Archive pour juin, 2013

LETTERA AI GALATI (il testo per la messa dell’16 giugno 2013 è Gal 2, 16.19-21)

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LETTERA AI GALATI (il testo per la messa dell’16 giugno 2013 è  Gal 2, 16.19-21)

di PEDRON LINO

(sul sito commento a tutta la lettera)

c) L’incidente di Antiochia (2,11-21)

11Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. 12Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. 13E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, al punto che anche Bàrnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. 14Ora quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei? 15Noi che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, 16sapendo tuttavia che l’uomo non è giustificato dalle opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Gesù Cristo per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge; poiché dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno».
17Se pertanto noi che cerchiamo la giustificazione in Cristo siamo trovati peccatori come gli altri, forse Cristo è ministro del peccato? Impossibile! 18Infatti se io riedifico quello che ho demolito, mi denuncio come trasgressore. 19In realtà mediante la legge io sono morto alla legge, per vivere per Dio. 20Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me. 21Non annullo dunque la grazia di Dio; infatti se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano.
Sulla base della precedente esposizione dei fatti e delle decisioni prese a Gerusalemme, si potrebbe pensare che le tensioni suscitate dalla comparsa dei « falsi fratelli » giudaisti fossero definitivamente risolte e le questioni chiarite.

Ma l’incidente avvenuto in Antiochia dimostra che le cose non stavano proprio così.
Come fu possibile che ciò avvenisse dopo la stretta di mano a Gerusalemme? A questa domanda si deve anzitutto rispondere: per la situazione particolare della comunità di Antiochia, che era mista, cioè composta da ex giudei e da ex pagani. I contenuti degli accordi di Gerusalemme nella formula riportata da Paolo era questo: « Noi ai pagani, essi ai giudei ». Questa decisione era chiara. Ma come si doveva procedere nella prassi, nei luoghi in cui esisteva una comunità cristiana mista, come ad Antiochia? Sembra che, in un primo momento, nella comunità cristiana di Antiochia siano convissuti senza attrito ex giudei ed ex pagani, uniti nella comunione di mensa. Anche Pietro si comportò così « finché giunsero alcuni da parte di Giacomo », cioè della comunità di Gerusalemme, i quali si scandalizzarono per tale comunione di mensa. Pietro cadde nell’incertezza e si tirò indietro, il che indusse Paolo « a opporsi in faccia a lui » e a mostrargli le conseguenze del suo comportamento, e questo dovette provocare una discussione sul rapporto tra legge e vangelo. Forse i giudeocristiani provenienti da Gerusalemme erano disposti ad ammettere l’esenzione degli etnicocristiani dalla legge, ma ciò che non riuscivano ad accettare era questo: che anche un giudeo (come Pietro) fosse esente da una vita conforme alla legge, quando si fosse fatto cristiano. Secondo loro, un ex giudeo doveva anche da cristiano restare fedele alle tradizioni paterne. Questo problema non era stato risolto a Gerusalemme. E per un giudeo tale problema era veramente grande. Perciò è comprensibile che essi si siano fortemente scandalizzati del comportamento di Pietro che mangiava con gli etnicocristiani e abbiano manifestato vigorosamente il loro risentimento. Ma se avessero avuto ragione, sarebbe stato riconosciuto un ulteriore valore salvifico della legge e la verità del vangelo sarebbe stata di nuovo messa in pericolo. Paolo lo capì subito: di qui il suo appassionato intervento contro Pietro. Paolo può dimostrare di aver difeso la verità del vangelo perfino contro Pietro, quando fu necessario. Anche se i suoi avversari in Galazia si appellassero a Pietro, qui trovano una risposta puntuale, come sopra l’avevano trovata nel caso si fossero appellati a Giacomo. Questo accenno era al tempo stesso la prova più convincente che Paolo non aveva ricevuto il suo vangelo « da un uomo »; altrimenti come avrebbe potuto osare di procedere contro lo stesso uomo-roccia in nome del vangelo?
v.11. L’incidente di Antiochia rappresenta un’ulteriore componente dell’argomentazione con la quale Paolo mostra che il suo vangelo non proviene « da uomo ». In che cosa consisterebbe di fatto l’ « opporsi in faccia » risulta solo dal v. 14: di fronte alla comunità radunata, Paolo chiede severamente conto a Pietro del suo comportamento. E la colpa di Pietro consiste non solo nel timore e nella vile ipocrisia, ma anche nel pericolo che, per effetto del suo singolare comportamento, Pietro minaccia l’unità della comunità, e particolarmente nella sua incoerenza teologica, come Paolo gli fa notare. Paolo ha visto nella condotta di Pietro non tanto un attacco contro di sé, ma contro la verità del vangelo, un attacco al quale bisognava opporsi.
v. 12. Ogni comunione di mensa con i pagani era, per giudei e giudeocristiani di stretta ortodossia, un orrore (At 11,3). Anche Pietro in principio pensava così, finchè Dio non gli cambiò la mente (At 10). Comunque, in Antiochia egli sedeva a mensa con gli etnicocristiani senza farsi problema « prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo ». È Giacomo che li ha mandati? Oppure sono arrivati da Gerusalemme alcuni giudeocristiani senza alcun incarico da parte di Giacomo? Stando al testo non si può prendere nessuna decisione a proposito. Paolo afferma semplicemente il fatto del loro arrivo e le conseguenze che esso provocò nella comunità di Antiochia. Molti esegeti sostengono che questi giudeocristiani furono mandati effettivamente da Giacomo ad Antiochia per compiere un’ispezione sui giudeocristiani, sui quali Giacomo, fratello del Signore, pretendeva di esercitare una giurisdizione. Ciò spiegherebbe anche il timore di Pietro nei confronti di questi ispettori. Paolo non si mette neanche a discutere con costoro, ma con Pietro perché costui per Paolo non è un uomo qualunque, ma l’uomo al quale spettano le ultime decisioni.
I giudeocristiani provenienti da Gerusalemme hanno una rigorosa mentalità legalistica e non possono concepire che si possa andare a tavola coi pagani, anche se questi – come essi stessi – sono diventati cristiani. Perciò si scandalizzano di una tale comunione di mensa in Antiochia; a quanto pare, per questo motivo, rivolgono rimproveri particolarmente aspri a Pietro e questi perde coraggio e si tira indietro. Il timore di Pietro si inquadra bene con il suo carattere (processo di Gesù); esso è espressione della sua viltà e della sua propensione a lasciarsi influenzare.
v. 13. Paolo giudica la condotta di Pietro una « ipocrisia », come risulta dall’osservazione: « Essi simularono insieme a lui ». Probabilmente upòkrisis, ipocrisia, vuole semplicemente caratterizzare l’incoerenza del comportamento di Pietro. L’ipocrisia di Pietro si deve interpretare in base al v. 16, ossia a partire dalla migliore « conoscenza » di cui Pietro certamente dispone: come cristiano, egli « sa » precisamente che l’uomo viene giustificato dalla fede e non dalle opere della legge (At 10, 43-48). Quindi egli agisce contro la sua coscienza. Dunque il rimprovero di ipocrisia non riguarda il comportamento tattico di Pietro, ma la sua condotta teologica. Il peggio però fu che anche Barnaba, il coraggioso compagno di lotta di Paolo a Gerusalemme, cominciò a cedere e « si lasciò trascinare dalla loro simulazione »; e probabilmente questo improvviso voltafaccia di Barnaba colpì personalmente Paolo ancor più di quello di Pietro.
v. 14. Paolo vede subito che Pietro, Barnaba e gli altri « non camminano diritto per ciò che riguarda la verità del vangelo ». Contro la loro migliore convinzione tentano di conseguire la verità del vangelo per vie traverse, facendo un giro attraverso il giudaismo, quindi non per la via diretta che porta a Cristo. La via è determinata dalla meta: essa passa attraverso la fede e non attraverso le opere della legge. Poiché Paolo vede Pietro su una strada sbagliata, che allontana dalla verità del vangelo, gliene chiede conto apertamente in presenza di tutti. « Paolo prende sempre tutta la Chiesa locale come testimone dei suoi interventi personali » (Bonnard). Fino a questo momento, con larghezza di vedute, Pietro ad Antiochia non ha tenuto conto della legge giudaica sui cibi. Ma ora, sotto la pressione dei nuovi arrivati da Gerusalemme egli vive nuovamente alla maniera dei giudei. Così, di fatto, costringe gli etnicocristiani a vivere in modo giudaico se vogliono continuare a mantenere anche esteriormente quella comunione ecclesiale che si manifesta nella comunione di mensa. La discussione teologica, alla quale Paolo passa al v.15, sia pure formalmente è indirizzata a Pietro, ma in realtà si rivolge già ai destinatari della lettera, i quali sono proprio personalmente interessati al tema di questa esposizione.
Paolo dimostra le conseguenze teologiche del vivere in modo giudaico: esso annulla il vangelo, perché ripropone nuovamente la speranza della salvezza nelle opere della legge, cosa che adesso anche i Galati vogliono fare.
vv. 15-16. Paolo parte da un fatto innegabile: esistono anche giudei che credono in Gesù Cristo: lui stesso, Pietro, Barnaba… Essi dovettero pur aver un motivo quando si fecero cristiani credenti; e il motivo è questo: essi « sanno » che la giustificazione dell’uomo si ha mediante la fede in Gesù Cristo, e non con l’adempimento delle opere della legge. Che cosa si intende precisamente con queste « opere della legge » che non procurano la giustificazione? Considerato il contesto di Gal 2,16 si pensa alle opere connesse con il modo di vivere giudaico, prima di tutte la prescrizione sui cibi. Ma dagli altri passi della lettera (3,2. 5.10) si ricava che come « opere della legge » non si vuole indicare soltanto le prescrizioni rituali del giudaismo, compresa la circoncisione, ma le « opere » dell’uomo deducibili dalla totalità della legge, dalla Torà. Questa constatazione è confermata dalla Lettera ai Romani (3,20.27-28; 4,2; 9,11-12. 31-32: 11,6).
La giustificazione avviene per fede; ciò è valido per sempre e, secondo l’esegesi scritturistica di Paolo, è già stato valido da sempre come mostra l’esempio di Abramo (Gal 3,6-12; Rm 4, 2-3. 23-24). Al posto del principio della legge, che comunque non portava alla giustificazione (Gal 3,11-12), subentra il principio della fede. La fede è la risposta appropriata a una concreta offerta di grazia da parte di Dio. La fede giustificante ha il suo fondamento oggettivo in quell’evento salvifico che è inscindibilmente congiunto con la persona e l’opera redentrice di Gesù Cristo; essa per ciò non è una fede qualsiasi, ma « fede in Gesù Cristo ». Quindi la fede della giustificazione non è neppure semplicemente – per quanto sia già gran cosa – fiducia nella bontà di Dio. La via della giustificazione dai peccati e del loro perdono da parte di Dio, per i giudei passa attraverso « le opere della legge ». Al contrario, per Paolo la via della salvezza non passa più per le opere della legge, ma esclusivamente attraverso la fede in Gesù Cristo. Cristo è subentrato al posto della legge. L’appropriazione della salvezza non si compie più mediante le opere della legge, ma soltanto per mezzo della fede nel Cristo morto e risorto. In questa prospettiva « la legge è stata il nostro pedagogo fino all’arrivo di Cristo » (3,24). Ma chi viene giustificato dalla fede? La risposta di Paolo è chiara: l’uomo, ogni uomo senza eccezione; che sia giudeo o pagano non fa differenza.
