Archive pour juin, 2013

Tomba di San Pietro

Tomba di San Pietro dans immagini sacre B-Sepulcrum

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Publié dans:immagini sacre |on 27 juin, 2013 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI : PIETRO, L’APOSTOLO

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2006/documents/hf_ben-xvi_aud_20060524_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

PIAZZA SAN PIETRO

MERCOLEDÌ, 24 MAGGIO 2006

PIETRO, L’APOSTOLO

Cari fratelli e sorelle,

in queste catechesi stiamo meditando sulla Chiesa. Abbiamo detto che la Chiesa vive nelle persone e perciò, nell’ultima catechesi, abbiamo cominciato a meditare sulle figure dei singoli Apostoli, iniziando da san Pietro. Abbiamo visto due tappe decisive della sua vita: la chiamata presso il lago di Galilea e poi la confessione di fede: “Tu sei il Cristo, il Messia”. Una confessione, abbiamo detto, ancora insufficiente, iniziale e tuttavia aperta. San Pietro si pone in un cammino di sequela. E così questa confessione iniziale porta in sé, come in germe, già la futura fede della Chiesa. Oggi vogliamo considerare altri due avvenimenti importanti nella vita di san Pietro: la moltiplicazione dei pani – abbiamo sentito nel brano ora letto  la domanda del Signore e la risposta di Pietro – e poi il Signore che chiama Pietro ad essere pastore della Chiesa universale.
Cominciamo con la vicenda della moltiplicazione dei pani. Voi sapete che il popolo aveva ascoltato il Signore per ore. Alla fine Gesù dice: Sono stanchi, hanno fame, dobbiamo dare da mangiare a questa gente. Gli Apostoli domandano: Ma come? E Andrea, il fratello di Pietro, attira l’attenzione di Gesù su di un ragazzo che portava con sé cinque pani e due pesci. Ma che sono per tante persone, si chiedono gli Apostoli. Ma il Signore fa sedere la gente e distribuire questi cinque pani e due pesci. E tutti si saziano. Anzi, il Signore incarica gli Apostoli, e tra loro Pietro, di raccogliere gli abbondanti avanzi: dodici canestri di pane (cfr Gv 6,12-13). Successivamente la gente, vedendo questo miracolo – che sembra essere il rinnovamento, così atteso, di una nuova “manna”, del dono del pane dal cielo – vuole farne il proprio re. Ma Gesù non accetta e si ritira sulla montagna a pregare tutto solo. Il giorno dopo, Gesù sull’altra riva del lago, nella sinagoga di Cafarnao, interpretò il miracolo – non nel senso di una regalità su Israele con un potere di questo mondo nel modo sperato dalla folla, ma nel senso del dono di sé: “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6,51). Gesù annuncia la croce e con la croce la vera moltiplicazione dei pani, il pane eucaristico – il suo modo assolutamente nuovo di essere re, un modo totalmente contrario alle aspettative della gente.
Noi possiamo capire che queste parole del Maestro – che non vuol compiere ogni giorno una moltiplicazione dei pani, che non vuol offrire ad Israele un potere di questo mondo – risultassero veramente difficili, anzi inaccettabili, per la gente. “Dà la sua carne”: che cosa vuol dire questo? E anche per i discepoli appare inaccettabile quanto Gesù dice in questo momento. Era ed è per il nostro cuore, per la nostra mentalità, un discorso “duro” che mette alla prova la fede (cfr Gv 6,60). Molti dei discepoli si tirarono indietro. Volevano uno che rinnovasse realmente lo Stato di Israele, del suo popolo, e non uno che diceva: “Io do la mia carne”.  Possiamo immaginare che le parole di Gesù fossero difficili anche per Pietro, che a Cesarea di Filippo si era opposto alla profezia della croce. E tuttavia quando Gesù chiese ai Dodici: “Volete andarvene anche voi?”, Pietro reagì con lo slancio del suo cuore generoso, guidato dallo Spirito Santo. A nome di tutti rispose con parole immortali, che sono anche le nostre parole: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (cfr Gv 6,66-69).
Qui, come a Cesarea, con le sue parole Pietro inizia la confessione della fede cristologica della Chiesa e diventa la bocca anche degli altri Apostoli e di noi credenti di tutti i tempi. Ciò non vuol dire che avesse già capito il mistero di Cristo in tutta la sua profondità. La sua era ancora una fede iniziale, una fede in cammino; sarebbe arrivato alla vera pienezza solo mediante l’esperienza degli avvenimenti pasquali. Ma tuttavia era già fede, aperta alla realtà più grande – aperta soprattutto perché non era fede in qualcosa, era fede in Qualcuno: in Lui, Cristo. Così anche la nostra fede è sempre una fede iniziale e dobbiamo compiere ancora un grande cammino. Ma è essenziale che sia una fede aperta e che ci lasciamo guidare da Gesù, perché Egli non soltanto conosce la Via, ma è la Via.
La generosità irruente di Pietro non lo salvaguarda, tuttavia, dai rischi connessi con l’umana debolezza. E’ quanto, del resto, anche noi possiamo riconoscere sulla base della nostra vita. Pietro ha seguito Gesù con slancio, ha superato la prova della fede, abbandonandosi a Lui. Viene tuttavia il momento in cui anche lui cede alla paura e cade: tradisce il Maestro (cfr Mc 14,66-72). La scuola della fede non è una marcia trionfale, ma un cammino cosparso di sofferenze e di amore, di prove e di fedeltà da rinnovare ogni giorno. Pietro che aveva promesso fedeltà assoluta, conosce l’amarezza e l’umiliazione del rinnegamento: lo spavaldo apprende a sue spese l’umiltà. Anche Pietro deve imparare a essere debole e bisognoso di perdono. Quando finalmente gli cade la maschera e capisce la verità del suo cuore debole di peccatore credente, scoppia in un liberatorio pianto di pentimento. Dopo questo pianto egli è ormai pronto per la sua missione.
In un mattino di primavera questa missione gli sarà affidata da Gesù risorto. L’incontro avverrà sulle sponde del lago di Tiberiade. E’ l’evangelista Giovanni a riferirci il dialogo che in quella circostanza ha luogo tra Gesù e Pietro. Vi si rileva un gioco di verbi molto significativo. In greco il verbo “filéo” esprime l’amore di amicizia, tenero ma non totalizzante, mentre il verbo “agapáo” significa l’amore senza riserve, totale ed incondizionato. Gesù domanda a Pietro la prima volta: «Simone… mi ami tu (agapâs-me)” con questo amore totale e incondizionato (cfr Gv 21,15)? Prima dell’esperienza del tradimento l’Apostolo avrebbe certamente detto: “Ti amo (agapô-se) incondizionatamente”. Ora che ha conosciuto l’amara tristezza dell’infedeltà, il dramma della propria debolezza, dice con umiltà: “Signore, ti voglio bene (filô-se)”, cioè “ti amo del mio povero amore umano”. Il Cristo insiste: “Simone, mi ami tu con questo amore totale che io voglio?”. E Pietro ripete la risposta del suo umile amore umano: “Kyrie, filô-se”, “Signore, ti voglio bene come so voler bene”. Alla terza volta Gesù dice a Simone soltanto: “Fileîs-me?”, “mi vuoi bene?”. Simone comprende che a Gesù basta il suo povero amore, l’unico di cui è capace, e tuttavia è rattristato che il Signore gli abbia dovuto dire così. Gli risponde perciò: “Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene (filô-se)”. Verrebbe da dire che Gesù si è adeguato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù! E’ proprio questo adeguamento divino a dare speranza al discepolo, che ha conosciuto la sofferenza dell’infedeltà. Da qui nasce la fiducia che lo rende capace della sequela fino alla fine: «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: “Seguimi”» (Gv 21,19).
Da quel giorno Pietro ha “seguito” il Maestro con la precisa consapevolezza della propria fragilità; ma questa consapevolezza non l’ha scoraggiato. Egli sapeva infatti di poter contare sulla presenza accanto a sé del Risorto. Dagli ingenui entusiasmi dell’adesione iniziale, passando attraverso l’esperienza dolorosa del rinnegamento ed il pianto della conversione, Pietro è giunto ad affidarsi a quel Gesù che si è adattato alla sua povera capacità d’amore. E mostra così anche a noi la via, nonostante tutta la nostra debolezza. Sappiamo che Gesù si adegua a questa nostra debolezza. Noi lo seguiamo, con la nostra povera capacità di amore e sappiamo che Gesù è buono e ci accetta. E’ stato per Pietro un lungo cammino che lo ha reso un testimone affidabile, “pietra” della Chiesa, perché costantemente aperto all’azione dello Spirito di Gesù. Pietro stesso si qualificherà come “testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi” (1 Pt 5,1). Quando scriverà queste parole sarà ormai anziano, avviato verso la conclusione della sua vita che sigillerà con il martirio. Sarà in grado, allora, di descrivere la gioia vera e di indicare dove essa può essere attinta: la sorgente è Cristo creduto e amato con la nostra debole ma sincera fede, nonostante la nostra fragilità. Perciò scriverà ai cristiani della sua comunità, e lo dice anche a noi: “Voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la meta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime” (1 Pt 1,8-9).

