LETTERA AI GALATI (il testo per la messa dell’16 giugno 2013 è Gal 2, 16.19-21)
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LETTERA AI GALATI (il testo per la messa dell’16 giugno 2013 è Gal 2, 16.19-21)
di PEDRON LINO
(sul sito commento a tutta la lettera)
c) L’incidente di Antiochia (2,11-21)
11Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. 12Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. 13E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, al punto che anche Bàrnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. 14Ora quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei? 15Noi che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, 16sapendo tuttavia che l’uomo non è giustificato dalle opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Gesù Cristo per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge; poiché dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno».
17Se pertanto noi che cerchiamo la giustificazione in Cristo siamo trovati peccatori come gli altri, forse Cristo è ministro del peccato? Impossibile! 18Infatti se io riedifico quello che ho demolito, mi denuncio come trasgressore. 19In realtà mediante la legge io sono morto alla legge, per vivere per Dio. 20Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me. 21Non annullo dunque la grazia di Dio; infatti se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano.
Sulla base della precedente esposizione dei fatti e delle decisioni prese a Gerusalemme, si potrebbe pensare che le tensioni suscitate dalla comparsa dei « falsi fratelli » giudaisti fossero definitivamente risolte e le questioni chiarite.
Ma l’incidente avvenuto in Antiochia dimostra che le cose non stavano proprio così.
Come fu possibile che ciò avvenisse dopo la stretta di mano a Gerusalemme? A questa domanda si deve anzitutto rispondere: per la situazione particolare della comunità di Antiochia, che era mista, cioè composta da ex giudei e da ex pagani. I contenuti degli accordi di Gerusalemme nella formula riportata da Paolo era questo: « Noi ai pagani, essi ai giudei ». Questa decisione era chiara. Ma come si doveva procedere nella prassi, nei luoghi in cui esisteva una comunità cristiana mista, come ad Antiochia? Sembra che, in un primo momento, nella comunità cristiana di Antiochia siano convissuti senza attrito ex giudei ed ex pagani, uniti nella comunione di mensa. Anche Pietro si comportò così « finché giunsero alcuni da parte di Giacomo », cioè della comunità di Gerusalemme, i quali si scandalizzarono per tale comunione di mensa. Pietro cadde nell’incertezza e si tirò indietro, il che indusse Paolo « a opporsi in faccia a lui » e a mostrargli le conseguenze del suo comportamento, e questo dovette provocare una discussione sul rapporto tra legge e vangelo. Forse i giudeocristiani provenienti da Gerusalemme erano disposti ad ammettere l’esenzione degli etnicocristiani dalla legge, ma ciò che non riuscivano ad accettare era questo: che anche un giudeo (come Pietro) fosse esente da una vita conforme alla legge, quando si fosse fatto cristiano. Secondo loro, un ex giudeo doveva anche da cristiano restare fedele alle tradizioni paterne. Questo problema non era stato risolto a Gerusalemme. E per un giudeo tale problema era veramente grande. Perciò è comprensibile che essi si siano fortemente scandalizzati del comportamento di Pietro che mangiava con gli etnicocristiani e abbiano manifestato vigorosamente il loro risentimento. Ma se avessero avuto ragione, sarebbe stato riconosciuto un ulteriore valore salvifico della legge e la verità del vangelo sarebbe stata di nuovo messa in pericolo. Paolo lo capì subito: di qui il suo appassionato intervento contro Pietro. Paolo può dimostrare di aver difeso la verità del vangelo perfino contro Pietro, quando fu necessario. Anche se i suoi avversari in Galazia si appellassero a Pietro, qui trovano una risposta puntuale, come sopra l’avevano trovata nel caso si fossero appellati a Giacomo. Questo accenno era al tempo stesso la prova più convincente che Paolo non aveva ricevuto il suo vangelo « da un uomo »; altrimenti come avrebbe potuto osare di procedere contro lo stesso uomo-roccia in nome del vangelo?
