L’ESPERIENZA DI SAN PAOLO COME MODELLO DI ‘ESISTENZA-IN’ CRISTO

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L’ESPERIENZA DI SAN PAOLO COME MODELLO DI ‘ESISTENZA-IN’ CRISTO

A.1) L’ESPERIENZA SOGGETTIVA DI SAN PAOLO COME MODELLO DI ‘ESISTENZA-IN’ CRISTO

Le basi teologiche offerte dal paragrafo precedente permettono ora un avvicinamento esistenzialistico alla straordinaria figura di san Paolo, secondo quella che è la “funzione modellare”[1] che Guardini riconosce all’apostolo di Tarso, ovvero il fatto di costituire un’esemplificazione concreta, un modello storico della relazione sussistente fra la dimensione essenziale del Cristianesimo, cioè Gesù Cristo nella sua persona, e quella esperienziale-esistenziale, cioè la vita cristiana. Si tratta di due prospettive strettamente correlate nella misura in cui ambedue risultano connesse all’istanza cristiana nella sua totalità di significato; come lo stesso Guardini mette in evidenza, dopo aver a lungo interrogato teologicamente il Cristianesimo dal punto di vista della sua essenza, il passo successivo è un’ulteriore domanda: “In che cosa consiste quella realtà, alla quale fa riferimento in maniera essenziale l’esistenza cristiana? Il valore che provoca alla decisione?”[2].
Il pensiero di Guardini può così inquadrarsi entro due grandi momenti teologici. Il primo è segnato dall’interrogativo essenziale circa l’oggetto del credo cristiano, il quale si è dimostrato essere, in termini assoluti, un “soggetto” personale, una singolarità categoriale, un’identità precisa e peculiare, cioè Gesù Cristo, il concreto vivente. Ora, nel secondo momento e mantenendo vivo questo presupposto, l’autore guarda a tale soggetto come ulteriore “oggetto” dell’esistenza cristiana, cioè colui che “nel soggetto” cristiano esiste personalmente plasmando sostanzialmente la stessa esistenza dell’uomo, facendo di essa una coesistenza o, più teologicamente, un’esistenza-in. Come si domanda l’autore, infatti: “Possono l’uomo singolo, tutti gli uomini, l’insieme dell’umanità, l’universo, entrare-in Lui? Non finiscono in una strettoia? Non perde l’universo il suo carattere di libera totalità?”[3].
In tale doppio momento teologico è tuttavia sotteso un fondamento di matrice filosofica, ovvero il concetto guardiniano di opposizione polare, che lo conduce all’individuazione di una dimensione “inabitativa” ed una “sovrabitativa” entro l’esistenza umana di un medesimo soggetto[4]. Tale fondamento, che sarà oggetto del successivo capitolo, viene qui considerato unicamente nella prospettiva di evidenziare il terreno filosofico nel quale  Guardini raccoglie le proprie considerazioni teologiche in merito alla figura di san Paolo e più in generale a quella di ogni soggetto cristiano. La figura paolina rappresenta pertanto un momento “peak” nel quadro argomentativo di Guardini, poiché gli offre la possibilità empirica di porre un soggetto concreto e non un’ideale ed astratta istanza umana quale strumento esemplificativo delle proprie riflessioni.
