Archive pour juin, 2013

COME «GUADAGNARE CRISTO» NELLA VISIONE PAOLINA – SE PENSATE DI ESSERE ARRIVATI CONTINUATE A CORRERE (pdf)

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COME «GUADAGNARE CRISTO» NELLA VISIONE PAOLINA

SE PENSATE DI ESSERE ARRIVATI CONTINUATE A CORRERE

di Carlo Ghidelli

« Guadagnare Cristo »: anche questa espressione, come quella di « imparare Cristo » – che abbiamo recentemente analizzato in queste pagine – presenta qualche stranezza. In genere si dice di guadagnare qualcosa, o anche guadagnare un traguardo, ma non una persona. Se prestiamo attenzione al verbo greco katalambàno possiamo forse riconoscere in esso una nota di aggressività, quasi di prepotenza. Tant’è che alcuni traducono: « Continuo la mia corsa per tentare di afferrare il premio, perché anch’io sono stato afferrato da Cristo Gesù » (Filippesi, 3, 12). Ad essere sincero devo dire che non mi dispiace affatto questa interpretazione del verbo scelto da Paolo, per il semplice motivo che vi riconosco qualcosa della sua psicologia: la violenza che egli ha sfogato contro i cristiani e contro Cristo prima della sua conversione ora Paolo la mette a servizio della verità. Non è forse vero che anche Gesù ebbe a dire: « Dai giorni di Giovanni il Battista il regno dei cieli soffre violenza
e i violenti se ne impadroniscono » (Matteo, 11, 12)? È ovvio che qui Paolo allude al grande evento della sua conversione sulla via di Damasco, allorquando egli ha subito violenza da parte di Cristo e ha dovuto dichiararsi vinto dalla potenza di Dio. Sappiamo che da quell’evento dipende tutta la vita, tutta la teologia, tutta la spiritualità di Paolo. Da esso pertanto dipende anche la sua pedagogia, sia nei contenuti sia nel metodo.
Per valutare esattamente il punto di arrivo di questo sorprendente cammino di conversione Paolo ci invita anzitutto a considerare quello che egli chiama « il guadagno di ieri ». Ascoltiamo la sua testimonianza: « Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto io
reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura ». Dunque Paolo riconosce di essere caduto in un tremendo errore; si rende conto di aver sposato una causa sbagliata. Ora egli, illuminato da quella stessa luce che in
un primo momento lo aveva accecato, confessa candidamente che quello era un falso guadagno, anzi un guadagno dannoso, alludendo ovviamente ad ogni privilegio di nascita e di educazione, ad ogni sforzo religioso e morale. Ogni volta che Paolo si scaglia contro quelli che stigmatizza come « i nemici della croce di
Cristo » (Filippesi, 3, 18), lo fa sempre e solo per affermare questo tratto – solo apparentemente negativo – del suo metodo pedagogico, senza del quale ogni sforzo umano genererebbe illusione e sconforto. Non si può non vedere in questa « rilettura » o « revisione di vita » il frutto della grazia sanante, quella che si sprigiona dall’evento della passione e morte di Gesù; ma possiamo anche riconoscere l’azione della grazia illuminante che può venire solo dall’evento della risurrezione di Cristo, dalla persona di Cristo risorto. Interpellati come siamo oggi dagli immani problemi annessi al compito educativo non guasta affatto richiamare quello che Paolo ha compreso a partire dalla sua esperienza personale: l’essere stato violentemente scaraventato da cavallo a terra è solo un
pallido segno della vittoria pasquale che Gesù ha riportato su di lui. Il giudizio di Paolo sul suo passato è estremamente lucido: Cristo Signore lo ha portato a formulare una nuova scala di valori, sovvertendo quella che
precedentemente aveva caratterizzato la sua vita: ciò che sembrava guadagno ora è diventato perdita, quello che sembrava ricchezza ora è diventato spazzatura, quello che sembrava giusto ora è diventato ingiusto. Ovviamente questo sovvertimento di valori ha influito decisamente anche sul metodo pedagogico di Paolo, che si fa coraggio a chiedere agli altri ciò che Cristo ha chiesto a lui: una conoscenza di Gesù non generica ma esperienziale, a seguito di un incontro non fortuito ma provvidenziale. Dentro questo orizzonte interpretativo possiamo far convergere e comprendere tutte le indicazioni pratiche che costellano la pedagogia paolina.
Ma quello che più conta è definire « il guadagno di oggi », quello che ora a Paolo preme salvaguardare ad ogni costo. Lo afferma con estrema chiarezza: « al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo ». Rileviamo: « guadagnare
Cristo » ed « essere trovato il lui »: un verbo attivo e l’altro passivo, certamente per indicare sia l’azione dell’amore preveniente e incondizionato di Dio, sia la corrispondenza dell’uomo. « Conoscere Cristo », « guadagnare Cristo », « essere trovato in Cristo » vuol dire essere introdotto negli eventi passati la cui presenza rimane attiva anche oggi. Solo a partire da questa certezza si può dare vita ad un progetto educativo serio e valido, capace cioè di produrre ciò per cui è ipotizzato e realizzato. Il richiamo al passato giudaico dell’apostolo offre l’occasione per una definizione delle due giustizie: una che deriva dalla legge e genera nell’uomo un senso di autosufficienza e di superbia dinanzi a Dio; e l’altra che è dono di Dio « per la fede
di Cristo ». Come interpretare questo genitivo « di Cristo »? È importante saperlo non solo per un motivo di retta interpretazione del pensiero di Paolo e quindi per una ragione teologica, ma anche per definire meglio il suo metodo pedagogico. Sono almeno tre i significati possibili: si può intendere la fede in Cristo Gesù
(genitivo oggettivo): in questo caso Gesù è l’oggetto della fede. Ma può voler dire anche che la fede ha Gesù Cristo come sua origine (genitivo di origine): Gesù allora è inteso come la sorgente della nostra fede; egli ci dà il credere. Infine si può pensare a un genitivo soggettivo: allora la fede è un atteggiamento di Gesù verso il 3
Padre suo, una fede totale, nel senso che Gesù si affida a lui, gli obbedisce filialmente: con questa fede Gesù ci rende giusti dinanzi al Padre suo e nostro. Per questa sua fede Gesù può essere considerato come il modello della nostra fede. Non è affatto difficile vedere l’incidenza di questi tre significati sul metodo pedagogico
di Paolo e la loro ricaduta sul cammino di conversione e di piena adesione di ogni credente a Cristo, oggetto, causa e modello della nostra fede. All’esperienza di Paolo possiamo certamente accostare anche la nostra. Tutti siamo sollecitati dalla parola di Dio ad entrare in questo dinamismo della fede che salva: essa è anzitutto dono che scaturisce dal cuore di Dio e dal costato di Cristo. Ma la fede è anche riconoscimento dell’opera salvifica operata da Dio mediante la totale e incondizionata obbedienza di Cristo alla volontà del Padre. Infine la fede è atto umano libero e consapevole con il quale ogni uomo si lascia attrarre dall’amore di Dio che si è manifestato a noi pienamente in Cristo Gesù. Nessun educatore potrà mai prescindere da questi dati incontrovertibili, pena la totale inefficacia del suo metodo pedagogico. Infine Paolo indica a chiare lettere « il guadagno di domani »: quale sarà questo guadagno? Ascoltiamo ancora le parole di Paolo: « Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo ». Paolo è cosciente di essere stato oggetto della grazia divina, ma sa anche che questo non deve diventare un pretesto per evitare ogni sforzo. E se lui, Paolo, non ha ancora raggiunto la mèta, neppure i cristiani di Filippi devono illudersi (e neppure noi!);
perciò Paolo invita loro e noi a camminare in avanti come lui. La maturità cristiana – è sempre un pensiero di Paolo (3, 15-16) – non consiste affatto nella definitiva acquisizione di una presunta perfezione, ma nell’essere fedeli alla parola data, nel perseverare nella corsa intrapresa. Il passaggio che qui Paolo opera va dal « già » al « non-ancora »: Paolo è già proprietà di Cristo perché Cristo si è impadronito di lui sulla via di Damasco, ma non può ancora dire di aver realizzato in pienezza la vocazione alla quale è stato chiamato. Paolo sta già correndo verso la mèta, ma non può ancora dire di essere arrivato al traguardo. Paolo vive già la vita nuova in Cristo, ma non può ancora dire di viverla nella pienezza di luce che lo renderà perfettamente somigliante al Figlio di Dio (vedi anche Colossesi, 3, 3-4 e 1 Giovanni, 3, 1-2). Questa tensione vitale è nota caratteristica di ogni cammino di fede: con essa devono misurarsi tutti coloro che di Cristo vogliono essere non solo discepoli ma anche testimoni. Con maggior precisione Paolo si augura di poter approfondire la sua personale « conoscenza di Gesù e la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti ». Ricordiamo che il termine « forma » (morphè) non va preso come una semplice metafora; esso sta ad indicare qualcosa di più di una apparenza: è la figura visibile che manifesta una realtà invisibile. Nel nostro caso aolo vuol dire che alla morte di Cristo il credente partecipa realmente (altre traduzioni sono « divenuto della stessa forma della morte di lui » oppure « per diventare simile a lui nella sua morte »). Si direbbe che un cristiano, per poter dire di essere tale fino in fondo, per poter dire di essersi formato alla scuola di Gesù, deve riprodurre in se stesso le fattezze di Cristo crocifisso, addirittura deve assomigliare a Gesù morto. Ricordiamo che quando Paolo si presenta ai cristiani di Corinto avanza un’unica pretesa: « Avevo infatti deciso di non insegnarvi altro che Cristo e Cristo crocifisso ».  E per non predicare a vuoto aggiunge: « Mi presentai a voi debole, pieno di timore e di preoccupazione » (1 Corinzi, 2, 2-3). Ancora una volta dobbiamo rilevare che Paolo, da ottimo pedagogo quale è, propone agli altri ciò che prima ha sperimentato su se stesso. Ogni educatore sa di non potersi sottrarre a questa regola
che lo vincola fino al dono totale di se stesso. Una sintesi stupenda di tutto questo itinerario Paolo la offre al termine di questa sua testimonianza: « Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto
so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere in Cristo Gesù » (3, 13-14). Passato, presente e futuro per Paolo costituiscono solo tre tappe di un unico itinerario che, nel piano di Dio, ha una sua profonda unità.