BENEDETTO XVI : PIETRO, IL PESCATORE (2006)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2006/documents/hf_ben-xvi_aud_20060517_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

PIAZZA SAN PIETRO

MERCOLEDÌ, 17 MAGGIO 2006

PIETRO, IL PESCATORE

Cari fratelli e sorelle,

nella nuova serie di catechesi abbiamo innanzitutto cercato di capire meglio che cosa sia la Chiesa, quale sia l’idea del Signore circa questa sua nuova famiglia. Poi abbiamo detto che la Chiesa esiste nelle persone. E abbiamo visto che il Signore ha affidato questa nuova realtà, la Chiesa, ai dodici Apostoli. Adesso vogliamo vederli uno ad uno, per capire nelle persone che cosa sia vivere la Chiesa, che cosa sia seguire Gesù. Cominciamo con san Pietro.
Dopo Gesù, Pietro è il personaggio più noto e citato negli scritti neotestamentari: viene menzionato 154 volte con il soprannome di Pétros, “pietra”, “roccia”, che è traduzione greca del nome aramaico datogli direttamente da Gesù Kefa, attestato 9 volte soprattutto nelle lettere di Paolo; si deve poi aggiungere il frequente nome Simòn (75 volte), che è forma grecizzata del suo originale nome ebraico Simeòn (2 volte: At 15,14; 2 Pt 1,1). Figlio di Giovanni (cfr Gv 1,42) o, nella forma aramaica, bar-Jona, figlio di Giona (cfr Mt 16,17), Simone era di Betsaida (cfr Gv 1,44), una cittadina a oriente del mare di Galilea, da cui veniva anche Filippo e naturalmente Andrea, fratello di Simone. La sua parlata tradiva l’accento galilaico. Anch’egli, come il fratello, era pescatore: con la famiglia di Zebedeo, padre di Giacomo e Giovanni, conduceva una piccola azienda di pesca sul lago di Genezaret (cfr Lc 5,10). Doveva perciò godere di una certa agiatezza economica ed era animato da un sincero interesse religioso, da un desiderio di Dio – egli desiderava che Dio intervenisse nel mondo – un desiderio che lo spinse a recarsi col fratello fino in Giudea per seguire la predicazione di Giovanni il Battista (Gv 1,35-42).
Era un ebreo credente e osservante, fiducioso nella presenza operante di Dio nella storia del suo popolo, e addolorato per non vederne l’azione potente nelle vicende di cui egli era, al presente, testimone. Era sposato e la suocera, guarita un giorno da Gesù, viveva nella città di Cafarnao, nella casa in cui anche Simone alloggiava quando era in quella città (cfr Mt 8,14s; Mc 1,29ss; Lc 4,38s). Recenti scavi archeologici hanno consentito di portare alla luce, sotto il pavimento a mosaico ottagonale di una piccola Chiesa bizantina, le tracce di una chiesa più antica sistemata in quella casa, come attestano i graffiti con invocazioni a Pietro. I Vangeli ci informano che Pietro è tra i primi quattro discepoli del Nazareno (cfr Lc 5,1-11), ai quali se ne aggiunge un quinto, secondo il costume di ogni Rabbi di avere cinque discepoli (cfr Lc 5,27: chiamata di Levi). Quando Gesù passerà da cinque a dodici discepoli (cfr Lc 9,1-6), sarà chiara la novità della sua missione: Egli non è uno dei tanti rabbini, ma è venuto a radunare l’Israele escatologico, simboleggiato dal numero dodici, quante erano le tribù d’Israele.
Simone appare nei Vangeli con un carattere deciso e impulsivo; egli è disposto a far valere le proprie ragioni anche con la forza (si pensi all’uso della spada nell’Orto degli Ulivi: cfr Gv 18,10s). Al tempo stesso, è a volte anche ingenuo e pauroso, e tuttavia onesto, fino al pentimento più sincero (cfr Mt 26,75). I Vangeli consentono di seguirne passo passo l’itinerario spirituale. Il punto di partenza è la chiamata da parte di Gesù. Avviene in un giorno qualsiasi, mentre Pietro è impegnato nel suo lavoro di pescatore. Gesù si trova presso il lago di Genèsaret e la folla gli fa ressa intorno per ascoltarlo. Il numero degli ascoltatori crea un certo disagio. Il Maestro vede due barche ormeggiate alla sponda; i pescatori sono scesi e lavano le reti. Egli chiede allora di salire sulla barca, quella di Simone, e lo prega di scostarsi da terra. Sedutosi su quella cattedra improvvisata, si mette ad ammaestrare le folle dalla barca (cfr Lc 5,1-3). E così la barca di Pietro diventa la cattedra di Gesù. Quando ha finito di parlare, dice a Simone: «Prendi il largo e calate le reti per la pesca». Simone risponde: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5,4-5). Gesù, che era un falegname, non era un esperto di pesca: eppure Simone il pescatore si fida di questo Rabbi, che non gli dà risposte ma lo chiama ad affidarsi. La sua reazione davanti alla pesca miracolosa è quella dello stupore e della trepidazione: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore» (Lc 5,8). Gesù risponde invitandolo alla fiducia e ad aprirsi ad un progetto che oltrepassa ogni sua prospettiva: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (Lc 5,10). Pietro non poteva ancora immaginare che un giorno sarebbe arrivato a Roma e sarebbe stato qui “pescatore di uomini” per il Signore. Egli accetta questa chiamata sorprendente, di lasciarsi coinvolgere in questa grande avventura: è generoso, si riconosce limitato, ma crede in colui che lo chiama e insegue il sogno del suo cuore. Dice di sì – un sì coraggioso e generoso -, e diventa discepolo di Gesù.
Un altro momento significativo nel suo cammino spirituale Pietro lo vivrà nei pressi di Cesarea di Filippo, quando Gesù pone ai discepoli una precisa domanda: «Chi dice la gente che io sia?» (Mc 8,27). A Gesù però non basta la risposta del sentito dire. Da chi ha accettato di coinvolgersi personalmente con Lui vuole una presa di posizione personale. Perciò incalza: «E voi chi dite che io sia?» (Mc 8,29). E’ Pietro a rispondere per conto anche degli altri: «Tu sei il Cristo» (ibid.), cioè il Messia. Questa risposta di Pietro, che non venne “dalla carne e dal sangue” di lui, ma gli fu donata dal Padre che sta nei cieli (cfr Mt 16,17), porta in sé come in germe la futura confessione di fede della Chiesa. Tuttavia Pietro non aveva ancora capito il profondo contenuto della missione messianica di Gesù, il nuovo senso di questa parola: Messia. Lo dimostra poco dopo, lasciando capire che il Messia che sta inseguendo nei suoi sogni è molto diverso dal vero progetto di Dio. Davanti all’annuncio della passione si scandalizza e protesta, suscitando la vivace reazione di Gesù (cfr Mc 8, 32-33). Pietro vuole un Messia “uomo divino”, che compia le attese della gente imponendo a tutti la sua potenza: è anche il desiderio nostro che il Signore imponga la sua potenza e trasformi subito il mondo; Gesù si presenta come il “Dio umano”, il servo di Dio, che sconvolge le aspettative della folla prendendo un cammino di umiltà e di sofferenza. È la grande alternativa, che anche noi dobbiamo sempre imparare di nuovo: privilegiare le proprie attese respingendo Gesù o accogliere Gesù nella verità della sua missione e accantonare le attese troppo umane. Pietro – impulsivo com’è – non esita a prendere Gesù in disparte e a rimproverarlo. La risposta di Gesù fa crollare tutte le sue false attese, mentre lo richiama alla conversione e alla sequela: «Rimettiti dietro di me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mc 8,33). Non indicarmi tu la strada, io prendo la mia strada e tu rimettiti dietro di me.
Pietro impara così che cosa significa veramente seguire Gesù. È la sua seconda chiamata, analoga a quella di Abramo in Gn 22, dopo quella di Gn 12: «Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà» (Mc 8,34-35). È la legge esigente della sequela: bisogna saper rinunciare, se necessario, al mondo intero per salvare i veri valori, per salvare l’anima, per salvare la presenza di Dio nel mondo (cfr Mc 8,36-37). Anche se con fatica, Pietro accoglie l’invito e prosegue il suo cammino sulle orme del Maestro.
E mi sembra che queste diverse conversioni di san Pietro e tutta la sua figura siano una grande consolazione e un grande insegnamento per noi. Anche noi abbiamo desiderio di Dio, anche noi vogliamo essere generosi, ma anche noi ci aspettiamo che Dio sia forte nel mondo e trasformi subito il mondo secondo le nostre idee, secondo i bisogni che noi vediamo. Dio sceglie un’altra strada. Dio sceglie la via della trasformazione dei cuori nella sofferenza e nell’umiltà. E noi, come Pietro, sempre di nuovo dobbiamo convertirci. Dobbiamo seguire Gesù e non precederlo: è Lui che ci mostra la via. Così Pietro ci dice: Tu pensi di avere la ricetta e di dover trasformare il cristianesimo, ma è il Signore che conosce la strada. E’ il Signore che dice a me, che dice a te: seguimi! E dobbiamo avere il coraggio e l’umiltà di seguire Gesù, perché Egli è la Via, la Verità e la Vita.

