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ASCENSIONE DEL SIGNORE - ENZO BIANCHI

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ASCENSIONE DEL SIGNORE

ENZO BIANCHI

ANNO C

LC 24,46-53

Nelle letture della solennità dell’Ascensione noi ascoltiamo per due volte il racconto dell’esodo di Gesù da questo mondo al Padre fatto da Luca, negli Atti degli apostoli (At 1,1-11) e nel vangelo.

In verità negli altrivangeli non si parla di questo «fatto», perché esso è già contenuto nell’evento della resurrezione di Gesù, nel suo esodo dalla morte alla vita eterna, dalla tomba al Regno di Dio. L’ascensione di Gesù, questo «staccarsi dai discepoli», questo «essere portato» dalla potenza di Dio verso il cielo, questo «essere sottratto allo sguardo degli apostoli» (cf. At 1,9), è infatti un nuovo racconto dell’evento della resurrezione, come lo sono le diverse apparizioni–manifestazioni di Gesù alle donne discepole e ai dodici: sì, noi stiamo sempre celebrando la Pasqua, che è vittoria di Gesù sulla morte, che è vita nuova ed eterna di Gesù, che è glorificazione di Gesù, che è l’entrare di Gesù, per la forza dello Spirito santo, nella vita divina del Padre.
Se i vari testi evangelici che parlano della resurrezione di Gesù ci rivelano il significato di questo evento da diverse prospettive, i brani odierni mettono in evidenza che l’«assunzione» di Gesù al cielo significa anche «separazione» dai suoi, «assenza» da questa terra: egli non può più essere visto né nella carne né nella sua forma gloriosa…. Tale distacco prelude però a una nuova forma di presenza da parte di Gesù presso la sua comunità, così che i credenti in lui non restano soli, «orfani» (Gv 14,18): per questo nel salire al cielo Gesù benedice i discepoli. All’inizio del vangelo secondo Luca la benedizione di Dio che doveva essere impartita dal sacerdote Zaccaria all’uscita dal santuario era stata, per così dire, sospesa (cf. Lc 1,21-22); ma ora ecco che Gesù la riprende e la porta a compimento: è la benedizione promessa e data ad Abramo, riconfermata a Israele, e ora il Gesù glorioso la dona alla chiesa perché essa la porti «fino agli estremi confini del mondo» (At 1,8), e così siano benedette tutte le genti della terra (cf. Gen 12,3; 18,18; ecc.).
Nell’ascendere al Padre Gesù promette anche lo Spirito santo, che con la sua forza renderà i credenti in lui testimoni, cioè persone capaci di raccontare Gesù stesso che è venuto nel mondo come uomo ed è passato tra gli uomini facendo del bene (cf. At 10,38), persone capaci di attenderlo come colui che verrà nella gloria. Infatti, allo stesso modo con cui i discepoli hanno visto Gesù salire al cielo, lo vedranno quando nell’ultimo giorno tornerà nella gloria! Insomma, mentre finisce la forma di una storia, inizia «un’altra forma» (Mc 16,12) della stessa storia: nell’una e nell’altra Gesù è il racconto definitivo di Dio fatto a noi uomini, è il volto del Dio vivente (cf. Gv 1,18)…
Anche a noi, qui e ora, è riservata la domanda degli angeli: «perché state a guardare il cielo?» (At 1,11). Si faccia attenzione: questo non è un invito a guardare solo le cose della terra, ma un monito a non cercare più quella presenza fisica di Gesù di cui i discepoli hanno fatto esperienza nella storia. No, Gesù non va cercato presso la tomba vuota, né alzando gli occhi verso l’alto per carpire un’apparizione: egli va ormai cercato nella comunità cristiana, nell’eucaristia, negli uomini e nelle donne che, in condizione di ultimi, attendono da noi «il servizio del fratello» in cui Gesù ha voluto rendersi presente (cf. Mt 25,31-46). È così che possiamo vivere il nostro compito di cristiani: portare la benedizione, «cominciando da Gerusalemme e fino ai confini del mondo», annunciando la conversione e la remissione dei peccati, e tutto questo nella potenza dello Spirito santo.
Come i dodici dopo l’ascensione di Gesù erano pieni di gioia, anche noi oggi dobbiamo essere in questa festa, per comprendere in profondità ciò che Gesù ha affermato nel quarto vangelo: «È bene per voi che io me ne vada, perché così non solo sarò sempre con voi, ma lo sarò in modo ancor più pieno: il mio respiro, lo Spirito santo, sarà il vostro respiro, perché io ve lo invierò come dono che vi accompagni sempre» (cf. Gv 14,16; 16,7)!