Paolo continua il suo discorso: Anche noi giudeocristiani, benché per nascita fossimo giudei e dapprincipio ci aspettassimo la salvezza dalla legge, ci siamo tuttavia decisi a scegliere la fede in Cristo proprio perché noi siamo giunti alla convinzione che la giustificazione non proviene dalla legge, ma dalla fede in Cristo. « Noi diventammo credenti in Gesù Cristo »: con ciò l’apostolo indica la specificità dalla quale tutto dipende e che distingue la fede cristiana da quella giudaica. Dunque la conversione dei giudei al vangelo ha questo scopo: « essere giustificati dalla fede in Cristo » .
v. 17. Il versetto presenta difficoltà di interpretazione. Se adesso Pietro e gli altri giudeocristiani si ritirano dalla comunione di mensa con gli etnicocristiani ciò suscita facilmente l’impressione che con questa comunione di mensa abbiano agito contro la loro coscienza, compiendo qualcosa di male. E tuttavia sono loro stessi convinti che la giustificazione si deve ricercare solo in Cristo e non nelle prescrizioni rituali del giudaismo riguardanti i cibi. Essi vivevano in Antiochia secondo le norme dei pagani (v. 14). Se ora convertendosi di nuovo alla legge giudaica sono nel vero, la conseguenza non può essere che questa: con il loro sforzo di cercare la giustificazione in Cristo, e non nelle opere della legge, sono diventati anch’essi peccatori come i pagani che non hanno la legge. E allora si pone la domanda che è tutta un rimprovero: Cristo sarebbe dunque un complice del peccato, sarebbe al servizio del peccato? « Non sia mai! ».
v. 18. Il versetto spiega perché chi tornasse a condurre una vita secondo la legge, per ciò stesso si qualificherebbe da sé come un « trasgressore » della Torà e quindi come un pagano senza la legge. Con i termini contrapposti demolire – ricostruire, Paolo sembra riprodurre un’espressione rabbinica. Dietro l’aggettivo indeterminato « queste cose » si nasconde la concezione della legge come parete divisoria, che nell’opinione giudaica separa i giudei dai pagani. Pietro ha abbattuto questa parete divisoria quando praticava la comunione di mensa con gli etnicocristiani, adesso comincia di nuovo a ricostruirla. Se lo fa, vuol dire che egli stesso giudica la sua precedente comunione di mensa con gli etnicocristiani come qualcosa di peccaminoso, e così si classifica spontaneamente come un trasgressore della legge.
v. 19. Paolo propone un’idea del tutto nuova e a prima vista incomprensibile: « Mediante la legge sono morto per la legge ». Il pensiero potrebbe essere più chiaro se dicesse: « Mediante la fede e il battesimo sono morto alla legge »; ma questo complemento non c’è. Il commento teologico a Gal 2,19 si trova in Rm 7,1-6, specialmente nel v. 6. La legge, benché fosse per sua natura una forza vitale (Gal 3,12) e santa (Rm 7,12), di fatto è diventata una potenza di morte (Rm 7,10). Alla legge è stata congiunta da Dio la promessa della vita, ma ciò vale solo per colui che l’adempie (Gal 3,12). Chi non l’adempie è votato alla sua maledizione apportatrice di morte. E, in realtà, secondo Paolo nessuno è in grado di adempiere le rigide esigenze della legge. Perciò tutti « per mezzo della legge » sono vittime della morte, « morti ». Da Dio stesso con la legge è stata offerta all’uomo la possibilità della vita o della morte: « Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male » (Dt 30,15). All’uomo la scelta: se adempie la legge, ha la vita dinanzi a Dio; se la trasgredisce, incorre nella maledizione mortifera della legge. E Paolo non ha esitazioni nel constatare la morte dell’uomo « ad opera della legge »! Ma come può aggiungere: « affinché io viva per Dio »? Gli enunciati di questo verso sono troppo concisi e non esplicano sufficientemente la teologia che sottintendono. Solo conoscendo la teologia complessiva delle Lettere ai Romani e ai Galati, si può comprendere la connessione concettuale fra questo « essere crocifisso con Cristo » e il « morire a discapito della legge ». Dietro l’espressione « io sono crocifisso con Cristo » si nasconde un punto capitale della teologia battesimale di Paolo, secondo cui il battesimo è un misterioso morire con Cristo (Rm 6,3-9; Col 2,12; 2Cor 6,9). Per Paolo nel battesimo non ci si ferma al morire con Cristo, ma contemporaneamente è un venire risuscitati con lui a una vita nuova. In Cristo il battezzato ha ricevuto un nuovo Signore, che è subentrato al posto della legge (Rm 7,1-6). Allora, se è vero che noi siamo stati sospinti nella morte dalla legge, il morire fu però un morire insieme a Cristo, il Vivente, cosicché ora noi viviamo « per Dio ». La legge non può più avanzare alcuna pretesa su di noi; la sua maledizione mortifera è stata abolita da Cristo (Gal 3,13). Da Cristo è stata creata una situazione di salvezza completamente nuova, con la quale è eliminata una volta per tutte l’antica situazione di morte, nella quale ci trovavamo mentre imperava la legge.
Veramente, secondo l’Antico Testamento il fine della legge era « una vita per Dio » ma, data la debolezza della carne e la peccaminosità dell’uomo da essa provocata, questo fine non veniva raggiunto. Ora invece, grazie alla morte in comunione con Cristo, esso deve e può essere raggiunto. Come fa capire l’espressione « affinché io viva per Dio », questa vita nuova è intesa anzitutto in senso etico, cioè essa si manifesta esistenzialmente nell’obbedienza all’imperativo divino (Rm 6,2.4.11 ss.; 7,4; 2Cor 5,15; 1Tm 6,18-19). È vero che chi è morto alla legge non è più tenuto a compiere le opere della legge, ma non è neppure abbandonato al libertinismo pagano e alla mancanza di legge dei pagani, ma ora è più che mai obbligato a vivere per Dio, perché Cristo vive in lui. Di ciò si tratta nel v. seguente.
v. 20. Il verbo « vivere » del v.19 ha fornito all’apostolo uno spunto decisivo, che dà origine a quattro frasi contenenti il medesimo termine. Da Cristo oramai è stato inaugurato l’eone nuovo, escatologico, che pone fine all’eone antico, contraddistinto dalla legge. Dunque la dichiarazione « Cristo vive in me » ha un senso ontologico ed escatologico. Per il fatto che Cristo, fondatore e fondamento del nuovo eone, vive nel battezzato, questi vive davvero nel futuro salvifico, già iniziato, della signoria di Cristo e quindi è sottratto all’eone della legge. Sennonché questa « esistenza in Cristo » del battezzato ha una sua particolare proprietà: per adesso è ancora un’esistenza « nella carne ». Ma benché il battezzato « adesso » viva ancora « nella carne » e perciò diretto alla morte fisica, egli tuttavia « vive nella fede » del Figlio di Dio. « Nella carne » e « nella fede » richiamano le condizioni esistenziali tuttora esistenti: io sono ancora « nella carne » e non vivo ancora nella contemplazione, ma « nella fede ». E la fede nella quale vivo non è una fede generica, ma precisamente fede « nel Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me ». Poiché il Figlio di Dio mi ha amato e si è sacrificato per me, la mia esistenza carnale è un’esistenza di piena fiducia e di ferma speranza. Cristo non mi abbandonerà alla sorte che tocca all’esistere nella carne, a quell’essere fisicamente votato alla morte, ma farà sì che la mia vita vera – ricevuta nel battesimo e per il momento nascosta con Cristo in Dio (Col 3,3) – abbia il sopravvento definitivo sulla morte. La vita trascorsa nella fede è sicuramente un’esistenza provvisoria, ma con la certezza che il Cristo vivente in me e morto per me vincerà il mio destino di morte congiunto all’esistenza nella carne (Rm 7,24; 8). Mentre l’esistenza « nella carne » destina alla caducità e alla morte, l’esistenza « nella fede » indirizza al futuro di Dio. « La fede, infatti, è anticipazione del futuro » (Bisping).
v. 21. « Non invalido la grazia ». La grazia è il fatto che Cristo ha dato se stesso per me. Il Figlio di Dio è andato alla morte « per me », cioè al mio posto e in mio favore. Questo è un avvenimento di grazia perché io fui graziato e ricevetti la vita di Cristo, senza la legge, ma per puro amore di Dio verso di me. Perciò qui chàris assume il significato di « ordinamento di grazia » che si contrappone ad un altro ordinamento, al sistema della legge. Con questo versetto Paolo propone un aut-aut: o la legge o il vangelo! E che il divino ordinamento della grazia sia concepito in contrasto con la legge risulta chiaro dal seguito dello scritto: « Infatti se la giustizia proviene dalla legge, allora Cristo è morto invano ». Paolo afferma che la salvezza escatologica, la giustificazione viene soltanto dal Cristo morto e risorto. E la via che conduce ad essa è la via della fede. « L’antica possibilità di connessione con la legge, che pone il giudeo di fronte a Dio e che si realizza nell’adempimento dei precetti, è abolita coll’ »in Cristo », ossia è sostituita da una nuova, più stretta connessione, che concede agli uomini di partecipare di Dio mediante suo Figlio, apparso nella carne. Il nuovo principio di questa partecipazione è la fede, che per il cristiano ha abrogato il vecchio principio della legge, che collegava il giudeo a Dio » (Schoeps). Secondo Paolo la legge era in funzione e preparazione alla nuova alleanza che Dio avrebbe fatto attraverso il suo Messia. Ora il Messia è venuto e quindi la legge ha adempiuto la sua funzione « che indirizzava al di là di se stessa » ossia al Cristo. « La legge è stata il nostro pedagogo finché non fosse venuto il Cristo, affinché fossimo giustificati dalla fede » (Gal 3,24). La legge come via di salvezza è superata dalla morte vicaria ed espiatrice di Cristo. Altrimenti Cristo sarebbe morto invano; la sua venuta nel mondo e la sua morte sarebbero state superflue. A dire il vero anche i giudeocristiani, o più esattamente i giudaisti cristiani, non negavano la portata salvifica della morte di Cristo. Però vedevano il rapporto legge-Cristo diversamente da Paolo. Anche secondo loro « Cristo morì per i nostri peccati », perché noi non abbiamo soddisfatto le esigenze della legge e anche in futuro più volte non le soddisferemo. Proprio per questo, Cristo con la sua morte espia. Ma a loro giudizio ciò non significa che per questa ragione la legge sia messa fuori gioco; anche in seguito la Torà continuerà a sussistere in tutta la sua completezza e validità. Per chi si sottrae alle sue esigenze, anzi la dichiara nulla, anche la morte di Cristo non ha un’importanza salvifica. Così i « giudaisti » fra i giudeocristiani cercavano di prendere sul serio e l’una e l’altra cosa: la Torà con il suo permanente valore e, insieme, la croce di Cristo. Paolo invece vede diversamente la relazione tra legge e Cristo, tra il dominio della legge e il dominio della grazia. Egli è convinto che con la risurrezione di Cristo è già cominciato il futuro eone della vita eterna. La conseguenza per Paolo è che così ha avuto inizio anche un nuovo ordinamento di salvezza con una nuova via di salvezza: il tempo in cui tutto è regolato dalla grazia di Dio, in cui la giustificazione dell’uomo avviene « per fede » e non più per le opere della legge. Quindi, nel pensiero di Paolo Cristo segna l’autentica cesura della storia: ciò che stava prima di lui è l’eone antico, contrassegnato dal potere della legge che conduce alla morte; ciò che comincia con lui è l’eone avvenire, nuovo, nel quale viene concesso ai credenti mediante il battesimo e la fede il dono escatologico della vita, e così è già completamente infranto il dominio della morte esercitato dalla legge. Per Paolo, Cristo è « la fine della legge per chiunque crede » (Rm 10,4). A questo riguardo vogliamo ricordare che Paolo ha elaborato la sua teologia della legge non contro il giudaismo, ma contro i suoi avversari « giudaisti » cristiani. In Galati egli lotta contro un falso vangelo cristiano.