v.11. L’incidente di Antiochia rappresenta un’ulteriore componente dell’argomentazione con la quale Paolo mostra che il suo vangelo non proviene « da uomo ». In che cosa consisterebbe di fatto l’ « opporsi in faccia » risulta solo dal v. 14: di fronte alla comunità radunata, Paolo chiede severamente conto a Pietro del suo comportamento. E la colpa di Pietro consiste non solo nel timore e nella vile ipocrisia, ma anche nel pericolo che, per effetto del suo singolare comportamento, Pietro minaccia l’unità della comunità, e particolarmente nella sua incoerenza teologica, come Paolo gli fa notare. Paolo ha visto nella condotta di Pietro non tanto un attacco contro di sé, ma contro la verità del vangelo, un attacco al quale bisognava opporsi.
v. 12. Ogni comunione di mensa con i pagani era, per giudei e giudeocristiani di stretta ortodossia, un orrore (At 11,3). Anche Pietro in principio pensava così, finchè Dio non gli cambiò la mente (At 10). Comunque, in Antiochia egli sedeva a mensa con gli etnicocristiani senza farsi problema « prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo ». È Giacomo che li ha mandati? Oppure sono arrivati da Gerusalemme alcuni giudeocristiani senza alcun incarico da parte di Giacomo? Stando al testo non si può prendere nessuna decisione a proposito. Paolo afferma semplicemente il fatto del loro arrivo e le conseguenze che esso provocò nella comunità di Antiochia. Molti esegeti sostengono che questi giudeocristiani furono mandati effettivamente da Giacomo ad Antiochia per compiere un’ispezione sui giudeocristiani, sui quali Giacomo, fratello del Signore, pretendeva di esercitare una giurisdizione. Ciò spiegherebbe anche il timore di Pietro nei confronti di questi ispettori. Paolo non si mette neanche a discutere con costoro, ma con Pietro perché costui per Paolo non è un uomo qualunque, ma l’uomo al quale spettano le ultime decisioni.
I giudeocristiani provenienti da Gerusalemme hanno una rigorosa mentalità legalistica e non possono concepire che si possa andare a tavola coi pagani, anche se questi – come essi stessi – sono diventati cristiani. Perciò si scandalizzano di una tale comunione di mensa in Antiochia; a quanto pare, per questo motivo, rivolgono rimproveri particolarmente aspri a Pietro e questi perde coraggio e si tira indietro. Il timore di Pietro si inquadra bene con il suo carattere (processo di Gesù); esso è espressione della sua viltà e della sua propensione a lasciarsi influenzare.
v. 13. Paolo giudica la condotta di Pietro una « ipocrisia », come risulta dall’osservazione: « Essi simularono insieme a lui ». Probabilmente upòkrisis, ipocrisia, vuole semplicemente caratterizzare l’incoerenza del comportamento di Pietro. L’ipocrisia di Pietro si deve interpretare in base al v. 16, ossia a partire dalla migliore « conoscenza » di cui Pietro certamente dispone: come cristiano, egli « sa » precisamente che l’uomo viene giustificato dalla fede e non dalle opere della legge (At 10, 43-48). Quindi egli agisce contro la sua coscienza. Dunque il rimprovero di ipocrisia non riguarda il comportamento tattico di Pietro, ma la sua condotta teologica. Il peggio però fu che anche Barnaba, il coraggioso compagno di lotta di Paolo a Gerusalemme, cominciò a cedere e « si lasciò trascinare dalla loro simulazione »; e probabilmente questo improvviso voltafaccia di Barnaba colpì personalmente Paolo ancor più di quello di Pietro.