(©L’Osservatore Romano – 27 luglio 2008)
F:\Rivista (settembre 2008)1 – Anno Paolino.doc

MATERIALITÀ E SIMBOLOGIA BIBLICA DELL’ACQUA – di GIANFRANCO RAVASI – L’Osservatore Romano 2 settembre 2011

http://www.enzocaruso.net/site/materialita-e-simbologia-biblica-dellelemento-vitale-per-eccellenza-g-ravasi/

MATERIALITÀ E SIMBOLOGIA BIBLICA DELL’ACQUA

di GIANFRANCO RAVASI – L’Osservatore Romano 2 settembre 2011

È questa la stagione nella quale riusciamo a comprendere in pienezza il valore di quella tetrade aggettivale che san Francesco ha dedicato nel suo Cantico a “sor’acqua”: “utile et humile et pretiosa et casta”. Tanti sono i profili che questa realtà presenta, soprattutto a livello sociale, come vediamo ininterrottamente nelle “lotte per l’acqua”, nelle tragedie legate alla siccità, nelle stesse politiche: si pensi, per stare vicino a noi, anche alla recente vicenda del referendum che l’aveva proprio per tema.
Si tratta, infatti, di una realtà veramente “utile et pretiosa”, principio della nostra composizione organica e della stessa sopravvivenza. Noi ora ci accontenteremo di lasciare spazio alla Bibbia che ci parlerà non solo della “materialità” dell’acqua ma anche e soprattutto della sua “simbolicità”. … Un panorama assolato, una steppa arida, un’oasi verdeggiante incastonata in una valle, una pista che si dipana negli spazi solitari, qualche raro albero e cespuglio: può sembrare uno stereotipo paesaggistico orientale, ma è effettivamente questo l’habitat prevalente dell’uomo della Bibbia ed è così che l’acqua costituisce, ieri e oggi, il cardine dei desideri e delle contese, l’archetipo dei simboli e delle idee del nomade e del sedentario.
La parola majim, “acqua”, risuona oltre 580 volte nell’Antico Testamento, come l’equivalente greco hydor ritorna un’ottantina di volte nel Nuovo (metà di queste occorrenze sono nel solo Vangelo di Giovanni); circa 1.500 versetti dell’Antico e oltre 430 del Nuovo Testamento sono “intrisi” d’acqua, perché oltre ai vocaboli citati c’è una vera e propria costellazione di realtà che ruotano attorno a questo elemento così prezioso, a partire dal pericoloso jam, il “mare”, o dal più domestico Giordano, passando attraverso le piogge (con nomi ebraici diversi, se autunnali, invernali o primaverili), le sorgenti, i fiumi, i torrenti, i canali, i pozzi, le cisterne, i serbatoi celesti, il diluvio, l’oceano e così via. Per non parlare poi dei verbi legati all’acqua come bere, abbeverare, aver sete, dissetare, versare, immergere (il “battezzare” nel greco neotestamentario), lavare, purificare…. Un filo d’acqua scorre idealmente attraverso le pagine delle Sacre Scritture, testimoniando una sete ancestrale, legata a coordinate geografiche ed ecologiche segnate dall’aridità.
Non per nulla la Bibbia si apre con la creazione della luce e dell’acqua (Genesi, 1, 3-10) e con le piogge e la canalizzazione delle sorgenti (Genesi, 2, 4-6) e si chiude con “unfiume d’acqua viva limpida come cristallo che scaturisce dal trono di Dio e dell’Agnello” (Apocalisse, 22, 1). E in mezzo c’è sempre l’ansiosa ricerca dell’acqua e la sete. Basti solo pensare a Israele nel deserto e al suo grido: “Dateci acqua da bere!” (Esodo, 17, 2), o alla siccità vista come una maledizione celeste pronunziata dal profeta in nome di Dio: “Per la vita del Signore, Dio d’Israele, alla cui presenza io sto – minaccia Elia – non ci sarà né rugiada né pioggia se non quando lo dirò io” (1 Re, 17, 1).
Geremia ci ha lasciato uno dei più vivaci e drammatici ritratti di questa piaga endemica del Vicino Oriente: “I ricchi mandano i loro servi in cerca d’acqua; essi si recano ai pozzi ma non la trovano e tornano coi recipienti vuoti. Sono delusi e confusi e si coprono il capo. Per il terreno screpolato, perché non cade pioggia nel paese, gli agricoltori sono delusi e confusi. La cerva partorisce nei campi e abbandona il parto perché non c’è erba. Gli onagri si fermano sulle alture e aspirano l’aria come sciacalli; i loro occhi languiscono perché non si trovano erbaggi” (14, 3-6)…. È per questo che, quando s’affacciano le nubi e cade la pioggia, si è convinti di ricevere una benedizione divina, come si legge nel Deuteronomio: “Il Signore apre per te il suo benefico tesoro, il cielo, per dare alla tua terra la pioggia a suo tempo e per benedire tutto il lavoro delle tue mani” (28, 12).
Tuttavia il Creatore, che è Padre di tutti, si preoccupa di ogni sua creatura prescindendo dal merito, come dirà Gesù: “Il Padre vostro celeste fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Matteo, 5, 45). E quando arriva la primavera con le sue piogge, il Salmista – in un dipinto poetico di straordinaria fragranza (65, 10-14) – immagina che il Signore passi col suo carro delle acque “dissetando la terra, gonfiando i fiumi, irrigando i solchi, amalgamando le zolle, bagnando il terreno con la pioggia: al suo passaggio stilla l’abbondanza, stillano i pascoli del deserto (…) e tutto canta e grida di gioia”.