16 GIUGNO 2013 | 11A DOMENICA – TEMPO ORDINARIO C : « LE SONO PERDONATI I SUOI MOLTI PECCATI, PERCHÉ HA MOLTO AMATO »

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16 GIUGNO 2013  | 11A DOMENICA – TEMPO ORDINARIO C  |  APPUNTI ESEGESITICO-SPIRITUALI

« LE SONO PERDONATI I SUOI MOLTI PECCATI, PERCHÉ HA MOLTO AMATO »

È veramente un messaggio di gioia e di liberazione quello che si sprigiona da tutti i testi liturgici di questa Domenica: la « gioia » di sentirsi liberati dal peccato, piccolo o grande che sia, che ci opprime, ci tormenta, ci chiude in noi stessi, logora le nostre energie, sta sempre lì a dimostrarci che siamo un abbozzo mal riuscito, oppure un uccello dalle ali ferite. Vorremmo volare in alto, verso il cielo, ma siamo come schiacciati verso la terra, e questo ci reca enorme tristezza, direi quasi rabbia e disperazione.
Sentirci allora dire come Davide dal profeta Natan: « Il Signore ha perdonato il tuo peccato: tu non morirai » (2 Sam 12,13), oppure: « Ti sono perdonati i tuoi peccati », come fece Gesù con la peccatrice (Lc 7,48), è provare un senso di liberazione come da un peso opprimente, che ci riempie il cuore di felicità. È come un tornare a rinascere o a rivedere la luce dopo una lunga, oscura prigionia.
Questo senso di gioia lo esprime mirabilmente il Salmo responsoriale: « Beato l’uomo a cui è rimessa la colpa / e perdonato il peccato… / Ti ho manifestato il mio peccato, / non ho tenuto nascosto il mio errore. / Ho detto: « Confesserò al Signore le mie colpe » / e tu hai rimessa la malizia del mio peccato » (Sal 32,1-5).
Anche se il perdono è gratuito, come ci dimostrerà anche meglio il racconto evangelico, rimane vero che l’uomo deve almeno supplicarlo, « confessandosi » peccatore. Da questo incontro fra l’amore perdonante di Dio e il gemito dell’uomo esplode la felicità di sentirsi « riaccettati » da Dio e dagli altri, come canta il ritornello: « Ridonami, Signore, la gioia del perdono » (cf Sal 51,14).

« Un creditore aveva due debitori… »
Il brano di Vangelo, riportato dal solo Luca, è il commento parlante di quanto veniamo dicendo: esso non ci descrive soltanto la « gioia del perdono » in una povera creatura, ma ci dimostra, la forza « creatrice » di un gesto di perdono, che Dio soltanto può compiere perché in realtà attinge i confini dalla onnipotenza. È l’episodio della « peccatrice » a cui Gesù rimette i peccati, da non confondersi con l’analogo episodio di cui è protagonista Maria, sorella di Lazzaro.
Essendo stato invitato Gesù a pranzo, nella casa di un fariseo, ecco che « una donna, una peccatrice di quella città… venne con un vasetto di olio profumato; e stando dietro, presso i suoi piedi, piangendo cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugò con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato. A quella vista il fariseo che l’aveva invitato pensò tra sé: « Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice »" (Lc 7,37-39).
Si noti l’animo cattivo del fariseo: egli coinvolge in un unico giudizio denigratorio Gesù e la donna. Quest’ultima è subito bollata con l’appellativo di « peccatrice », che dovrebbe indicare l’infamante mestiere della prostituta; Gesù viene sospettato di una certa connivenza, perché si lascia addirittura « toccare » da una simile persona. Per dei formalisti come i farisei, c’è una specie di contagio fisico anche del male morale! Non pensano per niente che Dio può compiere il prodigio di « rinnovare » il cuore dell’uomo e che ognuno può essere occasione di salvezza per il fratello caduto nel peccato.
È quanto Gesù cerca di far capire con un’incantevole parabola al fariseo Simone: « Un creditore aveva due debitori: l’uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta… » (vv. 41-43).
La parabola è trasparente e vi si trova benissimo anche il fariseo, il quale però non avverte che essa non è detta solo per la donna ma anche per lui: anche lui è un « debitore » verso Dio, cioè uno che ha peccato, ma che non vuole riconoscersi tale. Per questo nel suo cuore non c’è amore, o ce n’è pochissimo!
Lo stesso invito a pranzo, rivolto a Gesù, è più un gesto formalistico che di vera amicizia, come farà notare subito il Signore confrontando il suo atteggiamento con quello della « peccatrice »: « Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli… Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco » (vv. 44-47).
Gesù riassume tutti i gesti della donna e ne fa vedere il significato di accoglienza ospitale (gli ha lavato i piedi, glieli ha profumati ecc.), di generosità, di amore: lei, più che il fariseo, gli ha fatto « spazio » nella sua casa, cioè nella sua vita. E questo è segno che Dio è già presente nel suo cuore. Ma dove Dio è presente, il peccato è già distrutto.

