino l’uomo sia uomo e la donna sia donna e che questo loro essere diversi sia evidente non solo «nei capelli» ma in tutta la loro vita relazionale.

2.6. Unanimità contro contestazione (11,16)
Con un’ultima espressione ipotetica seguita da un’affermazione solenne e precisa, Paolo conclude il suo discorso isolando il «gruppetto contestatore» («Se qualcuno crede di volerla vinta ad ogni costo») rispetto al «noi ecclesiale» – che include non solo l’Apostolo e i collaboratori, ma anche la stessa comunità di Corinto, cioè i destinatari lodati all’inizio – e alle «Chiese di Dio». L’usanza (synêtheia) di alcune donne di Corinto è quindi in contrasto con il sentire e l’agire unanime della comunità e delle Chiese. Se non vogliono vanificare la comunione, devono semplicemente accogliere il comando dell’Apostolo e mostrarsi per quello che sono senza ambiguità e confusione nell’assemblea liturgica.

3. Attualità del messaggio
Riletto nella sua coerenza e articolazione propria, il discorso di Paolo interessa e convince anche i lettori moderni. Non si tratta infatti del problema del «velo» delle donne,[7] ma del discorso molto più profondo circa la diversità dell’essere donna e dell’essere uomo nelle assemblee liturgiche, e quindi nella vita.
Anche ai nostri tempi, assuefatti a mode e abbigliamenti unisex, l’Apostolo ribadisce la verità valida per tutti i tempi: nell’economia della redenzione, come in quella della creazione, l’uomo rimane uomo e la donna rimane donna; l’uomo dunque continui a mostrarsi uomo e la donna continui a mostrarsi donna.
Uguali sì, ma diversi… anche nella novità di vita che scaturisce dalla relazione d’essere gratuitamente donata a tutti nella morte e risurrezione di Gesù. Ogni confusione d’essere è «vergognosa» e «sconveniente» perché vanifica il piano di Dio e non edifica la comunità. La consapevolezza del proprio essere particolare e diverso di fronte all’altro/altra è «gloria», perché manifesta «la roccia che ti ha generato» (Dt 32,18; cf. Is 51,1) cioè l’origine e il compimento comune della diversità, con la quale ciascuno è reso conforme all’immagine di Dio che è il volto di Cristo (cf. Rm 8,29 e 2Cor 3,18; 4,4.6) e contribuisce per la sua parte all’edificazione del corpo di Cristo che è la Chiesa (1Cor 12,1-27 e Rm 12,3-8). Essere e mostrarsi uomini e donne nell’assemblea liturgica e nella vita edifica la comunità e le singole persone in essa, fino al compimento definitivo della comunione, quando Dio sarà tutto in tutti (cf. 1Cor 15,28) e tutti, uomini e donne, saremo come angeli nei cieli (cf. Mc 12,25 e par.).
———————————-
[1] Cf. G. Biguzzi, Velo e silenzio. Paolo e la donna in 1Cor 11,2-16 e 14,33b-36 (= RivB.S, 37), Dehoniane, Bologna 2001, e la bibliografia riportata alle pp. 159-171, cui mi permetto di aggiungere E. Franco, «La visione della donna in alcuni testi problematici dell’epistolario paolino», in D. Abignente – M.A. Giusti – N. Rodinò (edd.), La donna nella Chiesa e nel mondo. Studi promossi dalla Facoltà teologica dell’Italia meridionale e dalla Commissione diocesana donna, Dehoniane, Napoli 1988, pp. 185-202.
[2] Ad esempio: kephalê significa «testa», «capo» o «principio», «origine», «principio d’origine»? anêr significa solo e sempre «uomo» opposto a «donna» o può significare anche «essere umano» includendo uomini e donne?
[3] Anche in ebraico «capo» (r’osh) ha la stessa radice di «inizio» (re’shit).
[4] Nel greco della LXX questo significato è attestato in Gn 14,21; 17,23; 46,32.34; Es 12,37; Nm 13,32; 14,22; Dt 1,35; ecc. e nel Nuovo Testamento in Mt 12,41; Lc 11,32; Ef 4,13; anche At 17,34. Cf. G. Biguzzi, Velo e silenzio, cit., pp. 64-66.
[5] Insieme allo studio di G. Lorusso in questo fascicolo, cf. E. Franco, «Unità e pluralità», in Parole di vita 1/34 (1989) 6-13 [166-171].
[6] Cf. C. Westermann, «dbk kbd essere pesante», in E. Jenni – C. Westermann, Dizionario teologico dell’Antico Testamento, Marietti, Torino 1978, I, pp. 686-701.
[7] Il termine kálymma non ricorre mai nel testo; lo si trova solo in 11,10 al posto di exousía in qualche manoscritto tardivo (vgmss e bopt) e in alcuni padri (Ireneo, Girolamo, Agostino).

Publié dans : Lettera ai Corinti - prima |le 2 septembre, 2013 |Pas de Commentaires »

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