v. 14. Paolo vede subito che Pietro, Barnaba e gli altri « non camminano diritto per ciò che riguarda la verità del vangelo ». Contro la loro migliore convinzione tentano di conseguire la verità del vangelo per vie traverse, facendo un giro attraverso il giudaismo, quindi non per la via diretta che porta a Cristo. La via è determinata dalla meta: essa passa attraverso la fede e non attraverso le opere della legge. Poiché Paolo vede Pietro su una strada sbagliata, che allontana dalla verità del vangelo, gliene chiede conto apertamente in presenza di tutti. « Paolo prende sempre tutta la Chiesa locale come testimone dei suoi interventi personali » (Bonnard). Fino a questo momento, con larghezza di vedute, Pietro ad Antiochia non ha tenuto conto della legge giudaica sui cibi. Ma ora, sotto la pressione dei nuovi arrivati da Gerusalemme egli vive nuovamente alla maniera dei giudei. Così, di fatto, costringe gli etnicocristiani a vivere in modo giudaico se vogliono continuare a mantenere anche esteriormente quella comunione ecclesiale che si manifesta nella comunione di mensa. La discussione teologica, alla quale Paolo passa al v.15, sia pure formalmente è indirizzata a Pietro, ma in realtà si rivolge già ai destinatari della lettera, i quali sono proprio personalmente interessati al tema di questa esposizione.
Paolo dimostra le conseguenze teologiche del vivere in modo giudaico: esso annulla il vangelo, perché ripropone nuovamente la speranza della salvezza nelle opere della legge, cosa che adesso anche i Galati vogliono fare.
vv. 15-16. Paolo parte da un fatto innegabile: esistono anche giudei che credono in Gesù Cristo: lui stesso, Pietro, Barnaba… Essi dovettero pur aver un motivo quando si fecero cristiani credenti; e il motivo è questo: essi « sanno » che la giustificazione dell’uomo si ha mediante la fede in Gesù Cristo, e non con l’adempimento delle opere della legge. Che cosa si intende precisamente con queste « opere della legge » che non procurano la giustificazione? Considerato il contesto di Gal 2,16 si pensa alle opere connesse con il modo di vivere giudaico, prima di tutte la prescrizione sui cibi. Ma dagli altri passi della lettera (3,2. 5.10) si ricava che come « opere della legge » non si vuole indicare soltanto le prescrizioni rituali del giudaismo, compresa la circoncisione, ma le « opere » dell’uomo deducibili dalla totalità della legge, dalla Torà. Questa constatazione è confermata dalla Lettera ai Romani (3,20.27-28; 4,2; 9,11-12. 31-32: 11,6).
La giustificazione avviene per fede; ciò è valido per sempre e, secondo l’esegesi scritturistica di Paolo, è già stato valido da sempre come mostra l’esempio di Abramo (Gal 3,6-12; Rm 4, 2-3. 23-24). Al posto del principio della legge, che comunque non portava alla giustificazione (Gal 3,11-12), subentra il principio della fede. La fede è la risposta appropriata a una concreta offerta di grazia da parte di Dio. La fede giustificante ha il suo fondamento oggettivo in quell’evento salvifico che è inscindibilmente congiunto con la persona e l’opera redentrice di Gesù Cristo; essa per ciò non è una fede qualsiasi, ma « fede in Gesù Cristo ». Quindi la fede della giustificazione non è neppure semplicemente – per quanto sia già gran cosa – fiducia nella bontà di Dio. La via della giustificazione dai peccati e del loro perdono da parte di Dio, per i giudei passa attraverso « le opere della legge ». Al contrario, per Paolo la via della salvezza non passa più per le opere della legge, ma esclusivamente attraverso la fede in Gesù Cristo. Cristo è subentrato al posto della legge. L’appropriazione della salvezza non si compie più mediante le opere della legge, ma soltanto per mezzo della fede nel Cristo morto e risorto. In questa prospettiva « la legge è stata il nostro pedagogo fino all’arrivo di Cristo » (3,24). Ma chi viene giustificato dalla fede? La risposta di Paolo è chiara: l’uomo, ogni uomo senza eccezione; che sia giudeo o pagano non fa differenza.
