23 giugno 2013 – 12a Domenica del T.O. : « GUARDERANNO A COLUI CHE HANNO TRAFITTO »

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23 giugno 2013  | 12a Domenica – Tempo Ordinario C  |  Appunti esegesitico-spirituali

« GUARDERANNO A COLUI CHE HANNO TRAFITTO »

C’è un palese collegamento fra la prima e la terza lettura della presente Domenica, ambedue incentrate sul « mistero » del Cristo in quanto « segno di contraddizione », che gli altri emarginano e mettono al bando perché costituisce per tutti come la coscienza critica della falsità dei sentimenti e dei pensieri del cuore: « Perché siano svelati i pensieri di molti cuori », già preannunciava di lui il vecchio Simeone (Lc 2,35).
La seconda lettura, proseguendo la proclamazione della lettera ai Galati, ci ricorda che in Cristo, e precisamente nel Cristo crocifisso, sono state abolite tutte le discriminazioni ed è stata restituita agli uomini l’unica e identica dignità di « figli di Dio »: « Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo » (Gal 3,28). È certo che l’uomo continuerà a essere uomo e la donna continuerà a essere donna: ma ognuno guarderà all’altro con occhio diverso, perché la « rinascita » in Cristo per il Battesimo, o meglio, come dice Paolo, il « rivestirci » di lui (v. 27), fa di tutti noi delle « creature nuove », eredi della stessa « promessa » (v. 29).
Pur essendo tentati fortemente da questo discorso così stimolante e attuale di Paolo, concentreremo la nostra attenzione sulla prima e terza lettura per una certa rassomiglianza di contenuto, come già abbiamo accennato.

« Riverserò sopra la casa di Davide uno spirito di grazia
e di consolazione »

Incominciamo dal difficile brano del profeta Zaccaria (12,10-11). Questi versetti fanno parte di un oracolo più ampio che va da 12,9 a 13,1, in cui viene annunciata la rigenerazione spirituale ed escatologica della nazione, composta dalla casa di Davide e dagli abitanti di Gerusalemme.
In contrapposizione alle nazioni pagane che verranno distrutte (v. 9), Dio promette una particolare « effusione » di amore e di benevolenza verso il suo popolo: « Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito. In quel giorno grande sarà il lamento in Gerusalemme, simile al lamento di Adad-Rimmon nella pianura di Meghiddo » (Zc 12,10-11).
L’oracolo profetico annuncia dunque che, mediante l’effusione dello « spirito di grazia e di consolazione » che viene da Jahvèh, Gerusalemme si convertirà e « guarderà » con atteggiamento spirituale diverso a un misterioso personaggio, che essa ha contribuito a sopprimere violentemente: « Guarderanno a colui che hanno trafitto » (v. 10).
« Per identificare chi sia questo personaggio sconosciuto, è necessario tenere presente il contesto immediato, dal quale risulta, prima di tutto, che il pianto fatto sopra di lui è frutto dello spirito, come lo sguardo verso Jahvèh. Non si piange soltanto perché si tratta di un individuo caro e importante per la comunità, ma perché offeso e oltraggiato. Si tratta di un pianto di pentimento e di conversione. Questo personaggio si trova, dunque, nella stessa linea di Jahvèh, è qualcuno che si identifica con lui e lo rappresenta. Si potrebbe pensare al buon pastore di 11,4-14, impersonato dal profeta. Ma siccome c’è di mezzo il fatto della sua morte, il riferimento più vicino è quello del servo paziente di Jahvèh di Is 52,13-53,12. Per mezzo della sua morte Jahvèh opera la salvezza della nazione, la vittoria contro i popoli vicini, dona lo spirito e fa zampillare la perenne sorgente di purificazione (cf 13,1). Vanno perciò escluse tutte quelle interpretazioni che identificano questo grande anonimo o con una collettività (per es. la tribù beniaminita), o con i deportati pianti da Rachele, o con un individuo autorevole, mandato ingiustamente alla morte, come Zaccaria, figlio di Joiada, o perito tragicamente, come Giosia. In tutti questi casi, manca infatti la circostanza della natura penitenziale del pianto ».
Un « pianto », quello che si farà in Gerusalemme per il « trafitto », che assume contorni di carattere « rituale », come sembra suggerire il versetto conclusivo: « In quel giorno si leverà un gran pianto in Gerusalemme, come quello di Adad-Rimmon nella pianura di Meghiddo ».
Forse si allude qui a una liturgia funebre in onore del Baal cananeo, conosciuto anche dai Giudei col doppio nome di Adad-Rimmon: dio della vegetazione, si riteneva che morisse alla fine dei raccolti per rivivere al ritorno delle piogge. Il suo culto doveva avere particolare rilevanza a Meghiddo, nella pianura fertile di Jezreel. Il riferimento al mito di Baal che muore, viene pianto e risuscita, evocava facilmente la figura del Servo sofferente di Jahvèh che, dopo la sua morte, avrà lui pure successo e « vedrà la luce » (Is 53,11).
Proprio per questo Giovanni vede nel nostro passo una profezia della passione del Signore (19,37). Anche per esprimere lo stupore dei popoli davanti al Cristo, che ritornerà quale giudice escatologico, si farà riferimento al testo di Zaccaria: « Ecco, viene sulle nubi e ognuno lo vedrà: anche quelli che lo trafissero e tutte le nazioni della terra si batteranno il petto » (Ap 1,7).
Tutta la forza del testo, sia nel brano profetico originale sia nella rilettura che ne fa il quarto Evangelista, sta dunque nella scoperta veramente « sorprendente » che il misterioso personaggio che gli uomini hanno « trafitto », volendo disfarsene, in realtà è Colui che li salva e nello stesso tempo li giudica: « Qualcuno », dunque, a cui è appeso il nostro destino e che solo con occhi diversi, cioè illuminati dalla « fede », possiamo riconoscere come tale.

