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PAOLO “COSMOPOLITA” –

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PAOLO “COSMOPOLITA”

22 GENNAIO 2010

ROMA, venerdì, 22 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il contributo del prof. Paolo Ricca, della Facoltà Teologica Valdese di Roma, contenuto nel “Codex Pauli”, un’opera unica dedicata a Benedetto XVI al termine dell’Anno Paolino.

* * *
Paolo cosmopolita, cioè «cittadino del mondo»? Proprio lui che scriveva ai cristiani di Filippi: «La nostra cittadinanza [altri traduce: «la nostra patria»] è nei cieli, da dove aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo» (Fil 3,20) – proprio lui avrebbe dovuto sentirsi e considerarsi «cittadino del mondo», di questo mondo che passa (1Cor 7,31), riconoscendo tutto il mondo come la sua patria? Paolo cosmopolita? Poteva esserlo davvero quel Saulo/Paolo che descriveva se stesso così: «Io, circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo quanto alla legge…» – poteva davvero questo ebreo purosangue, questo fariseo di stretta osservanza, così consapevole di sé e del suo rango all’interno del popolo eletto, essere al tempo stesso cosmopolita, cioè appartenere a più culture e farsi di volta in volta, oltre che ebreo con gli ebrei, anche greco con i greci e romano con i romani? Sì, per quanto strano possa sembrare, poteva esserlo e lo è stato. Lo è stato in due sensi: per formazione e per vocazione.

Cosmopolita per formazione
Già la città in cui nacque e crebbe, Tarso in Cilicia, lo predisponeva in tal senso. Crocevia commerciale di prima grandezza, importante centro politico (sede del governatore romano da quando, nel 66 a.C., la Cilicia divenne provincia dell’impero), città con antiche e nobili tradizioni culturali (erano conosciute le sue scuole di filosofia stoica), Tarso riuniva in sé ellenismo e romanità, e l’ebreo Paolo familiarizzò con entrambe fin dall’infanzia, integrandole nella sua robusta formazione teologica farisaica. In Paolo dunque coesistono tre mondi: quello ebraico, quello greco e quello romano. Paolo è un ebreo della Diaspora, e il suo ebraismo è abbastanza diverso, su più questioni, da quello palestinese. Era un ebraismo che parlava greco ed era aperto al mondo circostante, disposto all’ascolto e al dialogo, in particolare con certe correnti filosofiche e religiose, con le quali non mancarono contaminazioni di varia natura. Paolo era figlio di questo ebraismo. Anch’egli era poliglotta fin da bambino, e ogni poliglotta appartiene a diverse culture: il greco sembra essergli stato così familiare da diventare quasi una seconda lingua materna, accanto all’aramaico.
Ma con la lingua è la cultura greca che lo ha fortemente segnato. Tutte le sue lettere sono scritte in greco (compresa quella «ai Romani»!), e quando cita (per lo più a memoria) la Torah, come spesso accade, non la cita dal testo ebraico, ma da quello greco della traduzione dei Settanta, che evidentemente è quella sulla quale si è formato religiosamente. Leggendo le sue lettere sono molti gli indizi che rivelano quanto Paolo abbia assimilato elementi della cultura ellenistica, come ad esempio1 le regole dello stile epistolare, modelli di retorica forense (1Cor 1-4), immagini prese a prestito dal mondo sportivo greco (1Cor 9,24-27), conoscenza del linguaggio delle religioni di mistero (Rm 6,1-14), vari echi della morale stoica (Fil 4,8), idee come quella della Chiesa «corpo di Cristo» inspiegabile senza il ricorso alla filosofia greca (1Cor 12,12-26), dalla quale peraltro Paolo sa anche prendere polemicamente le distanze (1Cor 1,17-25).
Per quanto infine concerne la cultura romana, si deve pensare anzitutto alla rivendicazione da parte di Paolo (così come lo descrive Luca) della sua identità di cittadino romano (At 22,25-29), della quale non c’è ragione di dubitare, anche se Paolo stesso non ne parla mai nelle sue lettere. C’è poi il passo fondamentale di Romani 13,1-7 che, comunque lo si interpreti, dà un giudizio nettamente positivo sulla funzione delle autorità costituite, che concretamente erano quelle dell’impero romano. Paolo le chiama «diaconi di Dio» (v. 4) e «ministri di Dio» (v. 6). Sembra che nel momento in cui scrisse la Lettera ai Romani egli giudicasse favorevolmente la pax romana, in quanto utile all’annuncio e alla diffusione dell’Evangelo. Il fatto poi che Paolo si sia appellato a Cesare (At 25,11) rivela la sua fiducia, non necessariamente ingenua, nel sistema giudiziario romano. Insomma: Roma non è una nemica e offre all’Apostolo un quadro politico-amministrativo nel quale egli si sente e si muove a suo agio. In questo senso, il suo cosmopolitismo combacia sostanzialmente con l’oikoumene romana (Lc 2,1).

Cosmopolita per vocazione
La radice profonda del cosmopolitismo di Paolo ha però a che fare, oltre che con la sua formazione, con la sua vocazione a evangelizzare i popoli pagani. Dio, scrive Paolo, «si compiacque di rivelare in me il suo Figlio perché lo annunciassi fra i pagani» (Gal 1,16). E questo fu fin dall’inizio l’accordo con gli altri apostoli riuniti a Gerusalemme: Paolo sarebbe stato missionario fra i pagani, e gli altri fra gli ebrei (Gal 2,7-9). E così è stato. Ma essere apostolo dei pagani significava esserlo del mondo intero, ed è così che Paolo ha inteso e vissuto il suo ministero. Questo spiega perché è stato perennemente in viaggio e perché s’è fermato così poco nelle comunità da lui fondate: doveva andare oltre, perciò le ha curate, sì, ma a distanza, mediante le sue lettere. Nel breve arco di tempo prima del ritorno del Signore, doveva far conoscere il suo nome «fino alle estremità della terra» (At 1,8), portando l’Evangelo «là dove Cristo non fosse già stato nominato» (Romani 15,20). Il cosmopolitismo di Paolo è dunque «l’orizzonte mondiale» della sua missione2. C’è un versetto che illustra perfettamente questo orizzonte: «… a motivo della grazia che mi è stata fatta da Dio, di essere ministro di Gesù Cristo presso i pagani, esercitando il sacro servizio dell’Evangelo di Dio, affinché i pagani divengano un’offerta che, santificata dallo Spirito Santo, sia gradita a Dio» (Rm 15,16). Paolo utilizza qui un linguaggio cultuale e si paragona a un sacerdote dell’Antico Patto, ma per un servizio completamente diverso: il servizio sacerdotale ora non consiste più nel sacrificio di una vittima, ma nella predicazione dell’Evangelo, e l’offerta a Dio non è più quella di uno o più animali, ma è l’offerta dei popoli pagani convertiti a Cristo e santificati dallo Spirito. Proprio perché tutti i popoli vengano a conoscenza della loro salvezza in Cristo, Paolo, com’è noto, progettava di recarsi, dopo Roma, in Spagna (Rm 15,23.28), spingendosi così fino all’estremo confine occidentale del mondo allora conosciuto.
Ma il cosmopolitismo missionario di Paolo, a sua volta, affonda le sue radici in quello che possiamo chiamare il cosmopolitismo di Dio, descritto così bene dall’Apostolo stesso: «Dio ha rinchiuso tutti [ebrei e pagani] nella disubbidienza, per far misericordia a tutti» (Rm 11,32). Il cosmopolitismo missionario di Paolo, concludendo, non è altro che il cosmopolitismo della grazia.

Prof. Paolo Ricca

Facoltà Teologica Valdese di Roma

San Barnaba

San Barnaba dans immagini sacre saints6-7a

http://www.catholictradition.org/Saints/barnabas.htm

 

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SAN BARNABA – 11 giugno

http://www.30giorni.it/articoli_supplemento_id_17047_l1.htm

SAN BARNABA – 11 giugno

Barnaba è il soprannome di Giuseppe, giudeo levita nato a Cipro. Eusebio di Cesarea e, prima, Clemente Alessandrino ci dicono che fu uno dei settantadue discepoli di Gesù. Fu il garante della conversione di Paolo presso i cristiani di Gerusalemme, che ancora diffidavano di lui. Fu con Paolo nel suo primo viaggio missionario, che da Cipro toccò varie città dell’Asia Minore, accompagnato nella prima parte dell’itinerario dal cugino Giovanni, cioè Marco, il futuro evangelista, che a un certo punto ritornò indietro. Verso il 51, alla vigilia della partenza per un secondo viaggio missionario per visitare le comunità fondate nel primo, Paolo e Barnaba entrarono in contrasto, perché, mentre Barnaba avrebbe voluto portare con sé anche Marco, Paolo si oppose, vista l’esperienza del viaggio precedente. «Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro; Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro» (At 15, 39). Tertulliano attribuisce a Barnaba la Lettera agli Ebrei, ipotesi che ha trovato qualche riscontro negli studi moderni. Dal momento del suo ritorno a Cipro notizie certe su di lui vengono a mancare, e occorre affidarsi agli Atti di Barnaba, opera del V secolo, che narrano con toni leggendari il suo apostolato a Cipro e il suo martirio a Salamina (a nord di Famagosta), a opera di giudei siriani, che lo avrebbero lapidato e poi bruciato. Nonostante il contesto della narrazione, gli storici sono propensi a ritenerne fondati i dati essenziali, cioè la predicazione e il martirio. Gli Atti di Barnaba riferiscono ancora che, al tempo dell’imperatore bizantino Zenone (474-491), Barnaba sarebbe apparso nel sonno all’arcivescovo Anthemios indicandogli il luogo dove scavare per ritrovare l’ipogeo che conteneva la sua sepoltura in un sarcofago, cosa che l’arcivescovo fece, ritrovando il corpo di Barnaba che aveva ancora sul petto il Vangelo di Matteo, scritto di sua mano. La tomba di Barnaba si mostra tuttora a Salamina ed è visitabile: vi si accede dall’interno di un oratorio che vi fu costruito sopra, ora abbandonato, a 150 metri circa dal monastero a lui intitolato. Si tratta di una tomba del periodo romano, scavata nel sottosuolo, di forma irregolare, dentro la quale si trovano due arcosoli e il sarcofago dove un tempo era il corpo del santo. Questo fu trasportato, sempre secondo la tradizione, da Anthemios nel luogo dove tuttora è deposto, cioè nell’abside della navata sud della basilica che l’arcivescovo stesso costruì poco lontano dalla tomba e che dedicò a Barnaba, mentre il Vangelo venne donato all’imperatore Zenone, che concesse l’autocefalia alla Chiesa di Cipro. Il luogo divenne da allora un’importante meta di pellegrinaggio e attorno alla basilica si sviluppò molto presto un monastero. Attualmente, a causa della situazione politica dell’isola (il monastero ricade nella parte occupata dall’esercito turco), i monaci sono stati allontanati e il complesso è stato trasformato in museo di icone.
Esiste in Occidente la tradizione di Barnaba primo evangelizzatore dell’Italia settentrionale, in particolare della città di Milano, dove nella chiesa di Santa Maria del Paradiso si mostra ancora (lì trasportata dalla distrutta chiesa di San Dionigi) la pietra forata nella quale egli avrebbe piantato la croce al suo arrivo nell’anno 51. La critica storica ha dimostrato come infondata questa tradizione. Parallelamente, esiste anche una tradizione della presenza a Milano del capo di Barnaba, conservato in un’urna d’argento nella chiesa di San Francesco (l’antica Basilica Naboriana) fino all’anno della sua distruzione, nel 1799, quindi trasportato nella Basilica di Sant’Ambrogio, non più visibile perché murato in un altare insieme alle reliquie dei santi Nabore e Felice. Un cranio attribuito a Barnaba sarebbe anche presso la parrocchiale di Endenna in Val Brembana.