Santi Apostoli Pietro e Paolo

Santi Apostoli Pietro e Paolo dans immagini sacre San-Pietro-e-San-Paolo

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Publié dans:immagini sacre |on 26 juin, 2013 |Pas de commentaires »

L’ESPERIENZA DI SAN PAOLO COME MODELLO DI ‘ESISTENZA-IN’ CRISTO

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L’ESPERIENZA DI SAN PAOLO COME MODELLO DI ‘ESISTENZA-IN’ CRISTO

A.1) L’ESPERIENZA SOGGETTIVA DI SAN PAOLO COME MODELLO DI ‘ESISTENZA-IN’ CRISTO

Le basi teologiche offerte dal paragrafo precedente permettono ora un avvicinamento esistenzialistico alla straordinaria figura di san Paolo, secondo quella che è la “funzione modellare”[1] che Guardini riconosce all’apostolo di Tarso, ovvero il fatto di costituire un’esemplificazione concreta, un modello storico della relazione sussistente fra la dimensione essenziale del Cristianesimo, cioè Gesù Cristo nella sua persona, e quella esperienziale-esistenziale, cioè la vita cristiana. Si tratta di due prospettive strettamente correlate nella misura in cui ambedue risultano connesse all’istanza cristiana nella sua totalità di significato; come lo stesso Guardini mette in evidenza, dopo aver a lungo interrogato teologicamente il Cristianesimo dal punto di vista della sua essenza, il passo successivo è un’ulteriore domanda: “In che cosa consiste quella realtà, alla quale fa riferimento in maniera essenziale l’esistenza cristiana? Il valore che provoca alla decisione?”[2].
Il pensiero di Guardini può così inquadrarsi entro due grandi momenti teologici. Il primo è segnato dall’interrogativo essenziale circa l’oggetto del credo cristiano, il quale si è dimostrato essere, in termini assoluti, un “soggetto” personale, una singolarità categoriale, un’identità precisa e peculiare, cioè Gesù Cristo, il concreto vivente. Ora, nel secondo momento e mantenendo vivo questo presupposto, l’autore guarda a tale soggetto come ulteriore “oggetto” dell’esistenza cristiana, cioè colui che “nel soggetto” cristiano esiste personalmente plasmando sostanzialmente la stessa esistenza dell’uomo, facendo di essa una coesistenza o, più teologicamente, un’esistenza-in. Come si domanda l’autore, infatti: “Possono l’uomo singolo, tutti gli uomini, l’insieme dell’umanità, l’universo, entrare-in Lui? Non finiscono in una strettoia? Non perde l’universo il suo carattere di libera totalità?”[3].
In tale doppio momento teologico è tuttavia sotteso un fondamento di matrice filosofica, ovvero il concetto guardiniano di opposizione polare, che lo conduce all’individuazione di una dimensione “inabitativa” ed una “sovrabitativa” entro l’esistenza umana di un medesimo soggetto[4]. Tale fondamento, che sarà oggetto del successivo capitolo, viene qui considerato unicamente nella prospettiva di evidenziare il terreno filosofico nel quale  Guardini raccoglie le proprie considerazioni teologiche in merito alla figura di san Paolo e più in generale a quella di ogni soggetto cristiano. La figura paolina rappresenta pertanto un momento “peak” nel quadro argomentativo di Guardini, poiché gli offre la possibilità empirica di porre un soggetto concreto e non un’ideale ed astratta istanza umana quale strumento esemplificativo delle proprie riflessioni.
San Paolo certamente rappresenta un “caso emblematico” di esperienza di tensione degli opposti: “Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma ciò che detesto” (Rm 7,15). Questa però non è certamente una ragione sufficiente per assumere la figura di Paolo quale modello referenziale, anzi, per come è stata proposta qui sopra l’asserzione stessa potrebbe apparire equivoca e teologicamente fallace, entrando in una dimensione opinabile di giudizio della stessa figura paolina. Piuttosto Guardini si prodiga nella sua ricerca attorno all’apostolo di Tarso per una ragione che a lui stesso appare inconfutabile: “Chi ci schiude la via per penetrare nel mondo del Nuovo Testamento non sono né i Sinottici, né Giovanni, ma Paolo, e appunto per essersi trovato nell’identica situazione in cui ci troviamo noi stessi”[5]. L’opposizione polare è perciò un metro sotteso all’indagine di Guardini, che in termini espliciti, invece, rivendica delle giustificazioni teologiche, ponendo cioè l’esistenza cristiana di Paolo, così come testimoniata dalle Scritture, al vertice di un processo di incontro-con Cristo che per l’uomo di ogni tempo risulta emblematico; e questo a parere di Guardini proprio perché Paolo “è uno di noi”. Cosa significa, tuttavia, che Paolo “è uno di noi”?
Guardini offre una serie di ragioni a riguardo. Ad esempio, Paolo fu l’unico apostolo a non vedere Gesù con i propri occhi nella sua vita terrena e di Lui ha avuto notizia soltanto come la possiamo avere noi, cioè dall’esterno, ad opera di quelli che riferiscono di Lui e per gli effetti che da Lui si ripercossero nella storia; in un secondo momento anche dall’interno, allorché il Signore lo chiamò e gli si rivelò nel cuore. Ancora, quando Paolo delinea la propria figura di Cristo, lo fa attingendo fondamentalmente alle fonti alle quali pure noi facciamo ricorso, ovvero il messaggio tramandato e la propria esperienza. Inoltre, ciò che a noi manca, e che invece ebbe un’influenza enorme nei riguardi dei primi apostoli, cioè l’essere stati testimoni oculari, mancava anche a lui[6]. Tutto ciò porta Guardini a concludere che “proprio per questo, Paolo è l’uomo che fa al caso nostro: e se qualcuno afferma di comprendere il Nuovo Testamento senza far ricorso a Paolo, è da temere che non sia riuscito a comprendere molto della figura di Cristo”[7].
L’orizzonte che qui si dischiude, pertanto, è quello di analizzare l’esistenza di Paolo onde poter tratteggiare, utilizzando essa come guida, l’identità concreta di una vera esistenza-in Cristo che sia esemplare per ogni soggetto cristiano. Attraverso questo procedimento, infatti, risulta parafrasata concretamente, cioè resa esplicita, la volontà “pura” di Guardini, cioè la sua intenzione teologica originaria: “Ora diremo come l’essere di Cristo si attua nella personalità del cristiano, diremo cioè dell’immagine dell’uomo, che accoglie il messaggio con fede e fiducia, e si sforza di vivere in esso; cioè di compiere quella metànoia che è richiesta da Gesù con le prime parole. La risposta più profondamente urgente implica ciò che si può definire come una teologia dell’esistenza cristiana”[8].