L’uomo dà il suo contributo con le canalizzazioni e la tecnica idraulica: basti solo visitare nella fortezza di Meghiddo in Galilea l’imponente acquedotto o seguire la galleria (di 540 metri) scavata nell’VIII secolo prima dell’era cristiana, dal re Ezechia per portare l’acqua dalla sorgente di Ghicon fino alla riserva di Siloe a Gerusalemme (una lapide, conservata ora al museo archeologico di Istanbul evoca il momento emozionante della caduta dell’ultimo diaframma e dell’incontro delle due squadre di operai che da lati opposti avevano condotto lo scavo)…. Proprio perché è al centro della esistenza fisica, l’acqua diventa un simbolo dei valori assoluti, della vita anche nella sua dimensione spirituale, della stessa trascendenza.
Melville in quel particolare “romanzo d’acqua” che è Moby Dick scriveva: “Perché gli antichi Persiani consideravano sacro il mare? Perché i Greci gli assegnarono un dio a sé, fratello di Giove? Certo tutto questo non è senza significato. E ancora più profondo è il senso della favola di Narciso che, non potendo afferrare la tormentosa, dolce immagine che vedeva nella fonte, vi si immerse e annegò. Ma quella stessa immagine anche noi la vediamo in tutti i fiumi e oceani. È l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita, e questa è la chiave di tutto”. La stessa chiave è, dunque, adottata anche nella Bibbia e secondo uno spettro molto variegato di significati, non solo positivi. Pensiamo solo al segno del diluvio come atto giudiziario divino compiuto attraverso l’acqua e allo stesso esodo nel mar Rosso che si chiude come un sepolcro di morte sugli Egiziani oppressori o al citato jam, il “mare”, che meriterebbe una trattazione a sé stante, essendo per Israele il simbolo del caos, del nulla e persino del male: per questo Cristo cammina sulle onde e fa piombare i porci, animali impuri, nel mare e riesce a sostenere su quelle acque anche il discepolo impaurito, Pietro (Matteo, 14, 24-31)….
L’acqua è, però, prima di tutto e sopra tutto segno di vita e di trascendenza. Noi ora ci accontenteremo di mettere quasi in fila, in una sorta di elenco, alcuni dei tanti valori metaforici che le acque acquistano: esse, infatti, nella Bibbia non sono mai dolcemente contemplate come “chiare fresche dolci acque” alla maniera petrarchesca, ma sono celebrate come rimandi a realtà nascoste più alte. Così, l’acqua è per eccellenza simbolo di Dio, sorgente di vita. Basti solo evocare l’indimenticabile comparazione geremiana: “Essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne screpolate che non tengono l’acqua” (2, 13). L’acqua è segno della Parola divina senza la quale si soffoca e si è aridi: “Verranno giorni – dice il Signore – in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane né sete d’acqua, ma di ascoltare la parola del Signore… Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca” (Amos, 8, 11 e Isaia, 55, 10-11)….
L’acqua è simbolo della sapienza divina effusa in Israele: “Essa trabocca come il Tigri nella stagione dei frutti nuovi, fa dilagare l’intelligenza come l’Eufrate e come il Giordano nei giorni della mietitura, espande la dottrina come il Nilo, come il Ghicon nei giorni della vendemmia (…) Io sono come un canale derivante da un fiume e come un corso d’acqua sono uscita verso un giardino. Ho detto: Innaffierò il mio giardino e irrigherò la mia aiuola! Ed ecco il mio canale è divenuto un fiume e il mio fiume un mare” (Siracide, 24, 23-25.28-29).
L’acqua annunzia l’era messianica e la rinascita dell’umanità: “Scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa; la terra bruciata diventerà una palude e il suolo riarso si muterà in sorgenti d’acqua” (Isaia, 35, 6-7). Anzi, l’acqua diventa l’emblema di Cristo, come si intuisce nel celebre dialogo con la Samaritana: “Chi beve dell’acqua che io gli darò non avrà più sete, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna” (Giovanni, 4, 14). È per questo che l’evangelista testimonia con insistenza che dal costato del Cristo crocifisso “uscì sangue e acqua” (19, 34). E come si intuisce nelle parole destinate alla donna di Samaria, l’acqua diventa anche il segno della vita nuova del credente nel quale è effuso lo Spirito di Dio. Gesù, durante la festa ebraica delle Capanne (che comprendeva proprio un rituale con l’acqua di Siloe), aveva esclamato: “Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno. Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui” (Giovanni, 7, 7-39).
L’acqua, allora, è immagine della vita nuova del fedele che con essa si purifica il cuore del male (“Lavami da tutte le mie colpe”, Salmi, 51, 4), secondo quel rito lustrale che è presente in quasi tutte le culture religiose. Essa rappresenta, così, anche la rigenerazione interiore, destinata a dare frutti di giustizia: “Il giusto sarà come albero piantato lungo corsi d’acqua; darà frutti a suo tempo e le sue foglie non cadranno mai” (Salmi, 1, 3).
Ma l’acqua rimane soprattutto il simbolo supremo di quel Dio di cui l’uomo ha sempre sete ed è questa la costante preghiera di tutti coloro che cercano Dio con cuore sincero: “Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia (letteralmente “la mia gola”) ha sete di Dio, del Dio vivente (…) O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua…” (Salmi, 42, 2-3; 63, 2).