«MUSICA SANTA» PER LA LITURGIA (anche Paolo) – L’OSSERVATORE ROMANO, 4 GENNAIO 2004,

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/cultr/documents/rc_pc_cultr_20040315_doc_i-2004-stu_en.html#4

«MUSICA SANTA» PER LA LITURGIA (anche Paolo)

MONOGRAFIA PUBBLICATA SU
L’OSSERVATORE ROMANO, 4 GENNAIO 2004, P. 8.

MONS. GIUSEPPE LIBERTO
MAESTRO DIRETTORE DELLA CAPPELLA MUSICALE PONTIFICIA

Siamo ancora in molti a custodire il ricordo degli anni straordinari del Concilio Vaticano II. Lo ricordiamo come evento profetico che si è impresso nella memoria e, più ancora, nella coscienza di tutta la Chiesa. Si è trattato di un’opera dello Spirito Santo o, per usare un’espressione cara a papa Giovanni XXIII e poi ripresa da Paolo VI, di una «nuova Pentecoste». I contenuti dottrinali dei documenti promulgati sono divenuti patrimonio fondamentale per la Chiesa protesa verso il terzo millennio.
Corpo e sposa di Cristo, la Chiesa, vivificata dalla presenza del suo Sposo e Signore e dall’effusione del suo Spirito, è proiettata, oltre la storia, nella sua indole escatologica. Custode e serva della Parola di Dio, la Chiesa la celebra. Custode e serva dell’opera di salvezza di Cristo, la Chiesa la vive nella sua dimensione sacramentale.
A distanza di quarant’anni dalla promulgazione della costituzione Sacrosanctum Concilium, ci accorgiamo che essa – assieme alla Lumen Gentium, alla Dei Verbum e alla Gaudium et Spes – ha fatto crescere il senso della comunità e ha liberato il culto sacramentale da ogni privatismo, rendendolo più luminoso e più accessibile. La riforma liturgica del Concilio è una realtà in atto, che occorre recepire vitalmente, promuovere coraggiosamente, attuare profeticamente.
In questa prospettiva, appare assai opportuno – stimolati dal centenario del Motu proprio «Tra le sollecitudini» di san Pio X (1903) e dal sapiente Chirografo con il quale il Santo Padre ha voluto accompagnare la ricorrenza – interrogarci, alla luce del progetto conciliare, sul cammino che la musica per la liturgia ha compiuto lungo il secolo appena concluso e che ancora è chiamata a compiere in futuro.
Non c’è dubbio che, dopo secoli di immobilismo rituale e di cristallizzazione di forme musicali, in quest’ultimo quarantennio abbiamo assistito al manifestarsi di mutamenti profondi e di nuovi fermenti, che hanno cercato di rispondere a cambiamenti ecclesiali ed extraecclesiali, sociali e culturali. Come accade in ogni epoca di passaggio, ciò ha provocato squilibri notevoli, confusioni inevitabili, perplessità reali sulla delicata interrelazione tra vetera et nova, ma, allo stesso tempo, tanti segni di vita nuova e di speranza.

Il primato della preghiera liturgica
Alla chiusura del primo periodo dei lavori conciliari, il 18 dicembre 1962, Giovanni XXIII affermò: «Non a caso si è cominciato discutendo lo schema sulla liturgia, trattando della relazione tra l’uomo e Dio». E Paolo VI, alla promulgazione della Sacrosanctum Concilium, l’anno successivo, metteva in mano alla Chiesa questo documento con parole altrettanto profetiche: «Il tema trattato prima d’ogni altro, l’argomento a suo modo più importante d’ogni altro, per la sua natura e per la dignità che ha nella Chiesa, la santa liturgia… il nostro animo ne esulta di profondo gaudio, così facendo abbiamo confermato la giusta gerarchia delle cose e dei doveri, con ciò abbiamo professato che il primo posto è di Dio e che il nostro primo dovere è la preghiera a Dio; la liturgia è la prima fonte di quel divino scambio per cui ci è comunicata la vita stessa di Dio, la prima scuola del nostro animo, il primo dono al popolo cristiano… il primo invito all’umanità che sciolga la sua lingua reciprocamente con noi» (4 dicembre 1963).
La Sacrosanctum Concilium supera definitivamente la concezione estetico-formale della liturgia, che era andata affermandosi nella Chiesa soprattutto negli ultimi due secoli, e insieme anche la sua visione giuridica, in base alla quale la liturgia era considerata come sacra funzione, come cerimonia, come spettacolo, discorso esterno al culto divino. Essa recupera la concezione della liturgia radicata nella Rivelazione e nella genuina tradizione ecclesiale. Ha messo quindi in evidenza la visione:
– cristologico-ecclesiale: la liturgia come attuazione del mistero pasquale di Cristo nella Chiesa e attraverso la Chiesa;
– sacramentale-salvifica: la liturgia come complesso di segni sensibili ed efficaci per la glorificazione di Dio e la salvezza dell’uomo;
– antropologico-simbolica: la liturgia come luogo in cui si attuano i segni di Dio per l’uomo e i segni dell’uomo verso Dio. E non di un uomo astratto, ma dell’uomo che vive qui e oggi ed è chiamato a entrare nel progetto salvifico di Dio Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo (cfr Paolo VI, Omelia nella IX Sessione del Concilio, EV, 456-458).
E’ la stessa concezione della Chiesa dei primi secoli, quella Chiesa uscita dal cuore della Pentecoste e documentata soprattutto negli scritti dei Padri della Chiesa.
Nello stesso discorso del 4 dicembre 1963, Paolo VI auspicava che la riforma liturgica potesse essere un evento di rinnovamento spirituale e pastorale e un invito e stimolo al popolo cristiano «perché sciolga in preghiera beata e verace la muta sua lingua e senta l’ineffabile potenza rigeneratrice di cantare… le lodi divine e le speranze umane, per Cristo Signore e nello Spirito Santo».
La musica per la liturgia scaturisce dall’esperienza orante della Chiesa nel momento in cui il popolo santo di Dio celebra il Mistero. Canto e musica per la liturgia si pongono nella vita della Chiesa come esperienza di preghiera e di quel tipo specifico di preghiera, quella liturgica. Solo in questa prospettiva si possono comprendere sia la dimensione estetica sia il valore cultuale della musica per la liturgia.
Per Sacrosanctum Concilium, il punto di partenza non è mai la «musica sacra» vista in se stessa, ma il mistero celebrato dalla Chiesa come evento di salvezza proclamato e perciò cantato. L’arte musicale raggiunge la sua verità se esprime di fatto l’autenticità di quanto si celebra e favorisce la partecipazione di chi celebra. Canto e musica danno vita al ritus – ossia i gesti celebrativi – e alle preces – i testi rituali – in vista di una operatività ministeriale: il munus ministeriale è uno dei capisaldi dell’arte per la liturgia in genere e della musica in particolare (cfr SC 112).
Già Pio X, nel ricordato Motu proprio, parlava della musica come «umile ancella» della liturgia. Pio XI, nella Costituzione Apostolica Divini cultus sanctitatem del 1928, la definisce «serva nobilissima». Pio XII, nell’Istruzione Musicae Sacrae Disciplina del 1955, arriva a chiamarla sacrae liturgiae quasi administra, già prefigurando la nobilitazione ministeriale del Concilio Vaticano II che parla di munus ministeriale in dominico servitio (n. 112). Ma da Pio X alla Sacrosanctum Concilium c’è tutto un crescendo istruttivo che esalta progressivamente l’esplosione del tema in tutta la sua «sinfonicità».
Canto e musica sono realtà vive, e non un repertorio codificato da eseguire passivamente e autonomamente. Sono elementi simbolici di realtà essenziali e non puro ornamento esteriore di una gestualità coreografica. Canto e musica sono «incarnazione» della Parola rivelata o delle parole sostanziate dalla parola di Dio, del dialogo salvifico, e non ingredienti vagamente mistico-estetici di un culto religioso qualsiasi. Non sono privilegio o possesso di alcune competenze musicali specifiche, non sono solo diletto estetico di chi li fruisce, ma esperienza orante fatta dalla Chiesa che celebra il mistero pasquale di Cristo.
Il munus ministeriale della musica per la liturgia si concretizza in un molteplice servizio:
– alla Parola di Dio: il segno sonoro diventa segno liturgico se si propone di comunicare e di fatto comunica i contenuti della Parola celebrata. Paolo VI afferma che «il culto del Signore, le sante parole che velano, in qualche modo, le tremende e affascinanti realtà soprannaturali, devono essere rivestite di forme musicali perfette, quanto è possibile ad ogni creatura umana»: penetrando l’arcano significato del testo santo, la musica lo esprime e lo esalta, lo potenzia e lo innalza.
– ai Riti: «La Chiesa non esclude dalle azioni liturgiche nessun genere di musica sacra, purché corrisponda allo spirito dell’azione liturgica e alla natura delle singole parti e non impedisca una giusta partecipazione dei fedeli» (MS 9). Ogni rito ha un «testo» e un «gesto» caratterizzato da un fine nella trama dell’insieme celebrativo; canto e musica debbono essere espressivi e in funzione del testo e del gesto nel contesto celebrativo.
– ai ministri della celebrazione liturgica: l’ordinamento autentico della Celebrazione Liturgica presuppone anzitutto la debita divisione e l’esecuzione degli uffici (cfr SC 28), e questa partecipazione articolata non deve essere pensata in termini di divisione tra esecutori e pubblico, ma come esercizio ministeriale di comunione e manifestazione della natura gerarchica e comunitaria della Chiesa. I musicisti che prestano il loro servizio per la liturgia compiono un vero e proprio ministero che ha le sue esigenze tecniche ben precise, che sono espressione di impegni spirituali:
–  alla declinazione sonora nell’articolazione celebrativa dell’Anno Liturgico: «la Santa Madre Chiesa considera suo dovere celebrare con sacra memoria, in determinati giorni nel corso dell’anno, l’opera salvifica del suo Sposo divino» (SC 102). Celebrare nel canto l’Anno Liturgico diventa luogo teologico privilegiato nel quale la comunità credente incontra Cristo partecipando al suo Mistero nel canto che renda epifanico l’articolarsi dei vari e diversificati tempi.