Enzo Bianchi

descent of the Holy Spirit on the Apostles

descent of the Holy Spirit on the Apostles dans immagini sacre
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SAN BASILIO E LA FEDE NELLO SPIRITO SANTO – PADRE RANIERO CANTALAMESSA

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SAN BASILIO E LA FEDE NELLO SPIRITO SANTO

TERZA PREDICA DI QUARESIMA DI PADRE RANIERO CANTALAMESSA

23 Marzo 2012

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 23 marzo 2012 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo della terza predica di Quaresima di padre Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., predicatore della Casa Pontificia, tenuta questa mattina nella Cappella “Redemptoris Mater” in Vaticano.

***
1. La fede termina alle cose
Il filosofo Edmund Husserl ha riassunto il programma della sua fenomenologia nel motto: Zu den Sachen selbst!, alle cose stesse, alle cose come sono in realtà, prima della loro concettualizzazione e formulazione. Un altro filosofo venuto dopo di lui, Sartre, dice che “le parole e, con esse, il significato delle cose e i modi del loro uso” non sono che “ i tenui segni di riconoscimento che gli uomini hanno tracciato sulla loro superficie”: bisogna oltrepassarli per avere la rivelazione improvvisa, che lascia senza fiato, della “esistenza” delle cose1.
San Tommaso d’Aquino aveva formulato molto prima un principio analogo in riferimento alle cose o agli oggetti della fede: “Fides non terminatur ad enunciabile, sed ad rem”: la fede non termina negli enunciati, ma alla realtà2. I Padri della Chiesa sono modelli insuperati di questa fede che non si ferma alle formule, ma va alla realtà. Passata la stagione d’oro dei grandi padri e dottori, si assiste quasi subito a quello che uno studioso dei pensiero patristico definisce “il trionfo del formalismo”3. Concetti e termini, come sostanza, persona, ipostasi, sono analizzati e studiati per se stessi, senza il costante riferimento alla realtà che con essi gli artefici del dogma avevano cercato di esprimere.
Atanasio è forse il caso più esemplare di una fede che si preoccupa più della cosa che della sua enunciazione. Per diverso tempo, dopo il concilio di Nicea, egli sembra quasi ignorare il termine homousios, consustanziale, pur difendendo con la tenacia che abbiamo visto la volta scorsa il suo contenuto e cioè la piena divinità del Figlio e la sua uguaglianza con il Padre. È pronto anche ad accogliere termini per lui equivalenti, purchè fosse chiaro che si intendeva mantenere ferma la fede di Nicea. Solo in un secondo momento, quando si rese conto che quel termine era l’unico che non lasciava scappatoie all’eresia, egli ne fece sempre più largo uso.
Questo fatto va notato perché conosciamo i danni arrecati alla comunione ecclesiale dal dare più importanza all’accordo sui termini che a quello sui contenuti della fede. In anni recenti si è potuta ristabilire la comunione con alcune chiese orientali, cosiddette monofisite, avendo riconosciuto che il loro contrasto con la fede di Calcedonia era nel diverso significato attribuito ai termini ousia e ipostasi, e non nella sostanza della dottrina. Anche l’accordo tra la Chiesa cattolica e la federazione mondiale delle Chiese luterane sul tema della giustificazione mediante la fede, firmato nel 1998, ha mostrato che il secolare contrasto su questo punto era più nei termini che nella realtà. Le formule, una volta coniate, tendono a fossilizzarsi, diventando bandiere e segni di appartenenza, più che espressione di fede vissuta.

