Archive pour août, 2013

IL SILENZIO DI DIO – RAV RICCARDO DI SEGNI, RABBINO CAPO DI ROMA

http://www.nostreradici.it/silenzio_di_Dio.htm

IL SILENZIO DI DIO

RICCARDO DI SEGNI, RABBINO CAPO DI ROMA, DIRETTORE DEL COLLEGIO RABBINICO ITALIANO

Il tema del silenzio e dell’assenza di Dio davanti alle sofferenze dell’umanità è salito improvvisamente alla ribalta per un motivo quasi casuale, un recente intervento del Papa che lo ha affrontato nel corso di un’omelia.
Parlare di quest’argomento ha sorpreso un po’ tutti, sia per la natura del tema, così difficile e speciale, che per la forza con cui è stato trattato. Ma per la sensibilità ebraica non si è trattato di una novità né di una sorpresa.

Oltre le tenebre, la luce
È un tema importante della teologia biblica che viene costantemente ripreso ed elaborato nel corso della storia e che davanti a fenomeni di particolare gravità, come la Shoà, esplode travolgendo le coscienze. Esaminando le pagine bibliche si può vedere come l’interrogativo sulla presenza divina accompagni la storia ebraica dal momento stesso in cui nasce come popolo. 
La Bibbia cerca di dare qualche risposta, anche molto precisa a questa domanda terribile, ma la questione evidentemente non è semplice da risolvere per le coscienze turbate. Il tema trova espressione in una grande metafora antropomorfica, quella del panim, del volto divino.
Nel rapporto tra esseri umani guardarsi in faccia è un modo di comunicare, anche se non necessariamente benevolo, mentre volgersi la faccia, rivoltarsi, è segno di chiusura, di interruzione, di comunicazione, di rifiuto.
Sono pertanto sinonimo di speciale benedizione, simpatia, protezione, benevolenza le espressioni iaer haShem panaw elekha e issà haShem panaw elekha, « che il Signore illumini e volga te il suo volto », che compaiono nella benedizione sacerdotale di Numeri 6:25-26, che quotidianamente ripetiamo nella nostra liturgia.
Al contrario è il celarsi, il nascondersi del volto divino il segno di allontanamento. Leggiamo in proposito un brano fondamentale:
 » La mia ira divamperà contro di lui in quel giorno e li abbandonerò e nasconderò loro il mio volto (letteralmente: mi nasconderò il volto da loro) e diventerà preda di chi vuole divorarlo e lo incontreranno numerose disgrazie e cose cattive e in quel giorno dirà ‘è perché il mio Dio non è in mezzo a me che mi sono capitate queste brutte cose’. Ma Io avrò nascosto il mio volto in quel giorno per tutto il male che aveva fatto, perché si era rivolto ad altri dei ». (Deuteronomio 31:17-18).
In questo brano c’è la prefigurazione dell’evento (l’abbattersi delle sciagure nazionali, il diventare preda dei nemici), la sua rappresentazione teologica (Dio che si nasconde all’uomo), la constatazione umana dell’abbandono (Dio non è in mezzo a me) e l’interpretazione teologica (il volto si nasconde perché l’uomo si è ri-volto altrove).
Che non si vadano a cercare responsabilità divine primarie nel male; questo dipende in primo luogo dall’uomo e dal dono che gli è stato fatto di poter scegliere tra bene e male, tra premio e punizione. E all’uomo viene quindi chiesto di fidarsi e scommettere.
Non a caso, in un brano che per molti versi è l’anticipazione di quest’interpretazione del Deuteronomio, la domanda su dove è Dio nasce in un contesto storico preciso: usciti dall’Egitto, dopo tutti i miracoli cui hanno assistito, gli ebrei si trovano nel deserto senza acqua; e allora, immemori e ingrati dei beni precedenti, protestano, fino a minacciare Mosè di lapidazione.

Racconta la Bibbia:
« (Mosè) chiamò quel luogo Massà e Merivà (contesa e lite) per la lite dei figli d’Israele e per aver loro messo alla prova il Signore dicendo: ‘se Dio è in mezzo a noi o no’  » (Esodo 17:7).
E subito dopo ecco quello che succede:
« Arrivò Amaleq e combattè con Israele a Refidim » (ibid, v. 18).
Amaleq è il nemico mortale perenne d’Israele, senza pietà per i più deboli. Amaleq arriva e colpisce non in un momento qualsiasi, ma quando Israele non è più capace di avvertire la presenza divina dentro di sé. Dio fugge e si nasconde secondo il Deuteronomio dopo che gli ebrei gli si rivoltano contro; ma la prima fuga – quella che apre il varco al nemico divoratore – avviene nella coscienza degli uomini che diventano sordi e incapaci di avvertire la presenza divina.
Prima ancora di un volto che si nasconde c’è l’incapacità umana di vederlo quando c’è. L’importanza di questa storia supera il caso isolato, diventa emblematica. Non a caso nella Torà uno dei comandi più importanti che si riferiscono all’uso della memoria, riguarda proprio la storia di Amaleq: « ricorda cosa ti ha fatto Amaleq » (Deuteronomio 25:17). Ricorda cosa ti ha fatto, ma anche che cosa può averlo provocato.
Il celarsi del Deuteronomio non è isolato, ma lo ritroviamo in tanti altri brani biblici,da Isaia (8:17, 54:8), Ezechiele 39 (23,24,29), ai Salmi (« non nascondermi il tuo volto »: 27:9, 102:3, 143:7; e ancora 13:2, 30:8, 44:25 ecc), espressioni di una angoscia e di una ricerca costante. Di fatto il tema del Dio che si nasconde diventa la costante dell’esperienza successiva, specialmente diasporica.
Giocando sulla lingua, la radice satar che indica il celarsi (da cui forse anche il mistero) viene riscontrata dai Maestri nel nome dell’eroina biblica Ester: un nome che in realtà dovrebbe essere collegato a Astarte e Aster-Astro, ma che per i Maestri non indica il fulgore ma il buio. Con una consolazione: perché la regina Ester opera in un periodo storico in cui il Volto non è più visibile e accessibile, e per questo può sempre sorgere qualcuno che decide di distruggere l’intero popolo ebraico; ma anche se la presenza diretta, la visione luminosa del volto non c’è più, la presenza divina, la sua provvidenza, la sua assistenza non mancano mai e al momento giusto intervengono nella storia e liberano.
Per questo motivo consolatorio e di speranza gli ebrei celebrano ancora oggi (e continueranno a farlo anche quando tutte le altre feste saranno abolite), per una volta all’anno, con gioia fisica quasi sfrenata, la festa del Purim, per segnalare che anche in un regime di volto nascosto la protezione non viene mai meno. È sul filo di questa speranza che si gioca un’esperienza drammatica, una domanda con tante risposte sempre insufficienti, una provocazione alla fede che coinvolge quasi quotidianamente la vita di ogni ebreo, che sia religioso o no.
Nel momento in cui lo Stato si accinge a celebrare il Giorno della Memoria, con importanti intenti memoriale ed educativi, lo spirito ebraico partecipa con un ricordo sconsolato e con il peso di una domanda e di una ricerca che ha più di 32 secoli di storia.