Viene così da porsi con una certa inquietudine l’interrogativo che lo stesso autore pone a sé medesimo, ovvero, in termini esistenziali, chi fosse san Paolo. Se Guardini osserva a tutto tondo la figura paolina, scrutando con profonda attenzione quanto i testi biblici, e in particolare le stesse lettere paoline, rivelano direttamente o indirettamente di lui, non si getta, tuttavia, in un cieco inseguimento di un’ideale figura umana che si è riconosciuta primariamente come esemplare. Si intende dire, cioè, che Guardini, nel suo procedere teologico entro l’essenziale cristiano, cioè la persona di Cristo, segue sempre le linee strutturali della propria fede cristiana, senza mai dimenticare, quindi, il proprio concetto di esistenza cristiana e di opposizione polare nel soggetto umano. In termini pratici, se per Guardini, primariamente, “esistere significa che questo essere vivente critichi se stesso, sia dunque capace di prendere coscienza della differenza fra attività vera e falsa… determinare quel che si dice norma e valore”[9]; ancora, se “interiore a sé può essere solo ciò che ha almeno una possibilità di essere anche fuori di sé”[10], proprio perché, come indica la Iannascoli, “solo quando l’uomo si sa osservare come oggetto, si vede e si sa soggetto”[11], così che “contemplante e contemplato, soggetto e oggetto affiorano nella coscienza distinti l’uno dall’altro”[12], ebbene, attraverso questa prospettiva di pensiero sua personale Guardini incontra san Paolo e ne tratteggia la figura, riconoscendo in essa, come si è detto, un’esperienza archetipica dell’Io cristiano. L’autore, tuttavia, non cade nella trappola del superficialismo teologico, che vorrebbe dividere in due tronconi netti l’esistenza di Paolo, uno relativo al tempo prima della sua conversione, l’altro ad essa successivo, ma con la sua solita prudenza che tende a salvaguardare l’insieme, Guardini osserva ciò che di strutturante vi è nell’esistenza paolina nella sua interezza, senza tralasciare il radicale cambiamento operato dall’incontro con Cristo. Taluni aspetti esistenziali paolini, infatti, permangono anche dopo il noto avvenimento sulla via di Damasco, seppur nella nuova luce di quel Signore “che è lo Spirito, e dove c’è lo Spirito del Signore, ivi c’è libertà” (2Cor 3,17).
Ora, rispondendo alla domanda esplicita “che uomo era, dunque, san Paolo?”, Guardini utilizza i parametri sopra accennati per offrire un quadro antropologico ed esistenziale dell’apostolo di Tarso. La personalità paolina, secondo l’autore italo-tedesco, “era tormentata da due forti passioni: una sensualità potente ed una grande ambizione; egli è il solo che parla di collette”[13]. La citazione di Rm 7,15, con cui sopra si è introdotta la figura di Paolo in questo paragrafo, si fa adesso quanto mai impellente. Essa, tuttavia, non è che un momento importante di tutto un quadro esistenziale; infatti, se lungo tutta la sua esistenza precristiana, “in se stesso, nelle sue membra, Paolo sente il contrasto di due potenze, una buona ed una cattiva, ma non riesce a dar libero passaggio a quella buona e a soggiogare la cattiva, ma piuttosto odia se stesso, si fa violenza, e finisce per sentirsi sempre più disperatamente misero”[14], anche dopo l’esperienza sulla via di Damasco la “tensione esistenziale” da Guardini individuata nel santo di Tarso appare talora un’istanza invalicabile: “Paolo non sembra né perfettamente sano, né completamente sicuro di sé. Egli sembra essere stato uno di quegli uomini che attirano le calamità, che predispongono contro di sé la loro sorte, un uomo tormentato”[15]. Le stesse Scritture sembrano confermare la visione guardiniana di san Paolo, traslando però quella che psicologicamente appare come una forte angoscia interiore in una più teologica inquietudine dello spirito. Per esempio, in At 9,16 il Signore dice di lui ad Anania. “Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome”; di fronte alle incomprensioni dei Corinzi, Paolo afferma di se stesso: “Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi, tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde” (2 Cor 11,24-25), premettendo come tutto ciò sia avvenuto nonostante la sua apparente dualità: “Io davanti a voi così meschino, ma di lontano così animoso con voi” (2 Cor 10,1). La stessa immagine fisica di Paolo, così come deducibile dalle Scritture, testimonia per Guardini una sua ulteriore difficoltà sociale, questa volta legata alla dimensione estetica dell’apparire. Infatti, ciò che ad esempio si deduce dal passo di Atti 14,12, in cui si dice che dopo una guarigione operata a Listra i presenti “chiamavano Barnaba ‘Zeus’ e Paolo ‘Mercurio’, perché era lui il più eloquente”, secondo Guardini “sta a significare come Barnaba dovesse avere una figura più imponente, mentre Paolo fosse piccolo di statura e non appariscente”[16]. Tuttavia vi è soprattutto un momento biblico che Guardini riconosce come particolarmente emblematico per quella tensione paolina che, seppur non esplicitamente, rimanda alla struttura degli opposti polari così preponderante nel pensiero di Guardini. Si tratta del brano contenuto in 2Cor 12,7-9, dove Paolo afferma: “Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed Egli mi ha detto: ‘Ti basta la mia grazia’. Mi vanterò dunque ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo”. Il racconto è un ulteriore suggello al brano già citato di Rm 7,15 e testimonia ancora di più quanto “Paolo ha dovuto soffrire molto, continuamente e per tutto”[17], e come nonostante l’avvenuta conversione, “nella sua nuova realtà di cristiano egli ha preteso da sé molto di più di quanto pretendesse prima”[18].
Perché, dunque, verrebbe da chiedersi, un tale attaccamento alla figura di Paolo da parte di Guardini, al punto da erigerlo a riferimento primario per un’esistenza-in Cristo? Quale fascino può destare, nel credente, una tal figura di cristiano zelante che, per come sinora è stata descritta, potrebbe suggerire un concetto semmai ombroso e tormentato di esistenza?