Una musica «tanto più santa»
Dal momento che la tradizione musicale della Chiesa costituisce un patrimonio di inestimabile valore, che il canto sacro unito alle parole è parte necessaria e integrante della liturgia solenne, che esso è stato lodato dalla sacra Scrittura, dai Padri della Chiesa e dai Romani Pontefici ed ha un compito ministeriale nel culto divino, ne consegue che «la musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’azione liturgica» (SC 112). Si tratta di compiere quello che è stato chiamato un salto di qualità e che va dal sacro al santo. Rispetto alla vecchia concezione, generica e fuorviante, di musica sacra, è bene distinguere una musica di contenuto genericamente religioso da una musica di destinazione strettamente liturgica. Ecco, allora, l’importanza decisiva di ricorrere a un’espressione corretta e rispondente, ovvero canto e musica per la liturgia.
La santità di cui parla Sacrosanctum Concilium è propria di tutte le vere forme d’arte, come ancora si esprime il documento: «La Chiesa approva e ammette nel culto divino tutte le forme di vera arte dotate della debita qualità» (n. 112). E questo non può esser compreso che a partire dalla realtà del Verbo di Dio incarnato per lo Spirito Santo e celebrato dalla Chiesa e nella Chiesa.
L’identità della musica sacra intesa come santa sta dunque tutta nella sua «sacramentalità», nella dimensione del visibile e del sensibile, in cui il genio, la tecnica e l’esecuzione musicale si configurano come vera e propria rivelazione umana del divino ministero celebrato. Cristo è Immagine che si vede, Parola che si ascolta, Pane che si consuma, all’interno del tessuto ecclesiale.
E’ quello che afferma anche la Sacrosanctum Concilium in due passi decisivi: «Cristo, infatti, è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche» e la Liturgia è «l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo… Perciò, ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione santa per eccellenza» (n. 7). «Nella liturgia, infatti, Dio parla al suo popolo e Cristo annunzia il suo Vangelo; il popolo a sua volta risponde a Dio con il canto e con la preghiera» (n. 33).
Nella musica per la liturgia la bellezza sonora non è l’effetto di un’arte umana che si autocompiace e che perciò si autocelebra, ma è l’eco della gloria divina che si rivela. Il musicista deve prima percepire il ministero, per poi poterlo artisticamente comunicare in forma musicale. Senza queste due realtà, si cade inesorabilmente nell’idolatria: una musica che canta solo di sé, che venera se stessa e non diventa epifania della bellezza-gloria nel mistero celebrato. L’arte musicale per la liturgia non pretende di insegnare all’artista soltanto a svolgere il proprio compito, ma intende proporgli il mistero che è chiamato a comporre musicalmente. In questo modo, essa si attende, attraverso l’opera del musicista già esperto nella propria arte, nuove vibrazioni di armonie per la stessa teologia.
In definitiva, il fine della musica per la liturgia non è tanto quello di produrre e far ascoltate un opus musicale fine a se stesso, quanto quello di presentare in forma sonora il mistero rappresentandolo. Dio canta il suo Verbo e lo dona, l’artista incarna il Verbo e lo canta. Questa è vera arte spirituale per la liturgia: questa è musica «santa» come rivelazione antropo-teologica.

L’insegnamento di san Paolo alle prime comunità
L’apostolo Paolo fa sgorgare il canto spirituale da quel cuore dove si incarna abbondantemente la Parola di Dio: «La parola di Cristo dimori in voi abbondantemente in ogni sapienza, istruendovi e ammonendovi a vicenda con salmi, inni e cantici spirituali in grazia cantando nei vostri cuori a Dio. E tutto ciò che fate in parole o in opere tutto si compia nel nome del Signore Gesù rendendo grazie a Dio Padre per mezzo di lui» (Col 3,16-17). San Paolo inserisce il canto spirituale in un contesto di catechesi tipicamente battesimale e lo fa sgorgare da quel cuore dove «s’incarna la parola di Dio, abbondantemente». Questa parola accolta nella profondità del cuore porta i suoi frutti in tutti i membri della comunità, attraverso l’edificazione reciproca, raggiungendo una sua forma particolare nel canto comunitario.
Ammaestratevi, ammonitevi… cantate, sono conseguenze del fatto che nel cuore del battezzato dimori la parola di Cristo. Quella Parola che – in quanto mistero manifestato – è «Cristo in voi». Là dove la vita dell’uomo vecchio si era espressa nel «mentirsi a vicenda» (3,9), la vita dell’uomo nuovo in Cristo passa attraverso l’istruirsi e l’ammonirsi a vicenda «con salmi, inni e cantici spirituali, in grazia cantando nei vostri cuori a Dio». Il profondo dimorare della parola di Cristo fa prorompere l’ammonizione, il canto e il rendimento di grazie. La presenza della parola di Cristo raggiunge quindi una sua forma particolare nella preghiera in canto della comunità. C’è tutto un crescendo espressivo: dalla carità alla pace di Cristo che regna «nei vostri cuori»; alla parola di Cristo «cantando nei vostri cuori».
Il canto, quindi, è frutto della Parola risuonata nell’intimo del cuore dei fedeli. Non è un canto qualsiasi, ma un canto «spirituale», un canto che caratterizza sia la preghiera sia la stessa comunità orante.
Un insegnamento complementare si trova anche nella lettera agli Efesini: «Non inebriatevi di vino nel quale è dissolutezza, ma lasciatevi riempire di Spirito intrattenendovi tra voi con salmi e inni e cantici spirituali, cantando e salmeggiando nel vostro cuore al Signore rendendo perennemente grazie, per tutti, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, colui che è Dio e Padre» (Ef 5,18-20).
In questo testo fortemente ecclesiologico, si innesta l’invito al canto spirituale: «E “non inebriatevi di vino”, ma lasciatevi riempire di Spirito Santo». Da questa pienezza di Spirito scaturisce il canto dei salmi, degli inni e dei cantici spirituali. «Spirituale» non equivale a una generica «sacralità», ma definisce la particolare esperienza dello Spirito che i battezzati hanno il dono di vivere. E prosegue: «Cantando e salmeggiando nel vostro cuore al Signore». Dove il cuore non va letto nel senso psicologico del sentimento, ma nel senso del centro profondo nel quale l’uomo si determina alla conoscenza e alla decisione. Il cuore, «l’uomo interiore», è il luogo dove lo Spirito Santo raggiunge l’uomo. E l’uomo, invaso dallo Spirito, canta e salmeggia. E’ lo Spirito che dà all’orante l’energia per poter cantare e pregare in una «sobria ebbrezza» (S. Ambrogio).
Il canto della liturgia sgorga dall’Assoluto, un Assoluto che, pur rimanendo trascendente si è fatto immanente. Il canto della liturgia è Parola che si fa canto, canto che sgorga dal cuore dove s’incarna il Verbo per opera dello Spirito Santo. Il canto della liturgia è canto in sinergia con l’azione liturgica ed esprime la soavità della preghiera, la solennità della celebrazio­ne, l’unanimità dell’assemblea (cfr SC 112). Il canto e la musica per la liturgia hanno come finalità l’aspetto latreutico – gloria di Dio – e l’aspetto soteriologico – santificazione dei fedeli –, dimensioni che la Sacrosanctum Concilium e l’istruzione Musicam Sacram mutuano integral­mente dal documento di Pio X.

Conservare e incrementare
Scrive sant’Ambrogio nel suo trattato sul Paradiso che haec duo ab nomine requiruntur: ut et operibus nova quaerat et parta custodiat, quod est generale: «due cose sono richieste all’uomo, che operando ricerchi cose nuove e custodisca ciò che ha conseguito. Cosa, questa, che vale in genere» (4,25). Cercare il nuovo e custodire le cose scoperte è il compito dell’uomo che obbedisce alla legge costitutiva del suo essere e, facendo la volontà di Dio, compie il disegno della creazione.
Nel nova quaerere et parta custodire si comprende tutto il mondo dell’uomo attento alle cose scoperte, ma anche ai doni di grazia precedente­mente elargiti da Dio: il principio di Ambrogio è, dunque, un sapiente intreccio di grande equilibrio e di illuminante lungimiranza, poiché rifiuta ogni rottura con il passato e nel contempo favorisce lo sviluppo verso il futuro.
Afferma Sacrosanctum Concilium: «si conservi e si incrementi con grande cura il patrimonio della musica sacra» (n. 114). I verbi usati sono due: conservare e incrementare. Il Thesaurus Musicae Sacrae, di altissima e svariatissima qualità, nato per liturgie di altre epoche, è un patrimonio prestigioso, da utilizzare con sapiente dosaggio e riadattare con intelligenza e competenza alle nuove esigenze celebrative. Conservare non significa conservatorismo che accumula tesori e ricchezze del passato per il piacere o il dovere di collezionare; conservare significa aprirsi ad accogliere il nuovo senza dimenticare il passato; conservare vuol dire discernere con sapienza senza fossilizzare e sclerotizzare.
In questo impegno, la tentazione di riciclare, cioè di operare trasposizione senza riprogettazione, è pericolosa: la profezia è ri-creare. Se conservare è il verbo relativo al patrimonio-tesoro del repertorio antico, incrementare è il verbo che si riferisce al nuovo patrimonio da scrivere. Sia l’antico che il nuovo devono rispondere alle nuove esigenze della celebrazione, alla concreta comunità celebrante, alla praticabilità esecutiva.
Riprendendo l’insegnamento del Motu proprio Tra le sollecitudini, l’istruzione Musicam Sacram ha definito «musica sacra quella che, composta per la celebrazione del culto divino, è dotata di santità e bontà di forme» (n. 4). Con il principio della santità, Pio X mirava specificatamente a purificare la musica sacra dalla contaminazione della musica profana teatrale. Giovanni Paolo II nell’enciclica Ecclesia de Eucharistia afferma che non tutte le composizioni musicali sono capaci «di esprimere adeguatamente il mistero colto nella pienezza di fede della Chiesa» (n. 50). E in effetti, come si esprime autorevolmente Giovanni Paolo II nel suo Chirografo sulla Musica Sacra «la stessa categoria di “musica sacra” oggi ha subito un allargamento di significato tale da includere repertori i quali non possono entrare nella celebrazione senza violare lo spirito e le norme della Liturgia stessa» (n. 4).
Il secondo principio esprime l’esigenza che non vi può essere musica destinata alla celebrazione dei sacri riti che non sia prima «vera musica», capace di avere quell’efficacia «che la Chiesa intende ottenere accogliendo nella sua liturgia l’arte dei suoni» (Tra le sollecitudini, 2). E tuttavia, la sola bellezza formale non è sufficiente: la musica destinata alla liturgia, infatti, come abbiamo detto e come afferma ancora Giovanni Paolo II, deve avere «la piena aderenza ai testi che presenta, la consonanza con il tempo e il momento liturgico a cui è destinata, l’adeguata corrispondenza ai gesti che il rito propone» (Chirografo sulla Musica Sacra, 5).
San Pio X aggiungeva un terzo principio che Musicam Sacram non ripropone, quello dell’universalità. E’ ben vero che, come ha auspicato Sacrosanctum Concilium, canto e musica devono rispondere anche alle legittime esigenze di adattamento e di inculturazione. Tuttavia, non può mai mancare il riferimento a criteri universali quali il coinvolgimento dell’intera assemblea nella celebrazione e la garanzia di non scadere nella leggerezza o nella superficialità. Inoltre, l’universalità mette in guardia anche da certe sperimentazioni di tipo elitario nelle quali si utilizzano opere musicali antiche o contemporanee che hanno in sé un indubbio valore artistico, ma che propongono un linguaggio lontano dalla sensibilità e dalla comprensione dell’assemblea celebrante (cfr Giovanni Paolo II, Chirografo sulla Musica Sacra, 6).