San Paolo certamente rappresenta un “caso emblematico” di esperienza di tensione degli opposti: “Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma ciò che detesto” (Rm 7,15). Questa però non è certamente una ragione sufficiente per assumere la figura di Paolo quale modello referenziale, anzi, per come è stata proposta qui sopra l’asserzione stessa potrebbe apparire equivoca e teologicamente fallace, entrando in una dimensione opinabile di giudizio della stessa figura paolina. Piuttosto Guardini si prodiga nella sua ricerca attorno all’apostolo di Tarso per una ragione che a lui stesso appare inconfutabile: “Chi ci schiude la via per penetrare nel mondo del Nuovo Testamento non sono né i Sinottici, né Giovanni, ma Paolo, e appunto per essersi trovato nell’identica situazione in cui ci troviamo noi stessi”[5]. L’opposizione polare è perciò un metro sotteso all’indagine di Guardini, che in termini espliciti, invece, rivendica delle giustificazioni teologiche, ponendo cioè l’esistenza cristiana di Paolo, così come testimoniata dalle Scritture, al vertice di un processo di incontro-con Cristo che per l’uomo di ogni tempo risulta emblematico; e questo a parere di Guardini proprio perché Paolo “è uno di noi”. Cosa significa, tuttavia, che Paolo “è uno di noi”?
Guardini offre una serie di ragioni a riguardo. Ad esempio, Paolo fu l’unico apostolo a non vedere Gesù con i propri occhi nella sua vita terrena e di Lui ha avuto notizia soltanto come la possiamo avere noi, cioè dall’esterno, ad opera di quelli che riferiscono di Lui e per gli effetti che da Lui si ripercossero nella storia; in un secondo momento anche dall’interno, allorché il Signore lo chiamò e gli si rivelò nel cuore. Ancora, quando Paolo delinea la propria figura di Cristo, lo fa attingendo fondamentalmente alle fonti alle quali pure noi facciamo ricorso, ovvero il messaggio tramandato e la propria esperienza. Inoltre, ciò che a noi manca, e che invece ebbe un’influenza enorme nei riguardi dei primi apostoli, cioè l’essere stati testimoni oculari, mancava anche a lui[6]. Tutto ciò porta Guardini a concludere che “proprio per questo, Paolo è l’uomo che fa al caso nostro: e se qualcuno afferma di comprendere il Nuovo Testamento senza far ricorso a Paolo, è da temere che non sia riuscito a comprendere molto della figura di Cristo”[7].
L’orizzonte che qui si dischiude, pertanto, è quello di analizzare l’esistenza di Paolo onde poter tratteggiare, utilizzando essa come guida, l’identità concreta di una vera esistenza-in Cristo che sia esemplare per ogni soggetto cristiano. Attraverso questo procedimento, infatti, risulta parafrasata concretamente, cioè resa esplicita, la volontà “pura” di Guardini, cioè la sua intenzione teologica originaria: “Ora diremo come l’essere di Cristo si attua nella personalità del cristiano, diremo cioè dell’immagine dell’uomo, che accoglie il messaggio con fede e fiducia, e si sforza di vivere in esso; cioè di compiere quella metànoia che è richiesta da Gesù con le prime parole. La risposta più profondamente urgente implica ciò che si può definire come una teologia dell’esistenza cristiana”[8].
Viene così da porsi con una certa inquietudine l’interrogativo che lo stesso autore pone a sé medesimo, ovvero, in termini esistenziali, chi fosse san Paolo. Se Guardini osserva a tutto tondo la figura paolina, scrutando con profonda attenzione quanto i testi biblici, e in particolare le stesse lettere paoline, rivelano direttamente o indirettamente di lui, non si getta, tuttavia, in un cieco inseguimento di un’ideale figura umana che si è riconosciuta primariamente come esemplare. Si intende dire, cioè, che Guardini, nel suo procedere teologico entro l’essenziale cristiano, cioè la persona di Cristo, segue sempre le linee strutturali della propria fede cristiana, senza mai dimenticare, quindi, il proprio concetto di esistenza cristiana e di opposizione polare nel soggetto umano. In termini pratici, se per Guardini, primariamente, “esistere significa che questo essere vivente critichi se stesso, sia dunque capace di prendere coscienza della differenza fra attività vera e falsa… determinare quel che si dice norma e valore”[9]; ancora, se “interiore a sé può essere solo ciò che ha almeno una possibilità di essere anche fuori di sé”[10], proprio perché, come indica la Iannascoli, “solo quando l’uomo si sa osservare come oggetto, si vede e si sa soggetto”[11], così che “contemplante e contemplato, soggetto e oggetto affiorano nella coscienza distinti l’uno dall’altro”[12], ebbene, attraverso questa prospettiva di pensiero sua personale Guardini incontra san Paolo e ne tratteggia la figura, riconoscendo in essa, come si è detto, un’esperienza archetipica dell’Io cristiano. L’autore, tuttavia, non cade nella trappola del superficialismo teologico, che vorrebbe dividere in due tronconi netti l’esistenza di Paolo, uno relativo al tempo prima della sua conversione, l’altro ad essa successivo, ma con la sua solita prudenza che tende a salvaguardare l’insieme, Guardini osserva ciò che di strutturante vi è nell’esistenza paolina nella sua interezza, senza tralasciare il radicale cambiamento operato dall’incontro con Cristo. Taluni aspetti esistenziali paolini, infatti, permangono anche dopo il noto avvenimento sulla via di Damasco, seppur nella nuova luce di quel Signore “che è lo Spirito, e dove c’è lo Spirito del Signore, ivi c’è libertà” (2Cor 3,17).