Guardini introduce, a questo proposito, un primo momento di forte “spaccatura” esistenziale nell’esperienza personale di Paolo, che molte volte viene tralasciato o comunque messo ai margini dall’episodio avvenuto sulla via di Damasco: l’incontro di Paolo con la giovane Chiesa rappresentata in particolare dal martire Stefano. Questo incontro per Guardini è assai significativo per lo zelante “Saulo”, soprattutto nella misura in cui quella tensione polare entro se stesso, che in ultima istanza non è mai stata davvero sopita in lui, è venuta alla luce per lo meno in termini di autocoscienza di sé, mostrandogli cioè la dimensione di se stesso, facendo emergere in lui il guardiniano “punto intimo dove sto”: “Di fronte all’eroica e sublime figura di Stefano, egli ha per la prima volta la percezione della potenza di Cristo, ma, naturalmente, ciò non fa altro che eccitarlo ancor più nella sua furia devastatrice”[19].
Un’esperienza forte, pertanto, ma non ancora debellante quel senso di autosufficienza, quella volontà tirannica rinchiusa entro le barriere del proprio Io e così fortemente legata alla metodicità, alla prassi legale, allo zelo religioso. Su questo terreno esistenziale, che se non altro ora appare “cosciente” allo stesso Paolo, irrompe l’azione trasformatrice della grazia, l’unica via, come si vedrà nel seguente paragrafo, di conciliazione degli opposti: l’apparizione di Cristo sulla via di Damasco. E tale esperienza, per come la interpreta Guardini, è proprio la risposta alla domanda posta qui sopra, cioè la ragione del fascino che la figura di Paolo esercita sul soggetto cristiano: “Quando Paolo è sulla via di Damasco, vede una luce, e non il volto di Cristo. In chi legge le sue lettere, si forma la convinzione che il Gesù Cristo di cui esse trattano è più potenza in atto, energia creativa, luce illuminante, vita irradiante e creante, che non una figura fisica sulla quale si possa fissare lo sguardo, un volto da poter rimirare. Nei Sinottici, invece, abbiamo un Gesù che guarda verso di noi, che ci rivolge la parola, che agisce. Ciò certamente è un privilegio prezioso che gli evangelisti ci offrono, ma al contempo un elemento che ci dà l’impressione di essere tanto lontani dalla loro narrazione in quanto non abbiamo mai visto con gli stessi nostri occhi il Signore”[20].
Con Paolo, quindi, il credente di ogni tempo si sente, secondo Guardini, maggiormente “condividente” l’esperienza dell’apostolo di Tarso, percependo come lui non la fisicità concreta di un volto, non dei tratti somatici esclusivi di un soggetto umano, non una carne o degli occhi, né uno sguardo o un’espressione del volto storici, bensì la presenza di una potenza esclusiva, l’irrompere di un’energia liberante, trasformatrice, un Qualcuno dalla luce inaccessibile che tuttavia si fa incontro all’uomo, permettendogli di scoprire come “in Lui viviamo, ci muoviamo e siamo” (At 17,28). In virtù di tale potenza Paolo riesce a superare le proprie tensioni esistenziali non, come si vorrebbe, eliminandole da se stesso, ma vivendo con esse nella nuova dimensione del battezzato, proprio in virtù di quel battesimo “a lui tanto caro che non è qualcosa di psicologico o etico, ma di pneumatico-reale”[21], affermando “che nell’uomo avviene qualcosa di singolare. Egli viene a trovarsi in comunione di esistenza con Cristo, proprio come se questi penetrasse in lui e vi permanesse come figura fino a dominarlo, come forza ad agire in lui. E quando Gesù si è stabilito in noi, vuole rivelarsi nell’esistenza umana”[22].
Qui si entra nuovamente nel cuore del Cristianesimo, attestando perciò il legame inscindibile tra l’essenza del Cristianesimo e l’esistere-in Cristo. Colui in cui si crede, infatti, che è persona viva e concreta, è pure Colui che nell’atto di fede da parte del credente penetra in lui realizzando una coabitazione esistenziale. Una coabitazione, però, che non va intesa secondo il senso comune del termine, intendendo cioè la reciproca presenza di due soggetti entro la stessa abitazione. Nel Cristianesimo colui che realmente vive è il Cristo, il quale plasma il soggetto credente nella sua particolarità di essere e di vita, nei suoi doveri e nei suoi destini, e ancor più non lo fa “individualmente”, cioè relativamente ad un singolo individuo, ma vive nella Chiesa, trasporta l’esistenza dell’uno nell’esistenza del complesso della cristianità, dove realmente “circola una stessa linfa, palpita una stessa vita, impera la stessa figura umana e divina”[23].
Ecco allora di nuovo “la differenza di ciò che è cristiano” (Unterscheidung des Christlichen)[24], presentata sotto una nuova veste, ovvero quella dell’esistenza umana, “che per essere salvata deve dunque essere incorporata nella realtà di Cristo”[25]. Tale differenza è proprio l’in-existenz, l’esistere-in Cristo, a partire dallo stesso Cristo che interpella l’uomo con una pretesa non astratta ma concreta[26], a partire dalla quale i fedeli devono camminare in Lui, “ben radicati e fondati in Lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, abbondando nell’azione di grazie” (Col 2,7). In questo senso risulta per Guardini quanto mai pregnante la testimonianza di Paolo, nelle cui lettere “ritorna di continuo una espressione caratteristica: ‘in-Cristo”[27]. Fede cristiana, infatti,  significa essere in Cristo, cioè il continuo “essere spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni” (Col 3,9) per rivestirsi dell’uomo nuovo, per poter “partecipare alla sorte dei santi nella luce” (Col 2,12). Questo perché, come afferma ancora Paolo, “se uno è in Cristo, è una nuova creatura. Le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove” (2Cor 5,17), per cui al credente è richiesto di effettuare con Cristo, nella propria esistenza, l’azione redentiva mediante una vittoria sempre nuova, affinché Cristo si formi in Lui (Gal 4,19)[28], e quindi “credere, venir battezzato, essere cristiano, insieme con tutto l’agire cristiano, significa inserirsi in questo permanente avvenimento; venirne afferrato ed esserne reso partecipe, in esso stare innanzi a Dio”[29]. Tutto questo avviene, come sottolinea Guardini, sempre nella bilatitudine dell’esistere in Cristo: la dimensione individuale, certamente, ma sempre nella prospettiva del Noi ecclesiale, cioè “l’unione della comunità credente come tale, un qualcosa che trascende la mera somma dei singoli credenti, ciò che è, insomma, la Chiesa”[30]. In ultima istanza, pertanto, l’esperienza soggettiva del cristiano è sempre una esperienza comunitaria del Cristo che vive nella Chiesa.