« Ti sono rimessi i tuoi peccati »
Si sarà notato che la conclusione, che Gesù ricava dall’atteggiamento della donna, sembra capovolgere i termini della parabola: « Le sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato » (v. 47). Per maggiore coerenza si sarebbe dovuto dire: « Poiché le è stato perdonato molto (i cinquecento denari), per questo ama molto ». L’amore, che qui esprime soprattutto la gratitudine, viene prima o dopo il perdono, ne è causa od effetto?
Direi che Gesù va oltre questa casistica teologica ed afferma una cosa infinitamente più grande: l’amore sta alla radice di tutto, all’inizio e al termine di ogni incontro dell’uomo con Dio, proprio perché « Dio è amore » (1 Gv 4,8.16) ed egli lo dispensa gratuitamente ad ognuno che ne ha bisogno. Per una creatura che ha « molto peccato », come la donna del Vangelo, che sente disagio della sua situazione, che desidera di rompere le catene del male, che sente il fascino di Cristo, gli si muove incontro, gli offre in omaggio i frantumi della sua vita, significata dalla rottura di quel vaso di olio profumato, perché egli li ricomponga insieme, non è necessario che venga « prima » il perdono perché essa ami, in contraccambio, di più: l’amore è già nella ricerca appassionata del perdono, così come il perdono viene offerto solo perché c’è l’amore. Amore e perdono si incontrano e, in un certo senso, si identificano.
Quello che dirà subito dopo Gesù alla donna: « Ti sono rimessi i tuoi peccati… La tua fede ti ha salvata; va’ in pace » (vv. 48.50), è solo la registrazione di qualcosa che è già avvenuto nell’intimo della sua coscienza. Ed è detto ad alta voce, per tutti i presenti, perché si guardino dentro e vedano se nel loro cuore c’è un minimo di amore per ottenere il perdono, o come « segno » del perdono già ottenuto. Dal modo con cui essi hanno osservato, quasi scandalizzati, ciò che faceva la peccatrice, c’è da pensare che ci fosse poco amore in loro.
Ed è proprio per loro e per Simone il fariseo che Gesù ha detto quella frase terribile: « Quello a cui si perdona poco, ama poco » (v._47). L’amare « poco » è segno che c’è il peccato dentro di noi: la prostituta, che si china a baciare i piedi del Signore, è già liberata dal suo male. I pretesi « giusti », che la condannano, sono sotto il segno del peccato, mentre lei è « giustificata » per mezzo della fede e dell’amore. Cristo capovolge tutto: l’unica « santità » è quella di riconoscere che « lui solo è il Santo », perché « lui solo è il Signore » che ha il potere di trasformare il nostro cuore cancellando così il nostro peccato.

« Tu sei quell’uomo! »
L’episodio di Davide, riferitoci nella prima lettura, conferma mirabilmente quanto ci ha detto fin qui il Vangelo.
Davide aveva commesso adulterio con Betsabea e per non avere recriminazioni da parte del marito, anzi per possedere definitivamente la donna, aveva ordinato al generale Joab di collocarlo nel punto più pericoloso della battaglia che egli stava conducendo contro gli Ammoniti, in modo che venisse ucciso: ciò che di fatto avvenne (cf 2 Sam 11). All’adulterio si aggiunsero, dunque, il tradimento e l’assassinio. Qualcosa di incredibile in un uomo come Davide, che Dio si era « scelto » fra tutti i figli di Israele per farlo capo del suo popolo!
È a questo punto che Dio inviò il profeta Natan per rimproverare apertamente il re dei suoi crimini banditeschi. Ciò che egli fece raccontando la parabola del povero che aveva una sola pecora, che amava come fosse « una figlia », e del ricco prepotente che, per imbandire un pranzo ad un ospite che nel frattempo era venuto da lui, non prese dal suo numeroso gregge, ma ordinò che fosse uccisa l’unica pecora del vicino (cf 2 Sam 12,1-4).
Allo scoppio di collera di Davide, che voleva subito far punire il colpevole, il Profeta risponde che il colpevole era proprio lui: « Tu sei quell’uomo! Così dice il Signore, Dio d’Israele: Io ti ho unto re d’Israele, e ti ho liberato dalle mani di Saul, ti ho dato la casa del tuo padrone e ho messo tra le tue braccia le donne del tuo padrone, ti ho dato la casa di Israele e di Giuda… Perché dunque hai disprezzato la parola del Signore, facendo ciò che è male ai suoi occhi? Tu hai colpito di spada Uria l’Hittita, hai preso in moglie la moglie sua e lo hai ucciso con la spada degli Ammoniti… » (2 Sam 12,7-10).
La colpa di Davide è tanto più grande non solo perché Dio lo aveva colmato di benefici, ma soprattutto perché non mancava di nulla, neppure di donne da prendere in moglie, senza « rubarne » una che già apparteneva al proprio marito, che poi bisognava far fuori per regolarizzare la propria posizione davanti alla gente. A Davide interessava più in quel momento apparire « pulito » di fronte ai suoi sudditi che non di fronte a Dio, che pur « scruta il cuore e le reni ». Era davvero un abisso di male quello in cui stava piombando « l’eletto di Dio »!
Ma proprio l’orrore dell’abisso e soprattutto il richiamo sferzante della « parola » hanno salvato all’ultimo momento Davide: egli ha visto il suo male, ne ha sentito pentimento e dolore, lo ha confessato davanti al profeta di Dio, e Dio lo ha perdonato. « Allora Davide disse a Natan: « Ho peccato contro il Signore! ». Natan rispose a Davide: « Il Signore ha perdonato il tuo peccato; tu non morirai »" (v. 13).
È a questo punto che il re d’Israele si è sentito come « rinnovato » nel suo cuore: il suo passato più non esisteva, tutto ricominciava da quel momento, come una nuova « creazione ». Il più meraviglioso e consolante fra tutti i Salmi, il « Miserere », sembra sia stato composto in questa occasione. È proprio lì che si parla del perdono come di una « creazione » e di una immensa fonte di « gioia »: « Crea in me, o Dio, un cuore puro, / rinnova in me uno spirito saldo… / Rendimi la gioia di essere salvato… » (Sal 51,12.14).
Con un precedente così clamoroso, che doveva essergli ben noto, come poteva Simone il fariseo scandalizzarsi del perdono concesso da Gesù alla « peccatrice » e del senso di « festa », espresso proprio durante un banchetto, con cui la donna aveva voluto esprimere la sua gratitudine al Signore? Contrariamente a quello che pensavano Simone e i suoi amici farisei, dal cuore dell’uomo, fosse pure grande e generoso come quello di Davide, non viene che il male: Dio solo ci salva con il suo amore!

« L’uomo non è giustificato dalle opere della legge,
ma soltanto dalla fede in Gesù Cristo »
È quanto ci dice S. Paolo nel brano della lettera ai Galati, che si riferisce al suo scontro con Pietro ad Antiochia, allorché quest’ultimo era ondeggiante nel suo comportamento relativamente a certe pratiche giudaiche, creando disagio nei cristiani di quella comunità e persino a Barnaba. L’Apostolo reagisce, richiamando l’assoluta priorità della « fede » nell’opera della salvezza, così come era stato stabilito nell’assemblea di Gerusalemme.
E la priorità della « fede » significa, in concreto, accettare di essere salvati esclusivamente per l’opera di Cristo, abbandonandosi al suo amore e imitandone i gesti. Proprio come era avvenuto per la « peccatrice », di cui ci parla Luca, e tutto il contrario di quanto presumevano i farisei, che rivendicavano la « giustizia » proveniente dalle loro opere: essendo, anzi, « orgogliosi » di queste!
« Fratelli, sapendo che l’uomo non è giustificato dalle opere della legge, ma soltanto dalla fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Gesù Cristo per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge; poiché dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno… Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » (Gal 2,16.19-20).
Qui abbiamo il nucleo della più caratteristica dottrina paolina, che affida solo a Dio, per la mediazione di Cristo, l’opera della salvezza, di modo che nessuno possa « gloriarsi » davanti a lui; ma qui non abbiamo il tempo di approfondirla. Vorrei solo far notare la forza dell’ultima espressione: mediante la « fede » Paolo è stato come calamitato in Cristo, di modo che ne ripercorre l’esperienza di « crocifissione » e di « vita » conseguente alla prima.
La « fede » che salva, perciò, non è una fede teorica, accademica, da scuola di teologia; ma una fede che afferra la vita, inchiodandola alla « croce » di Cristo, e agganciandola alla sua « risurrezione ». Una fede che ha bisogno di realizzarsi, dunque, di produrre frutti: perciò una fede rischiosa, dinamica, « compromissoria ».

 Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola. Riflessioni biblico-liturgiche

14 GIUGNO: SANT’ ELISEO PROFETA (mf)

http://www.santiebeati.it/dettaglio/57250

SANT’ ELISEO PROFETA (mf)

14 GIUGNO

M. 790 A.C.

Ricco possidente, originario di Abelmeula, il suo nome che significa «Dio salva» risponde bene alla missione svolta tra il popolo di Israele, sotto il regno di Ioram (853-842 a.c.), Iehu (842-815 a.c.), Ioacaz (814-798 a.c.) e Ioash (798-783). Eliseo era un uomo deciso e lo dimostra la prontezza con cui rispose al gesto simbolico di Elia che, per ordine di Jahvé, lo consacrava profeta e suo successore. Eliseo prese parte attiva alle vicende politiche del suo popolo attraverso il carisma della sua profezia e può essere considerato il più taumaturgico dei profeti dell’Antico Testamento. La Scrittura ricorda infatti una lunga serie di prodigi da lui operati: stendendo il mantello di Elia divise le acque del Giordano; rese potabile l’acqua di Gerico; riportò in vita il figlio della sunamita che lo ospitava; moltiplicò i pani sfamando un centinaio di persone. Profeta non scrittore, come il suo maestro Elia si preoccupò del suo paese in tempi difficili durante la guerra contro i Moabiti e durante quelle contro gli Aramei. Morì verso il 790 a.C. e venne sepolto nei pressi di Samaria, dove ai tempi di San Girolamo esisteva ancora il suo sepolcro. (Avvenire)