[Fonte: ucei.it/giornodellamemoria]

Il Buon Pastore

Il Buon Pastore dans immagini sacre christ-shepherd71.jpg.w560h446

http://www.shepherdsguild.org/id20.html

 

 

 

Publié dans:immagini sacre |on 20 août, 2013 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – SAN PIO X – (2010) (memoria il 21 agosto 2010)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100818_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

PALAZZO APOSTOLICO DI CASTEL GANDOLFO

MERCOLEDÌ, 18 AGOSTO 2010

SAN PIO X

Cari fratelli e sorelle!

oggi vorrei soffermarmi sulla figura del mio Predecessore san Pio X, di cui sabato prossimo si celebra la memoria liturgica, sottolineandone alcuni tratti che possono essere utili anche per i Pastori e i fedeli della nostra epoca.
Giuseppe Sarto, così il suo nome, nato a Riese (Treviso) nel 1835 da famiglia contadina, dopo gli studi nel Seminario di Padova fu ordinato sacerdote a 23 anni. Dapprima fu vice parroco a Tombolo, quindi parroco a Salzano, poi canonico della cattedrale di Treviso con l’incarico di cancelliere vescovile e direttore spirituale del Seminario diocesano. In questi anni di ricca e generosa esperienza pastorale, il futuro Pontefice mostrò quel profondo amore a Cristo e alla Chiesa, quell’umiltà e semplicità e quella grande carità verso i più bisognosi, che furono caratteristiche di tutta la sua vita. Nel 1884 fu nominato Vescovo di Mantova e nel 1893 Patriarca di Venezia. Il 4 agosto 1903, venne eletto Papa, ministero che accettò con esitazione, perché non si riteneva all’altezza di un compito così alto.
Il Pontificato di san Pio X ha lasciato un segno indelebile nella storia della Chiesa e fu caratterizzato da un notevole sforzo di riforma, sintetizzata nel motto Instaurare omnia in Christo, « Rinnovare tutte le cose in Cristo ». I suoi interventi, infatti, coinvolsero i diversi ambiti ecclesiali. Fin dagli inizi si dedicò alla riorganizzazione della Curia Romana; poi diede avvio ai lavori per la redazione del Codice di Diritto Canonico, promulgato dal suo Successore Benedetto XV. Promosse, poi, la revisione degli studi e dell’ »iter » di formazione dei futuri sacerdoti, fondando anche vari Seminari regionali, attrezzati con buone biblioteche e professori preparati. Un altro settore importante fu quello della formazione dottrinale del Popolo di Dio. Fin dagli anni in cui era parroco aveva redatto egli stesso un catechismo e durante l’Episcopato a Mantova aveva lavorato affinché si giungesse ad un catechismo unico, se non universale, almeno italiano. Da autentico pastore aveva compreso che la situazione dell’epoca, anche per il fenomeno dell’emigrazione, rendeva necessario un catechismo a cui ogni fedele potesse riferirsi indipendentemente dal luogo e dalle circostanze di vita. Da Pontefice approntò un testo di dottrina cristiana per la diocesi di Roma, che si diffuse poi in tutta Italia e nel mondo. Questo Catechismo chiamato « di Pio X » è stato per molti una guida sicura nell’apprendere le verità della fede per il linguaggio semplice, chiaro e preciso e per l’efficacia espositiva.
Notevole attenzione dedicò alla riforma della Liturgia, in particolare della musica sacra, per condurre i fedeli ad una più profonda vita di preghiera e ad una più piena partecipazione ai Sacramenti. Nel Motu Proprio Tra le sollecitudini (1903, primo anno del suo pontificato), egli afferma che il vero spirito cristiano ha la sua prima e ed indispensabile fonte nella partecipazione attiva ai sacrosanti misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa (cfr ASS 36 [1903], 531). Per questo raccomandò di accostarsi spesso ai Sacramenti, favorendo la frequenza quotidiana alla Santa Comunione, bene preparati, e anticipando opportunamente la Prima Comunione dei bambini verso i sette anni di età, « quando il fanciullo comincia a ragionare » (cfr S. Congr. de Sacramentis, Decretum Quam singulari: AAS 2 [1910], 582).
Fedele al compito di confermare i fratelli nella fede, san Pio X, di fronte ad alcune tendenze che si manifestarono in ambito teologico alla fine del XIX secolo e agli inizi del XX, intervenne con decisione, condannando il « Modernismo », per difendere i fedeli da concezioni erronee e promuovere un approfondimento scientifico della Rivelazione in consonanza con la Tradizione della Chiesa. Il 7 maggio 1909, con la Lettera apostolica Vinea electa, fondò il Pontificio Istituto Biblico. Gli ultimi mesi della sua vita furono funestati dai bagliori della guerra. L’appello ai cattolici del mondo, lanciato il 2 agosto 1914 per esprimere «l’acerbo dolore» dell’ora presente, era il grido sofferente del padre che vede i figli schierarsi l’uno contro l’altro. Morì di lì a poco, il 20 agosto e la sua fama di santità iniziò a diffondersi subito presso il popolo cristiano.
Cari fratelli e sorelle, san Pio X insegna a noi tutti che alla base della nostra azione apostolica, nei vari campi in cui operiamo, ci deve essere sempre un’intima unione personale con Cristo, da coltivare e accrescere giorno dopo giorno. Questo è il nucleo di tutto il suo insegnamento, di tutto il suo impegno pastorale. Solo se siamo innamorati del Signore, saremo capaci di portare gli uomini a Dio ed aprirli al Suo amore misericordioso, e così aprire il mondo alla misericordia di Dio.

GIOVANNI PAOLO II OMELIA – VISITA AL PONTIFICIO COLLEGIO MISSIONARIO INTERNAZIONALE « SAN PAOLO APOSTOLO »

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/homilies/1981/documents/hf_jp-ii_hom_19810124_visita-collegio-san-paolo_it.html

(alla ricerca di tutto quello che trovo su San Paolo ho trovato anche questa visita di Papa Giovanni Paolo II al Collegio Internazionale San Paolo, ho il dubbio di averlo messo, ma non lo trovo)

VISITA AL PONTIFICIO COLLEGIO MISSIONARIO INTERNAZIONALE « SAN PAOLO APOSTOLO »

OMELIA DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II

Cappella del’Istituto Sabato, 24 gennaio 1981

Carissimi Sacerdoti!