Paolo continua il suo discorso: Anche noi giudeocristiani, benché per nascita fossimo giudei e dapprincipio ci aspettassimo la salvezza dalla legge, ci siamo tuttavia decisi a scegliere la fede in Cristo proprio perché noi siamo giunti alla convinzione che la giustificazione non proviene dalla legge, ma dalla fede in Cristo. « Noi diventammo credenti in Gesù Cristo »: con ciò l’apostolo indica la specificità dalla quale tutto dipende e che distingue la fede cristiana da quella giudaica. Dunque la conversione dei giudei al vangelo ha questo scopo: « essere giustificati dalla fede in Cristo » .
v. 17. Il versetto presenta difficoltà di interpretazione. Se adesso Pietro e gli altri giudeocristiani si ritirano dalla comunione di mensa con gli etnicocristiani ciò suscita facilmente l’impressione che con questa comunione di mensa abbiano agito contro la loro coscienza, compiendo qualcosa di male. E tuttavia sono loro stessi convinti che la giustificazione si deve ricercare solo in Cristo e non nelle prescrizioni rituali del giudaismo riguardanti i cibi. Essi vivevano in Antiochia secondo le norme dei pagani (v. 14). Se ora convertendosi di nuovo alla legge giudaica sono nel vero, la conseguenza non può essere che questa: con il loro sforzo di cercare la giustificazione in Cristo, e non nelle opere della legge, sono diventati anch’essi peccatori come i pagani che non hanno la legge. E allora si pone la domanda che è tutta un rimprovero: Cristo sarebbe dunque un complice del peccato, sarebbe al servizio del peccato? « Non sia mai! ».
v. 18. Il versetto spiega perché chi tornasse a condurre una vita secondo la legge, per ciò stesso si qualificherebbe da sé come un « trasgressore » della Torà e quindi come un pagano senza la legge. Con i termini contrapposti demolire – ricostruire, Paolo sembra riprodurre un’espressione rabbinica. Dietro l’aggettivo indeterminato « queste cose » si nasconde la concezione della legge come parete divisoria, che nell’opinione giudaica separa i giudei dai pagani. Pietro ha abbattuto questa parete divisoria quando praticava la comunione di mensa con gli etnicocristiani, adesso comincia di nuovo a ricostruirla. Se lo fa, vuol dire che egli stesso giudica la sua precedente comunione di mensa con gli etnicocristiani come qualcosa di peccaminoso, e così si classifica spontaneamente come un trasgressore della legge.
v. 19. Paolo propone un’idea del tutto nuova e a prima vista incomprensibile: « Mediante la legge sono morto per la legge ». Il pensiero potrebbe essere più chiaro se dicesse: « Mediante la fede e il battesimo sono morto alla legge »; ma questo complemento non c’è. Il commento teologico a Gal 2,19 si trova in Rm 7,1-6, specialmente nel v. 6. La legge, benché fosse per sua natura una forza vitale (Gal 3,12) e santa (Rm 7,12), di fatto è diventata una potenza di morte (Rm 7,10). Alla legge è stata congiunta da Dio la promessa della vita, ma ciò vale solo per colui che l’adempie (Gal 3,12). Chi non l’adempie è votato alla sua maledizione apportatrice di morte. E, in realtà, secondo Paolo nessuno è in grado di adempiere le rigide esigenze della legge. Perciò tutti « per mezzo della legge » sono vittime della morte, « morti ». Da Dio stesso con la legge è stata offerta all’uomo la possibilità della vita o della morte: « Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male » (Dt 30,15). All’uomo la scelta: se adempie la legge, ha la vita dinanzi a Dio; se la trasgredisce, incorre nella maledizione mortifera della legge. E Paolo non ha esitazioni nel constatare la morte dell’uomo « ad opera della legge »! Ma come può aggiungere: « affinché io viva per Dio »? Gli enunciati di questo verso sono troppo concisi e non esplicano sufficientemente la teologia che sottintendono. Solo conoscendo la teologia complessiva delle Lettere ai Romani e ai Galati, si può comprendere la connessione concettuale fra questo « essere crocifisso con Cristo » e il « morire a discapito della legge ». Dietro l’espressione « io sono crocifisso con Cristo » si nasconde un punto capitale della teologia battesimale di Paolo, secondo cui il battesimo è un misterioso morire con Cristo (Rm 6,3-9; Col 2,12; 2Cor 6,9). Per Paolo nel battesimo non ci si ferma al morire con Cristo, ma contemporaneamente è un venire risuscitati con lui a una vita nuova. In Cristo il battezzato ha ricevuto un nuovo Signore, che è subentrato al posto della legge (Rm 7,1-6). Allora, se è vero che noi siamo stati sospinti nella morte dalla legge, il morire fu però un morire insieme a Cristo, il Vivente, cosicché ora noi viviamo « per Dio ». La legge non può più avanzare alcuna pretesa su di noi; la sua maledizione mortifera è stata abolita da Cristo (Gal 3,13). Da Cristo è stata creata una situazione di salvezza completamente nuova, con la quale è eliminata una volta per tutte l’antica situazione di morte, nella quale ci trovavamo mentre imperava la legge.