2. San Basilio e la divinità dello Spirito Santo
Oggi saliamo sulle spalle di un altro gigante, san Basilio il Grande (329- 379), per scrutare con lui un’altra realtà della nostra fede, lo Spirito Santo. Vedremo subito come anche lui è un modello della fede che non si arresta alle formule ma va alla realtà.
Sulla divinità dello Spirito Santo, Basilio non dice né la prima né l’ultima parola, cioè non è colui che apre il dibattito e neppure colui che lo conclude. Chi aprì il discorso sullo statuto ontologico dello Spirito fu sant’Atanasio. Fino a lui, la dottrina intorno al Paraclito era rimasta nell’ombra, e si capisce anche perché: non si poteva definire la posizione dello Spirito Santo nella divinità, prima che fosse definita quella del Figlio. Ci si limitava perciò a ripetere nel simbolo di fede: “e credo nello Spirito Santo”, senza altre aggiunte.
Atanasio, nelle Lettere a Serapione, avvia il dibattito che porterà alla definizione della divinità dello Spirito Santo nel concilio di Costantinopoli del 381. Insegna che lo Spirito è pienamente divino, consustanziale con il Padre e con il Figlio, che non appartiene al mondo delle creature, ma a quello del creatore e la prova, anche qui, è che il suo contatto ci santifica, ci divinizza, ciò che non potrebbe fare se non fosse lui stesso Dio.
Ho detto che Basilio non dice neppure l’ultima parola. Egli si trattiene dall’applicare al Paraclito il titolo di “Dio” e quello di “consustanziale”. Afferma con chiarezza la fede nella piena divinità dello Spirito usando espressioni equivalenti, come l’uguaglianza con il Padre e Figlio nell’adorazione (la isotimia), la sua omogeneità, e non eterogeneità, rispetto ad essi. Sono i termini con cui la divinità dello Spirito Santo fu definita nel concilio ecumenico di Costantinopoli del 381e che costruiscono l’articolo di fede sullo Spirito Santo che professiamo ancor oggi nel credo.
Questo atteggiamento prudenziale di Basilio, volto a non allontanare ancora di più il partito avversario dei Macedoniani, gli attirò la critica di Gregorio Nazianzeno che colloca l’amico tra quelli che hanno avuto abbastanza coraggio per pensare che lo Spirito Santo è Dio, ma non abbastanza per proclamarlo tale esplicitamente. Rompendo ogni indugio, egli scrive. “Lo Spirito è dunque Dio? Certamente! È consustanziale? Sì, se è vero che è Dio”4.
Se dunque Basilio non dice, sulla teologia dello Spirito Santo, né la prima né l’ultima parola, perché scegliere proprio lui come nostro maestro di fede nel Paraclito? È che Basilio, come già Atanasio, è più preoccupato della “cosa” che della sua formulazione, più della piena divinità dello Spirito che dei termini con cui esprimere tale fede. La cosa, per esprimerci nei termini di Tommaso d’Aquino, gli interessa più che la sua enunciazione. Egli ci trasporta nel vivo della persona e dell’azione dello Spirito Santo.
Quella di Basilio è una pneumatologia concreta, vissuta, non scolastica, ma “funzionale” nel senso più positivo del termine, ed è quello che la rende particolarmente attuale e utile per noi oggi. A causa della nota questione del Filioque, la pneumatologia ha finito per restringersi nei secoli quasi solo al problema del modo della processione dello Spirito Santo: se dal Padre soltanto come dicono gli orientali, o anche dal Figlio, come professano i latini. Qualcosa della pneumatologia concreta dei Padri è passato nei trattati su “i Sette doni dello Spirito Santo”, ma limitato all’ambito della santificazione personale e alla vita contemplativa.
Il Concilio Vaticano II ha avviato un rinnovamento in questo campo, per esempio quando ha riportato i carismi dall’agiografia, cioè dalla vita dei santi, all’ecclesiologia, cioè alla vita della Chiesa, parlando di essi nella Lumen gentium5. Ma si è trattato solo di un inizio; resta molta strada da fare per mettere in luce l’azione dello Spirito Santo in tutto il vissuto del popolo di Dio. In occasione del XVI centenario del Concilio ecumenico di Costantinopoli del 381, il Beato Giovanni Paolo II scrisse una lettera apostolica in cui tra l’altro diceva: “Tutta l’opera di rinnovamento della Chiesa che il concilio Vaticano II ha così provvidenzialmente proposto e iniziato…non può realizzarsi se non nello Spirito Santo, cioè con l’aiuto della sua luce e della sua forza”6. Basilio, vedremo, ci è di guida proprio in questo cammino.