Risurrezione del figlio della vedova di Naim

Risurrezione del figlio della vedova di Naim dans immagini sacre widow-of-nain-waterford

http://allpeopleschristianchurch.org/blog/

Publié dans:immagini sacre |on 7 juin, 2013 |Pas de commentaires »

DIO MI SCELSE FIN DAL SENO DI MIA MADRE E MI CHIAMÒ CON LA SUA GRAZIA

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/26567.html

OMELIA

EREMO SAN BIAGIO

COMMENTO SU GALATI 1,15

DIO MI SCELSE FIN DAL SENO DI MIA MADRE E MI CHIAMÒ CON LA SUA GRAZIA
GAL 1,15

COME VIVERE QUESTA PAROLA?

« Mi scelse fin dal seno materno »! Un’espressione che fa pensare. Oggi si è propensi a pensare al feto come a qualcosa di irrilevante tanto che lo si può manipolare, si può decidere se farlo andare avanti o eliminarlo. E qui, Paolo ci dice che su di esso Dio ha già un progetto d’amore: lo ha scelto! Certo, Paolo sta parlando di se stesso e in relazione alla particolare vocazione di cui prenderà coscienza sulla via di Damasco. Ed io, tu, ogni uomo non può dire la stessa cosa di se stesso?
Ogni essere che si affaccia alla vita non vi approda per caso: Dio lo ha desiderato, Dio lo ha chiamato. Apriamo la Genesi e troviamo: « Dio disse… e fu ». Un giorno Dio ha pronunciato il mio nome ed io ho iniziato ad esistere. Anch’io sono stato desiderato, chiamato con la sua grazia. Anche su di me egli ha intessuto un sogno stupendo, di cui forse non ho ancora preso pienamente coscienza. È così per tutti!
In questa scelta è la mia grandezza: voluto da Dio e non comparso per caso!
In questa chiamata il segreto della mia realizzazione: ho un posto, un compito da svolgere nel mondo che mi rende collaboratore di Dio e mi fa porre accanto ai fratelli con un ruolo ben preciso. Nessuno può dire: io sono inutile!
E questo vale per ogni uomo, anche per il piccolo che sta formandosi nel grembo materno e ancora non sa nulla della sua grandezza, anche per il vecchio che ne ha perso il ricordo…
Voglio sostare, quest’oggi, in contemplazione di questo dono stupendo che è la vita. Chiederò poi al Signore di farmi comprendere e approfondire la chiamata con cui mi ha raggiunto e continua a raggiungermi ogni giorno, per potervi rispondere con prontezza e gioia.
Mio Dio, quanto sei grande e quanto meravigliose sono le tue opere! Contemplo in me e intorno a me il miracolo della vita e percepisco l’eco della tua voce che mi chiama a rendermene responsabile, a collaborare con te e con i fratelli, svolgendo il compito che mi affidi, perché essa fiorisca in pienezza.