Veramente, secondo l’Antico Testamento il fine della legge era « una vita per Dio » ma, data la debolezza della carne e la peccaminosità dell’uomo da essa provocata, questo fine non veniva raggiunto. Ora invece, grazie alla morte in comunione con Cristo, esso deve e può essere raggiunto. Come fa capire l’espressione « affinché io viva per Dio », questa vita nuova è intesa anzitutto in senso etico, cioè essa si manifesta esistenzialmente nell’obbedienza all’imperativo divino (Rm 6,2.4.11 ss.; 7,4; 2Cor 5,15; 1Tm 6,18-19). È vero che chi è morto alla legge non è più tenuto a compiere le opere della legge, ma non è neppure abbandonato al libertinismo pagano e alla mancanza di legge dei pagani, ma ora è più che mai obbligato a vivere per Dio, perché Cristo vive in lui. Di ciò si tratta nel v. seguente.
v. 20. Il verbo « vivere » del v.19 ha fornito all’apostolo uno spunto decisivo, che dà origine a quattro frasi contenenti il medesimo termine. Da Cristo oramai è stato inaugurato l’eone nuovo, escatologico, che pone fine all’eone antico, contraddistinto dalla legge. Dunque la dichiarazione « Cristo vive in me » ha un senso ontologico ed escatologico. Per il fatto che Cristo, fondatore e fondamento del nuovo eone, vive nel battezzato, questi vive davvero nel futuro salvifico, già iniziato, della signoria di Cristo e quindi è sottratto all’eone della legge. Sennonché questa « esistenza in Cristo » del battezzato ha una sua particolare proprietà: per adesso è ancora un’esistenza « nella carne ». Ma benché il battezzato « adesso » viva ancora « nella carne » e perciò diretto alla morte fisica, egli tuttavia « vive nella fede » del Figlio di Dio. « Nella carne » e « nella fede » richiamano le condizioni esistenziali tuttora esistenti: io sono ancora « nella carne » e non vivo ancora nella contemplazione, ma « nella fede ». E la fede nella quale vivo non è una fede generica, ma precisamente fede « nel Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me ». Poiché il Figlio di Dio mi ha amato e si è sacrificato per me, la mia esistenza carnale è un’esistenza di piena fiducia e di ferma speranza. Cristo non mi abbandonerà alla sorte che tocca all’esistere nella carne, a quell’essere fisicamente votato alla morte, ma farà sì che la mia vita vera – ricevuta nel battesimo e per il momento nascosta con Cristo in Dio (Col 3,3) – abbia il sopravvento definitivo sulla morte. La vita trascorsa nella fede è sicuramente un’esistenza provvisoria, ma con la certezza che il Cristo vivente in me e morto per me vincerà il mio destino di morte congiunto all’esistenza nella carne (Rm 7,24; 8). Mentre l’esistenza « nella carne » destina alla caducità e alla morte, l’esistenza « nella fede » indirizza al futuro di Dio. « La fede, infatti, è anticipazione del futuro » (Bisping).