3. Lo Spirito Santo nella storia della salvezza e nella Chiesa
È interessante conoscere l’origine del suo trattato sullo Spirito Santo. Essa è legata curiosamente alla preghiera del Gloria Patri. Durante una liturgia, Basilio aveva pronunciato la dossologia a volte nella forma: “Gloria al Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo”, altre volte nella forma: “Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo”. Questa seconda forma metteva in luce più chiaramente della prima l’uguaglianza delle tre persone, coordinandole, anziché subordinarle, tra di loro. Nel clima surriscaldato delle discussioni sulla natura dello Spirito Santo, la cosa provocò delle contestazioni e Basilio scrisse la sua opera per giustificare il suo operato; in pratica, per difendere contro gli eretici macedoniani la piena divinità dello Spirito Santo.
Ma veniamo subito al punto per il quale, dicevo, la dottrina di Basilio si rivela particolarmente attuale: la sua capacità di mettere in luce l’azione dello Spirito in ogni momento della storia della salvezza e in ogni settore della vita della Chiesa. Inizia dall’opera dello Spirito nella creazione.
“Nella creazione degli esseri la causa prima di quanto viene all’esistenza è il Padre, la causa strumentale il Figlio, la causa perfezionatrice è lo Spirito. È per la volontà del Padre che gli spiriti creati sussistono; è per la forza operativa del Figlio che sono condotti all’essere ed è per la presenza dello Spirito che giungono alla perfezione…Se provi a sottrarre lo Spirito alla creazione, tutte le cose si mescolano e la loro vita appare senza legge, senza ordine, senza determinazione alcuna”7.
Sant’Ambrogio riprenderà da Basilio questo pensiero traendone una conclusione suggestiva. Riferendosi ai primi due versetti della Genesi (“la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso”) egli osserva:
“Quando lo Spirito cominciò ad aleggiare su di esso, il creato non aveva ancora alcuna bellezza. Invece, quando la creazione ricevette l’operazione dello Spirito, ottenne tutto questo splendore di bellezza che la fece rifulgere come ‘mondo’ ”8.
In altre parole, lo Spirito Santo è colui che fa passare il creato, dal caos, al cosmo, che fa di esso qualcosa di bello, di ordinato, pulito: un “mondo” (mundus) appunto, secondo il significato originario di questa parola e della parola greca cosmos. Ora noi sappiamo che l’azione creatrice di Dio non è limitata all’istante iniziale, come si pensava nella visione deista o meccanicista dell’universo. Dio non “è stato” una volta, ma sempre “è” creatore. Ciò significa che Spirito Santo è colui che continuamente fa passare l’universo, la Chiesa e ogni persona, dal caos al cosmo, cioè: dal disordine all’ordine, dalla confusione all’armonia, dalla deformità alla bellezza, dalla vetustà alla novità. Non, s’intende, meccanicamente e di colpo, ma nel senso che è al lavoro in esso e guida a un fine la sua stessa evoluzione. Egli è colui che sempre “crea e rinnova la faccia della terra” (cf. Sal 104,30).