Formazione musicale e compiti dei musicisti
Oggi stiamo vivendo il grande momento della transizione da un’epoca ormai conclusa a un’epoca che ancora non ha pienamente la visione chiara di se stessa. La riforma liturgica, con il suo rinnovamento, si colloca in questo periodo drammatico e affascinante di sconvolgimenti epocali ed ecclesiali. E ancora difficile cogliere in modo globale i frutti di tanto lavoro operato all’interno della recente storia della Chiesa, ma è certo che si tratta di un processo irreversibile e dinamico, che deve essere favorito, accompagnato e amato per servire la Chiesa ed esserle fedeli, per essere attenti ai segni dei tempi e vivere nella realtà storica, per obbedire alla voce dello Spirito e costruire giorno per giorno la stessa Chiesa.
Il progetto del Concilio Vaticano II, essendo a tutti gli effetti il vero e unico progetto culturale della Chiesa al volgere del secondo millennio, ha bisogno di operatori che lo abbiano pienamente assimilato e, con umiltà e competenza, audacia ed entusiasmo, sappiano attuarlo conducendolo a perfezione. Da qui la necessità, anche in campo musicale, di una formazione che scaturisca dalle vere esigenze liturgiche. E’ necessario formare al canto liturgico tutti i ministri della celebrazione: i Vescovi, i presbiteri, i diaconi, i salmisti, gli animatori, le scholae cantorum e tutti i fedeli laici. La formazione musicale deve essere prima di tutto formazione alla bellezza sonora, per acquisire un’adeguata sensibilità musicale a tutti i livelli, ciascuno in rapporto al proprio ruolo.
In questo campo specifico, la Sacrosanctum Concilium sottolinea che quella dei musicisti chiamati a coltivare la musica per la liturgia è una vera e propria missione. Non basta, quindi, comporre o eseguire bene musica buona per la liturgia: occorre comprendere dall’interno e per esperienza la vera natura di quella che Sacrosanctum Concilium definisce l’attività per eccellenza della Chiesa. La celebrazione del Mistero Pasquale, infatti, non la si può esprimere attraverso l’arte musicale se non si raggiunge la profondità dell’uomo. E questa profondità passa attraverso il cammino di una seria esperienza artistica e la lunga gestazione di una preghiera intensa e di una partecipazione seria e cosciente alle celebrazioni liturgiche.

Conclusione
L’incipit parenetico di Musicam Sacram 4 sottolinea la speranza che i pastori d’anime, i musicisti e i fedeli accolgano volentieri e mettano in pratica le norme stabilite, unendo, in piena concordia, i loro sforzi e il loro lavoro per raggiungere la doppia finalità teologica della musica sacra, «la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli» (SC 112). Il beato A. Ildefonso Cardinal Schuster soleva dire: «Non voglio mettere barriere all’azione dello Spirito Santo». I tempi della profezia sono i tempi dell’idea nuova che muove e rende giovane la storia. Come il nascituro nel grembo materno, così i momenti di novità nella vita della Chiesa significano trepidazione, speranza, lavoro, ricerca in cui la gioia e le lacrime si affrontano quasi in un prodigioso duello. Dunque, non ci dovrebbe essere contrasto tra antico e nuovo: è solo questione di mentalità e di cultura, di non-pregiudizio e di inventiva efficace.
Instaurare omnia in Christo fu il motto di san Pio X. Ogni opera di rinnovamento, se non ha Cristo come sorgente, come modello e come meta, non può portare autentici frutti di novità. E’ Cristo il fine, lo scopo, il soggetto e la materia della vera arte liturgica: Lui, Dei Verbum fatto carne per noi uomini e per la nostra salvezza, Lui, Lumen Gentium celebrato e cantato dalla Chiesa e nella Chiesa. Lui, Gaudium et Spes della storia e del mondo.

*     *     *
Mgr Giuseppe Liberto, Directeur de la Chapelle Sixtine, écrit sur « Musique sainte » pour la liturgie. Le chant est fruit de la Parole qui résonne dans l’intime du cœur des fidèles. Il n’est pas un chant quelconque, mais un chant « spirituel », un chant qui caractérise soit la prière, soit la communauté priante elle-même. Il exige une double attitude : si ‘conserver’ est relatif au patrimoine du répertoire antique, ‘développer’ consiste à créer un nouveau patrimoine. Il conclut son opuscule par un chapitre dédié à la formation musicale et aux devoirs des musiciens dans le cadre de la liturgie.
Mgr. Giuseppe Liberto, Director of the Sistine Choir, writes on «Holy Music» for the liturgy. Song is the fruit of the Word singing in the hearts of the faithful. It is not an indifferent song, but a “spiritual” song, marked by prayer and by the praying community. Two tasks are confronted: “conservation” of the rich patrimony of ancient repertory, and “growth” of a new patrimony. He concludes his thoughts with reference to musical formation and the tasks of musicians in the liturgical sphere.
Mons. Giuseppe Liberto, Director de la Capilla Sixtina, escribe sobre «Música santa» para la liturgia. El canto es fruto de la Palabra que resuena en lo intimo del corazón de los fieles. No es un canto cualquiera, sino un canto «espiritual», un canto que caracteriza tanto la oración como la misma comunidad orante. Se requiere una doble actitud: si ‘conservar’ se refiere al tesoro del repertorio antiguo, ‘incrementar’ alude al nuevo patrimonio que se debe crear. Concluye su artículo con un capitulo dedicado a la formación musical y a las tareas de los músicos en la liturgia.

 NOTE SUL SITO

DIO PADRE IN SAN PAOLO

http://www.clerus.org/clerus/dati/1999-06/14-2/DioPadre3.rtf.html

DIO PADRE IN SAN PAOLO

ALBERTO PIOLA

Introduzione

Affrontando il messaggio su Dio presente nella teologia di san Paolo, non solo andiamo a conoscere che cosa Gesù ci ha rivelato su Dio, suo e nostro Padre, ma vediamo anche una riflessione cristiana su Dio. Nelle sue lettere Paolo seppur non in modo sistematico visto il loro carattere occasionale spiega ai primi cristiani il nuovo concetto cristiano di Dio, inscindibilmente legato a quanto è successo nell’evento della vita, morte e risurrezione di Gesù.

Alla ricerca di Dio
Essere cristiani secondo Paolo non significa essere delle persone che adorano Cristo come l’unico Dio: infatti, il rimando ultimo non è Gesù, ma il Padre; compito di Gesù è proprio quello di metterci in contatto con il Padre: 1 Timoteo 2,5-6 Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti.
Il centro della predicazione di Paolo ha un carattere soteriologico: Dio ha salvato gli uomini per mezzo di Gesù Cristo morto e risorto. Quindi egli guarda innanzi tutto a ciò che Dio ha fatto e non tanto alla sua natura e al suo mistero. Ma da quello che Dio « fa » si può capire ciò che Dio « è ».
Ma chi è questo Dio? È precisamente « il Padre del Signore nostro Gesù Cristo » (Romani 15,5). Per Paolo questo è il volto specifico della prima persona della Trinità ed è questa paternità che gli permette di annunciare la nuova immagine cristiana di Dio.
Paolo non parte dall’ateismo: per lui è scontata l’esistenza e la presenza di Dio: Romani 11,36 da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Sente Dio come presente e vicino a sé: egli sta « davanti » a Lui, lo loda e lo ringrazia; Romani 1,8 rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché la fama della vostra fede si espande in tutto il mondo. È addirittura « il mio Dio »! e allora può arrivare a dire: 1 Corinzi 8,6 per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui. Tutto questo è possibile per Paolo perché ha capito di essere inserito in un progetto di Dio: Romani 8,28-30 noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati. Per Paolo allora « Dio non è soltanto prima dell’uomo, ma è prima nell’amore; ha amato gli uomini prima che essi potessero amarlo: li ha amati dall’eternità. Il Dio vicino è dunque il Dio che chiama e ama l’uomo dalla profondità infinita della sua eternità. Così è un Dio vicino e, nello stesso tempo, un Dio lontano ».
Però, ci dice Paolo, questo Dio non è immediatamente raggiungibile: è necessaria nella vita dell’uomo la ricerca di Dio. Dio è più grande di noi: è uno ed unico; 1 Corinzi 8,4-6 noi sappiamo che non esiste alcun idolo al mondo e che non c’è che un Dio solo. E in realtà, anche se vi sono cosiddetti dei sia nel cielo sia sulla terra, e difatti ci sono molti dei e molti signori, per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui. Il netto rifiuto di altri idoli (cfr. l’ambiente pagano in cui Paolo annuncia il Vangelo) significa che per essere cristiani occorre fare il passaggio dagli idoli sempre possibili della nostra vita alla scelta dell’unico Dio; come hanno fatto i Tessalonicesi: vi siete convertiti a Dio, allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero (1Tess 1,9).
Ciononostante, non è facile per Paolo capire chi è questo Dio, i cui giudizi sono imperscrutabili (Romani 11,33 O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!). L’uomo non può capire da solo chi sia Dio: 1 Corinzi 2,10-11 lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ci sono delle strade umane per arrivare a Dio:
la via della creazione: l’osservazione del mondo creato pone degli interrogativi per la sua grandezza e bellezza: Romani 1,20 dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità. Quindi le creature rimandano al Creatore; ma per Paolo questa via è pericolosa: il mistero di Dio rimane comunque inaccessibile e c’è sempre il pericolo di divinizzare il creato. Infatti gli uomini sono caduti nell’idolatria: Romani 1,21-23 sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. L’uomo da solo non è quindi in grado di arrivare dalle creature al Creatore: 1 Corinzi 1,20-21 Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione.
le opere buone: sono senza dubbio l’espressione dei nostri sforzi di fedeltà alla legge del Signore e manifestano il nostro desiderio di essere fedeli a Lui. Però Paolo conosce l’orgogliosa consapevolezza che il popolo di Israele aveva del possesso della Legge e invita a non farsi illusioni: la sola osservanza della Legge non salva: Romani 9,30-32 Che diremo dunque? Che i pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia: la giustizia però che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge. E perché mai? Perché non la ricercava dalla fede, ma come se derivasse dalle opere. Non è quindi possibile giungere a Dio solo con una prestazione morale, perché Dio non si lascia ipotecare dai presunti meriti dell’uomo.
In Paolo risulta così « chiaro che il Dio del Nuovo Testamento, essendo colui che si rivela mediante l’imprevedibile e scandalosa stoltezza della Croce di Cristo (cfr. 1Cor 1,17-25), è per eccellenza il Dio della grazia (Ef 2,8), che preferisce i deboli, i peccatori, gli emarginati dalle religioni, i lontani. Egli è presente attivo là dove non lo si immaginerebbe: nel condannato e suppliziato Gesù di Nazareth. Egli perciò diventa, a sorpresa, oggetto di una scoperta donata: un Dio così non si poteva trovare in base a semplici presupposti umani; un Dio così poteva soltanto rivelarsi di sua propria iniziativa ».