Ora, rispondendo alla domanda esplicita “che uomo era, dunque, san Paolo?”, Guardini utilizza i parametri sopra accennati per offrire un quadro antropologico ed esistenziale dell’apostolo di Tarso. La personalità paolina, secondo l’autore italo-tedesco, “era tormentata da due forti passioni: una sensualità potente ed una grande ambizione; egli è il solo che parla di collette”[13]. La citazione di Rm 7,15, con cui sopra si è introdotta la figura di Paolo in questo paragrafo, si fa adesso quanto mai impellente. Essa, tuttavia, non è che un momento importante di tutto un quadro esistenziale; infatti, se lungo tutta la sua esistenza precristiana, “in se stesso, nelle sue membra, Paolo sente il contrasto di due potenze, una buona ed una cattiva, ma non riesce a dar libero passaggio a quella buona e a soggiogare la cattiva, ma piuttosto odia se stesso, si fa violenza, e finisce per sentirsi sempre più disperatamente misero”[14], anche dopo l’esperienza sulla via di Damasco la “tensione esistenziale” da Guardini individuata nel santo di Tarso appare talora un’istanza invalicabile: “Paolo non sembra né perfettamente sano, né completamente sicuro di sé. Egli sembra essere stato uno di quegli uomini che attirano le calamità, che predispongono contro di sé la loro sorte, un uomo tormentato”[15]. Le stesse Scritture sembrano confermare la visione guardiniana di san Paolo, traslando però quella che psicologicamente appare come una forte angoscia interiore in una più teologica inquietudine dello spirito. Per esempio, in At 9,16 il Signore dice di lui ad Anania. “Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome”; di fronte alle incomprensioni dei Corinzi, Paolo afferma di se stesso: “Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi, tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde” (2 Cor 11,24-25), premettendo come tutto ciò sia avvenuto nonostante la sua apparente dualità: “Io davanti a voi così meschino, ma di lontano così animoso con voi” (2 Cor 10,1). La stessa immagine fisica di Paolo, così come deducibile dalle Scritture, testimonia per Guardini una sua ulteriore difficoltà sociale, questa volta legata alla dimensione estetica dell’apparire. Infatti, ciò che ad esempio si deduce dal passo di Atti 14,12, in cui si dice che dopo una guarigione operata a Listra i presenti “chiamavano Barnaba ‘Zeus’ e Paolo ‘Mercurio’, perché era lui il più eloquente”, secondo Guardini “sta a significare come Barnaba dovesse avere una figura più imponente, mentre Paolo fosse piccolo di statura e non appariscente”[16]. Tuttavia vi è soprattutto un momento biblico che Guardini riconosce come particolarmente emblematico per quella tensione paolina che, seppur non esplicitamente, rimanda alla struttura degli opposti polari così preponderante nel pensiero di Guardini. Si tratta del brano contenuto in 2Cor 12,7-9, dove Paolo afferma: “Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed Egli mi ha detto: ‘Ti basta la mia grazia’. Mi vanterò dunque ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo”. Il racconto è un ulteriore suggello al brano già citato di Rm 7,15 e testimonia ancora di più quanto “Paolo ha dovuto soffrire molto, continuamente e per tutto”[17], e come nonostante l’avvenuta conversione, “nella sua nuova realtà di cristiano egli ha preteso da sé molto di più di quanto pretendesse prima”[18].