La voce di un lebbroso
Sento che la vita – questo breve momento per il quale nacqui, questo spazio aperto sull’infinito, in cui sono germogliato e che ora devo gestire – è un miracolo grande
Lino Villachà

9 GIUGNO 2013 – OMELIA DI APPROFONDIMENTO: GESÙ È LA MANIFESTAZIONE DELLA BONTÀ E DELLA MISERICORDIA DI DIO

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/12-13/05-Ordinario/Omelie/10-Domenica-2013-C/10-Domenica-2013_C-MM.html

9 GIUGNO 2013 | 10A DOMENICA – TEMPO ORDINARIO C  |  OMELIA DI APPROFONDIMENTO

GESÙ È LA MANIFESTAZIONE DELLA BONTÀ E DELLA MISERICORDIA DI DIO.

La liturgia di questa domenica ci presenta due episodi molto simili tra di loro: nella 1a lettura, il profeta Elia ridona la vita al figlio della vedova di Zarepta di Sidone, quella che, in tempo di carestia, gli aveva preparato il pane con l’ultimo pugno di farina e l’ultimo goccio di olio, che non si esaurirono più; nel Vangelo è Gesù stesso che, alla periferia della cittadina di Naim, risuscita il figlio unico di una madre vedova.
I due episodi però, anche se simili, si differenziano profondamente. Nel primo, la vedova di Zarepta considera la morte del figlio come un castigo di Dio per i suoi peccati, e si rivolge al profeta con le parole « Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia iniquità e per uccidermi il figlio »? Ma quando la preghiera di Elia fa tornare in vita il ragazzo, la donna riconosce che Dio non castiga con la morte, ma attraverso i suoi profeti compie prodigi e la sua parola è parola di vita.
Nell’episodio del Vangelo riportato da san Luca, non è la madre che invoca per il figlio, ma è Gesù stesso che interviene, commosso dalle sue lacrime; le dice: « Non piangere! » e le ridona il figlio.
« Vedendola, il Signore ne ebbe compassione… » Il vero grande miracolo è la compassione di Gesù, il suo fermarsi davanti alle lacrime di una madre alla quale la morte ha strappato il figlio unico!
L’umanità di Gesù è il segno tangibile dell’amore di Dio Padre che egli viene a rivelare a noi uomini. « Chi vede me vede il Padre »! l’umanità di Gesù è il luogo in cui Dio incontra concretamente l’uomo.
Questo « Dio con noi » è un Dio che si è fatto come uno di noi, perché noi potessimo essere con Lui e come Lui, segno della sua bontà e della sua misericordia.
Il Vangelo ci riporta molti episodi che rivelano la bontà e la sensibilità di Gesù:
Gesù si commuove profondamente, si turba e scoppia in pianto davanti alla tomba dell’amico Lazzaro, tanto che la gente osserva « Vedi come lo amava! »;
si lascia vincere dalla compassione di fronte alla folla che lo segue « come gregge senza pastore » e compie lo spettacolare miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci!
gradisce di essere attorniato dai bambini, nonostante le proteste degli Apostoli: « lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite… e li abbraccia »!
durante la traversata del lago in tempesta, si addormenta sulla barca, perché è sfinito, dopo aver predicato tutto il giorno!
non sa resistere alle lacrime della vedova di Naim e le restituisce il figlio, senza neppure che la donna abbia bisogno di chiederglielo;
crede nell’amicizia anche di fronte al tradimento di Giuda, e lo saluta: « Amico, con un bacio tradisci il figlio dell’uomo? »
crede nelle possibilità di bene che ci sono anche nell’uomo peccatore e lo rende apostolo del suo amore, come ha saputo trasformare Saulo da persecutore in San Paolo apostolo. (2a lettura)
L’umanità, la bontà, la misericordia di Gesù ci interpella profondamente! Oggi, nel mondo freddo, distratto, indifferente in cui viviamo, c’è un bisogno drammatico di supplemento di cuore! La vita del cristiano deve assicurare proprio questo supplemento di cuore, attraverso la misericordia, la bontà che sono l’espressione più evidente del cuore di Gesù.
Misericordia vuol dire prendersi a cuore la miseria, impossessarsi della sofferenza degli altri, essere complici del dolore del fratello, farsi carico delle sue lacrime, della sua disperazione.
Il sofferente, il vecchio, il povero, il malato, lo sbandato, hanno bisogno di avere accanto a sé un cristiano ricco di umanità, dotato di sensibilità, di attenzione, un cristiano che fa sentire loro che Dio non è lontano, insensibile, ma che si occupa di loro, che vuole loro bene!

Maria, la Madre della bontà e della misericordia, ci aiuti ad essere questo tipo di cristiano per ogni nostro fratello e per ogni nostra sorella, sull’esempio tanto luminoso che ci viene anche da Papa Francesco.

 D. Mario MORRA sdb

Paolo tessitore, A. Platone , Disegno realizzato da Amelia Platone (1927) e custodito ad Asti nella Chiesa di S. Paolo.