1. È per me una grande gioia potermi oggi incontrare con voi, in questo Collegio dedicato a san Paolo Apostolo, dove avete la vostra dimora, mentre frequentate l’Università di “Propaganda Fide”, per sviluppare e completare i vostri studi filosofici e teologici e la vostra preparazione pastorale. Nelle visite, che sto compiendo ai vari Istituti e Atenei della Città di Roma, non poteva e non doveva mancare, nella circostanza così singolare della festa del Collegio, questo incontro con voi, che venite da ogni parte del mondo e che portate qui, nel centro della Cristianità, le caratteristiche e le ansie dei vostri popoli e delle vostre culture.
Accogliete perciò il mio saluto cordiale e affettuoso, che si rivolge prima di tutto al Cardinale Prefetto e al Segretario della Sacra Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, ai Superiori e ai Responsabili del Collegio, e si estende poi a ciascuno di voi personalmente, comprendendo anche tutti coloro che collaborano in varie mansioni per il buon andamento della casa e della vita in comune. È un saluto che vuole esprimere compiacimento e apprezzamento per la buona volontà che dimostrate nel vostro impegno di studio e di aggiornamento, per un più efficace ministero adatto alle esigenze della società, e per un aiuto illuminato e concreto alle Comunità ecclesiali delle vostre nazioni e delle vostre diocesi. Ed è un saluto che intende anche manifestare la mia riconoscenza per la vostra fedeltà alla Sede Apostolica e per le preghiere che offrite per la mia persona e per la mia missione universale.
2. Desidero però che l’odierno incontro attorno all’altare, celebrando il Sacrificio eucaristico, divenga per tutti voi anche uno stimolo ad una vita sacerdotale sempre più santa e ad un impegno sempre più responsabile nei vostri studi e nei vostri ideali. E proprio le letture della liturgia si prestano ad alcune riflessioni di notevole importanza per tale scopo.
Nella prima lettura abbiamo sentito ciò che il Signore dice per mezzo del profeta Isaia: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata” (Is 55,10-11). Sono espressioni ben note, che hanno fatto riflettere i Padri e i Dottori della Chiesa, i santi e i mistici di tutte le epoche e che destano impressione anche nei nostri animi, perché affermano l’assoluta potenza ed efficacia della Rivelazione di Dio: nessun ostacolo o rifiuto umano può fermarla o spegnerla. Noi sappiamo che la “Parola di Dio”, nella pienezza dei tempi, si è incarnata: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio… E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,1.14) ed è rimasta presente nella storia umana per mezzo della Chiesa: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). La “Parola di Dio” è sempre efficace, perché prima di tutto mette in crisi la ragione umana: le filosofie semplicemente razionali e temporali, le interpretazioni solamente umanistiche e storicistiche, sono sconvolte dalla “Parola di Dio”, che risponde con suprema certezza e chiarezza agli interrogativi posti al cuore dell’uomo, e lo illumina circa il suo vero destino, soprannaturale ed eterno, e gli indica la condotta morale da praticare, come autentica via di serenità e di speranza. Non solo: la “Parola di Dio” dà “luce” e “via”, si fa vita di grazia, partecipazione alla stessa vita divina, inserimento nel misterioso ma reale dinamismo della redenzione dell’umanità. Infatti Gesù si definì “luce del mondo”: “Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me, non rimanga nelle tenebre” (Gv 12,46) e vita delle anime.
Forti di questa certezza che viene da Dio, bisogna avere il coraggio della sua Parola! Nessuna paura della Verità: la “Parola di Dio” è sempre efficace, non è inerte, non è mai sconfitta, non torna a Dio umiliata e delusa! E allora, vi dico con san Paolo: “Comportatevi come figli della luce” (Ef 5,8). Certamente, la “Parola di Dio” è sconvolgente perché, dice il Signore: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55,8); mette in crisi, perché è esigente, è affilata come spada a doppio taglio, è basata non su discorsi persuasivi di umana sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza (cf.1Cor 2,4-5). “Nessuno si illuda – scriveva san Paolo ai Corinzi –. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente; perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio… Quindi nessuno ponga la sua gloria negli uomini!” (1Cor 3,18-19.21). C’è infatti una falsa sapienza che può tentare e illudere, confondendo e facendo diventare presuntuosi. Commentando l’affermazione: “Rendiamo a Dio un culto a lui gradito, con riverenza e timore, perché il nostro Dio è un fuoco divoratore (Eb 12,28-29), il Cardinale Newman, un appassionato di san Paolo, così diceva: “Il timore di Dio è il principio della sapienza; fino a quando non vedrete Dio come un fuoco consumatore, e non vi avvicinerete a Lui con riverenza e con santo timore, per il motivo di essere peccatori, non potrete dire di essere nemmeno in vista della porta stretta… Il timore e l’amore devono andare insieme; seguitate a temere, seguitate ad amare fino all’ultimo giorno della vostra vita. Questo è certo; dovete però sapere che cosa vuol dire seminare quaggiù nelle lacrime se volete mietere in gioia nell’al di là” (Card. Newman, Parochial and Plain Sermons, Vol. I, Serm. XXIV; cf. J. H. Newman, La mente e il cuore di un grande, Bari 1962, p. 230).
3. Nella seconda lettura, il celebre episodio della conversione di san Paolo, da lui stesso narrato agli Ebrei di Gerusalemme, è ugualmente denso di insegnamenti per la vostra vita sacerdotale. Sulla via di Damasco, caduto nella polvere, san Paolo viene abbacinato dalla luce sfolgorante di quel Gesù che egli perseguita nei cristiani; ne segue la sua conversione immediata e decisiva, evidente opera miracolosa della grazia di Dio, perché Paolo doveva essere il primo autorevole interprete del messaggio di Cristo, divinamente ispirato. Il Divino Maestro gli comanda di alzarsi e di proseguire il cammino; e da quel momento, si può dire, san Paolo diventa nostro maestro e guida nel conoscere ed amare Cristo.
Ma soprattutto devono interessarci e farci meditare le parole del giusto Anania: “Il Dio dei nostri Padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua stessa bocca, perché gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito” (At 22,14-15). Queste parole si possono applicare anche ad ogni sacerdote, ministro di Cristo. Anche voi siete stati scelti, anzi predestinati dall’Altissimo a conoscere la “Parola di Dio”, a incontrarvi con Cristo, a partecipare agli stessi suoi poteri divini, per annunziarlo e testimoniarlo davanti a tutti gli uomini. Come Paolo, convertito alla verità, si gettò con ardente fervore nella sua missione di apostolo e di testimone, e nessuna difficoltà riuscì più a fermarlo, così fate anche voi. Il mondo ha bisogno di anime fervorose e ardimentose, umili nel comportamento, ma ferme nella dottrina; generose nella carità, ma sicure nell’annunzio; serene e coraggiose, come Paolo, che in mezzo a difficoltà e contrasti di ogni genere, sovrabbondava di gioia in ogni sua tribolazione, perché per lui vivere era Cristo e morire un guadagno (cf. 2Cor 7,4; Fil 1,21).
L’Evangelista san Marco riferisce le ultime parole di Gesù, categoriche e imperative: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo; ma chi non crederà, sarà condannato” (Mc 16,15-16). Esse significano che è positiva volontà di Dio che il messaggio evangelico sia annunziato a tutto il mondo e che si creda alla “Parola di Dio”. L’essere sacerdoti è indubbiamente una dignità immensa ed eccelsa; ma è anche una grande responsabilità. Siate sempre consapevoli della vostra grandezza e degni della fiducia che Dio ha posto in voi!
Carissimi, vi illumini nei vostri studi e vi conforti nei vostri propositi Maria Santissima, che in questi giorni preghiamo come “Madre dell’Unità della Chiesa”, e che sempre invochiamo “Sede della Sapienza”, “Causa della nostra letizia”.

San Bernardo di Chiaravalle

San Bernardo di Chiaravalle dans immagini sacre 512px-Xanten_verbruederung_kamp
http://saintsresource.com/saint-index/st-bernard-of-clairvaux

Publié dans:immagini sacre |on 19 août, 2013 |Pas de commentaires »

SAN BERNARDO DI CHIARAVALLE (20 agosto, memoria)