 - La Casa di Miriam –

PETRUM ET PAULUM APOSTOLOS – ESORTAZIONE APOSTOLICA DI SUA SANTITÀ PAOLO PP. VI (1967)

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/apost_exhortations/documents/hf_p-vi_exh_19670222_petrum-et-paulum_it.html

PETRUM ET PAULUM APOSTOLOS

ESORTAZIONE APOSTOLICA  DI SUA SANTITÀ PAOLO PP. VI (1967)

NEL XIX CENTENARIO DEL MARTIRIO DEGLI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

VENERABILI FRATELLI
SALUTE ED APOSTOLICA BENEDIZIONE

I santi Apostoli Pietro e Paolo sono giustamente considerati dai fedeli come colonne primarie non solo di questa Santa Sede Romana, ma anche di tutta la Chiesa universale del Dio vivo. Riteniamo, perciò, di fare cosa consona al Nostro ministero Apostolico esortando voi tutti, Venerabili Fratelli, a promuovere, spiritualmente a Noi uniti, ciascuno nella propria diocesi, una devota celebrazione della memoria, diciannove volte centenaria, del martirio, consumato in Roma, tanto dell’apostolo Pietro scelto da Cristo a fondamento della sua Chiesa, e primo Vescovo di quest’alma Città, quanto dell’apostolo Paolo, dottore delle Genti (Cf 1 Tm 2,7), maestro e amico della prima comunità cristiana in Roma.
La data di questa memorabile ricorrenza non può essere sicuramente fissata, in base ai documenti storici. È certo che i due apostoli furono martirizzati a Roma durante la persecuzione di Nerone, che infierì dall’anno 64 al 68. Il martirio è ricordato da san Clemente, Successore dello stesso Pietro nel governo della Chiesa Romana, nella sua lettera ai Corinzi, ai quali propone i validi esempi dei due atleti: Per invidia e per gelosia le più grandi e giuste colonne furono perseguitate e lottarono sino alla morte (1 Epistula ad Corinthios, V, 1-2: ed. FUNK 1, p. 105).
Ai due Apostoli Pietro e Paolo fece corona un gran numero di persone (Cf TACITO, Annales, XV, 44) che costituisce la primizia dei martiri della Chiesa Romana, come scrive lo stesso Clemente: A questi uomini che vissero santamente si aggiunse una grande schiera di eletti, i quali, soffrendo per invidia molti oltraggi e torture, furono di bellissimo esempio a noi (Epistula ad Corinthios, VI, 1: ed. FUNK 1, p. 107).
Noi, poi, lasciando alle erudite discussioni la precisa determinazione della data del martirio dei due Apostoli, abbiamo scelto, per le celebrazioni centenarie, l’anno corrente, seguendo in ciò l’esempio del Nostro venerato Predecessore Pio IX, il quale volle solennemente ricordare nel 1867 il martirio di san Pietro.
E poiché la prima comunità cristiana di Roma esaltò insieme il martirio di Pietro e Paolo, e la Chiesa in seguito fissò la commemorazione anniversaria dell’uno e dell’altro Apostolo in un’unica festa liturgica (29 giugno), Noi abbiamo pensato di unire insieme, in questa celebrazione centenaria, il glorioso martirio dei Principi degli Apostoli.
E che Noi pure siamo tenuti a richiamare il ricordo di questo anniversario lo dice l’abitudine, ormai universalmente diffusa, di commemorare persone e fatti, che lasciarono un’impronta di sé nel corso del tempo, e che, considerati nella distanza degli anni trascorsi e nella vicinanza delle memorie superstiti, offrono a chi saggiamente li ripensa e quasi li rivive, non vane lezioni circa il valore delle cose umane, forse più palese ai posteri che oggi lo scoprono, che non ai contemporanei, che allora non sempre e non tutto lo compresero. L’educazione moderna al senso della storia a tale ripensamento facilmente ci piega, mentre il culto delle sacre tradizioni, elemento precipuo della spiritualità cattolica, stimola la memoria, accende lo spirito, suggerisce i propositi, per cui una ricorrenza anniversaria si traduce in una lieta e pia festività, infonde il desiderio della riviviscenza delle antiche venerande vicende, e apre lo sguardo sull’orizzonte del tempo passato e futuro, quasi che un disegno segreto lo unificasse e ne segnasse nella futura comunione dei santi il suo estremo destino. Questa spirituale esperienza sembra a noi doversi particolarmente effettuare mediante la rievocazione dei due sommi Apostoli Pietro e Paolo, che alla temporale mortalità pagarono col martirio per Cristo il loro umano tributo, e che dell’immortalità di Cristo trasmisero a noi e fino agli ultimi posteri sacramento perenne la Chiesa, guadagnando per sé l’eredità incorruttibile, incontaminata e inalterabile, riservata nei cieli (Cf 1 Pt 1,4).
E tanto più Ci piace commemorare con voi, Venerati Fratelli e Figli carissimi, questo anniversario, quanto maggiormente questi beati Apostoli Pietro e Paolo sono non solo Nostri, ma vostri altresì: essi sono gloria di tutta la Chiesa, perché delegati delle Chiese, gloria di Cristo (2 Cor 8,23) e da essi esce tuttora per tutta la Chiesa la voce: «Noi siamo il vostro vanto, come voi sarete il nostro» (Cf 2 Cor 1,14). Che se questo tragico e benedetto suolo romano raccolse il loro sangue e custodì, inestimabili trofei, le loro tombe, e alla Chiesa di Roma toccò l’incomparabile prerogativa di assumere e di continua re la loro specifica missione, questa non ha per fine la Chiesa locale, sì bene la Chiesa intera, consistendo principalmente quella missione nel fungere da centro della Chiesa stessa e nel dilatarne la visibile e mistica circonferenza ai confini dell’universalità; l’unità cioè e la cattolicità, che in virtù dei santi Apostoli Pietro e Paolo hanno nella Chiesa di Roma la loro precipua sede storica e locale, sono proprietà e sono note distintive di tutta la vera e grande Famiglia di Cristo, sono doni di tutto il Popolo di Dio, per il quale la viva e fedele tradizione romana li custodisce, li difende, li dispensa e li accresce.