Etimologia: Eliseo = Dio è la mia salvezza (o salute), dall’ebraico

Martirologio Romano: A Samaria o Sebaste in Palestina, commemorazione di sant’Eliseo, che, discepolo di Elia, fu profeta in Israele dal tempo del re Ioram fino ai giorni di Ioas; anche se non lasciò oracoli scritti, tuttavia, operando prodigi a vantaggio degli stranieri, preannunciò la futura salvezza per tutti gli uomini.
Il continuatore dell’opera di Elia era un ricco possidente, originario di Abelmeula. Il suo nome, Eliseo (« Dio salva »), risponde bene alla natura della missione svolta tra il popolo di Israele, sotto il regno di Ioram (853 a.C.-842), Iehu (842-815), Ioacaz (814-798) e Ioash (798-783). Eliseo era un uomo deciso e lo dimostra la prontezza con cui rispose al gesto simbolico di Elia che, per ordine di Jahvè, lo consacrava profeta e suo successore.
« Elia andò in cerca di Eliseo – si legge al cap. 19 del I libro dei Re – e lo trovò che stava arando: aveva davanti a sè dodici paia di buoi; egli arava col dodicesimo paio. Giunto a lui, Elia gli gettò addosso il proprio mantello. Allora Eliseo, abbandonati i buoi, corse dietro a Elia e gli disse: Permettimi di passare a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò. Elia gli disse: Va’ e torna presto, poiché tu sai ciò che ti ho comunicato. Eliseo, allontanatosi, prese un paio di buoi e li immolò, quindi col legno dell’aratro e degli strumenti da tiro dei buoi ne fece cuocere le carni e le dette a man lare ai suoi compagni di lavoro. Poi partì e seguì Elia, mettendosi al suo servizio ».
Il ricco agricoltore, con quel gesto significativo, voleva dire al suo maestro che ormai era disposto a rinunciare a tutto per rispondere in pieno alla vocazione profetica. E con altrettanta prontezza eseguì gli ordini del maestro fino al momento del misterioso commiato, oltre il Giordano, quando Elia scomparve dentro un turbine di fuoco. Elia gli aveva chiesto: « Che cosa vuoi, prima che io parta dalla terra? ». La richiesta di Eliseo non fu di poco conto: « io chiedo che abiti in me uno spirito doppio del tuo ». Gli era stato fedele discepolo per sei anni, ora gli avanzava la sua richiesta di eredità, non in beni materiali, ma in virtù carismatica. La domanda di Eliseo venne esaudita.
Egli è, infatti, il più taumaturgico dei profeti. La Bibbia ricorda una lunga serie di prodigi da lui operati: stendendo il mantello di Elia divise le acque del Giordano; con una manciata di sale rese potabile l’acqua di Gerico; rese inesauribile l’olio d’oliva di una vedova; risuscitò il figlio della sunamita che lo ospitava; moltiplicò i pani sfamando un centinaio di persone; guarì dalla lebbra Naaman, generale del re di Damasco. Operò miracoli anche dopo la morte: un morto, gettato frettolosamente sulla tomba del profeta da un becchino impaurito dall’arrivo di alcuni predoni « risuscitò, si alzò in piedi e se ne andò ». Il profeta Eliseo morì verso il 790 a.C., e venne sepolto nei pressi di Samaria, dove ai tempi di S. Girolamo esisteva ancora il suo sepolcro.

Autore: Piero Bargellini

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LE LETTERE DI PAOLO, BUSSOLE DI VITA.

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LE LETTERE DI PAOLO, BUSSOLE DI VITA.

Dagli scritti dell’apostolo delle genti indirizzati alla comunità di Corinto, gli spunti per riflettere sulla vita dei cristiani in una città pagana che può essere il paradigma del quotidiano nel mondo contemporaneo. La lettura e l’ascolto della Scrittura al centro del corso di formazione nel vicariato di Battifolle. Nella prima lettera ai Corinti, San Paolo propone una meditazione cristiana sul corpo che ha al centro una profonda comprensione dell’uomo in termini di «incarnazione».

09/01/2009 di Archivio Notizie, dal sito « Toscana oggi »

Due sono le ragioni per parlare di San Paolo. La prima è legata al frangente storico: il Papa Benedetto XVI ha dedicato questo anno all’Apostolo delle genti. Tutti siamo invitati a conoscere attraverso le sue lettere la sua vita e la sua fede. Vita e fede messe al servizio del Vangelo in un mondo e in un tempo in cui ancora era del tutto sconosciuto. La seconda è di natura liturgica: le domeniche del tempo ordinario, dopo le festività di Natale, propongono la lettura di alcuni brani della prima Lettera ai Corinti di Paolo. Ecco quindi che gli scritti dell’apostolo vanno considerati come una bussola per il cristiano di oggi e come un’occasione di riflessione per analizzare il quotidiano, sempre più complesso come lo era la città di Corinto al tempo di San Paolo.

LA CITTA’ DI CORINTO
La vecchia città di Corinto, distrutta dai romani nel 146 a.C., rimase un ammasso di rovine fino al 46 a. C. quando Giulio Cesare fondò una nuova Corinto a cui diede il nome di Colonia Laus Julii Corinthiensis. Augusto la elevò a capitale della provincia Romana della Acaia e a partire dal 44 fu provincia senatoria. A Corinto perciò risiedeva un proconsole. Durante la permanenza di Paolo era Gallione, fratello di Seneca.
Per la sua posizione geografica era destinata a giocare un ruolo importante nella storia della Grecia e del mondo mediterraneo. Punto di incontro obbligato delle comunicazioni tra il Peloponneso e la Grecia centrale, aveva facile accesso a due mari, l’Egeo a est e il Mediterraneo a ovest. Grande centro industriale e navale era famosa anche per la sua architettura e per il culto delle arti. Ai tempi di Paolo Corinto era una città cosmopolita con una popolazione di circa 600mila abitanti, per lo più immigrati: ufficiali romani, militari, uomini d’affari, mercanti e marinai che venivano dalla Grecia, dall’Italia, dalla Siria, dall’Egitto e da altre parti dell’impero.
Di fronte a una minoranza di gente ricchissima, c’era una massa enorme di schiavi (circa due terzi della popolazione). La città era anche un famoso centro sportivo. Era la patria dei giochi istmici che ricorrevano ogni due anni, a primavera. Atleti di tutta la Grecia e di tutto l’impero affluivano a Corinto per competere in diverse gare. Purtroppo Corinto aveva una sua reputazione particolare quanto a libertà sfrenata e corruzione di costumi. L’espressione «Vivere alla maniera dei corinti» significava «condurre una vita dissoluta» e «Fanciulla corinzia» era sinonimo di prostituta. In effetti la divinità patrona della città, il cui culto era molto diffuso tra i marinai, era Afrodite Pandemos. Il suo tempio dominava l’Acrocorinto, la grande roccia che si elevava a picco dietro la città ad una altezza di 535 metri; si dice che vi prestassero servizio circa mille sacerdotesse, che erano in effetti mille sacre prostitute.

LA COMUNITA’ DI CORINTO
San Paolo fondò la Chiesa di Corinto nel suo secondo viaggio apostolico. Così racconta Luca nel libro degli Atti (cap.18,1-17): «Dopo questo fatto Paolo partì da Atene e andò a Corinto». È una sconfitta, un insuccesso, il fatto a cui fa riferimento Luca. Annunciare la resurrezione dei morti ad Atene non è stata una mossa vincente, anzi. E così Corinto diviene una nuova sfida per parlare della novità di vita che personalmente Paolo ha già sperimentato incontrando Gesù risorto.
A Corinto Paolo rimase almeno diciotto mesi. Durante questo periodo ebbe abitualmente al suo fianco Sila e Timoteo. Dapprima si dedicò ai Giudei e ai proseliti; ma quando si manifestò l’ostilità dei Giudei verso il cristianesimo, allora si occupò dei pagani, guadagnandone molti alla fede.
In generale i convertiti erano di umile condizione e di diversa provenienza. «Considerate, fratelli, la vostra vocazione. Non ci sono tra voi molti sapienti, dal punto di vista umano, non molti potenti né molti di nobile stirpe. Eppure Dio ha scelto quelli che per il mondo sono stolti per coprire di vergogna i sapienti; e quelli che per il mondo sono deboli Dio ha scelto per coprire di vergogna i forti quelli che per il mondo sono plebei, sono disprezzati e sono ritenuti un nullità Dio ha scelto per annientare quelli che sono qualcosa» (1 Cor 1,26-28). Quando Paolo lasciò la città, dopo numerose difficoltà e sofferenze, c’era a Corinto una fiorente comunità di giudei e pagani convertiti.

LE LETTERE AI CORINZI
Paolo anche da lontano non mancò di interessarsi del buon andamento della sua Chiesa. Secondo l’opinione di molti ad essa scrisse quattro lettere, delle quali due soltanto sono giunte a noi.
La nostra lettera (prima ai Corinti) fu scritta durante il soggiorno ad Efeso (54-57 d. C.). Essa ci offre un quadro vivace e dettagliato della vita cristiana in una città pagana del primo secolo. Per la sua antichità, la sua immediatezza nel descrivere una cristianità primitiva con le sue difficoltà, è un documento storico incomparabile, unico per conoscere la vita della Chiesa nel secondo decennio dopo l’ascensione di Gesù. Il parallelo tra questa Corinto e le grandi città del mondo moderno conferisce alle lettere di Paolo una rilevanza eccezionale per i cristiani di oggi. Da qui l’attualità degli scritti paolini per l’uomo contemporaneo.