http://www.medio-evo.org/bernardo.htm

SAN BERNARDO DI CHIARAVALLE

  L’ULTIMO PADRE DEL MEDIO EVO

E’ impossibile non unirsi a tutti coloro che hanno scritto e commentato la figura di San Bernardo di Chiaravalle. Questo figlio di nobili borgognoni è l’ultimo dei “padri” del monachesimo benedettino, e con lui la vocazione monastica giunge ad uno dei punti più alti della storia. Nato intorno al 1090 presso Digione, nel castello paterno, figlio di nobili cavalieri, ebbe una educazione tipicamente feudale, ed incarna in sé quello spirito che fu dei monaci e dei cavalieri medievali, fatto di preghiera e combattimento, ascetismo e disciplina, una disciplina spirituale che somiglia molto a quella cavalleresca. Da piccolo entra nella scuola dei Canonici di Châtillon, una delle più importanti della Borgogna, dove studia gli scrittori latini e i padri della Chiesa. Dopo la morte della madre, a cui egli era molto legato, nel 1107, entrò in una crisi che gli fece sentire lontano quel mondo di “donne cavalier armi ed amori” che era proprio della sua famiglia, e forte invece il desiderio di cercare e trovare Dio nella pace e nella quiete del monastero, lontano dal fragore e dalla violenza del mondo. Così a ventidue anni, nel 1112 si reca a Citeaux, nel monastero diretto da Stefano Harding, assieme a trenta compagni. Questo arrivo segnerà una svolta non solo per il monastero, ma nella storia della Chiesa e dell’ Europa occidentale. Anche se differenti nel temperamento, Bernardo fece propria l’idea che aveva ispirato San Roberto di Moleste, Alberico e Stefano. Questi si erano allontanati da Moleste nel 1098 per recarsi in un luogo solitario a 20 chilometri da Digione, in un luogo chiamato Cistercium, per seguire uno stile di vita più semplice e più rigoroso, recuperando lo spirito e la lettera dell’antica regola benedettina, ormai inficiati dalla grande potenza temporale acquisita dai monasteri clunicensi. Il luogo originale, in cui Bernardo condivise i primi anni di una rigorosa vocazione, stava però stretto a Bernardo, che, in cerca di solitudine, ma anche di luoghi aperti e ameni per essere a più stretto contatto con Dio, lasciò Citeaux. Il nuovo luogo sarà ancor più distante dal consesso civile, e si chiamerà Clairvaux , in italiano Chiaravalle. Qui divenne abate e qui rimase fino alla morte, avvenuta nel 1156, nonostante numerosi viaggi, dispute ( celeberrima quella con Abelardo), la predicazione della seconda crociata e l’amministrazione spirituale di un ordine, che alla sua morte contava più di 300 monasteri.
Possiamo dire che i quattro padri dell’ordine cistercense fondarono una vera e propria scuola di spiritualità, di cui San Bernardo costituisce il maestro indiscusso ed il punto di riferimento per le future generazioni di monaci. La sua devozione per la vergine Maria e per il Bambin Gesù rimane una caratteristica della sua spiritualità. La tradizione di chiudere la giornata di preghiera con il Salve Regina deriva proprio da una sua idea. Egli prediligeva per la preghiera luoghi aperti ed ameni, valli luminose ed vicine ai corsi d’acqua. Da qui l’abitudine, tutta cistercense, di fondare monasteri nelle valli. Ben tre città in Italia ci ricordano quindi, con il nome Chiaravalle, la loro fondazione per opera dei monaci di San Bernardo. Umiltà, amore verso Dio con un cammino di unione del cuore, duro lavoro nei campi e profonda devozione mariana sono alcuni dei tratti della spiritualità di San Bernardo. Spirito che si riversa anche nelle strutture architettoniche dei monasteri e delle chiese abbaziali, prive o quasi di decorazioni e tutte slanciate verso l’alto. La sua riforma spirituale quindi segna il passaggio nell’arte dal romanico al gotico. Egli, come tutta la spiritualità monastica, vede la vita spirituale come un cammino fatto di gradi di perfezione, per essere sempre più uniti all’amore di Dio. Amore che si riversa poi sul prossimo, in quanto si ha la piena consapevolezza di essere tutti peccatori.  Egli fu anche scrittore molto prolifico: trattati, lettere, prediche, poemi, un “corpus” di scritti che occupa un posto molto rilevante nella storia medievale, e che lo pone come il terzo “padre” medievale, dopo S. Gregorio Magno e S. Benedetto da Norcia. Tra le opere più importanti si possono ricordare « De gradibus humilitatis et superbiae », « De gratia et libero arbitrio », « De diligendo Deo ». Egli fu quindi quel faro di luce spirituale che avrebbe illuminato tutta l’Europa occidentale del XII secolo. Fu infatti capace di recuperare in maniera originale  e geniale tutto il pensiero cristiano precedente a lui, pur in una prospettiva monastica e benedettina. Egli, a differenza dei clunicensi, non vede infatti l’uomo semplicemente come un peccatore, ma come una creatura buona, capace cioè di recuperare sempre la dimensione d’amore verso Dio e verso il prossimo. L’uomo, con il peccato ha deformato questa immagine, ma proprio attraverso l’ Incarnazione del Figlio di Dio e la disponibilità di Maria Santissima,  Dio può riformare l’uomo a sua immagine. L’uomo è chiamato a prendere parte a questa opera, con la conversione e l’ascesa dell’anima verso Dio, descritta nel trattato De diligendo Deo. L’Incarnazione quindi occupa un posto centrale nella spiritualità cistercense. Questa esperienza chiama l’uomo alla sequela di Cristo, fatta nell’oscurità della fede, si attua nella carità.
Ma San Bernardo non fu solo un mistico chiuso in un monastero, lontano dal mondo e tutto teso alla ricerca spirituale di comunione con Dio. Egli, spirito indomito e combattente, vero cavaliere dello Spirito, partecipò attivamente anche alle turbolente vicende della Chiesa e dell’Europa occidentale del suo tempo. Infatti predicò, su ordine di papa Eugenio III,  la seconda Crociata, quella di Luigi VII, Riccardo Cuor di Leone e Federico Barbarossa (1148-1151), aiutò papa Innocenzo II, fuggito a Cluny dopo l’elezione dell’antipapa Anacleto. Al Concilio di Etampes, grazie al suo intervento, il re Luigi VI  riconobbe Innocenzo come il legittimo papa. Intervenne anche al famoso Concilio di Troyes (1128) che segna la fondazione dell’Ordine dei Cavalieri del Tempio (Templari), un mito ancor oggi intramontabile. Per la prima volta infatti i due ordini, bellatores e oratores , cioè cavalieri e monaci, distinti nella società feudale, vengono fusi in uno solo, con lo scopo di difendere i pellegrini in Terra Santa e i luoghi della vita di Cristo. Fu anche impegnato nella disputa con Abelardo e con i nuovi maestri di filosofia che ai suoi occhi pretendevano di spiegare la fede con la ragione, ed alla fine ne ottenne la condanna al concilio di Sains (1140). Erano due personalità forti, i due, ed esprimevano, ognuno nella sua ottica, due modi di vedere il ruolo della fede e della ragione che sono ancor oggi presenti in terra di Francia.
     In effetti San Bernardo rivolse parole di esortazione e di rimprovero, di incoraggiamento e di aiuto, di luce  spirituale e di fede a tutte le categorie della società del suo tempo, divenendo un punto di riferimento per la sua epoca. Senza di lui il XII e la civiltà feudale che egli rappresenta forse non sarebbe stata gli stessi. Ma fondamentalmente egli fu prima di tutto un uomo di preghiera in un tempo di guerre, crociate, odi e violenze private. Mi ha colpito molto una frase che introduce il suo “De diligendo Deo”, quando all’inizio dice:
“In Dio voglio vivere e in Dio morire: per me preghiere e non domande.”
(Domino vivere et in Domino mori. Orationes a me et non quaestiones)
Un uomo che quindi prediligeva la preghiera alle dispute filosofiche (dette appunto quaestiones)  e che preferì la quiete del monastero alla nobile arte della cavalleria e della guerra. Una scelta quanto mai attuale.

Ecco un brano tratto dalla « Patrologia Latina Database » in francese medievale.
CI ENCOMENCENT LI SERMON SAINT BERNAVT KIL FAIT DE LAVENT ET LES ALTRES FESTES PARMEI LAN.