Per questo il Nostro invito, oltre che per la nostra diletta diocesi di Roma «di cui sono i celesti patroni», è per voi tutti, che siete Successori degli Apostoli e Pastori della Chiesa universale, in quanto componenti con Noi quel Collegio episcopale, che il recente Concilio Ecumenico, con tanta ricchezza di dottrina e con tanti presagi di futuri incrementi ecclesiali, illustrò; è per voi, fedeli e ministri tutti della santa Chiesa; e così via, a Dio piacendo, per tutti i fratelli che, sebbene non ancora in piena comunione con Noi, sono tuttavia insigniti del nome cristiano, e che ben volentieri sappiamo cultori della memoria e dello spirito dei due Apostoli. In particolare ricordiamo con viva soddisfazione del Nostro animo che le venerande Chiese Orientali celebrano solennemente nelle loro liturgie i due Corifei degli Apostoli, e ne mantengono vivo il culto tra il popolo cristiano. Ci piace altresì rilevare come presso le Chiese e le Comunità Ecclesiali separate dell’Occidente sia viva l’idea dell’apostolicità, che la presente celebrazione mira a vedere sempre più perfetta ed operante, e che san Paolo esprime con quelle mirabili parole: Edificati sopra il fondamento degli apostoli (Ef 2,20).
In che cosa consiste praticamente il Nostro invito? Come insieme celebreremo il significativo anniversario? È costume di questa Sede Apostolica, quando intende rendere solenne e universale qualche singolare ricorrenza, elargire qualche beneficio spirituale (e non Ci rifiutiamo dal farlo anche in questa occasione); ma questa volta, più che donare, Ci piace domandare; più che offrire, vogliamo chiedere. E la Nostra domanda è semplice e grande: Noi vi preghiamo tutti e singoli, Fratelli e Figli Nostri, di voler celebrare la memoria dei santi Apostoli Pietro e Paolo, testimoni con la parola e col sangue della fede di Cristo, con un’autentica e sincera professione della medesima fede, quale la Chiesa da loro fondata e illustrata ha raccolto gelosamente e autorevolmente formulata. Una professione di fede vogliamo a Dio offrire, al cospetto dei beati Apostoli, individuale e collettiva, libera e cosciente, interiore ed esteriore, umile e franca. Vogliamo che questa professione salga dall’intimo di ogni cuore fedele e risuoni identica e amorosa in tutta la Chiesa.
Quale migliore tributo di memoria, d’onore, di comunione potremmo offrire a Pietro e a Paolo che quello della fede stessa, che da loro abbiamo ereditata?
Voi sapete benissimo che il Padre stesso celeste rivelò a Pietro chi era Gesù: il Cristo, il Figlio del Dio vivo, il Maestro e il Salvatore da cui a noi deriva la grazia e la verità (Cf Gv 1,14), la nostra salvezza, il cuore della nostra fede; voi sapete che sulla fede di Pietro riposa tutto l’edificio della santa Chiesa (Cf Mt 16,16-19); voi sapete che quando molti abbandonavano Gesù, dopo il discorso di Cafarnao, fu Pietro che, a nome del Collegio Apostolico, proclamò la fede in Cristo Figlio di Dio (Cf Gv 6,68-69); voi sapete che Cristo medesimo si è fatto garante con la sua personale preghiera dell’indefettibilità della fede di Pietro, ed ha a lui affidato l’ufficio, nonostante le sue umane debolezze, di confermare in essa i suoi fratelli (Cf Lc 22,32); e voi anche sapete che la Chiesa vivente ha preso inizio, disceso lo Spirito Santo nel giorno di Pentecoste, con la testimonianza della fede di Pietro (Cf At 2,32-40).
Che cosa potremmo a Pietro domandare a nostro vantaggio, a Pietro offrire a suo onore, se non la fede, donde ha origine la nostra spirituale salute, e la nostra promessa, da lui reclamata, d’essere forti nella fede? (1 Pt 5,9)
A voi è parimente noto quale assertore della fede è stato san Paolo: a lui la Chiesa deve la dottrina fondamentale della fede come principio della nostra giustificazione, cioè della nostra salvezza e dei nostri rapporti soprannaturali con Dio; a lui la prima determinazione teologica del mistero cristiano, a lui la prima analisi dell’atto di fede, a lui l’affermazione del rapporto tra la fede, unica e inequivocabile, e la consistenza della Chiesa visibile, comunitaria e gerarchica. Come non invocarlo nostro perenne maestro di fede; come non chiedere a lui la grande e sperata fortuna della reintegrazione di tutti i cristiani in un’unica fede, in un’unica speranza, in un’unica carità dell’unico Corpo Mistico di Cristo? (Cf Ef 4,4-16) E come non deporre sulla sua tomba di «Apostolo e martire» il nostro impegno di professare con coraggio apostolico, con anelito missionario, la fede, ch’egli alla Chiesa, al mondo, con la parola, con gli scritti, con l’esempio, col sangue, insegnò e trasmise?
Così che arride a Noi la speranza che la commemorazione centenaria del martirio dei santi Apostoli Pietro e Paolo si risolva principalmente per tutta la Chiesa in un grande atto di fede. E vogliamo ravvisare in questa ricorrenza la felice occasione che la divina Provvidenza appresta al Popolo di Dio per riprendere esatta coscienza della sua fede, per ravvivarla, per purificarla, per confermarla, per confessarla. Non possiamo ignorare che di ciò l’ora presente accusa grande bisogno. È pur noto a voi, Venerati Fratelli e Figli carissimi, come, nella sua evoluzione, il mondo moderno, proteso verso mirabili conquiste nel dominio delle cose esteriori, e fiero d’una cresciuta coscienza di sé, sia incline alla dimenticanza e alla negazione di Dio, e sia poi tormentato dagli squilibri logici, morali e sociali, che la decadenza religiosa porta con sé, e si rassegni a vedere l’uomo agitato da torbide passioni e da implacabili angosce: dove manca Dio manca la ragione suprema delle cose, manca la luce prima del pensiero, manca l’indiscutibile imperativo morale, di cui l’ordine umano ha bisogno (Cf S. AGOSTINO, De civ. Dei, 8, 4: PL 41, 228-229; Contra Faustum, 20, 7: PL 43, 372).