Questo non significa, spiegava Basilio in quello stesso testo, che il Padre aveva creato qualcosa di imperfetto e di “caotico” che aveva bisogno di correttivi; semplicemente, era il disegno e il volere del Padre di creare per mezzo del Figlio e condurre gli esseri alla perfezione mediante lo Spirito.
Dalla creazione il santo Dottore passa a illustrare la presenza dello Spirito nell’opera della redenzione:
“Per quanto riguarda il piano di salvezza (oikonomia) per l’uomo ad opera del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo, stabilito secondo la volontà di Dio, chi potrebbe contestare che si compie per mezzo della grazia dello Spirito?”9
A questo punto, Basilio si abbandona a una contemplazione della presenza dello Spirito nella vita di Gesù che è tra i brani più belli dell’opera e apre alla pneumatologia un campo di ricerca che solo di recente si è cominciato a riprendere in considerazione10. Lo Spirito Santo è all’opera già nell’annuncio dei profeti e nella preparazione alla venuta del Salvatore; è per la sua potenza che si realizza l’incarnazione nel seno di Maria; è lui il crisma con il quale Gesù fu unto da Dio nel battesimo. Ogni sua opera fu realizzata con la presenza dello Spirito. Questi “era presente quando fu tentato dal diavolo, quando compiva miracoli, non lo lasciò quando risorse dai morti, e il giorno di Pasqua lo effuse sui discepoli (cf. Gv 20, 22 s.). Il Paraclito fu “il compagno inseparabile” di Gesù durante tutta la sua vita.
Dalla vita di Gesù, san Basilio passa a illustrare la presenza dello Spirito nella Chiesa:
“E l’organizzazione della Chiesa, non è chiaro e incontestabile che è opera dello Spirito? Egli stesso ha dato alla Chiesa, dice Paolo, ‘in primo luogo gli apostoli, poi i profeti, poi i maestri…Quest’ordine è organizzato secondo la diversità dei doni dello Spirito”11.
dell’Anafora che porta il nome di san Basilio – che l’attuale nostra Preghiera eucaristica IV ha seguito da vicino -, lo Spirito Santo ha un posto centrale.
L’ultimo quadro riguarda la presenza dello Paraclito nell’escatologia: “Anche al momento dell’evento dell’attesa manifestazione del Signore dai cieli- scrive Basilio – non sarà assente lo Spirito Santo”. Questo momento sarà, per i salvati, il passaggio dalle “primizie” al possesso pieno dello Spirito” e per i reprobi la separazione definitiva, il taglio netto, tra l’anima e lo Spirito12.