Nos faisons ui, chier freire, len comencement de lavent, cuy nons est asseiz renomeiz et conuiz al munde, si cum sunt li nom des altres sollempniteiz, mais li raisons del nom nen est mies per aventure si conue. Car li chaitif fil dAdam nen ont cure de veriteit, ne de celes choses ka lor salveleit apartienent, anz quierent . . . les choses . . . faillanz et trespessaules. A quel gent . . . nos semblans.. les homes de ceste generation, ou a quei gent evverons nos ceos cunos veons estre si ahers et si enracineiz ens terriens solaz, et ens corporeiens kil repartir ne sen puyent? Certes semblant sunt a ceos ki plongiet sunt en ancune grant auve, et ki en peril sunt de noier. Tu varoyes kil ceos tienent, kes tienent, ne kil par nule raison ne vuelent devverpir ceu ou il primier puyent meltre lor mains quels chose ke ce soit, ancor soit ceu tels choses ke ne lor puist niant aidier, si cum sunt racines derbes ou altres tels choses. Et si ancune gent vienent a ols por ols asoscor, si plongent ensemble ols ceos kil puyent aggrappeir ensi kil a ols nen a ceos ne puyent faire nule ajué. Ensi perissent li chaitif en ceste grant mer ke si es large, quant il les choses ki perissent ensevent et les estaules layent aleir, dont il poroyent estre delivreit del peril ou il sunt . . . prennoyent et salveir lor airmes. Car de la veriteit est dit, et ne mies de la vaniteit, Vos la conessereiz, et ele vos deliverrat. Mais vos, chier freire, a cuy Deus revelet, si cum a ceos ki petit sunt celes choses, ke receleis sunt as saige et as senneiz, vos soiez entenduit cus encenousement envor celes choses, ke vrayement apartienent a vostre salveteit: et si penseiz di merrement a la raison de cest avenement, quareiz et encerchiez ki cest soit ki vient, et dont il vient, ou il vient, et por kai il vient, quant il vient, et par quel voie il vient. Certes molt fail aloeir ceste curiositeit, et molt est saine. Car tote sainte Eglise ne celeberroit mies si devotement cest avenement, saucuens grant Sacrement ne estoil en lui receleiz.

Il testo latino del trattato « De diligendo Deo »

LETTERA AGLI EFESINI: IN CONTEMPLAZIONE DEL MISTERO DI CRISTO UNICO SIGNORE.

http://www.dossetti.com/attivita/meditazioni/100601ilcombattimento.html

(sono sette meditazioni)

LETTERA AGLI EFESINI: IN CONTEMPLAZIONE DEL MISTERO DI CRISTO UNICO SIGNORE.

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE
MEDITAZIONE DI PINO STANCARI – 1 GIUGNO 2010 – SETTIMO INCONTRO DEL CICLO 2009-2010

Gli incontri con il P. Pino Stancari S.J. si svolgono nel primo martedì di ogni mese a Roma presso l’Associazione Maurizio Polverari, in via Torelli Viollier, 132 A/3. Hanno inizio alle 19 e terminano alle 20.30. E’ disponibile un garage privato all’inizio della via.
Si è chiuso il ciclo 2009-2010  è dedicato alla lettura della Lettera agli Efesini, a cui è strettamente connessa la Lettera ai Colossesi.

L’esperienza della carcerazione diviene per Paolo occasione propizia per volgere Il suo ministero apostolico in una prospettiva di valore propriamente contemplativo. La rivelazione Del “mistero” di Dio gli insegna a ricapitolare tutto e tutti nell’appartenenza alla signoria di Cristo.
Esprimendo la gioia incontenibile che impregna tutta la sua fatica pastorale, Paolo è in grado di cogliere i rischi di ricaduta nelle culture del paganesimo – fatte di devozioni, di comportamenti, di obbedienze ideologiche – a cui vanno incontro le Chiese, nel corso della loro missione, e i cristiani, nel discernimento della loro posizione nel mondo.
Gli interventi di Paolo spalancano dinanzi a noi gli spazi immensi della profezia evangelica sul mondo.
I testi delle conversazioni – ricavati da registrazione su nastro – sono disponibili anche sul sito Internet dell’Associazione “Maurizio Polverari” all’indirizzo: www.indes.info
Leggiamo questa sera gli ultimi versetti della Lettera agli Efesini, dal v. 10 del cap. 6. Siamo alle prese con la seconda parte della Lettera che ha un’intonazione di carattere esortativo, ma il tono dominante rimane segnato da quell’atteggiamento contemplativo che abbiamo riscontrato, attraverso le parole di Paolo, nell’animo di chi, come lui, si trova in carcere. Il mistero di Cristo è il mistero di Dio che si è rivelato a noi in modo tale da dimostrare come Dio ha realizzato la sua intenzione d’amore, la sua volontà di salvezza. La signoria di Cristo è il tema dominante di tutta la lettera, in un contesto polemico in rapporto a situazioni di carattere pastorale che danno spazio a cedimenti nei confronti di una cultura pagana che rimane dominante anche nel linguaggio e nell’atteggiamento dell’animo: altre signorie, altri riferimenti che conservano il loro valore sacro, che valgono come istanze idolatriche. In questo contesto i cristiani provenienti dal paganesimo restano condizionati, messi alle strette, con il rischio di rimanere impantanati in tanti modi. Paolo interviene con uno scritto –  la lettera che abbiamo letto – che è tutto positivo, propositivo, testimonianza di questo animo contemplativo che rimane affascinato dinanzi al mistero, così come si è rivelato; il suo richiamo e i suoi interventi urgenti, pressanti, risoluti, a suo modo intransigenti, sono sempre segnati da una nota di dolcezza, che è propria dell’animo contemplativo, che, anche nei momenti dell’attrito più aspro e tagliente, è in grado di proporre elementi che annunciano un disegno di riconciliazione, un disegno sempre più grande, una rivelazione sempre più larga, uno scavo sempre più profondo nel cuore umano in corrispondenza allo spalancamento del mistero di Dio. Laddove Paolo pone delle alternative in maniera molto radicale non si tratta mai di escludere per cancellare, ma si tratta sempre di ricomporre, riconciliare in una prospettiva che si viene allargando oltre ogni misura, logica, discorsiva, devozionale: la stessa teologia di Paolo esplode man mano che ci pone dinanzi all’Evangelo nella sua inesauribile fecondità e smisurata potenza rivelativa.
Abbiamo letto fino al cap. 6, v. 9. Parlavamo la volta scorsa di come sono nuove le relazioni interpersonali, l’ambiente sociale; relazioni che sono proprio elementi strutturali nella nostra vocazione alla vita. Tutto è nuovo dal momento che noi siamo inseriti nel mistero di Cristo. E, d’altra parte, è proprio la vita che è ristrutturata in tutta la sua dinamica e, dunque, tutte le relazioni sono ristrutturate per quanto riguarda la loro qualità da recuperare in rapporto a quella che è stata l’originaria vocazione alla vita secondo l’intenzione di Dio. Tutto in Cristo si è rinnovato. Si tratta di rivestirsi di Cristo, di assumere pienamente quelle nuove configurazioni strutturali che danno alla nostra vita, nel tempo e nello spazio, una fisionomia che porta con sé la potenza inesauribile di quel mistero di cui non siamo ormai solo spettatori, ma nel quale ci troviamo immersi, risucchiati, sprofondati, coinvolti: il mistero di Dio a noi rivelato in modo tale che tutto del mondo in quel mistero è “tuffato”. E’ la signoria di Cristo; non è una presa di potere dall’esterno, ma è quella novità che ci visita in tutte le dimensioni della nostra condizione creaturale e ci sigilla nella comunione con la vita stessa di Dio.