E mentre vien meno il senso religioso fra gli uomini del nostro tempo, privando la fede del suo naturale fondamento, opinioni esegetiche o teologiche nuove, spesso mutuate da audaci, ma cieche filosofie profane, sono qua e là insinuate nel campo della dottrina cattolica, mettendo in dubbio o deformando il senso oggettivo di verità autorevolmente insegnate dalla Chiesa, e, col pretesto di adattare il pensiero religioso alla mentalità del mondo moderno, si prescinde dalla guida del magistero ecclesiastico, si dà alla speculazione teologica un indirizzo radicalmente storicistico, si osa spogliare la testimonianza della Sacra Scrittura del suo carattere storico e sacro, e si tenta di introdurre nel Popolo di Dio una mentalità cosiddetta post-conciliare, che del Concilio trascura la ferma coerenza dei suoi ampli e magnifici sviluppi dottrinali e legislativi con il tesoro di pensiero e di prassi della Chiesa, per sovvertirne lo spirito di fedeltà tradizionale e per diffondere l’illusione di dare al cristianesimo una nuova interpretazione arbitraria e isterilita. Che cosa resterebbe del contenuto della nostra fede e della virtù teologale che la professa, se questi tentativi, emancipati dal suffragio del magistero ecclesiastico, avessero a prevalere?
Ed ecco che a confortare la nostra fede nel suo autentico significato, a stimolare lo studio delle dottrine enunciate dal recente Concilio Ecumenico, e a sorreggere lo sforzo del pensiero cattolico nella ricerca di nuove e originali espressioni, fedeli tuttavia al deposito dottrinale della Chiesa, nello stesso senso e nello stesso modo di intendere (Cf VINCENZO LERINO, Commonitorium, 1, 23: PL 50, 668; D.-S. 3020), giunge sulla ruota del tempo questo anniversario Apostolico, il quale offre ad ogni figlio della santa Chiesa la felice opportunità: di dare a Gesù Cristo Figlio di Dio, Mediatore e Perfezionatore della rivelazione, l’umile e sublimante risposta: io credo, cioè il pieno assenso dell’intelletto e della volontà alla sua Parola, alla sua Persona, alla sua missione di salvezza (Cf Eb 12,2; CONC. VAT. I, Cost. dogm. de fide catholica, c. 3: DA. 3008, 3020; CONC. VAT. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen Gentium, n. 5: AAS 57 (1965), p. 7; CONC. VAT. П, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, nn. 5, 8: AAS 58 (1966), pp: 819, 821); e di onorare così quei sommi testimoni di Cristo, Pietro e Paolo, rinnovando l’impegno cristiano d’una sincera e operante professione della loro e nostra fede, e ancora pregando e lavorando per la ricomposizione di tutti i cristiani nell’unità della medesima fede.
Noi non intendiamo indire a tal fine un particolare Giubileo, quando appena è stato celebrato quello da Noi stabilito a conclusione del Concilio Ecumenico; ma fraternamente esortiamo voi tutti, Venerati Fratelli nell’Episcopato, a voler illustrare con la parola, a voler onorare con particolari solennità religiose, a voler soprattutto recitare solennemente e ripetutamente con i vostri sacerdoti e con i vostri fedeli il «Credo», in una o in altra delle formule in uso nella preghiera cattolica.
Ci piacerà sapere che il «Credo» è stato recitato espressamente, ad onore dei santi Pietro e Paolo, in ogni cattedrale, presenti il Vescovo, il Presbiterio, gli alunni dei Seminari, i Laici cattolici militanti per il regno di Cristo, i Religiosi e le Religiose, e quanto più numerosa possibile la santa assemblea dei fedeli. Analogamente faccia ogni Parrocchia per la propria comunità; e parimente ogni casa religiosa. Così suggeriamo che tale professione di fede sia, in un giorno stabilito, emessa in ogni singola casa ove dimori una famiglia cristiana, in ogni associazione cattolica, in ogni scuola cattolica, in ogni ospedale cattolico e in ogni luogo di culto, in ogni ambiente e in ogni riunione, ove la voce della fede possa esprimere e rinfrancare l’adesione sincera alla comune vocazione cristiana.
Noi rivolgiamo una particolare esortazione agli studiosi della Sacra Scrittura e della Teologia, affinché vogliano contribuire col magistero gerarchico della Chiesa a preservare la vera fede da ogni errore, ad approfondirne le insondabili profondità, a spiegarne rettamente il contenuto, a proporne i sani criteri di studio e di divulgazione. Similmente diciamo ai predicatori, ai maestri di religione, ai catechisti.
L’anno centenario commemorativo dei santi Pietro e Paolo sarà in tale modo l’anno della fede. Affinché la sua celebrazione abbia una certa simultaneità, Noi vi daremo inizio con la festa degli Apostoli medesimi, il 29 giugno prossimo venturo, e procureremo, fino allo scadere della medesima data dell’anno successivo, di renderlo fecondo di particolari commemorazioni e celebrazioni, tutte improntate al perfezionamento interiore, allo studio approfondito, alla professione religiosa, all’operosa testimonianza di quella santa fede senza la quale è impossibile piacere a Dio (Eb 1,6), e mediante la quale speriamo di raggiungere la promessa salvezza (Cf Mc 16,16; Ef 2,8; ecc.).
Dando a voi, Venerati Fratelli e diletti Figli, questo annuncio pieno di spirituali prospettive e di consolanti speranze, sicuri di avervi tutti solidali in piissima comunione, nel nome e con la potestà dei beati Apostoli e martiri Pietro e Paolo, sulle cui tombe riposa e fiorisce questa Chiesa Romana, erede, alunna e custode dell’unità e della cattolicità da loro qui per sempre incentrate e fatte scaturire, di gran cuore vi salutiamo e vi benediciamo.

Roma, presso S. Pietro, 22 febbraio, nella festa della Cattedra di san Pietro apostolo, dell’anno 1967, quarto del Nostro Pontificato.

PAOLO PP. VI

Publié dans:PAPA PAOLO VI |on 26 juin, 2013 |Pas de commentaires »

A multitude of the heavenly host, praising God

A multitude of the heavenly host, praising God  dans immagini sacre angels-adoration-of-the-magi-1449-1494

http://angelstarspeaks.me/paris-france-a-choir-of-angels-singing/

Publié dans:immagini sacre |on 25 juin, 2013 |Pas de commentaires »
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