L’azione salvifica di Dio Padre
Quindi il vero punto di partenza è che Dio si è rivelato in Gesù Cristo: il suo nome è proprio quello di essere il Padre di Gesù e in questo suo Figlio ci ha voluto salvare. Che Dio ci salvi è un’affermazione tanto scontata quanto problematica: l’uomo moderno sembra fare benissimo a meno di una salvezza, al limite può riconoscere la sua impotenza di fronte a certe situazioni.
È nella vita, morte e risurrezione di Gesù che Dio si è rivelato come il Dio per noi: Romani 8,31-32 Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?. È proprio in Gesù che abbiamo potuto conoscere un amore insospettato: Romani 8,35-39 Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.

Ma che cosa vuol dire per Paolo che Dio è un Padre che ci salva?
tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio (Romani 3,23): la condizione propria dell’uomo è quella del peccato: infatti tutti quanti commettiamo peccati e siamo all’interno di un mondo che porta con sé il peccato e la sua forza (cfr. i vari condizionamenti che subiamo verso il male). È la condizione dell’umanità in cui nasciamo: Romani 5,12 come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. È una condizione tragica, perché siamo lontani da Dio e siamo dominati dal potere del peccato; se infatti al di là di ingenue illusioni andiamo a vedere che cosa succede in noi quando siamo « abitati » dal peccato, ci rendiamo conto che se il circolo non viene spezzato facilmente siamo schiavi della logica del peccato che ci allontana da Dio rendendoci attraente il bene. Proprio per questa situazione Dio è venuto a salvarci in Gesù: Romani 5,17-19 se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà  vita. Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.
Dio nel suo amore misericordioso giustifica i peccatori: questo Padre che ci è venuto a cercare non ha voluto che noi restassimo in questa condizione di peccato ma ha scelto di trasformarci e di renderci giusti. Tutti gli uomini sono sotto il giudizio e l’ira di Dio (cfr. Romani 1,18): ma ad essere annientato non è l’uomo peccatore, bensì il suo peccato; perché Dio, oltre ad essere giusto, è anche il Dio della tolleranza e della pazienza: Romani 2,1-11 Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose. Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità contro quelli che commettono tali cose. Pensi forse, o uomo che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, di sfuggire al giudizio di Dio? O ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu, però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità; sdegno ed ira contro coloro che per ribellione resistono alla verità e obbediscono all’ingiustizia. Tribolazione e angoscia per ogni uomo che opera il male, per il Giudeo prima e poi per il Greco; gloria invece, onore e pace per chi opera il bene, per il Giudeo prima e poi per il Greco, perché presso Dio non c’è parzialità. Quell’uomo che era peccatore è ora reso giusto dall’amore di Dio in Cristo: Romani 5,8 Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. È questa la lieta notizia sul destino dell’uomo: 1 Tessalonicesi 5,9-10 Dio non ci ha destinati alla sua collera ma all’acquisto della salvezza per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi, perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui. Si tratta quindi di un Dio « giusto » e nello stesso tempo « giustificante », che ci rende giusti: Romani 3,24-26 tutti sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù.
Non possiamo giustificarci da soli: la Legge degli Ebrei non serve più, l’unica condizione per essere resi giusti da Dio nostro Padre è la fede nel suo Figlio Gesù. Noi oggi non abbiamo certo più i problemi dei primi cristiani che si sentivano ancora vincolati all’osservanza della Legge giudaica, ma possiamo avere la medesima tentazione di fondo: cavarcela da soli, essere giusti per le nostre forze. È troppo forte per Paolo il rischio di sentirci orgogliosamente salvati da soli; il vero modello del credente è Abramo con la sua fede: Romani 3,28; 4,1-3.18-22 Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge. Che diremo dunque di Abramo, nostro antenato secondo la carne? Se infatti Abramo è stato giustificato per le opere, certo ha di che gloriarsi, ma non davanti a Dio. Ora, che cosa dice la Scrittura? Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia . Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza. Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo aveva circa cento anni e morto il seno di Sara. Per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. Ecco perché gli fu accreditato come giustizia.
Dio ci giustifica per mezzo della fede in Gesù Cristo: con il Cristo è cominciato il tempo ultimo della salvezza in cui Dio Padre ci ha detto e dato tutto nel suo Figlio Gesù. Egli è morto sulla croce « per noi », cioè a causa nostra e per i nostri peccati; ed è proprio lì che ci ha salvati, ci ha resi giusti liberandoci dalle colpe. Lui è il Risorto, colui che il Padre ha confermato dopo lo scacco supremo della morte: credere in Lui è ora per il cristiano il mezzo per salvarsi. Credere in Dio Padre si vedrà ora nel nostro rapporto personale di fede con il Figlio, perché tutta la nostra vita sia inserita nel Signore: Romani 14,7-8 Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore.
« In conclusione, il Dio che rivela san Paolo è il Dio Salvatore, cioè il Dio che, nel suo infinito amore per gli uomini peccatori, ha mandato nel mondo il suo Figlio Gesù, nato da donna, perché con la sua morte redimesse gli uomini e con la sua risurrezione desse la vita eterna a coloro che credono in lui e con la fede e la carità vivono in lui e per lui. Per san Paolo, Dio è il Dio di Abramo, di Mosè e dei Profeti; è il Dio della promessa fatta ad Abramo. Tuttavia la rivelazione che Gesù gli ha fatto di sé sulla via di Damasco ha trasformato la sua vita e la sua visione di Dio. Per lui ormai Dio è colui che salva gli uomini in Gesù Cristo. È il Dio per noi (Rm 8,31), il Dio che ci dà speranza, perché il suo amore è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5,5) ».

Alcuni spunti
Il messaggio di Paolo su Dio Padre ci dà senza dubbio molti altri spunti oltre a quanto abbiamo già trovato nei Vangeli.
Dio Padre è un Dio che va sempre cercato: c’è da preoccuparsi seriamente quando non siamo più capaci a cercare Dio o quando crediamo di saper già tutto di lui Può non esserci molto difficile lasciare aperta la domanda su Dio di fronte alle bellezze del creato o di fronte ai grandi perché della vita; ma l’atteggiamento della ricerca è ancora qualcosa di più: è un dinamismo attivo, è un desiderio. Come è accaduto a Paolo, così ognuno può avere la sua caduta lungo la strada di Damasco: e si scopre di non conoscere ancora il vero volto di Dio.
L’esperienza personale di Paolo ci ha presentato un Dio presente e vicino, che lui chiama il « mio Dio »: è un punto di arrivo del cammino di fede, che deve partire dal riconoscimento della trascendenza di Dio (altrimenti diventa « l’amicone » che non mi mette più in discussione). Il Dio trascendente ed immanente è il Dio che vediamo nel Natale: l’Eterno sotto la figura di un piccolo bambino ma è proprio così che lo comprendiamo come il « Dio per noi », il Dio che sta dalla nostra parte, combatte la nostra stessa battaglia. Altrimenti che ce ne facciamo di un Dio che sta solo accanto a noi o sopra di noi?!
Nel nostro cammino verso Dio Padre ci ha avvertiti Paolo corriamo il rischio di divinizzare il creato: logicamente non fa problema che il passaggio da fare è quello dalle creature al Creatore, ma praticamente è molto più difficile riuscire a dare sempre a tutto il giusto posto. Verificare ogni tanto il nostro rapporto con i beni creati non fa male: dov’è il nostro cuore?
Nemmeno le « opere della Legge » servono per essere in comunione con il Padre: con Dio cioè non vale contrattare in base ai propri meriti. La logica commerciale può essere presente anche nel nostro rapporto con Dio, quando perdiamo la dimensione filiale; ovviamente i problemi nascono quando non siamo ripagati delle nostre prestazioni a Dio. Lasciarci salvare è terribilmente difficile: la passività arriva dopo una serie infinita di sforzi, e forse non ce la faremo mai ad essere totalmente ricettivi nei confronti di Dio. Intendere le nostre attività « solo » come risposta ad un dono richiede moltissima umiltà. Forse impariamo troppo poco dai nostri fallimenti
E per lasciarci salvare occorre riconoscere il peccato che è noi: è un’altra dimensione della medesima realtà. Ma se continueremo a dire che tutto sommato siamo a posto così, che c’è in fondo chi è peggio di noi, molto difficilmente avremo bisogno di invocare Dio salvatore. Al limite potremo pretendere che ci ricompensi dei nostri successi e che nella sua bontà un po’ ingenua chiuda gli occhi sui nostri insuccessi.
Credere in Dio è credere che Lui ci trasforma: può essere il messaggio finale che ci dona san Paolo; lui ha saputo cambiare la sua concezione di Dio e ha saputo lasciarci trasformare da Lui. Tutta la nostra vita cristiana è un cammino per lasciarci trasformare da Dio e per poter giungere a vivere con Lui per sempre.
Allora Giobbe rispose al Signore e disse: Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te. Chi è colui che, senza aver scienza, può oscurare il tuo consiglio? Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere (Gb 42,1-3.5-6).