Paolo tessitore, A. Platone , Disegno realizzato da Amelia Platone (1927) e custodito ad Asti nella Chiesa di S. Paolo. dans IMMAGINI (DI SAN PAOLO, DEI VIAGGI, ALTRE SUL TEMA) p-0107

http://www.paoline.it/showGallery.aspx?cs=15

 

LA FEDE DI FRONTE AL TRIBUNALE DELLA RAGIONE (Paolo ad Atene)

http://it.arautos.org/view/viewPrinter/27009-la-fede-di-fronte-al-tribunale-della-ragione

LA FEDE DI FRONTE AL TRIBUNALE DELLA RAGIONE    (Paolo ad Atene)

PUBBLICATO 2011/06/13

AUTORE: THIAGO DE OLIVEIRA GERALDO

Pur facendo parte della pianura dell’Attica, con il suo terreno roccioso e poco fertile, Atene vide nascere nel suo seno insigni pensatori i cui nomi cotinuano a risuonare nella cultura da più di duemila e cinquecento anni
Per compiere l’incarico di annunciare il Vangelo di Gesù Cristo in tutto il mondo, i primi cristiani avevano bisogno di adattarsi alla cultura deiloro ascoltatori. L’Apostolo delle Genti lo realizzò in forma mirabilein un suo discorso nell’Areopago di Atene.
Thiago de Oliveira Geraldo

Pur facendo parte della pianura dell’Attica, con il suo terreno roccioso e poco fertile, Atene vide nascere nel suo seno insigni pensatori i cui nomi cotinuano a risuonare nella cultura da più di duemila e cinquecento anni. Vi fiorirono, nel V e IV secolo a.C., tre figure di spicco della Filosofia: Socrate, Platone e Aristotele, l’ultimo dei quali ha ricevuto da parte di studiosi insigni elogi come questo: « Più che ‘il maestro di coloro che sanno’, come lo reputava Dante, Aristotele meritava di essere chiamato l’ispiratore di coloro che disputano, in tutti i campi del sapere, dell’azione, della produzione ».1 O anche come quest’altro, di cui potrebbe vantarsi il più prestigioso degli intellettuali di oggi: « Pochi uomini hanno fondato una scienza; a parte Aristotele, nessuno ne fondò altre ».2
« PIÙ FACILE TROVARE UN DIO CHE UN ESSERE UMANO »
Per secoli, si affrontavano in Atene esponenti di diverse scuole di pensiero nei campi del sapere, della morale, della politica. In questa città, affacciata sul Mar Egeo, c’era anche, come in tutta la Grecia antica, un confronto tra le credenze politeistiche e il rigore del pensiero puramente umano, che portava ad interminabili discussioni circa le divinità e l’origine del mondo. « Ad Atene è più facile trovare un dio che un essere umano »3, ironizzava Petronio, scrittore romano del primo secolo. Nel secolo seguente lo scrittore greco Pausania così qualificava gli ateniesi: « essi sono anche più pietosi degli altri popoli ».4
In questo contesto di agguerrite dispute culturali e religiose, si immagini quale dovesse essere lo spirito di fede e la capacità intellettuale di un cristiano per annunciare in modo convincente la Buona Novella nella metropoli delle scienze, a pensatori di diverse scuole filosofiche, dotati di acuto senso critico e abili nelle schermaglie della dialettica.
Wikipedia, Victor Toniolo, Gustavo Kralj

Nei secoli V e IV a.C. fiorirono, ad Atene, tre figure di spicco della Filosofia: Socrate,
Platone e Aristotele
  »Socrate » – Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo, « Platone » – Musei Capitolini, Roma,
« Aristotele »- Museo Nazionale Romano – Palazzo Altemps
Questa missione la Provvidenza Divina la affidò all’Apostolo delle Genti, « l’uomo che Dio chiamò e inviò ad intraprendere la diffusione universale del Cristianesimo ».5

Dispute quotidiane con giudei e greci
Uomo di forte tempra, abituato ai sacrifici e alle difficoltà, San Paolo predicava con coraggio il Vangelo di Gesù Cristo in tutti i luoghi in cui lo portava il suo zelo apostolico. La sua audacia missionaria non si attenuò, quando si vide costretto a rimanere alcuni giorni ad Atene in attesa di Sila e Timoteo, per proseguire insieme il viaggio fino a Corinto.
Anche se si trovava lì di passaggio, come rimanere in quella città senza evangelizzare? Impossibile per uno che disse di se stesso: « Non è infatti per me un vanto predicare il Vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo! » (I Cor 9,16).
Quanto all’ambiente che San Paolo incontrò nella capitale della cultura, scrive un autorevole esegeta: « La città in quel tempo non era politicamente importante, anche commercialmente era molto decaduta, ma continuava ad essere ‘la pupilla della Grecia’ (Filon), ‘la fiaccola di tutta la Grecia’ (Cicerone). Come sede delle grandi scuole filosofiche e culla della più raffinata cultura greca, si distingueva sulle altre città dell’Impero Romano ed esercitava un’irresistibile forza di attrazione su quanti aspiravano ad acquisire scienza e cultura, specialmente sulla gioventù della nobiltà romana ».6
Tuttavia, la prima reazione dell’Apostolo quando venne a contatto con la realtà ateniese fu di avversione: « Mentre aspettava Sila e Timoteo, ad Atene, Paolo restò disgustato nel vedere quella città consegnata all’ idolatria » (At 17, 16). La sua indignazione, frutto della fede, accresceva in lui il desiderio di cogliere l’occasione per annunciare Gesù Cristo crocifisso a quegli adoratori di idoli. E San Paolo sapeva adattarsi al pubblico che lo ascoltava.
Ricardo Castelo Branco
Nelle missioni realizzate poco prima in varie città, predicò nelle sinagoghe ai giudei, rivelandosi un esimio conoscitore delle Scritture e dimostrando, sulla base di queste, che era stato necessario che Cristo soffrisse e risorgesse dai morti (cfr. At 17, 3). Ad Atene abitavano anche alcuni giudei, ma l’ardente evangelizzatore capiva perfettamente che lì l’immensa maggioranza dei suoi ascoltatori era costituita da greci, la cui mentalità era molto diversa da quella degli israeliti. Si lanciò subito alla conquista di anime anche in questo campo, poiché come narrano gli Atti degli Apostoli, San Paolo discusse « nella sinagoga con i giudei e proseliti, e tutti i giorni, nella piazza, con quelli che incontrava » (At 17, 17).