NELLA LITURGIA DELLA DOMENICA
Domenica 18 gennaio la seconda lettura è tratta dalla prima lettera di San Paolo ai Corinti (6,13-20).
«Fratelli, il corpo non è per l’immoralità, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo… non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?… non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo?… glorificate Dio con il vostro corpo.
Non sapete che…»
Paolo è il primo che porta a loro il pensiero cristiano sul corpo. A Corinto c’erano uomini che ritenevano di essere perfettamente liberi di fronte alle cose di questo mondo praticando una sessualità indiscriminata. Erano convinti infatti che la profonda conoscenza del mistero divino e umano li rendesse immuni da qualsiasi contaminazione dalla cose di questo mondo. Il piacere sessuale, affermavano, in realtà è semplicemente la soddisfazione di un appetito naturale, lecito quanto il mangiare e il bere. Il rapporto sessuale non è qualitati-vamente diverso dalla consumazione di un alimento.
Paolo rifiuta questa mentalità e, facendo riferimento al Signore risorto che ha indicato il destino glorioso del corpo del cristiano, ragiona in modo diverso.
Il mangiare e il bere fanno parte della vita mortale in questo mondo e non sussisteranno nella vita della gloria. Il corpo invece è destinato alla glorificazione e a divenire spirituale. Nel rapporto sessuale l’uomo si trova impegnato nel suo essere personale. Non è come consumare un alimento. Il sesso, per sua natura, è incontro, relazione, appartenenza reciproca.
La differenza tra i corinti e Paolo è dunque nella concezione dell’uomo. Per i corinti, l’uomo cosciente di sé e della realtà mondana non può essere intaccato dall’esterno, né compromettersi a contatto con il mondo; resta separato, sciolto da ogni legame, insomma intoccabile.
Per Paolo, invece, l’uomo vive e agisce su questa terra e sente i contraccolpi del suo rapporto mondano, qualificandosi in un senso o nell’altro. Le realtà esterne incidono in lui profondamente. Per i corinti, l’uomo è essenzialmente interiore e spirituale; perciò il rapporto con il mondo si rivela neutrale e indifferente. Paolo invece vede l’uomo come persona incarnata, per cui si rivela determinate lo spessore terreno e materiale della sua esistenza. In una parola, a uno spiritualismo avulso dal mondo si oppone una comprensione dell’uomo in termini di corporeità e di «incarnazione». Da qui l’invito: «Glorificate Dio con il vostro corpo».

I CATECHISTI ALLA SCUOLA DELLA PAROLA DI DIO
Si è svolto a ottobre e novembre nei locali della parrocchia di Poggiola, alla periferia di Arezzo, un corso di formazione per catechisti del vicariato di Battifolle. In quattro incontri sono stati trattati vari temi: dall’identità del catechista al progetto catechistico italiano, dal catechista che incontra la Parola di Dio ai metodi e tecniche per la catechesi dei fanciulli e dei ragazzi.
Al corso hanno partecipato numerosi catechisti che, al termine, hanno voluto lasciare una loro testimonianza sull’esperienza vissuta. Ne riportiamo un breve sunto, perché l’esperienza fatta da alcuni sia condivisa con tutti coloro che nelle parrocchie della nostra diocesi svolgono il servizio pastorale per l’iniziazione cristiana.
«Da molti anni – spiega un partecipante – faccio servizio per la catechesi nella mia parrocchia e sono rimasta molto contenta per questa iniziativa presa dal nostro vicariato. Gli incontri mi hanno aiutato a ripensare al mio percorso nella fede, dalla educazione ricevuta dai miei genitori fino alle guide che nelle varie età mi hanno fatto conoscere l’amore di Dio e mi hanno educato alla fede. Da quello che ho vissuto personalmente, nasce la mia testimonianza. E dalla sollecitudine che la Chiesa ha avuto per me, nasce il mio servizio. Ho riscoperto il Documento Base e tutta la sua odierna attualità e nello stesso tempo la spinta a rinnovarsi continuamente per « annunciare il Vangelo in un mondo che cambia »». Continua poi: «Durante il corso insieme agli altri catechisti, soprattutto nei gruppi di lavoro, mi sono sentita sollecitata e motivata all’attenzione verso le famiglie dei ragazzi che seguo a catechismo. In definitiva mi sono messa in discussione, nel senso positivo del termine, sia come catechista sia, a livello più strettamente personale, come donna, madre e moglie. La riconferma, vissuta nell’esperienza condivisa con gli altri, di essere da una parte seminatore della Parola, ma anche terreno dove il seme cade in un disegno portato avanti sempre dalla provvidenza di Dio, mi ha dato la motivazione forte per continuare il mio servizio».
Altrettanto significativa un’altra testimonianza di chi ha preso parte al corso: «Il corso è stato un’esperienza molto positiva che rifarei volentieri, perché mi ha fatto capire che un catechista è una persona che svolge un compito molto importante e che non può svolgerlo da solo».
Qualcuno pone l’accento sulla riscoperta della Scrittura: «Per me gli incontri sono stati molto importanti soprattutto perché ho capito l’importanza di saper « leggere ed ascoltare » la Parola di Dio». Sulla stessa lunghezza d’onda la riflessione di un’altra catechista: «Il nostro gruppo ha partecipato agli incontri con molto entusiasmo e voglia di sapere. L’incontro che ci ha colpito di più è stato quello sulla Parola di Dio perché siamo stati molto coinvolti e siamo riusciti ad esternare e mettere in comune con gli altri riflessioni cariche di significato e di spiritualità».
Infine, la riflessione di chi ha organizzato l’iniziativa. «Anche per noi dell’Ufficio catechistico diocesano, questi incontri, come gli altri incontri tenuti finora nelle parrocchie e nei vicariati, sono stati particolarmente importanti. Ne è uscita rafforzata la convinzione della necessità, che i catechisti avvertono sempre più, dell’importanza della formazione e di andare avanti in questo servizio».

«LA SPERANZA SI FACCIA PROFEZIA NEL QUOTIDIANO»
Questa uscita di «Prendi il largo» vi giunge in ritardo rispetto agli anni passati: per vari motivi, infatti, non è stato possibile preparare il numero in Avvento e farvi giungere così i nostri auguri di Natale.
Non è davvero tardi, però, per augurarvi di cuore buon anno 2009. Un anno illuminato dallo stupore verso Dio che, ancora una volta, si è fatto nostro compagno di viaggio, si è «annunciato» a noi in quella povera mangiatoia, per aiutarci a recuperare la nostra umanità. E così ci ha «abilitati» ad annunciare agli uomini del nostro tempo che Egli ha conservato quella mangiatoia «sempre vuota, sempre libera, perché per ogni uomo deve esserci sempre un posto per essere deposti e avvolti nelle calde fasce della sua carità», come sottolinea Claudel.
Questa gioiosa certezza apre un vasto orizzonte di speranza all’inizio del nuovo anno: una speranza con un solido fondamento, una speranza oltre qualsiasi crisi (non solo economica) o tentazione di ripiegarsi su se stessi smorzando lo slancio dell’annuncio. Una speranza, dunque, che si fa profezia nella trama delle vicende quotidiane. È in questo orizzonte che desideriamo formularvi i nostri più cari auguri prendendo a prestito le parole del vescovo Tonino Bello: «Bisogna abituarsi a sognare, a sognare a occhi aperti. I sogni diurni si realizzano sempre. Siamo troppo chiusi nelle nostre prudenze della carne, non dello Spirito, per cui sembra che siamo i notai dello status quo e non i profeti del futuro nuovo, dei cieli nuovi, delle terre nuove. Dio ci invita ad essere profeti, a esserlo tutti. Il che significa leggere l’oggi e guardare un po’ oltre, con l’uomo sempre al centro, come Lui ci ha indicato».

The Vision of Saint Anthony of Padua painting by Giovanni Battista Pittoni, San Diego Museum

The Vision of Saint Anthony of Padua painting by Giovanni Battista Pittoni, San Diego Museum  dans immagini sacre

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LA SPIRITUALITÀ DI SAN. ANTONIO DI PADOVA

http://www.ewtn.com/library/MARY/ANTHSPIR.HTM

LA SPIRITUALITÀ DI SAN. ANTONIO DI PADOVA

(traduzione Google dall’inglese, in italiano tutto quello che riguarda il santo, sul web, è copright, tranne la catechesi di Papa bendetto del 10 febbraio 2012 che posto su: In cammino verso Gesù Cristo e il, sempre ottimo sito di Don Bosco Torino, in inglese ed in francese, invece, ci sono diversi testi disponibili)

In sostanza, secondo San Tommaso d’Aquino, la perfezione della vita cristiana consiste nella carità, prima di tutto nell’amore di Dio, nell’amore del prossimo. Nel dare risposta all’avvocato che aveva chiesto al Signore che cosa deve fare per ottenere la vita eterna, Cristo ha dato la risposta più semplice: <? « Che cosa dice la legge »> L’avvocato, senza esitazione ha ricordato il testo del Deuteronomio: < » Ama il Signore Dio tuo con tutta la tua anima e con tutta la tua forza e con tutta la mente tua,. ed il tuo prossimo come te stesso « > In tutta la sua vita, S. Antonio di Padova è stata completamente innamorato di Dio, e si spese completamente nel servizio temporale e spirituale dei suoi simili. Egli adempì queste due grandi leggi della carità e praticato in grado eroico le virtù teologali e cardinali e meticolosamente evitato, per quanto umanamente possibile, ogni ombra di peccato, il che comporterebbe la violazione di queste virtù. In questo senso, ne consegue necessariamente che S. Antonio era giunto a un grado molto elevato di spiritualità. Si dovesse indagare sulla vita del nostro santo per scoprire una particolare virtù per la quale si sarebbe differenziato da ogni altro santo francescano o altrimenti, si sarebbe, temo, trovare se stesso ad una perdita completa, per il complesso antoniano santità somiglia piuttosto a bel mazzo di fiori (un florilegio), in cui l’unità di intenti e la molteplicità di espressione sono così del tutto armonizzato da rivelare la bellezza della sua anima angelica.
Per la molteplicità di queste virtù Dio nella sua bontà ha aggiunto, come per le anime dotati della Chiesa primitiva, i carismi della profezia, bilocazione e miracoli. Nel bellissimo giardino della grande anima di questo santo si trova la viola dell’umiltà, il giglio della purezza, e la rosa per l’amore di Dio e dell’uomo. Centrato intorno a queste virtù, potremo facilmente rilevare tutti gli altri della perfezione cristiana.