St Ephrem the Syrian, holding a scroll of his inspired writings

St Ephrem the Syrian, holding a scroll of his inspired writings dans immagini sacre sf-efrem-sirul

http://iconreader.wordpress.com/2011/05/15/what-do-the-objects-held-by-saints-in-icons-mean/

Publié dans:immagini sacre |on 10 juin, 2013 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XV (5 ottobre 1920) PROCLAMA SANT’EFREM IL SIRO,DOTTORE DELLA CHIESA UNIVERSALE

 http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xv/encyclicals/documents/hf_ben-xv_enc_05101920_principi-apostolorum-petro_it.html 

LETTERA ENCICLICA  PRINCIPI APOSTOLORUM PETRO DEL SOMMO PONTEFICE BENEDETTO XV
AI PATRIARCHI, PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE HANNO PACE E COMUNIONE CON LA SEDE APOSTOLICA
CHE PROCLAMA SANT’EFREM IL SIRO,DOTTORE DELLA CHIESA UNIVERSALE
(m.f. il 9 giugno)

Venerabili Fratelli,
salute e Apostolica Benedizione.

Il divino Fondatore della Chiesa ha affidato a Pietro, Principe degli Apostoli, unito a Dio da una fede immune da ogni errore [1] come « capo del coro Apostolico » [2] e maestro e guida di tutti gli uomini [3], la missione di pascere il gregge di Colui che ha fondato [4] la sua Chiesa sull’autorità del magistero [5] visibile, perpetuo e sicuro dello stesso Pietro e dei suoi successori. Su questa mistica roccia, cioè sul fondamento di tutto l’ edificio della Chiesa [6], come su un cardine e un centro, deve poggiare la comunione della fede cattolica e della carità cristiana.
Che l’ufficio singolare del Primato conferito a Pietro sia quello di diffondere ovunque, e di difendere in tutti gli uomini il tesoro della carità e della fede, è attestato molto bene da Ignazio Teoforo, vissuto poco tempo dopo la generazione degli Apostoli. Nella mirabile lettera che durante il viaggio mandò alla Chiesa di Roma, e nella quale annunciava il suo arrivo nell’Urbe per subirvi il martirio nel nome di Cristo, diede una bellissima testimonianza del primato di quella Chiesa su tutte le altre, definendola « colei che presiede l’assemblea universale della carità » [7]. Con ciò intendeva dire che la Chiesa universale va guardata non solo come immagine della carità divina, ma anche che il beatissimo Pietro, unitamente al suo primato, ha lasciato in eredità alla Sede di Roma il suo amore verso Cristo, affermato con una triplice confessione, per poter infiammare dello stesso fuoco le anime di tutti i fedeli.
Profondamente convinti di questa doppia caratteristica propria dell’autorità pontificia, i primi Padri, specialmente quelli che occupavano le cattedre più celebri dell’Oriente, ogni qual volta erano travagliati da ondate di eresie o da discordie intestine erano soliti ricorrere a questa Sede Apostolica, la sola capace di assicurare la salvezza in situazioni estremamente critiche. È noto che così hanno agito Basilio Magno [8] e il grande difensore della fede di Nicea, Atanasio [9], e così pure Giovanni Crisostomo [10]. Questi Padri, messaggeri della fede ortodossa, dai concìli dei Vescovi si appellavano al supremo giudizio dei Romani Pontefici, secondo le prescrizioni degli antichi canoni [11]. Chi potrebbe dire che questi Pontefici abbiano mancato in qualche punto al mandato ricevuto da Cristo di confermare i fratelli? Anzi, per non mancare a questo loro dovere, alcuni sono partiti senza paura per l’esilio, come Liberio, Silverio e Martino; altri hanno coraggiosamente difeso la fede ortodossa ed i suoi sostenitori, che si erano appellati al Pontefice per rivendicare la memoria di coloro che erano morti. Sia di esempio Innocenzo I [12], il quale ordinò ai Vescovi d’Oriente d’inserire nuovamente il nome di Crisostomo nei dittici liturgici, e di citarlo insieme ai Padri ortodossi durante il santo sacrificio.
Noi, che abbracciamo i popoli Orientali con non minore sollecitudine e affetto dei Nostri Predecessori, Ci rallegriamo che non pochi di essi, dopo una guerra spaventosa, abbiano recuperato la libertà e sottratto la religione al potere dei laici. Mentre questi popoli cercano di riorganizzare la loro vita politica, ciascuno secondo le proprie caratteristiche nazionali e secondo le istituzioni tradizionali, Noi siamo del parere che compiremmo un gesto molto adatto al momento ed alla loro situazione se proponessimo alla loro attenta imitazione e al loro fervente culto uno splendido esempio di santità, di dottrina e di amor patrio. Intendiamo parlare di Sant’Efrem il Siro, che Gregorio Nisseno paragona opportunamente al fiume Eufrate perché, « irrigata dalle sue acque, la moltitudine dei cristiani ha prodotto centuplicato il frutto della fede » [13]. Parliamo di quell’Efrem, che i messaggeri di Dio e i Padri e i Dottori ortodossi, da Basilio, Crisostomo e Girolamo a Francesco di Sales e Alfonso de’ Liguori sono unanimi nell’esaltare. Ci è gradito aggiungere la Nostra voce a quella dei citati annunciatori della verità, i quali, benché diversi fra loro per carattere e distanti per tempi e luoghi, formano tuttavia un coro armonioso di cui potresti facilmente riconoscere come direttore « l’unico e il medesimo Spirito ».
Venerabili Fratelli, se la presente Enciclica segue a breve distanza l’altra che vi abbiamo indirizzata in occasione del XV centenario della nascita di San Girolamo, la ragione è che i due grandi geni concordano in più punti. Infatti, Girolamo ed Efrem furono quasi contemporanei, entrambi monaci, entrambi abitanti della Siria, entrambi insigni per la conoscenza e l’amore dei Libri Sacri. A buon diritto potresti definirli « due luminosi candelabri » [14], propriamente destinati da Dio ad illuminare l’uno i paesi occidentali, l’altro quelli orientali. Il contenuto dei loro scritti è intriso della stessa soavità e dello stesso spirito; di conseguenza, come in loro brilla la stessa e immutabile dottrina dei Padri latini e orientali, così i loro meriti e la loro gloria s’intrecciano e si fondono in un’unica corona.
Non è ben certo quale delle due città, un tempo famosissime, Nisibi ed Edessa, abbia dato i natali al beato Efrem. Con certezza egli, congiunto nel sangue ai martiri dell’ultima persecuzione [15], ha ricevuto un’educazione cristiana dai suoi genitori. I quali, se non avevano avuto le comodità di una vita agiata, avevano però un titolo di gloria più nobile e magnifico, perché « avevano confessato Cristo in tribunale » [16]. Da adolescente, Efrem — come si rammarica egli stesso nell’opuscolo delle sue Confessioni — resistette piuttosto debolmente e in modo troppo fiacco alle passioni che tormentano di solito quell’età; era di carattere focoso, facile all’ira, amante di litigi, piuttosto sbrigliato di mente e di lingua. Ma, essendo stato messo in carcere per un crimine non commesso, cominciò a disprezzare i beni e le vane attrattive del mondo. Così, appena si fu discolpato davanti al giudice, subito vestì l’abito del monaco e si diede tutto agli esercizi di pietà e allo studio delle Sacre Scritture. Essendosi guadagnato la simpatia di Giacomo, Vescovo di Nisibi (uno dei 318 Padri del Concilio di Nicea), il quale aveva fondato nella sua diocesi una scuola molto celebre di esegesi, Efrem non solo realizzò, ma superò le speranze del suo protettore nell’assiduo e penetrante commento della Bibbia, e in breve tempo divenne il più esperto di tutti gli esegeti di quella scuola, meritandosi il nome e la fama di «Dottore dei Siri ». Poco dopo, costretto ad interrompere gli studi delle Sacre Scritture a causa della minaccia sulla città da parte delle truppe persiane, esortò con tutte le sue forze i concittadini alla resistenza. Il pericolo, scongiurato una prima volta per le preghiere del Vescovo Giacomo, si ripresentò più grave dopo la sua morte. Assediata nuovamente, la città cadde in mano ai Persiani nel 363. Efrem, preferendo l’esilio al giogo degli infedeli, emigrò ad Edessa, dove si consacrò con grande zelo e quasi esclusivamente al compito di dottore della Chiesa.
La casa dove abitava, posta su un colle alla periferia della città, fiorì presto, a guisa di una celebre accademia, per la grande celebrità di studiosi avidi di conoscere i Libri Sacri. Da lì uscirono quei sapienti interpreti delle Scritture, i quali formarono i loro discepoli nella stessa disciplina: Zenobio, Maraba, Sant’Isacco di Amida, che meritarono, per la profondità e il numero dei loro scritti, l’appellativo di «Grandi » [17].
Da quel ritiro si diffuse la fama della dottrina e della santità di Efrem, tanto che quando egli si recò a Cesarea per conoscere di persona Basilio Magno, questi, appresa la notizia del suo arrivo per ispirazione divina, lo accolse con grandi segni di riverenza, ed ebbe con lui dolcissimi colloqui su cose divine [18]. Si dice che in quell’occasione Basilio l’abbia ordinato diacono con l’imposizione delle mani [19].
Dal ritiro di Edessa Efrem non usciva mai, se non nei giorni stabiliti per rivolgere al popolo quei forti discorsi con cui difendeva i dogmi della fede contro le eresie di quel tempo. Per umiltà non osò aspirare al sacerdozio, ma preferì imitare alla perfezione Stefano nel grado inferiore del diaconato. Insegnava instancabilmente le Scritture e si dedicava alla predicazione della parola di Dio; educava nella salmodia le vergini consacrate a Dio; ogni giorno scriveva commentari per la spiegazione della Bibbia e per celebrare la fede ortodossa; aiutava i suoi compatrioti, soprattutto i poveri e i miserabili; metteva per primo in pratica, meglio che gli era possibile, ciò che doveva insegnare agli altri, per offrire in se stesso quel modello di santità che Ignazio Teoforo propone ai leviti quando li chiama soltanto Diaconi, cioè « comando di Cristo » [20], dicendo che essi esprimono « il mistero della fede in una coscienza pura » [21].