Uomini insaziabili di novità
Tra quelli che ascoltarono San Paolo nell’agorà – nome con cui i greci denominavano la piazza principale della città, dove avvenivano le discussioni politiche – c’erano filosofi epicurei e stoici. I primi avevano la fruizione dei piaceri come principale finalità dell’esistenza e, di conseguenza, fuggivano dal dolore quanto potevano; erano materialisti, ma non negavano l’esistenza degli dei, i quali, però, raramente interferivano nella vita degli uomini. Per i secondi, al contrario, l’autosufficienza e l’impassibilità di fronte al dolore erano considerate come grandi virtù.
Ascoltando la predicazione di quello straniero, alcuni filosofi lo canzonavano, chiamandolo spermologòs, ossia, ciarlatano o chiacchierone. Altri gli facevano una delle accuse che cinque secoli prima portarono Socrate a morte in questa stessa città: quella di propagare il culto a dèi stranieri. Infatti San Paolo predicava Gesù e l’Anástasis (Resurrezione), nomi che suonavano per loro come una coppia di divinità. Lo condussero allora all’Areopago, antico tribunale di Atene, nel quale si giudicavano anche questioni religiose e morali. Era questo, oltre che un organo giuridico, un punto di riunione degli ateniesi e forestieri che, in quest’epoca, « non si occupavano di altro se non dire o ascoltare le ultime novità » (At 17, 21).
Questa sete insaziabile di novità facilitava l’operato dell’Apostolo: tutti si mostravano avidi di conoscere quanto quello straniero avrebbe dovuto dire loro. Come avrebbe cominciato il suo discorso davanti a quell’esigente uditorio, costituito dai rappresentanti della più elevata cultura?
Trattandosi di gentili, a nulla sarebbe giovato presentare argomenti tratti dalle Sacre Scritture. « I primi cristiani, per farsi comprendere dai pagani, non potevano citare soltanto ‘Mosè e i profeti’ nei loro discorsi, ma dovevano servirsi anche della conoscenza naturale di Dio e della voce della coscienza morale di ogni uomo »7 – osserva il Beato Giovanni Paolo II.
Gustavo Kralj

Come sede delle grandi scuole filosofiche e culla della più raffinata cultura greca,
Atene esercitava un’irresistibile forza di attrazione su quanti aspiravano
ad acquisire scienza e cultura
« Scuola di Atene », di Raffaello Sanzio – Stanza della Segnatura, Vaticano
Nella città di Tarso, luogo di passaggio per il commercio in Asia, il giovane Saulo certamente non ricevette soltanto la formazione giudaica tradizionale, ma deve aver studiato anche discipline elleniche, come la retorica. Nelle loro scuole, oltre all’alfabetizzazione, gli alunni apprendevano ginnastica e musica.

Proclamazione della Fede con saggezza e sagacia
Era giunto per l’Apostolo dei Gentili il momento di mettere a servizio della Fede quello che aveva appreso dalla stessa cultura greca. « Il vivere in una città ellenica e l’educazione ellenistico-giudaica del giovane Paolo gli conferirono la competenza per poter utilizzare, più tardi, come cristiano, con autonomia e come patrimonio personale, lo spirito e la tradizione dell’ellenismo ».8
Adattò le sue parole al pubblico che aveva davanti a sé e, contenendo l’indignazione che gli aveva causato l’idolatria degli ateniesi, cominciò a tessere loro le lodi della religiosità. Agendo così, commenta il Beato Giovanni Paolo II, rivelò saggezza e sagacia: « L’Apostolo mette in evidenza una verità che la Chiesa ha sempre conservato nel suo tesoro: nel più profondo del cuore dell’uomo è stato seminato il desiderio e la nostalgia di Dio ».9
Intanto, il suo sguardo indagatore aveva catturato un dettaglio che gli servì per introdurre il tema della sua predicazione. « Percorrendo la città e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio! » (At 17, 23). Su questo, lo studioso Schökel commenta: « L’esordio, come entrata nell’argomento, è magistrale. Come un saluto cortese e ambiguo, che si trasforma in critica e sa individuare un valore profondo ».10
La religiosità dei greci era, in quel tempo, orientata sotto una prospettiva fortemente politeista e pagana, essendo la profusione di divinità, da loro venerate, vincolata alle diverse vicissitudini che la vita presenta. Gli ateniesi immaginavano che dietro ad ogni avvenimento ci fosse sempre l’azione di un dio, e temevano che gli capitassero disgrazie a causa di qualche culto omesso o mal realizzato. Di qui il loro impegno nell’erigere altari anche al « dio sconosciuto », come spiega Fillion: « Abituati a vedere in tutto, specialmente nelle circostanze pericolose (guerre, terremoti, malattie, ecc.), la manifestazione della divinità, e sempre temendo di offendere qualche dio sconosciuto, essi ricorrevano a questo mezzo per rendersi propizi tutti gli dèi, grandi e piccoli, dai quali potevano temere un atto di vendetta o sperare un beneficio ».11