L’umiltà, la mortificazione, amore per la solitudine

Profonda umiltà del santo, il fondamento di tutte le altre virtù, è stata forse la prima virtù che si manifestava più poco dopo era entrato nell’ordine francescano. Sconosciuto dopo il Capitolo generale di Assisi nel 1221, che ha avuto il privilegio di partecipare, è stato inviato dal tipo Provinciale di Bologna, che aveva preso la compassione per l’ex portoghese Augustianian, per un po ‘di luogo conosciuto come Montepaolo, il suo primo incarico nel Ordine dei Frati Minori, di leggere la Messa per i fratelli laici dell’eremo lì situati. Anthony ha detto nulla dei suoi studi prolungati della Sacra Scrittura, della sua conoscenza dei Padri, dei suoi successi oratorie. Celato e nascosto come una gemma nella terra, ha trascorso il suo tempo in preghiera, la meditazione, e la conquista di sé. La sua mortificazione austero che lo indusse a vivere a pane e acqua e altre penitenze portato la polpa a completa sottomissione allo spirito. Come St. Paul avrebbe potuto dire: < ».. Ho castigo il mio corpo per timore forse quando avrò aver predicato agli altri, io stesso dovrei diventare riprovato »> (1 Cor 09:27)..
Nella solitudine dei boschi e il silenzio delle rocce, ha fortificato la sua anima contro le tentazioni, comunione con Dio e ha trovato la pace del cuore e l’anima. Con San Bernardo che potesse poi dire: « O beata solitudo, o sola beatitudo ».

Jean Rigauld, OFM, nella sua <Life di San Anthony> descrive l’umiltà del santo:
« L’umiltà, il custode e la perfezione di ogni virtù, così completamente posseduto l’uomo di Dio che anche tra i Frati Minori ha voluto apparire il più spregevole, il più vile e il più basso di tutti. Sapendo che colui che porta il tesoro apertamente su vie pubbliche si espone a essere derubato, ha nascosto con la massima cura le virtù ei doni che Dio gli ha concesso. Anche se pieno di spirito di sapienza, ha mantenuto il suo apprendimento in modo completamente nascosto dai frati che potevano percepire alcun segno di si salva in un paio di lezioni rari e molto breve date da lui. Poiche ‘la conoscenza gonfia’ troppo spesso, avrebbe preferito passare tra gli uomini come ignoranti e incolti che essere gonfiato con orgoglio o trasportare dalla vanagloria., ma l’umiltà è dimostrato da umile azioni,., e nessuno deve rappresentare se stesso umile che cerca di evitare umili impieghi Pertanto, beato Antonio come il più umile degli uomini ha cercato le occupazioni più umili « .

Lo spirito e la pratica della povertà
Essendo un vero seguace del Fondatore Serafico, il Poverello di Assisi, Antonio che ammirevole uomo povero, con messa a terra dalla prima alla scuola di povertà e nello spirito di povertà, abbondavano sempre di più nel suo amore per la povertà più esaltato. Ha provato con tutta la potenza della sua anima per diventare conforme a questa povertà sublime e spesso ricordato per la sua mente la miseria di Cristo e della Madonna.
Quando predicando ai frati, e anche le persone, sulla povertà, si ripete spesso queste parole del Vangelo: < »Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli dei nidi d’aria, ma il Figlio dell’uomo ha nessun dove posare il capo . « > O ancora, come si può vedere nella prima del suo Operis Dominicalis, che la parola del Siracide 10,10: < » Non è una cosa più malvagia che amare il denaro « > Quindi ha preso nulla con sé quando si viaggia. , ma deliziando in povertà, ha attraversato i paesi e le province nella miseria più completa di un pellegrino e forestiero sulla terra. Con l’Apostolo, che sapeva anche come soffrire desiderare, e sapeva anche come gloria nella povertà più abietta. Egli non ignorava la verità che il Signore < »ode la preghiera dei poveri »,> che Egli <«dà il giudizio al povero, »> e per i poveri di spirito che ha promesso il Regno dei Cieli.

Castità, Purezza, Verginità
Dal controllo completo su di sé, la pratica di umiltà e l’osservanza francescana di Altissima paupertas (povertà più alto), ci spuntavano fuori come da una radice cupo e buio ramoscello la gara gemma del giglio immacolato della castità, la purezza e la verginità. Così, durante tutto il tempo che egli dimorò con i frati, Sant’Antonio si formò nella pratica della povertà, castità e obbedienza secondo la Regola dei Frati Minori. Qualunque cosa ha sentito fece rinchiudere nel piccolo stanzino del suo cuore che egli potrebbe mai dimenticare che, come una nuova nave, beveva in abbondanza il rugiade di insegnamento divino con cui era, a suo tempo, per aggiornare le anime assetate.

Zelo per le anime nella predicazione e nell’insegnamento Apostolato
La profonda conoscenza della Sacra Scrittura, che egli aveva ottenuto attraverso la lettura prolungata, ha proseguito lo studio e la memorizzazione esatta del testo sacro a Coimbra e Monte Paoli, lui preparato per il sermone memorabile a Forlì dove, in occasione dell’ordinazione del sacro sacerdozio di alcuni domenicani e francescani, si meritò per se stesso la chiamata all’apostolato insegnamento. « Mi fa piacere », ha scritto S. Francesco a lui, « che insegni sacra teologia ai frati, purché » nelle parole della Regola « non estinguere lo Spirito di orazione e devozione, con studio di questo tipo.  » In quel giorno il motto della Scuola francescana <Nella doctrina et sanctitate> fu scolpita da un Francesco d’Assisi e impressa nell’anima ricettivo di un Antonio di Padova. Eppure, l’insegnamento e la predicazione non lo gonfiano. Anthony è diventato in aula e sul pulpito né un « cembalo squillante né un rame risonante », ma piuttosto un altro insegnamento di Cristo dalla barca di Pietro. Dio benedisse i suoi sforzi, per Anthony, nonostante tutto il suo successo, era sempre umile. Egli predicò Cristo, non se stesso, diffusa dottrina cristiana, la filosofia non mondana.
Dimentico del tutto di sé, Anthony diventò infiammato con lo zelo per le anime. E ‘stato questo il desiderio e l’amore per le anime che hanno ispirato Anthony a chiedere il permesso di lasciare il Agostiniani e unirsi ai francescani. Questo è stato avviato dalla vista delle reliquie dei Protomartiri Cinque dell’Ordine Francescano mentre venivano riportati in Europa dal Marocco attraverso il Portogallo. Anche Anthony sarebbe unito questa nobile schiera di missionari stranieri e saturare il terreno usurpato da Mohammed da Cristo con il suo sangue. Ma Dio aveva altri piani per la nobile gioventù. Si inchinò alla volontà dell’Onnipotente che ha mostrato a lui attraverso le tempeste impetuose e onde impetuose del mare lo impediscono di raggiungere l’Africa, ma lo guida fino alle coste della Sicilia. Dopo quel sermone memorabile a Forlì, Anthony divenne il grande predicatore francescano e la casa missionaria. Su e giù per la lunghezza d ‘Italia, in tutta l’ampiezza del sud della Francia e in tutte le parti della penisola iberica, è andato Anthony in cerca di anime per Cristo. E ‘diventato uno dei più celebri oratori pulpito dell’Europa occidentale. ha predicato gli oratori pulpito dell’Europa occidentale. Ha predicato il Vangelo di Cristo ai fedeli, eretici combattuti, non credenti confusi.
Egli era ben preparato per la sua missione. La sua conoscenza delle Sacre Scritture che meritavano per lui dalla bocca del Papa Gregorio IX il titolo Arca Testamenti. Il suo amore per Cristo che incessantemente lo spingeva in avanti come un altro Paul < »Caritas Christi urget nos »> (l’amore di Cristo ci spinge), la sua disposizione affabile, le capacità oratorie, le sue doti soprannaturali, le sue incessanti preghiere al Santo Spirito per la grazia della conversione presto guadagnato tante anime a Cristo che Anthony non poteva che gioire. Anthony avrebbe strappare le anime dal sull’orlo dell’inferno e le fauci di Satana. Il sermone sopra, Anthony si sedeva per ore confessioni, suscitando lacrime di contrizione e suggerendo mezzi di emendamento. Le anime così in salvo lo avrebbe offerto al Cuore di Gesù per essere ulteriormente purificato nel Sangue dell’Agnello.
I suoi sermoni, assaporando del sale di unzione celeste e clamoroso dalle corde della sua gola come da un’arpa celeste, ha toccato i cuori e le anime di tutti coloro che ebbero il privilegio di ascoltarlo, non importa quale sia la loro condizione, stato o età. Non era riguardo alla qualità delle persone; cercava favori; temeva alcun male. La forza dello Spirito Santo, la carità di Cristo, e l’amore di Dio lo ha spinto in avanti fino a quando la sua forza fisica non poteva più sostenere il suo corpo stanco e membri indeboliti.
Questo documento fa parte della Home Page di San Francesco d’Assisi, gestito dai Frati Francescani dell’Immacolata, come parte del loro apostolato Internet « La Home Page del all’Immacolata Vergine Madre di Dio ».
Questa è una breve introduzione al pensiero, la fede, e la santità di Sant’Antonio da Padova. Questo articolo è apparso nel Herald dell’Immacolata, una pubblicazione Internet gratuito dei Frati Francescani dell’Immacolata. Se si desidera iscriversi a questa pubblicazione si prega di scrivere.
I Frati Francescani dell’Immacolata sono un cattolico Religiosa Istituto Romano di voti solenni con sede a Benevento, Italia. La loro pagina è mantenuta dal convento mariano di Nostra Signora Regina dell’Ordine Serafico, New Bedford, MA.