« Chi sono io secondo la gente? »
Su questa tematica si muove, più o meno, il brano di Vangelo che ci riferisce, nella relazione lucana (9,18-24), la famosa confessione di Pietro a Cesarea di Filippo. Anche qui, infatti, ritroviamo una profonda divergenza di pareri riguardo a Cristo, la necessità di una « grazia » particolare per scoprirlo nel suo mistero, che è soprattutto mistero di sofferenza e di reiezione da parte degli uomini, precisamente come per il « trafitto » di Zaccaria.
Vorrei prima far notare alcune « particolarità » del racconto di Luca, che influiscono sulla sua più completa interpretazione.
Solo Luca ci dice che Gesù, prima di chiedere ai suoi Apostoli che cosa pensasse la gente di lui, si era ritirato « in un luogo appartato a pregare » (v. 18).
Sappiamo che il terzo Evangelista collega volutamente certi momenti decisivi della missione di Cristo con la « preghiera »: è nella preghiera che egli riceve l’investitura dello Spirito nel Battesimo (3,21); è dopo aver pregato che egli sceglie i Dodici (6,12), ecc. Questo particolare sottolinea dunque l’importanza della richiesta di Gesù ai suoi: « Chi sono io secondo la gente? » (v. 18), ma anche la necessità, per la fede, di fiorire sul ramo della preghiera. La teologia ci ha abituati a considerare la fede quasi come una deduzione raziocinante e non ci ha aiutato sufficientemente a sentirla e a viverla come puro « dono » (cf Fil 1,29), e perciò bisognosa di essere sempre da capo ottenuta da Dio. Con il suo atteggiamento Gesù ci insegna ad aprirci alla fede con il cuore e la mente in ginocchio e in adorazione!
Tenendo presente tutto questo, credo che sia più facile comprendere il senso globale dell’odierno brano del Vangelo: Cristo stesso si pone come « interrogativo » agli uomini del suo tempo e di tutti i tempi, perfino a quelli che gli sono più vicini come gli Apostoli, i quali neppure hanno penetrato fino in fondo il suo mistero. Anche la risposta di Pietro, infatti, che lo proclama « il Cristo di Dio » (v. 20), non esaurisce il suo mistero; ne è solo una parte, che ha bisogno di essere integrata con altri elementi e altre esperienze che verranno più tardi. È per questo che Gesù « ordinò loro severamente di non riferirlo a nessuno » (v. 21).
Per conto proprio, egli aiuta i suoi Apostoli a conoscerlo più a fondo, rivelandosi spontaneamente come « il Figlio dell’uomo », che « deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, essere messo a morte » (v. 22). Non era certo facile congiungere la fede nel « Cristo di Dio » glorioso, crede delle promesse fatte a Davide, con la fede nel « Figlio dell’uomo » riprovato dai capi del suo stesso popolo, anche se si preannuncia la gloria della sua risurrezione per « il terzo giorno » (v. 22): tutto questo era, comunque, da verificare!

« Se qualcuno vuol venire dietro a me,
prenda la sua croce ogni giorno »
In questo processo di « purificazione » della fede dei suoi Apostoli Gesù va più avanti quando immediatamente li coinvolge nel suo stesso destino di passione, quasi a dire che non si può confessare Gesù come « Messia », senza percorrere la via stessa che egli ha percorso, che è via di umiliazione e di sofferenza: « Poi a tutti diceva: « Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà »" (vv. 23-24).
È importante l’annotazione iniziale: « Poi a tutti diceva ». È indubbiamente una formula di transizione, che però presuppone altri destinatari, oltre ai Dodici che sono già presupposti dal testo: sono « tutti » i cristiani, per i quali Luca scrive il suo Vangelo, dunque anche noi. Orbene, a « tutti » egli ricorda che fa parte della nostra professione di fede il « seguire » Cristo per la via della croce.
Forse per farci perdere il senso di asprezza e di ripugnanza davanti a simile prospettiva, egli solo aggiunge che questo è compito di « ogni giorno »; davanti a ciò che è, o può diventare, « quotidiano » ci si arrende più facilmente!
Oltre a questo, però, credo che il riferimento alla « quotidianità » della croce voglia dire un’altra cosa: non c’è bisogno di andare noi incontro alla croce, perché è essa stessa che ci viene incontro nella misura in cui vogliamo rimanere fedeli alle esigenze del Vangelo. Il Vangelo stesso ci crocifigge per tutto quello che ci offre e per tutto quello che ci chiede: ma solo così potremo « salvarci », cioè « perdendoci ». Se il Cristo non avesse accettato la crocifissione, non sarebbe risorto dai morti: ha ritrovato la vita perché l’ha perduta!
Tutto questo non è facile da accettare, soprattutto quando c’è bisogno di trasferirlo alla nostra vita. Proprio per questo incessantemente dobbiamo chiedere quello « spirito di grazia e di consolazione, di cui ci parlava Zaccaria (12,10), per saper « riguardare » con occhio diverso, cioè di fede, Colui che è stato « trafitto » prima di noi e per tutti noi.

 Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola. Riflessioni biblico-liturgiche, Editrice Elledici, Torino

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