Perché, dunque, verrebbe da chiedersi, un tale attaccamento alla figura di Paolo da parte di Guardini, al punto da erigerlo a riferimento primario per un’esistenza-in Cristo? Quale fascino può destare, nel credente, una tal figura di cristiano zelante che, per come sinora è stata descritta, potrebbe suggerire un concetto semmai ombroso e tormentato di esistenza?
Guardini introduce, a questo proposito, un primo momento di forte “spaccatura” esistenziale nell’esperienza personale di Paolo, che molte volte viene tralasciato o comunque messo ai margini dall’episodio avvenuto sulla via di Damasco: l’incontro di Paolo con la giovane Chiesa rappresentata in particolare dal martire Stefano. Questo incontro per Guardini è assai significativo per lo zelante “Saulo”, soprattutto nella misura in cui quella tensione polare entro se stesso, che in ultima istanza non è mai stata davvero sopita in lui, è venuta alla luce per lo meno in termini di autocoscienza di sé, mostrandogli cioè la dimensione di se stesso, facendo emergere in lui il guardiniano “punto intimo dove sto”: “Di fronte all’eroica e sublime figura di Stefano, egli ha per la prima volta la percezione della potenza di Cristo, ma, naturalmente, ciò non fa altro che eccitarlo ancor più nella sua furia devastatrice”[19].
Un’esperienza forte, pertanto, ma non ancora debellante quel senso di autosufficienza, quella volontà tirannica rinchiusa entro le barriere del proprio Io e così fortemente legata alla metodicità, alla prassi legale, allo zelo religioso. Su questo terreno esistenziale, che se non altro ora appare “cosciente” allo stesso Paolo, irrompe l’azione trasformatrice della grazia, l’unica via, come si vedrà nel seguente paragrafo, di conciliazione degli opposti: l’apparizione di Cristo sulla via di Damasco. E tale esperienza, per come la interpreta Guardini, è proprio la risposta alla domanda posta qui sopra, cioè la ragione del fascino che la figura di Paolo esercita sul soggetto cristiano: “Quando Paolo è sulla via di Damasco, vede una luce, e non il volto di Cristo. In chi legge le sue lettere, si forma la convinzione che il Gesù Cristo di cui esse trattano è più potenza in atto, energia creativa, luce illuminante, vita irradiante e creante, che non una figura fisica sulla quale si possa fissare lo sguardo, un volto da poter rimirare. Nei Sinottici, invece, abbiamo un Gesù che guarda verso di noi, che ci rivolge la parola, che agisce. Ciò certamente è un privilegio prezioso che gli evangelisti ci offrono, ma al contempo un elemento che ci dà l’impressione di essere tanto lontani dalla loro narrazione in quanto non abbiamo mai visto con gli stessi nostri occhi il Signore”[20].