Anche noi siamo della stirpe di Dio
Nel seguito del suo discorso, l’Apostolo si scaglia contro l’idolatria: Dio, creatore di quanto esiste, Signore del Cielo e della Terra, « non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo « , e di niente ha bisogno, poiché è lui « che dà a tutti la vita » (cfr. At 17, 24-25). Subito dopo, introduce un argomento incoraggiante: il Dio vivo e vero non è un essere inaccessibile agli uomini; al contrario, Egli ci incita a cercarLo, anche se « a tentoni », perché in realtà Egli « non è lontano da ciascuno di noi » (cfr. At 17, 27).
Alcuni ateniesi lanciavano a San Paolo una delle accuse che cinque secoli prima portarono Socrate a morte in questa stessa città: quella di propagare il culto a dèi stranieri
Con l’obiettivo di aumentare l’effetto delle sue parole di fronte a quegli ascoltatori colti ed eruditi, San Paolo cita un verso del poeta greco Arato (sec. III a.C.) per affermare che « anche noi siamo della stirpe di Dio » (At 17, 29).12 Avvalendosi di quanto detto, l’Apostolo delle Genti mostra agli ateniesi come è poco saggio, per chi è « della stirpe di Dio », adorare immagini scolpite da mani umane.
Entrando nel merito del suo discorso, San Paolo presenta un argomento particolarmente sensibile per chi faceva parte del tribunale dell’Areopago: Dio li invita a pentirsi dell’idolatria, « poiché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia » (At 17, 31). Ma, al contrario di quanto avviene nei tribunali umani, l’ammonimento relativo a questo giudizio divino veniva unito alla speranza di un grande perdono, come osserva un illustre esegeta del XX secolo: « Si tratta di un dono che Dio fa della sua grazia e del suo perdono della vita precedente, trascorsa nel peccato, affinché gli uomini possano superare il giudizio ».13

Il fulcro della predicazione: Cristo è risuscitato
Fino a qui, San Paolo faceva il suo annuncio della Fede in termini principalmente filosofici, ma era giunto il momento di entrare nel fulcro della questione: Cristo risuscitò dai morti. Questa Resurrezione tante volte predicata da lui, come si legge negli ultimi capitoli degli Atti degli Apostoli, forse è ciò che più gli causò accuse e persecuzioni. Così afferma il domenicano Michel Gourgues: « La fede nella Resurrezione di Gesù e la speranza nella resurrezione dei morti si presentano con insistenza come l’oggetto centrale della Fede e della predicazione cristiana e come il principale motivo delle opposizioni e delle accuse contro Paolo ».14
San Paolo diede dappertutto testimonianza della Resurrezione di Cristo in una forma tale che egli ben meritava di esser soprannominato Apostolo della Resurrezione. « L’apparizione di Cristo risuscitato a Paolo vicino a Damasco è un’esperienza di vita chiave per la fede e per l’insegnamento dell’Apostolo ».15 Come avrebbe potuto lui, allora, stare zitto riguardo a questo favoloso avvenimento?
Invece, quando lo udirono parlare di resurrezione dei morti, alcuni dei suoi ascoltatori si beffarono di lui ed altri interruppero il discorso, dicendo ironicamente: « Ti sentiremo su questo un’altra volta » (At 17, 32).
Gustavo Kralj

Così, dunque, i greci che credevano nell’immortalità dell’anima non furono capaci di accettare la resurrezione dei morti, cosa che oltrepassava i limiti della loro ragione, e per questo si presero gioco dell’Apostolo e della sua dottrina. Ma, questi stessi apologisti della sapienza e della logica non riuscivano a capire l’irrazionalità che presupponeva l’adorare dèi fatti di oro, argento, pietra o legno, prodotti dell’arte e dell’immaginazione dell’uomo.

Apparente insuccesso, risultati evidenti

Fu un insuccesso la predicazione di Paolo nell’Areopago?

Apparentemente, sì. Alcuni commentatori, anzi, furono indotti a pensare che la lettera scritta anni dopo alla comunità di Corinto avesse riconosciuto l’insuccesso di questo discorso: « Anch’io, o fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. [...] La mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza » (I Cor 2, 1-2.4a).
In realtà, San Paolo non fece invano questa sua fiera proclamazione di fede nella Resurrezione di Cristo. In primo luogo, il suo esempio serve da prezioso stimolo per quanti sono chiamati ad annunciare il Vangelo negli areopaghi paganizzanti di tutti i tempi e città. Oltre a questo, « alcuni aderirono a lui e divennero credenti, fra questi anche Dionigi membro dell’Areopago, una donna di nome Dàmaris e altri con loro » (At 17, 34).
Degli altri convertiti, poco o nulla si sa. Ma prestiamo attenzione al soprannome di Areopagita, che indica trattarsi di un membro dell’elite intellettuale e giudiziaria della Grecia. Infatti, « questo titolo presuppone che Dionigi fosse un personaggio molto influente, poiché secondo le leggi di Atene, si arrivava a questa elevata posizione solamente dopo aver occupato un altro posto ufficiale importante e raggiunta l’età di sessant’anni ».16
©santiebeati.it

Così San Dionigi Areopagita entrò nella Storia come modello di pensatore convertito, che non ebbe bisogno di rinnegare la sua cultura e scienza per diventare cristiano. Al contrario, le sue notevoli qualità intellettuali e la vastità delle sue conoscenze giuridiche e filosofiche furono messe al servizio della Chiesa e caratterizzarono, senza dubbio, il suo ministero episcopale come primo Vescovo di Atene.

La Fede cristiana autentica non limita la ragione
Lo stesso avviene con qualsiasi popolo o nazione che decida di aprire le sue porte alle benefiche influenze della Chiesa. Insegna, a questo proposito, il Beato Giovanni Paolo II: « L’annuncio del Vangelo nelle diverse culture, esigendo da ognuno dei destinatari l’adesione alla Fede, non gli impedisce di conservre la propria identità culturale ».17
San Paolo si mostrò fedele all’annuncio della Buona Novella, adattandosi alle circostanze concrete che dovette affrontare ad Atene; fedele fu anche Dionigi, ricevendo umilmente la Rivelazione. Infatti, come ci insegna Papa Benedetto XVI, la tendenza moderna di considerare vero solamente lo sperimentale, limita la ragione umana. L’autentica Fede cristiana non impone limiti alla ragione, al contrario, incontrandosi e dialogando, entrambe possono esprimersi meglio. « La fede presuppone la ragione e la perfeziona; la ragione, illuminata dalla fede, trova la forza per elevarsi alla conoscenza di Dio e delle realtà spirituali. La ragione umana non perde nulla aprendosi ai contenuti della fede, d’altronde, essi esigono la sua adesione libera e cosciente ».18

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