Rivestiti dell’armatura di Dio
Il testo che leggiamo, gli ultimi versetti della Lettera, si articola in due momenti, due esortazioni: dal v. 10 al v. 17 e dal v. 18 a seguire (fino al v. 20 perché poi ci sono versetti che contengono le notizie conclusive e il congedo). La prima esortazione, dal v. 10 al v. 17, ha come suo tema determinante il combattimento. Poco fa vi parlavo della dolcezza che è propria dell’animo contemplativo e paradossalmente adesso Paolo si rivolge a noi per esortarci al combattimento: tutto dimostrerebbe la contraddizione con l’affermazione di poco fa perché  il combattimento è aspro, urgente, pressante, violento, spietato.
Nei versetti seguenti l’esortazione è rivolta ai cristiani che, attraverso l’esperienza del combattimento, imparano a pregare.
“Per il resto, attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza”. Siamo ingaggiati in un’avventura che comporta impegno serio, rigoroso, esigentissimo: c’è di mezzo un combattimento, ma Paolo ci parla di un combattimento che ci coinvolge in quanto siamo nel Signore, e questa sottolineatura non è affatto casuale. E’ un combattimento che coincide con quel radicamento nella comunione con il mistero del Dio vivente che si è rivelato a noi di cui Paolo ci ha parlato in lungo e in largo nel corso della Lettera; ma, adesso, quella nostra immersione, quel nostro “tuffo”, quello sprofondamento nella comunione con il mistero del Dio vivente, là dove noi, con tutte le nostre relazioni vitali, i nostri impegni, con tutto quel che ci riguarda in quanto creature nel tempo e nello spazio, apparteniamo alla signoria di Cristo, tutto questo assume, in queste battute finali della Lettera, una fisionomia singolarmente combattiva. E’ vero, ma occorre precisare meglio. “Rivestitevi dell’armatura di Dio”. Paolo parla di una “panoplia”, un’armatura. Vedete che non è un combattimento che può essere definito in sé e per sé: è un combattimento che ci riguarda in quanto apparteniamo al Signore e in quanto noi siamo rivestiti dell’armatura di Dio. Il combattimento per il quale siamo ingaggiati è il combattimento nel quale Dio stesso ha già dimostrato le sue capacità di guerriero e ha riportato vittoria. Si parla a più riprese nell’Antico Testamento di questa intraprendenza di Dio in quanto guerriero che affronta il combattimento e riporta vittoria. Le esemplificazioni sarebbero innumerevoli; un caso classico, forse più di ogni altro, in Esodo, cap. 15: il Signore che affronta il faraone, che scende in campo, che sgomina in battaglia l’avversario, “il Signore è un guerriero, cavaliere potente, ha sgominato l’esercito del faraone”. E’ quello che cantano quanti hanno attraversato il mare, il cantico che è sempre presente nella liturgia di Pasqua, nella veglia pasquale: “Voglio cantare in onore del Signore:
perché ha mirabilmente trionfato,
ha gettato in mare
cavallo e cavaliere”. E così in numerosi altri testi che conferiscono al Signore la fisionomia del combattente e del vittorioso in quanto sa come intervenire con le armi opportune e sgominare l’avversario. Quello che a noi interessa qui è esattamente questo riferimento all’armatura di Dio. Leggevamo a suo tempo la raccomandazione che Paolo rivolge ai cristiani “Rivestitevi di Cristo”: è un rivestimento battesimale; Paolo ribadisce ancora una volta il valore di quella immersione battesimale che ci coinvolge nella radicale intimità della comunione di vita col Dio vivente, così come si è rivelato a noi col suo Figlio, Gesù Cristo e con la potenza dello Spirito Santo. Questo rivestimento battesimale (“Quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo”, Lettera ai Galati) qui assume la forma di una predisposizione al combattimento. E insiste Paolo: “per poter resistere alle insidie del diavolo”. Resistere si può tradurre “per stare in piedi”: è un conflitto nel quale si riporta vittoria restando in piedi in rapporto all’avversario che viene individuato nel diavolo, il divisore. Già si parlava di questo diavolo nel cap. 4, v. 27; l’avversario che è insidioso, petulante, micidiale, invadente nelle sue insidie, tanto è vero che in greco Paolo usa l’espressione “gli interventi metodici del diavolo”; il diavolo ha una sua metodologia. L’avversario non è estemporaneo, occasionale, un interlocutore che ogni tanto si sveglia, scatena la sua aggressione e poi, latente, si assopisce: è un’avversità metodologica. Per fronteggiare l’avversario che è sistematicamente incalzante nella sua aggressività bisogna stare in piedi. E Paolo insiste: “La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne (non è un combattimento comparabile ai criteri correnti nei quali si intendono conflitti, aggressioni, scontri, contrapposizioni, schieramenti che urtano uno contro l’altro), ma (e qui elenca quattro tipologie che servono a raffigurare in maniera più precisa quell’avversario che è stato citato in maniera generica, il diavolo) contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti”. Quattro espressioni che proviamo a passare in rassegna in modo da renderci meglio conto. Non è la prima volta che Paolo usa questo linguaggio; già nel capitolo primo leggevamo quel suo incoraggiamento a restare radicati nell’appartenenza alla signoria di Cristo e non essere preda di quelle situazioni ambigue che rischiano sempre di compromettere l’autenticità della vita cristiana; e qui ci parla del diavolo sotto queste quattro forme descrittive. E’ sempre il medesimo avversario, ma assume una fisionomia cangiante a seconda dei casi e val la pena di notare che dove, nel v. 12, leggiamo “la battaglia”, lui usa un termine greco che indica una rissa, un conflitto corpo a corpo, una colluttazione, un tipo di conflitto che non possiamo rinviare alle grandi scenografie degli schieramenti tra crociati e infedeli, ma è una colluttazione continua, che ci riguarda in ogni ambiente, in ogni luogo, che ci assilla nella dimensione visibile e invisibile del nostro vissuto, che incrocia i nostri passi anche nelle strade più nascoste e solitarie che stiamo percorrendo. Paolo dice: “il nostro avversario con sistematica puntualità, con precisione micidiale continua a tallonarci, a stringerci ai fianchi, a batterci proprio sul viso, dovunque ci volgiamo e comunque pensiamo di poterci districare o di avere raggiunto una posizione di sicurezza”.
I “Principati” sono qualcosa che potremmo definire come i principi di riferimento; per fare un esempio banale, tanto per intenderci, la salute, la malattia o la carriera. Principi di riferimento in base ai quali si interpreta il senso della vita e principi di riferimento in base ai quali la vita si trova intrappolata dentro al meccanismo insidioso che il diavolo a modo suo gestisce: lo stato sociale. Il benessere, il successo sono principi di riferimento che assumono il volto di quell’avversario che ci stringe, ci risucchia, ci svuota, ci imprigiona, ci intrappola, si impossessa di noi. E allora non è più la signoria di Cristo il riferimento determinante, vitale per noi. Le “potestà” sono strutture di dominio, come potrebbero essere, per fare esempi un po’ banali, un diploma scolastico, un diploma universitario o professionale, la cittadinanza, vincoli di parentela, la lingua, la casa in cui abitiamo, il vestito che indossiamo. Quando parla di “potestà” parla di quello che avviene continuamente nella rissa domestica, nella rissa stradale, nella rissa sociale, di quello che avviene quotidianamente nella nostra strada, la strada della vita. Il nostro nemico non è “carne e sangue” ma principati, potestà e “dominatori di questo mondo di tenebre”: io tradurrei “i registi delle ombre o il gioco delle ombre”, con la regia che è competenza di chi si abitua a questo certo sistema e al momento opportuno ne approfitta. Pensate alle mode, giochi d’ombra, quel certo modo di illuminare e corrispondentemente oscurare la realtà in modo tale che appaia e scompaia quello che corrisponde all’intenzione di un regista che gioca con le ombre. La cosiddetta opinione pubblica è un gioco dove la scena si illumina o si oscura a seconda di come si muovono i fari, i riflettori e a seconda di come si provocano certi riflessi, certi giochi, certe allusioni: giochi d’ombra. Tanti sistemi che interferiscono con le nostre relazioni sociali o con l’organizzazione della vita sociale e anche della vita religiosa; interferiscono nel senso che gettano ombre nel discernimento a cui le coscienze sono chiamate. La questione si fa sempre più delicata: come le coscienze sono illuminate od oscurate, sono soccorse nel discernimento o disturbate, danneggiate, offese con argomentazioni che possono essere più o meno brillanti, geniali, persuasive, rigorose, intransigenti in alcuni casi o in altri casi sdolcinature abbastanza melense: giochi d’ombra. E le nostre relazioni sociali sono intrappolate dentro meccanismi che ci ripropongono costantemente l’urgenza della rissa, della colluttazione. E insiste, quarta tipologia: “gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti”; io tradurrei “la spiritualità della cattiveria”, che è il massimo; quelle forze spirituali – chiamiamole pure così – che in realtà si appoggiano sulla cattiveria, solleticano la cattiveria: una spiritualità che promuove la cattiveria. Spiritualità in senso ampio, ma, per fare un altro esempio, la “sicurezza” che diventa un valore assoluto, sacro, divino. E sicurezza allora cosa significa? Respingimenti, fili elettrici sul balcone per mandare all’altro mondo qualche gatto. Oppure il diritto alla vacanza. Cosa vuol dire? Lo spirito si deve ricreare. Quale spirito? L’ambiguità giunge a compromettere, inquinare, deturpare, abbruttire anche i dati che di per sé potrebbero essere considerati come espressioni sane e estremamente positive della nostra condizione umana. Pensate all’eredità, un istituto che ha un suo valore pressoché sacro nel nostro modo di appartenere alla discendenza umana, alla storia di una famiglia, e a come un’eredità diventa l’incentivo più dirompente che esaspera il crogiolo delle cattiverie. Come è possibile? Lì c’è l’avversario. Tutta la cosiddetta pastorale delle nostre chiese è interpellata: tante volte avviene che di fatto la nostra predicazione promuove una spiritualità della cattiveria. Notate bene che mentre Paolo dice queste cose non vuole farci lo sgambetto e dire “siamo veramente ripiombati in una situazione infernale”, ma dice “c’è l’armatura di Dio”, non perché dobbiamo diventare crociati contro gli infedeli, ma perché nella rissa che ci spinge, ci stritola, maciulla quotidianamente noi siamo “rivestiti”, non siamo abbandonati a noi stessi, siamo immersi nella comunione con il mistero; altrimenti saremmo già risucchiati in un inferno di cui eravamo prigionieri e da cui siamo stati liberati. Ci saremmo ricaduti dentro e non potremmo fare altro che ricaderci dentro, ma da quell’inferno siamo stati tirati fuori. Paolo ci vuole aiutare a renderci conto di come è vero che ci ha tirati fuori, che veramente noi veniamo dall’inferno. “Prendete perciò l’armatura di Dio (v. 13), perché possiate resistere nel giorno malvagio”. I giorni sono difficili, Salmo 49, v. 6, giorni aspri, duri, ma senza stare adesso ad imprecare perché i tempi sono cattivi perché non è che lo sono indipendentemente da noi, sono i nostri tempi. Ma in questi tempi noi siamo dotati dell’armatura di Dio per resistere, “e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove” che comunque non ci saranno risparmiate. C’è l’armatura di Dio per noi; siamo veramente rivestiti, tirati fuori, consolidati, confermati, radicati nell’appartenenza alla signoria di Cristo e non possiamo dimenticarcene e scendere a compromessi. “State dunque ben fermi” (per la terza volta Paolo usa quello stesso verbo). E adesso ci dà una sommaria descrizione di questa “panoplia”, di questa armatura. Rimarca più volte la fierezza della resistenza nell’atto di restare in piedi e poi, sommariamente, cita i pezzi dell’armatura. Anche qui abbiamo a che fare con diverse citazioni dell’Antico Testamento, quelle scritte in corsivo, (ce n’è una in particolare su cui poi tornerò, nel libro di Isaia). “Cinti i fianchi con la verità”: il primo pezzo dell’armatura è la cintura; Paolo mette la cintura in rapporto alla verità, la verità non in senso concettuale ma nel senso della solidità, della stabilità. Notate bene che questa solidità è un pezzo dell’armatura di Dio ed è esattamente quell’armatura che adesso noi rivestiamo. Noi siamo in grado di affrontare il combattimento ed è un combattimento in cui già siamo vincitori perché siamo rivestiti: una coerenza, una fedeltà, una stabilità, una pazienza nella posizione che ci è stata conferita, quella posizione che ci ha, per l’appunto, collocati nella comunione con il mistero a noi rivelato.
Il secondo pezzo dell’armatura è la “corazza della giustizia”: la corazza è il pettorale ed è messo in rapporto alla giustizia. Il pettorale serve per sostenere l’impatto. La giustizia, nel linguaggio biblico, è la capacità di sostenere il peso altrui e qui il pettorale è esattamente, nella nostra vita cristiana, la capacità di sopportare l’urto con il peso altrui e di sopportare il peso altrui. Ancora una volta non c’è da pensare a chissà quale avanzata strepitosa, ma là dove si è radicati in una posizione di paziente fedeltà, ci si trova abilitati a sopportare il peso delle situazioni. Terzo pezzo: “e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace”; questa è la citazione di un famoso poema nel libro di Isaia, cap. 52: “Come sono belli sui monti