Quanto grande e quanto attiva carità mostrò ai fratelli durante la grave carestia, benché fosse carico di anni e spossato dalle fatiche! Abbandonò la casa dove per tanti anni aveva vissuto una vita più celeste che umana e corse ad Edessa. Con parole severissime — che a Gregorio Nisseno sembrarono « come una chiave abilmente forgiata in modo divino » [22] per aprire i cuori e gli scrigni dei ricchi — rimprovera coloro che avevano nascosto il frumento e li prega insistentemente di andare incontro almeno col superfluo al bisogno dei fratelli. Più che dalla necessità dei concittadini, i ricchi furono scossi dalla sua autorità. Col denaro raccolto Efrem preparava i letti per chi era distrutto dalla fame, allestendoli sotto i portici di Edessa; rifocillava coloro che erano sfiniti; soccorreva i pellegrini che arrivavano da ogni parte in città, in cerca di pane [23]. Davvero si sarebbe detto che la Provvidenza l’avesse messo a difesa della patria! Non ritornò alla sua solitudine che l’anno seguente, quando il raccolto della nuova messe aveva assicurato l’abbondanza di viveri.
Assolutamente degno di menzione è il testamento da lui lasciato ai suoi concittadini, nel quale chiaramente risultano la sua fede, la sua umiltà e il suo singolare amore verso la patria. « Io, Efrem, sto per morire. Con timore e rispetto vi scongiuro, o abitanti della città di Edessa, di non permettere che io sia sepolto nella casa di Dio o sotto l’altare. Non è conveniente che un verme, che cola purulenza, sia sepolto nel tempio e nel santuario di Dio. Avvolgetemi nella mia tunica e nel mantello che ho sempre portato. Accompagnatemi con i salmi e con le vostre preghiere, e degnatevi di fare spesso delle offerte per la mia piccolezza. Efrem non ha mai avuto né borsa, né bastone, né bisaccia, né argento od oro, né mai ha acquistato o posseduto beni sulla terra. Come miei discepoli, mettete in pratica i miei precetti e il mio insegnamento, perché non veniate meno alla fede cattolica. Siate saldi specialmente nei riguardi della fede; guardatevi dagli avversari, cioè dagli operatori di iniquità, dagli spacciatori di vuote parole, e dai seduttori. E sia benedetta la città in cui abitate. Edessa, infatti, è città e madre di saggi ». Così Efrem cessò di vivere; ma non si spense il suo ricordo, che rimase sempre in benedizione in tutta la Chiesa universale. Perciò, da quando Efrem cominciò ad essere ricordato nella sacra liturgia, Gregorio Nisseno poté affermare: « Lo splendore della sua vita e della sua dottrina si irradiò sul mondo intero: infatti egli è conosciuto in quasi tutte le regioni dove splende il sole ».
Non è il caso di esporre qui in dettaglio tutto ciò che un uomo così grande ha scritto: « Si dice, d’altra parte, che abbia scritto 300 miriadi di versi, se si vogliono contare tutti » [24]. I suoi scritti abbracciano pressoché tutta la dottrina della Chiesa; di lui ci restano i commentari sulla Sacra Scrittura e sui misteri della fede; le omelie sui doveri e sulla vita interiore; riflessioni sulla sacra liturgia; inni per le feste del Signore, della Beata Vergine e dei Santi, per le solennità dei giorni di preghiera e di penitenza, e per le cerimonie funebri.
Tutti questi scritti testimoniano la sua candida anima, che giustamente si può definire lampada evangelica « che arde e splende » [25], perché, illuminando la verità, ce la fa amare e professare. Anzi, Girolamo attesta che ai suoi tempi si usava leggere in pubblico, nelle assemblee liturgiche, gli scritti di Sant’Efrem non diversamente che le opere dei Santi Padri e dei Dottori ortodossi; e afferma ancora, parlando della traduzione delle opere del Santo dall’originale siriaco in greco, che « la stessa traduzione gli ha permesso di scoprire l’acutezza di un genio eccezionale » [26].
In verità, se va ad onore del santo Diacono di Edessa l’aver voluto che la predicazione della parola di Dio e la formazione dei discepoli poggiassero sulla Sacra Scrittura, interpretata secondo lo spirito della Chiesa, non minore gloria egli si è acquistata nella musica e nella poesia sacra; infatti era così esperto in queste arti, da essere chiamato « cetra dello Spirito Santo ». Da lui, Venerabili Fratelli, si può imparare con quali arti vada promossa nel popolo la conoscenza delle cose sante. Efrem infatti viveva in mezzo a popolazioni dal temperamento ardente, particolarmente sensibili alla dolcezza della musica e della poesia, tanto che fin dal secondo secolo dopo Cristo gli eretici si erano molto abilmente serviti di questi richiami per seminare i loro errori. Perciò, come il giovane David aveva ucciso il gigante Golia con la sua spada, Efrem oppone l’arte all’arte, veste la dottrina cattolica di versi e di musica, e così la insegna alle fanciulle e ai fanciulli, perché a poco a poco diventi familiare a tutto il popolo. Così egli non solo perfeziona la formazione dei fedeli nella dottrina cristiana e favorisce e nutre la loro pietà secondo lo spirito della sacra liturgia, ma contrasta anche con grande successo le eresie che andavano serpeggiando.
Quanta dignità abbia conferito alle sacre cerimonie il fascino di queste arti nobilissime, lo apprendiamo da Teodoreto [27], e ne troviamo conferma nell’ampia diffusione, sia tra i greci, sia tra i latini, della metrica propagata dal nostro Santo. Infatti, a quale altro autore potrebbe essere attribuita l’antifonia liturgica, con i suoi canti e con le sue solennità, importata da Crisostomo a Costantinopoli [28], da Ambrogio a Milano [29], e che poi si è diffusa in tutta Italia? E se questo « uso orientale», che nella capitale lombarda ha commosso così vivamente Agostino ancora catecumeno, e che, ritoccato da Gregorio Magno, è arrivato, perfezionato, fino a noi, non lo si deve in un certo qual modo, secondo il giudizio di critici competenti, al beatissimo Efrem, in quanto proviene dall’antifonia siriaca da lui diffusa?
Non c’é quindi da meravigliarsi se i Padri della Chiesa tengono in gran conto l’autorità di Sant’Efrem. Il Nisseno così scrive delle sue opere: « Scorrendo tutta la Scrittura, il vecchio e il nuovo Testamento, e scrutandone come nessun altro il senso profondo, l’ha interpretata con estrema acutezza parola per parola; dalla creazione del mondo fino all’ultimo libro della grazia, egli, illuminato dallo Spirito, nei suoi commentari ha chiarito i punti oscuri e difficili » [30]. Il Crisostomo, aggiunge: « Il grande Efrem ha svegliato le anime intorpidite, consolato gli afflitti, formato, diretto ed esortato i giovani; specchio dei monaci, guida dei penitenti, spada e freccia contro gli eretici, scrigno delle virtù, tempio e luogo di riposo dello Spirito Santo » [31]. In verità non è possibile lodare di più un uomo, che si riteneva così insignificante da chiamarsi l’ultimo di tutti e il più miserabile dei peccatori.
Dio, che « ha esaltato gli umili », onora con gloria eccelsa il beato Efrem e lo propone al nostro secolo come dottore di sapienza divina e modello delle più elette virtù. Ed oggi è il momento più opportuno per presentare questo modello, in quanto, finita la terribile guerra, pare stia per nascere un nuovo ordine di cose per le nazioni e particolarmente per i popoli dell’Oriente. Davvero un compito immenso, Venerabili Fratelli, e pieno di difficoltà s’impone a Noi, a ciascuno di voi e a tutti gli uomini di buona volontà, quello di restaurare in Cristo quanto rimane della civiltà umana e sociale, e di ricondurre a Dio e alla Chiesa santa di Dio l’umanità deviata: alla Chiesa cattolica, vogliamo dire, che, mentre si sfasciano le istituzioni del passato e regna una confusione generale in seguito a sconvolgimenti politici, è la sola a non vacillare e a guardare con fiducia all’avvenire: la sola nata immortale, fondata sulla parola di Colui che disse al beatissimo Pietro: « Su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa » [32].
Possano camminare sulle orme di Sant’Efrem tutti coloro che nella Chiesa hanno il compito d’insegnare agli altri; possano imparare da lui con quale instancabile zelo essi devono impegnarsi nella predicazione della dottrina di Cristo; la pietà dei fedeli non può infatti portare nessun frutto duraturo, se non è profondamente ancorata nei misteri e nei precetti della fede. Coloro, poi, che hanno l’incarico ufficiale di insegnare le scienze sacre, imparino dall’esempio del Dottore di Edessa a non distorcere, secondo l’arbitrio delle loro personali idee, le Sacre Scritture, e a non allontanarsi di un’unghia nei loro commentari dal senso tradizionale della Chiesa, perché « nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio » [33]. E lo Spirito che ha parlato agli uomini per mezzo dei profeti è lo stesso che agli Apostoli « aprì la mente all’intelligenza delle Scritture » [34], e costituì la Chiesa messaggera, interprete e custode della rivelazione, perché fosse « colonna e sostegno della verità » [35].
Coloro poi sui quali maggiormente si riflette la gloria di Efrem, portino, come si conviene, il peso di tale onore. Vogliamo parlare dell’illustre Famiglia dei monaci, la quale, nata in Oriente con Antonio e Basilio, si è estesa poi per molteplici rami nei paesi dell’Occidente e per tanti titoli è molto benemerita della società cristiana. I seguaci della perfezione evangelica non cessino mai di fissare il loro sguardo sull’anacoreta di Edessa e di imitarlo. Il monaco infatti tanto più sarà utile alla Chiesa, quanto più, davanti a Dio e agli uomini, mostrerà in se stesso ciò che il suo abito significa, cioè se, come hanno detto gli antichi Padri d’Oriente, sarà « il figlio della promessa » e se sarà, come bene lo definisce il beato San Nilo il Giovane, « l’Angelo, le cui opere sono la misericordia, la pace e il sacrificio di lode » [36].
Infine tutti coloro ai quali voi, Venerabili Fratelli, siete preposti, sia del clero sia dei fedeli, devono imparare dal beato Efrem che l’amore verso la patria terrena — i cui doveri si fondano sulla pratica della dottrina cristiana — non deve essere disgiunto dall’amore verso la patria celeste, e tanto meno anteposto: di quella patria, diciamo, che altro non è che il dominio intimo di Dio nelle anime dei giusti: dominio che qui inizia e che sarà perfetto nel cielo. Di tale patria la Chiesa cattolica è veramente l’immagine mistica, perché, senza distinzione di nazioni e di lingue, accoglie tutti i figli di Dio in una sola famiglia sotto un solo Padre e Pastore.