Con Paolo, quindi, il credente di ogni tempo si sente, secondo Guardini, maggiormente “condividente” l’esperienza dell’apostolo di Tarso, percependo come lui non la fisicità concreta di un volto, non dei tratti somatici esclusivi di un soggetto umano, non una carne o degli occhi, né uno sguardo o un’espressione del volto storici, bensì la presenza di una potenza esclusiva, l’irrompere di un’energia liberante, trasformatrice, un Qualcuno dalla luce inaccessibile che tuttavia si fa incontro all’uomo, permettendogli di scoprire come “in Lui viviamo, ci muoviamo e siamo” (At 17,28). In virtù di tale potenza Paolo riesce a superare le proprie tensioni esistenziali non, come si vorrebbe, eliminandole da se stesso, ma vivendo con esse nella nuova dimensione del battezzato, proprio in virtù di quel battesimo “a lui tanto caro che non è qualcosa di psicologico o etico, ma di pneumatico-reale”[21], affermando “che nell’uomo avviene qualcosa di singolare. Egli viene a trovarsi in comunione di esistenza con Cristo, proprio come se questi penetrasse in lui e vi permanesse come figura fino a dominarlo, come forza ad agire in lui. E quando Gesù si è stabilito in noi, vuole rivelarsi nell’esistenza umana”[22].
Qui si entra nuovamente nel cuore del Cristianesimo, attestando perciò il legame inscindibile tra l’essenza del Cristianesimo e l’esistere-in Cristo. Colui in cui si crede, infatti, che è persona viva e concreta, è pure Colui che nell’atto di fede da parte del credente penetra in lui realizzando una coabitazione esistenziale. Una coabitazione, però, che non va intesa secondo il senso comune del termine, intendendo cioè la reciproca presenza di due soggetti entro la stessa abitazione. Nel Cristianesimo colui che realmente vive è il Cristo, il quale plasma il soggetto credente nella sua particolarità di essere e di vita, nei suoi doveri e nei suoi destini, e ancor più non lo fa “individualmente”, cioè relativamente ad un singolo individuo, ma vive nella Chiesa, trasporta l’esistenza dell’uno nell’esistenza del complesso della cristianità, dove realmente “circola una stessa linfa, palpita una stessa vita, impera la stessa figura umana e divina”[23].
Ecco allora di nuovo “la differenza di ciò che è cristiano” (Unterscheidung des Christlichen)[24], presentata sotto una nuova veste, ovvero quella dell’esistenza umana, “che per essere salvata deve dunque essere incorporata nella realtà di Cristo”[25]. Tale differenza è proprio l’in-existenz, l’esistere-in Cristo, a partire dallo stesso Cristo che interpella l’uomo con una pretesa non astratta ma concreta[26], a partire dalla quale i fedeli devono camminare in Lui, “ben radicati e fondati in Lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, abbondando nell’azione di grazie” (Col 2,7). In questo senso risulta per Guardini quanto mai pregnante la testimonianza di Paolo, nelle cui lettere “ritorna di continuo una espressione caratteristica: ‘in-Cristo”[27]. Fede cristiana, infatti,  significa essere in Cristo, cioè il continuo “essere spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni” (Col 3,9) per rivestirsi dell’uomo nuovo, per poter “partecipare alla sorte dei santi nella luce” (Col 2,12). Questo perché, come afferma ancora Paolo, “se uno è in Cristo, è una nuova creatura. Le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove” (2Cor 5,17), per cui al credente è richiesto di effettuare con Cristo, nella propria esistenza, l’azione redentiva mediante una vittoria sempre nuova, affinché Cristo si formi in Lui (Gal 4,19)[28], e quindi “credere, venir battezzato, essere cristiano, insieme con tutto l’agire cristiano, significa inserirsi in questo permanente avvenimento; venirne afferrato ed esserne reso partecipe, in esso stare innanzi a Dio”[29]. Tutto questo avviene, come sottolinea Guardini, sempre nella bilatitudine dell’esistere in Cristo: la dimensione individuale, certamente, ma sempre nella prospettiva del Noi ecclesiale, cioè “l’unione della comunità credente come tale, un qualcosa che trascende la mera somma dei singoli credenti, ciò che è, insomma, la Chiesa”[30]. In ultima istanza, pertanto, l’esperienza soggettiva del cristiano è sempre una esperienza comunitaria del Cristo che vive nella Chiesa.

 - La Casa di Miriam –

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