i piedi del messaggero di lieti annunzi
che annunzia la pace,
messaggero di bene che annunzia la salvezza,

che dice a Sion: «Regna il tuo Dio»”. Le calzature sono considerate non tanto in se stesse, ma perché servono a rendere agile il movimento dei piedi anzi a favorire la corsa della evangelizzazione. Il terzo pezzo dell’armatura in rapporto alla continuità, coerenza, coraggio nella trasmissione dell’evangelo, accolto e proclamato: la corsa, dove ancora una volta tutto si volge nel senso di un consumarsi della nostra vita al servizio dell’evangelo in una positività assoluta, dove non si tratta di eliminare l’avversario, si tratta di evangelizzare.
Quarto pezzo: “Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno”. Lo scudo, uno strumento difensivo, che viene messo in rapporto alla fede come esercizio di libertà, è in grado di spegnere tutti i dardi infuocati del maligno. Lo scudo sta nella fede e sta nell’esercizio della libertà che esorcizza tutte le asprezze anche le più aggressive, incisive, trafiggenti con cui l’avversario riesce a scatenarsi. Quinto elemento: “prendete anche l’elmo della salvezza”. L’elmo serve a coprire il capo che è la componente più preziosa del corpo umano; quindi l’elmo ci rimanda a ciò che è veramente il valore per eccellenza di tutto questo combattimento: l’elmo della salvezza. Questa colluttazione continua nella quale siamo impegnati non perde mai di vista che il valore per eccellenza, il valore supremo, quello decisivo a cui bisogna rivolgersi sta in quell’opera di salvezza che riguarda, nell’intenzione di Dio, la storia umana. Sesto pezzo: “la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio”. La spada, come altre volte leggiamo nell’Antico Testamento, è la parola di Dio, ascoltata, consegnata, trasmessa, testimoniata; e la Parola è inseparabile dal soffio dello Spirito, è la Parola nel soffio dello Spirito, è la Parola non soltanto proclamata come rumore dalla bocca, ma sostenuta, interpretata, motivata, riempita di significato dal soffio dello Spirito: questa è la spada. Qui conviene, tra tutti i testi dell’Antico Testamento, ricordarne uno che leggiamo nel libro di Isaia, cap.11: uno dei grandi oracoli messianici. “Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse,

un virgulto germoglierà dalle sue radici.
Su di lui si poserà lo spirito del Signore, (è uno degli oracoli dell’Emmanuele, il Messia: è in lui che lo Spirito sarà deposto in tutta la sua potenza carismatica)
spirito di sapienza e di intelligenza,
spirito di consiglio e di fortezza,
spirito di conoscenza e di timore del Signore”. E’ l’Emmanuele, questa figura messianica che, impregnata di tutte le qualità carismatiche, “giudicherà con giustizia i miseri
e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese.
La sua parola sarà una verga che percuoterà il violento;
con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio.
Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia,
cintura dei suoi fianchi la fedeltà”. Paolo sta citando Isaia. Rivestire quell’armatura fa veramente tutt’uno con quello che Paolo ci diceva precedentemente: rivestirsi di Cristo, nella comunione con il Figlio, morto e risorto; il Figlio, protagonista dell’impresa redentiva, il Figlio che ha portato a compimento l’opera della salvezza.