Inoltre questo santissimo uomo insegna a cercare le sorgenti della vita interiore là dove Cristo le ha poste, cioè nei Sacramenti, nell’osservanza dei precetti evangelici e nel molteplice esercizio della pietà che la stessa liturgia presenta e l’autorità della Chiesa propone. A questo proposito, Noi vogliamo, Venerabili Fratelli, offrire alla vostra meditazione alcuni pensieri del nostro Efrem sul Sacrificio dell’Altare: « Il sacerdote pone con le sue mani Cristo sull’altare perché diventi cibo. Poi si rivolge al Padre come a un servo dicendo: Dammi il tuo Spirito, perché discenda sull’altare e santifichi il pane che vi è deposto perché diventi il Corpo del tuo Figlio unigenito. Il sacerdote gli racconta la passione e la morte di Cristo e gli mette sotto gli occhi le percosse; e Dio non si vergogna delle percosse del suo Figlio primogenito. Il sacerdote dice al Padre invisibile: Ecco, colui che è appeso alla Croce, è tuo Figlio, e le sue vesti sono cosparse di sangue, e il suo fianco è trafitto dalla lancia. Il sacerdote gli ricorda la passione e morte del suo Figlio diletto, come se se ne fosse dimenticato, e il Padre ascolta ed esaudisce le sue preghiere » [37]. Di ciò che Efrem scrive sulla condizione dei giusti dopo la morte, niente si armonizza meglio con la dottrina costante della Chiesa, definita più tardi dal Concilio di Firenze: « Il defunto è condotto dal Signore ed è già introdotto nel regno dei cieli. L’anima del defunto è accolta in cielo ed è inserita come una perla nella corona di Cristo. E ora già dimora presso Dio e i suoi Santi » [38].
Ma chi potrebbe mettere in risalto la devozione di Efrem verso la Vergine Madre di Dio? «Tu, Signore, e tua Madre », esclama in un inno di Nisibi, « siete i soli che avete una bellezza perfetta sotto ogni riguardo: in Te, mio Signore, non c’é macchia, nella tua Madre non c’é alcun peccato » [39]. Mai questa « cetra dello Spirito Santo » dà suoni più delicati che quando si propone di cantare le lodi di Maria, o la sua immacolata verginità o la sua divina maternità o il suo patrocinio sugli uomini pieno di misericordia.
Da non minore entusiasmo si lascia trasportare quando, dalla lontana Edessa, si volta a guardare verso Roma per esaltare con lodi il primato di Pietro: « Vi saluto, o santi re, o Apostoli di Cristo », così saluta il coro degli Apostoli, « Salute a voi, luce del mondo… La lampada è Cristo, il candelabro è Pietro, l’olio è il dono dello Spirito Santo. Salve, o Pietro, porta dei peccatori, lingua dei discepoli, voce dei predicatori, occhio degli Apostoli, custode del cielo, il primo di coloro che portano le chiavi » [40]. E altrove: «Tu sei beato, Pietro, capo e lingua del corpo dei tuoi fratelli, di quel corpo, dico, che è composto di discepoli, i cui occhi sono figli di Zebedeo. Beati sono anche loro, perché contemplano quel trono del Maestro, che hanno chiesto per sé. Si sente la vera voce del Padre in favore di Pietro, che diventa una pietra irremovibile » [41]. In un altro inno così fa parlare il Signore Gesù al suo primo Vicario in terra: « Simone, mio discepolo, Io ti ho costituito fondamento della santa Chiesa, ti ho chiamato in anticipo pietra perché tu sostenga tutto il mio edificio. Tu sei il sorvegliante di coloro che mi edificano la Chiesa sulla terra. Se volessero edificare qualcosa contro le regole, tu, che sei stato posto da me come fondamento, riprendili. Tu sei la sorgente di quella fontana a cui si attinge la mia dottrina; tu sei il capo dei miei discepoli; per mezzo tuo disseterò tutte le genti. È tua quella dolcezza vivificante, che io elargisco. Ti ho scelto perché tu fossi, nei miei disegni, come il primogenito e l’erede dei miei tesori. Ti ho dato la chiave del mio regno, ed ecco ti faccio signore di tutti i miei tesori » [42].
Mentre ripensavamo nel Nostro intimo tutte queste cose, pregavamo con lacrime Iddio infinitamente buono affinché riconduca al seno e all’abbraccio della Chiesa Romana gli Orientali che una separazione ormai troppo lunga, contro la dottrina dei loro stessi antichi Padri che abbiamo ricordati, tiene miseramente lontani da questa Sede del beato Pietro. Con questa Sede, come testimonia Ireneo che dal suo maestro Policarpo aveva appreso le dottrine tramandate dall’Apostolo Giovanni, « è indispensabile che in virtù della sua supremazia ogni Chiesa sia in comunione, e così pure i fedeli di tutto il mondo » [43].
Intanto Ci è giunta una lettera con la quale i Venerabili Fratelli Ignazio Efrem II Rahmani, Patriarca Antiocheno dei Siri, Elia Pietro Huayek, Patriarca Antiocheno dei Maroniti, e Giuseppe Emanuele Thomas, Patriarca Babilonese dei Caldei, adducendo ragioni di grande rilievo, Ci chiedono con insistenza di voler accordare e confermare con la Nostra autorità Apostolica a Sant’Efrem il Siro, Diacono di Edessa, il titolo e gli onori di Dottore della Chiesa universale. A questa supplica si sono aggiunte anche lettere postulatorie di alcuni Cardinali della Santa Romana Chiesa, di Vescovi, di Abati e di Superiori di Istituti religiosi di rito greco e latino. Trovammo che la richiesta, in linea anche con i Nostri desideri, meritava di essere presa prontamente in considerazione. Sapevamo infatti che i Padri Orientali, che abbiamo citato, hanno sempre ritenuto il beato Efrem maestro di verità, messaggero di Dio e Dottore della Chiesa cattolica. Sapevamo anche che la sua autorità, fin dall’inizio, aveva avuto grandissimo peso non solo presso i Siri, ma anche presso i popoli vicini: Caldei, Armeni, Maroniti e Greci. Tutti questi hanno tradotto, ciascuno nella propria lingua, le opere del Diacono di Edessa e sono soliti a leggerle nelle loro assemblee liturgiche e a rileggerle volentieri privatamente in casa, così che capita di trovare ancor oggi i suoi inni presso gli Slavi, i Copti, gli Etiopi e perfino presso i Giacobiti e i Nestoriani. Abbiamo pure considerato che quest’uomo prima d’ora è stato tenuto in grande onore dalla Chiesa Romana. Infatti, fin dai tempi antichi essa commemora il beato Efrem nel martirologio il 1° di febbraio, elogiando in particolare la sua santità e la sua dottrina; ma a Roma stessa, verso la fine del secolo XVI fu eretta sul Viminale una Chiesa in onore della Beatissima Vergine e di Sant’Efrem. D’altra parte, è un fatto noto e incontestabile che i Nostri Predecessori Gregorio XIII e Benedetto XIV, verso i quali gli Orientali hanno più di un motivo per essere riconoscenti, si sono adoperati affinché, prima il Voss e poi l’Assemani, raccogliessero con la maggior diligenza possibile le opere di Sant’Efrem e le pubblicassero e le divulgassero per illustrare la fede cattolica ed alimentare la pietà dei fedeli. Passando poi a fatti più recenti, il Nostro Predecessore Pio X, di santa memoria, nel 1909 approvò la Messa e l’Ufficio proprio in onore del Santo Diacono di Edessa scegliendo in gran parte dalla liturgia siriaca, e ne fece la concessione ai monaci Benedettini del Priorato Gerosolimitano dei Santi Benedetto ed Efrem. Considerate attentamente tutte queste cose, per supplire a ciò che ancora sembrava mancare alla gloria del grande anacoreta e nello stesso tempo per dare ai popoli dell’Oriente cristiano una testimonianza della carità apostolica con la quale pensiamo al loro interesse e al loro onore, Noi, con un recente atto ufficiale abbiamo affidato alla Congregazione dei Riti il compito di espletare secondo le prescrizioni dei sacri canoni e della disciplina attuale la richiesta esposta nella lettera citata. La proposta ebbe un così felice esito, che i Cardinali preposti a quella sacra Congregazione dichiararono per mezzo del loro Prefetto, il Nostro Venerabile Fratello Antonio Vico, Cardinale della Santa Romana Chiesa, Vescovo di Porto e di Santa Rufina, che anche loro desideravano ciò e umilmente Ci chiedevano la stessa cosa che gli altri avevano domandato con le lettere supplicatorie presentate.
Perciò, dopo aver invocato lo Spirito Paraclito, Noi, con la Nostra suprema autorità, conferiamo e confermiamo a Sant’Efrem il Siro, Diacono di Edessa, il titolo e gli onori di Dottore della Chiesa Universale, e stabiliamo che la sua festa, fissata il 18 giugno, sia celebrata dovunque allo stesso titolo con il quale viene celebrato il giorno della nascita degli altri Dottori della Chiesa Universale.
Pertanto, Venerabili Fratelli, mentre Ci rallegriamo di aver conferito questo aumento di gloria e di onore al Santo Dottore, confidiamo nello stesso tempo che in questi momenti così difficili la famiglia universale dei fedeli cristiani trovi in lui un intercessore e protettore attivissimo e appassionato presso la divina clemenza. I cattolici orientali avranno in questa decisione una nuova testimonianza della sollecitudine e dell’interessamento tutto particolare che i Romani Pontefici hanno verso le Chiese separate, e Noi, come i Nostri Predecessori, vogliamo che le loro legittime usanze liturgiche e le regole canoniche rimangano per sempre integre e intoccabili. Possano, con l’aiuto di Dio e la protezione di Sant’Efrem, cadere finalmente quelle barriere che con dolore vediamo tener divisa una notevole parte del gregge cristiano dalla mistica pietra, sulla quale Cristo ha edificato la sua Chiesa. Spunti, quanto prima, quel giorno beato in cui nei cuori di tutti siano « come pungoli e come chiodi piantati profondamente » le parole della verità evangelica, « che mediante la schiera dei maestri ci sono state date da un unico pastore » [44].
Intanto, come auspicio dei favori celesti e come testimonianza del Nostro amore paterno, impartiamo con affetto a voi, Venerabili Fratelli, a tutto il clero e al popolo a voi affidato l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 5 ottobre 1920, nel settimo anno del Nostro Pontificato.

 BENEDICTUS PP. XV

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