v. 21. « Non invalido la grazia ». La grazia è il fatto che Cristo ha dato se stesso per me. Il Figlio di Dio è andato alla morte « per me », cioè al mio posto e in mio favore. Questo è un avvenimento di grazia perché io fui graziato e ricevetti la vita di Cristo, senza la legge, ma per puro amore di Dio verso di me. Perciò qui chàris assume il significato di « ordinamento di grazia » che si contrappone ad un altro ordinamento, al sistema della legge. Con questo versetto Paolo propone un aut-aut: o la legge o il vangelo! E che il divino ordinamento della grazia sia concepito in contrasto con la legge risulta chiaro dal seguito dello scritto: « Infatti se la giustizia proviene dalla legge, allora Cristo è morto invano ». Paolo afferma che la salvezza escatologica, la giustificazione viene soltanto dal Cristo morto e risorto. E la via che conduce ad essa è la via della fede. « L’antica possibilità di connessione con la legge, che pone il giudeo di fronte a Dio e che si realizza nell’adempimento dei precetti, è abolita coll’ »in Cristo », ossia è sostituita da una nuova, più stretta connessione, che concede agli uomini di partecipare di Dio mediante suo Figlio, apparso nella carne. Il nuovo principio di questa partecipazione è la fede, che per il cristiano ha abrogato il vecchio principio della legge, che collegava il giudeo a Dio » (Schoeps). Secondo Paolo la legge era in funzione e preparazione alla nuova alleanza che Dio avrebbe fatto attraverso il suo Messia. Ora il Messia è venuto e quindi la legge ha adempiuto la sua funzione « che indirizzava al di là di se stessa » ossia al Cristo. « La legge è stata il nostro pedagogo finché non fosse venuto il Cristo, affinché fossimo giustificati dalla fede » (Gal 3,24). La legge come via di salvezza è superata dalla morte vicaria ed espiatrice di Cristo. Altrimenti Cristo sarebbe morto invano; la sua venuta nel mondo e la sua morte sarebbero state superflue. A dire il vero anche i giudeocristiani, o più esattamente i giudaisti cristiani, non negavano la portata salvifica della morte di Cristo. Però vedevano il rapporto legge-Cristo diversamente da Paolo. Anche secondo loro « Cristo morì per i nostri peccati », perché noi non abbiamo soddisfatto le esigenze della legge e anche in futuro più volte non le soddisferemo. Proprio per questo, Cristo con la sua morte espia. Ma a loro giudizio ciò non significa che per questa ragione la legge sia messa fuori gioco; anche in seguito la Torà continuerà a sussistere in tutta la sua completezza e validità. Per chi si sottrae alle sue esigenze, anzi la dichiara nulla, anche la morte di Cristo non ha un’importanza salvifica. Così i « giudaisti » fra i giudeocristiani cercavano di prendere sul serio e l’una e l’altra cosa: la Torà con il suo permanente valore e, insieme, la croce di Cristo. Paolo invece vede diversamente la relazione tra legge e Cristo, tra il dominio della legge e il dominio della grazia. Egli è convinto che con la risurrezione di Cristo è già cominciato il futuro eone della vita eterna. La conseguenza per Paolo è che così ha avuto inizio anche un nuovo ordinamento di salvezza con una nuova via di salvezza: il tempo in cui tutto è regolato dalla grazia di Dio, in cui la giustificazione dell’uomo avviene « per fede » e non più per le opere della legge. Quindi, nel pensiero di Paolo Cristo segna l’autentica cesura della storia: ciò che stava prima di lui è l’eone antico, contrassegnato dal potere della legge che conduce alla morte; ciò che comincia con lui è l’eone avvenire, nuovo, nel quale viene concesso ai credenti mediante il battesimo e la fede il dono escatologico della vita, e così è già completamente infranto il dominio della morte esercitato dalla legge. Per Paolo, Cristo è « la fine della legge per chiunque crede » (Rm 10,4). A questo riguardo vogliamo ricordare che Paolo ha elaborato la sua teologia della legge non contro il giudaismo, ma contro i suoi avversari « giudaisti » cristiani. In Galati egli lotta contro un falso vangelo cristiano.