Affidati allo Spirito nella preghiera
Questa colluttazione quotidiana ci riguarda, e in questa colluttazione quotidiana siamo già testimoni di quella vittoria che è stata realizzata perché la misericordia di Dio si è riversata su di noi; quella vittoria che adesso in noi trova il riscontro della nostra risposta, della nostra benedizione, della nostra offerta, di quella offerta che diventa (guarda caso, qui dal v. 18 a seguire) la nostra preghiera. Preghiera in un senso pieno, non solo nel senso di qualche formula recitata, di cui pure c’è bisogno, ma nel senso del nostro costante, intenso, affettuoso, puntuale affidamento allo Spirito, quel soffio che era stato segnalato nel v. 17, in rapporto alla Parola, la spada. “Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito”. Vedete come siamo in continuità. E questa esortazione alla preghiera non è un’esortazione che si aggiunge alla precedente ma un’esortazione che prolunga la precedente. Siamo esortati al combattimento, siamo esortati alla preghiera: è il combattimento che si sviluppa, per una sua intrinseca necessità, nella preghiera, ma la preghiera in quanto è esattamente la ricapitolazione e la completezza del nostro combattimento, il nostro affidamento allo Spirito. Nel soffio noi, ormai, siamo in comunione con la signoria di Cristo che ha vinto; nel soffio, nell’affidamento, là dove siamo spossessati, espropriati, sradicati, svestiti per essere rivestiti. Allora la preghiera non si aggiunge, è la ricapitolazione completa, matura, esauriente di quel combattimento, di quella rissa. “Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche (non sta a precisare quale preghiera, se di lode, di supplica, di intercessione) nello Spirito”, questo è il punto. E’ come dire in comunione con l’Emmanuele: su di lui lo Spirito è stato effuso, Spirito di sapienza, di consiglio, di conoscenza, ecc. Si tratta di vivere nel soffio.
Siamo alle ultime battute della Lettera e Paolo ci investe non solo con la sua parola ma col suo soffio; non per nulla ha appena accennato a quella parola di Dio che noi ascoltiamo e testimoniamo in quanto siamo attraversati dal soffio dello Spirito. “Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi (notate come qui, insieme a questo affidamento al soffio dello Spirito, che è espressione matura per eccellenza nella vita cristiana rivestita dell’armatura di Dio, Paolo ci tiene a sottolineare questa larghezza dell’orizzonte nel quale proprio la preghiera ci introduce; la preghiera che man mano viene maturando, si viene esplicitando, diventa la nostra stessa interiore aspirazione al soffio, il nostro modo di essere docili e disponibili all’attraversamento di quel soffio che è lo Spirito; ebbene, la preghiera ci pone sulla scena del mondo e la prospettiva di una intercessione universale, dove imparare a vivere nella rissa significa, paradossalmente, non programmare l’eliminazione di qualcuno, ma significa imparare a respirare al ritmo di quel soffio di Dio che è effuso nell’universo), e anche per me, perché quando apro la bocca mi sia data una parola franca, per far conoscere il mistero del vangelo, del quale sono ambasciatore in catene, e io possa annunziarlo con franchezza come è mio dovere”. Paolo qui parla ancora una volta di se stesso e della sua condizione di carcerato. E parla di sé presentandosi a noi a bocca aperta perchè attraverso questa bocca aperta circoli la parola di Dio; che questa bocca aperta sia adeguata all’Evangelo, alla evangelizzazione. E questo avviene quando la voce è modulata dal soffio, quando la voce è gestita, strutturata, educata, sostenuta, moderata, abitata dal soffio. E Paolo dice: “pregate per me” perché tra voi e me circola il soffio dello Spirito di Dio. E per questa circolazione non ci sono impedimenti, limiti di spazio, limiti di tempo (tanto è vero che noi leggiamo questa lettera duemila anni dopo); la stessa precisione del linguaggio diventa secondaria in questo caso (niente affatto inutile, tanto è vero che noi facciamo una bella fatica per cercare di precisare anche i contenuti linguistici) perché quel che conta è questa circolazione del soffio. La nostra vita, rivestiti dall’armatura di Dio, ci proietta sulla scena del mondo come depositari di una Parola che raggiunge ogni interlocutore nel suo vissuto, nella pesantezza del suo dramma, nell’intimo del cuore; lo raggiunge in quanto è il soffio che circola in noi, quello stesso soffio che, nella sua pienezza, è stato effuso sull’Emmanuele, di cui è impregnato Cristo. E noi siamo crismati del suo unguento, profumati del suo profumo, attraversati dal soffio di cui Lui vive nella sua vittoria, ormai glorioso e definitivo. “Anche se io sono in catene – lo dice espressamente – sono un ambasciatore, un evangelizzatore; evangelizzo in catene”. “Pregate per me perché io possa evangelizzare con franchezza, come è mio dovere”: sta in piedi, rivestito dell’armatura di Dio.

Saluto finale
“Desidero che voi sappiate come sto e ciò che faccio; di tutto vi informerà Tìchico (è il latore della lettera destinata a circolare fra le chiese), fratello carissimo e fedele ministro nel Signore. Ve lo mando proprio allo scopo di farvi conoscere mie notizie e per confortare i vostri cuori”. Notate bene come Paolo ha appena accennato alla sua condizione di carcerato: “in questo mio carcere – probabilmente a Cesarea – sono evangelizzatore. Tichico è inviato a voi come ambasciatore”. Là dove lo Spirito di Dio ha impregnato l’Emmanuele e noi apparteniamo alla Signoria di Cristo, di Lui che è l’Unto, il profumato, là dove noi siamo alle prese con la lotta quotidiana (che per Paolo vuol dire trovarsi in un carcere con un procedimento giudiziario a suo carico), tra di noi la comunicazione è libera, è aperta all’accoglienza più serena e costruttiva.
“Pace ai fratelli, e carità e fede da parte di Dio Padre e del Signore Gesù Cristo. La grazia sia con tutti quelli che amano il Signore nostro Gesù Cristo, con amore incorruttibile”. Tra me e voi la signoria di Cristo, questa comunione indissolubile, incorruttibile (dice Paolo); non c’è incidente, avversità, caduta o smarrimento, debolezza che possa rimuovere o addirittura escludere o cancellare quella novità per cui tra me e voi circola l’unico soffio del Dio vivente in virtù del quale siamo in grado di accoglierci vicendevolmente e affidarci gli uni agli altri perché apparteniamo alla signoria di Cristo.

Publié dans:Lettera agli Efesini |on 19 août, 2013 |Pas de commentaires »
123456...9

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01