Publié dans:SANTI, SPIRITUALITÃ |on 12 juin, 2013 |Pas de commentaires »

13 GIUGNO – S. ANTONIO DA PADOVA, DOTTORE DELLA CHIESA: CHIEDETE DIO A DIO

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Santo_del_mese/06-Giugno/Sant_Antonio_da_Padova.html

13 GIUGNO – S. ANTONIO DA PADOVA, DOTTORE DELLA CHIESA:

CHIEDETE DIO A DIO

Qualcuno penserà che parlare di Sant’Antonio da Padova è quasi come portare acqua al mare, tanto è universalmente noto, visitato e pregato. Nella hit parade delle classifiche mondiali dei santi è tra i più richiesti e invocati (non so se anche ascoltato e imitato), in quella nostrana è addirittura al secondo posto (preceduto da San Francesco e seguito da San Giovanni Bosco). Come qualche squadra di calcio ricca, blasonata e famosa conta tifosi un po’ dappertutto, così Sant’Antonio.
I suoi tifosi (pardon devoti) sono universali, senza frontiere di politica, di nazione, di lingua e di religione. Sì, di religione. Ho letto infatti che il Nostro è anche invocato e pregato da pii musulmani, asceti induisti e devoti buddisti. Non c’è male. Potrebbe essere proclamato, con San Francesco (altro santo transnazionale e trasversale a tutti gli “schieramenti” politico-religiosi) patrono e protettore dell’ONU (ne ha proprio bisogno). Nel Veneto e dintorni si parla semplicemente del Santo, e basta. E tutti capiscono.
Nell’immaginario popolare, Antonio è il santo soprattutto dei miracoli sonanti e quasi esagerati (non si dice infatti “Troppa grazia Sant’Antonio” per definire una grazia al di là delle aspettative e della fede del richiedente, esaltando così la potenza di intercessione del Richiesto?). Al di là di questa fama taumaturgica temo che molti devoti non sappiano molto di lui. Non tutti sanno per esempio che si chiama Antonio da Padova, ma non è di Padova. È infatti di Lisbona, un vero portoghese doc, quindi. In tanta iconografia Sant’Antonio è mostrato con aspetto delicato, giovanile, dolce, remissivo e paziente. Non tutti sanno però che Antonio aveva un lineamento deciso ed una faccia apparentemente da duro. Un fisico che rispecchiava il carattere.
Deciso e coraggioso. Antonio non era dolce e paziente di natura, lo divenne con l’impegno ascetico. Non era mansueto naturaliter, lo diventò. Sapeva controllare se stesso, ma all’occorrenza sapeva mostrare le unghie e graffiava forte, molto forte, per difendere i deboli e gli sfruttati e per riaffermare la verità del Vangelo. Forse molti pensano che Sant’Antonio era un umile fraticello, tutto preghiera, umiltà e… santa ignoranza. Non tutti sanno che Antonio fu anche oltre che grande predicatore, professore di teologia a Bologna, a Montpellier, a Tolosa. E da ultimo, come vera ciliegina sulla sua carriera, ricordo che è stato anche dichiarato Dottore della Chiesa nel 1946.

La tempesta siciliana
Il suo nome originario era Fernando Martins e nacque nel 1195 da famiglia agiata. Bambino intelligente, studiò nella scuola della cattedrale: qui apprese a leggere e scrivere, imparò il salterio a memoria, e studiò anche la grammatica, la retorica, la musica e l’aritmetica. Poiché le lezioni erano in latino, imparò anche questa lingua. A 15 anni entrò nell’ordine religioso degli Agostiniani. Poté così progredire negli studi che amava tanto. Poi per sfuggire alle visite troppo asfissianti e invadenti (e per lui distraenti) dei parenti si fece trasferire a Coimbra, a 175 km da Lisbona. Qui l’unica difficoltà era costituita dalla comunità che non era un modello di convivenza e di osservanza evangelica. Di questo Fernando ne soffriva, tuttavia terminò gli studi con grande profitto. Intanto in città conobbe una comunità di frati francescani: di essi ammirava la povertà e l’umiltà.
La spinta decisiva a fare il salto e diventare un seguace di Frate Francesco di Assisi fu quando arrivarono a Coimbra le salme di alcuni frati martirizzati dai musulmani in Marocco. Si consigliò con il priore e questi gli diede il permesso di diventare francescano: era diventato fra Antonio, e portava in dote nella nuova famiglia religiosa un ricco bagaglio di conoscenze sia bibliche che patristiche, non presente nei primi francescani. E anche un grande entusiasmo apostolico, una “merce” sempre preziosissima. E partì per le missioni. Per il Marocco precisamente, disposto anche al martirio. Ma ben presto fu colpito da malattia e fu rimpatriato.
Ma la nave invece che a Lisbona, causa la tempesta, arrivò in Sicilia. Risalì l’Italia meridionale e arrivò fino ad Assisi, dove ebbe la fortuna di conoscere Francesco e di prendere parte al famoso “capitolo delle stuoie”. Alla fine frate Francesco diede le obbedienze ai suoi frati. Ma che fare di quel semplice fraticello straniero? Sapeva solo il latino quindi niente predicazione al popolo italiano. Essendo però sacerdote fu preso da fra Graziano di Romagna per assicurare almeno l’Eucarestia ai frati della comunità. E già che c’era poteva fare anche da cuoco, tanto erano tutti di poche esigenze (per forza e… per scelta volontaria).

Un cuoco che mastica teologia
Nel settembre 1222 arrivò la svolta decisiva dovuta a un fatto curioso o provvidenziale, scegliete voi. C’era l’ordinazione sacerdotale di alcuni frati… tutto bello, tutto era pronto eccetto… il predicatore. Disperato o quasi, fra Graziano si rivolse al… cuoco, a fra Antonio. Con sorpresa di tutti. Era un input dall’alto o ne conosceva già il talento? Comunque il risultato fu travolgente. Il cuoco non solo cucinava ma parlava anche, e con che eloquenza e cultura teologica e con che conoscenza dei Padri della Chiesa! Fu una rivelazione per tutti.
La notizia arrivò fino ad Assisi, a San Francesco, a cui si chiedeva l’autorizzazione per Antonio di insegnare teologia e di predicare il Vangelo. Arrivò la risposta: “A frate Antonio, mio vescovo, frate Francesco, salute. Ho piacere che tu insegni la sacra teologia ai frati, purché in tale occupazione, tu non estingua lo spirito della santa orazione e devozione, come è scritto nella regola. Stai bene”.
Lo chiamava “vescovo” perché allora solo i vescovi erano capaci, per definizione (non sempre in realtà) di predicare il Vangelo. E Francesco concedeva questa prerogativa ad Antonio, anche perché gli riconosceva non solo la scienza teologica, ma anche la sapienza evangelica, cioè la santità di vita. Un grande doppio complimento, da santo a santo. Iniziava così la carriera di predicatore del Vangelo e di professore di teologia (fu anche superiore dei francescani del Nord Italia). È rimasto famoso come predicatore, carismatico e travolgente, semplice e profondo, brillante ed umile.
Il popolo vedeva in lui un maestro, una guida spirituale, un testimone, un santo, e si convertiva sinceramente.
Questo era il vero miracolo di Antonio, oltre a tutti gli altri che si raccontano, storici o leggendari. Rimasta famosa anche nella iconografia, la sua predicazione a Rimini. Questa città era infestata da eretici, che naturalmente non avevano tempo di sentire quel frate straniero. Allora, così si narra, Antonio in polemica con quei riminesi dal cuore ostinato se ne andò in riva al mare a predicare ai pesci… I quali mostrarono di apprezzare la novità di un predicatore che si occupava anche di loro parlando del Creatore di tutto, cioè anche del mare dove abitavano. “Fratelli pesci” iniziò fra Antonio e concluse dicendo: “Adorate e ringraziate Dio il vostro creatore”. I ‘fratelli pesci’ accorsi in massa, con la bocca spalancata annuivano felici e soddisfatti. Con conseguente umiliazione dei riminesi eretici.

Un predicatore efficace
Come professore di teologia egli insisteva soprattutto sulla Bibbia, sui santi Padri della Chiesa che egli conosceva molto bene, annunciando sempre l’amore di Dio per tutte le creature. Di questo amore la prova suprema era la rivelazione del Figlio, attraverso l’Incarnazione nel seno di Maria Vergine.
Era anche preoccupato della riforma della Chiesa e specialmente del clero, che non marciava sempre sulla strada evangelica. Contro questi Antonio fu duro, sarcastico, molto plastico nelle immagini. Diceva infatti di alcuni ecclesiastici: “Tutti i giorno gridano nelle chiese e urlano come cani, ma senza capirsi perché il corpo è nel coro e l’anima in piazza (…). Essi che hanno l’anello d’oro della scienza e dell’eloquenza non si vergognano da veri porci di lasciarlo cadere nello sterco del lusso e dell’avarizia”. Parole dure, ahimè, ma la storia dice che ce n’era bisogno.
Gli ultimi tre anni della vita (1229-1231) li passò nel Veneto, predicando, pacificando gli animi e difendendo i deboli. Per la verità storica, nonostante il suo carisma, non sempre ci riuscì. Fu però particolarmente efficace a Padova la sua battaglia contro la mala pianta dell’usura e degli usurai, che riuscivano, a norma di legge, anche a imprigionare gli insolventi. La sua predicazione fu così convincente che la città di Padova emanò nel 1231 la legge che metteva al bando quella piaga sociale.
Nel maggio dello stesso anno Antonio si trasferì nell’eremo di Camposampiero, presso Padova, ospite di un amico. Ammalatosi morì il 13 giugno dello stesso anno.
Un particolare importante che dà la misura e la fama di santità del Nostro. Il popolo al quale aveva predicato con tanto amore e abilità lo scelse come suo patrono, e lo volle subito santo. Sappiamo che vox populi, vox Dei e infatti, il Papa Gregorio IX lo proclamò santo l’anno seguente. Ed in seguito, nel luogo dove era stato sepolto fu costruita una Basilica, ancora oggi frequentatissima meta di pellegrini e devoti.

  MARIO SCUDU sdb

Publié dans:MEDITAZIONI, SANTI, SPIRITUALITÃ |on 12 juin, 2013 |Pas de commentaires »
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