4. L’anima e lo Spirito
San Basilio non si ferma però all’azione dello Spirito nella storia della salvezza e nella Chiesa. Da asceta e uomo spirituale, il suo interesse maggiore è per l’agire dello Spirito nella vita di ogni singolo battezzato. Pur senza stabilire ancora la distinzione e l’ordine delle tre vie che diventeranno classiche in seguito, egli mette meravigliosamente in luce l’azione dello Spirito Santo nella purificazione dell’anima dal peccato, nella sua illuminazione e nella divinizzazione che egli chiama anche “intimità con Dio”13.
Non possiamo fare a meno di leggere la pagina in cui, in continuo riferimento alla Scrittura, il santo descrive questa azione e lasciarci trasportare dal suo entusiasmo:
“Il rapporto di familiarità dello Spirito con l’a­nima, non è un avvicinamento nello spazio — come ci si potrebbe infatti accostare all’incorporeo corporal­mente? — ma piuttosto consiste nell’esclusione delle passioni, le quali, come conseguenza della loro attrazio­ne per la carne, giungono all’anima e la separano dall’unione con Dio. Purificati dalla lordura di cui ci si era impastati attra­verso il peccato e tornati alla bellezza naturale, come avendo restituito a una immagine regale l’antica forma mediante la purificazione, solo così è possibile accostar­si al Paraclito. Egli, come un sole, riconoscendo l’oc­chio purificato, ti mostrerà in se stesso l’immagine dell’Invisibile. Nella beata contemplazione dell’immagi­ne, vedrai la indicibile bellezza dell’archetipo. Per mez­zo di lui si elevano i cuori, i deboli sono presi per mano, coloro che progrediscono giungono alla perfezione. Egli, illuminando coloro che si sono purificati da ogni macchia, li rende spirituali per mezzo della comunione con lui. E come i corpi limpidi e trasparenti, quando un raggio li colpisce, diventano essi stessi splendenti e riflettono un altro raggio, così le anime portatrici dello Spirito sono illuminate dallo Spirito; esse stesse diven­gono pienamente spirituali e rinviano sugli altri la grazia. Da qui la preconoscenza delle cose future; la com­prensione dei misteri; la percezione delle cose nascoste; le distribuzioni di carismi, la cittadinanza celeste; la danza con gli angeli; la gioia senza fine; la permanenza in Dio; la somiglianza con Dio; il compimento dei desideri: divenire Dio”14.
Non è stato difficile per gli studiosi scoprire dietro il testo di Basilio immagini e concetti derivati dalle Enneadi di Plotino e parlare, a questo proposito, di una infiltrazione estranea nel corpo del cristianesimo. In realtà, si tratta di un tema squisitamente biblico e paolino che si esprime, come era doveroso, in termini familiari e significativi per cultura del tempo. Alla base di tutto Basilio non pone l’azione dell’uomo – la contemplazione -, ma l’azione di Dio e l’imitazione di Cristo. Siamo agli antipodi della visione di Plotino e di ogni filosofia. Tutto, per lui, comincia con il battesimo che è una nuova nascita. L’atto decisivo non è alla fine, ma all’inizio del cammino:
“Come nella corsa doppia degli stadi, una fermata e un riposo separano i percorsi in senso opposto, così anche nel cambiamento di vita appare necessario che una morte si frapponga alle due vite per mettere fine a ciò che precede e dare inizio alle cose successive. Come riuscire a discendere agli inferi? Imitando la sepoltura di Cristo per mezzo del battesimo”15.
Lo schema di fondo è lo stesso di Paolo. Nel capitolo sesto nella Lettera ai Romani l’Apostolo parla della purificazione radicale dal peccato che avviene nel battesimo e nel capitolo ottavo descrive la lotta che, sostenuto dallo Spirito, il cristiano deve condurre, nel resto della sua esistenza, contro i desideri della carne, per avanzare nella vita nuova:
“Quelli che sono secondo la carne, pensano alle cose della carne; invece quelli che sono secondo lo Spirito, pensano alle cose dello Spirito.  Ma ciò che brama la carne è morte, mentre ciò che brama lo Spirito è vita e pace;  infatti ciò che brama la carne è inimicizia contro Dio, perché non è sottomesso alla legge di Dio e neppure può esserlo;  e quelli che sono nella carne non possono piacere a Dio […]. Così dunque, fratelli, non siamo debitori alla carne per vivere secondo la carne;  perché se vivete secondo la carne voi morrete; ma se mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, voi vivrete” (Rom 8, 5-13).
Non c’è da stupirsi se per illustrare il compito descritto da san Paolo, Basilio abbia fatto uso di un’immagine di Plotino. Essa è all’origine di una delle metafore più universali della vita spirituale e parla a noi oggi non meno che ai cristiani di allora:
“Orsù, ritorna a te stesso e guarda; e se non ancora ti vedi bello, imita l’autore di una statua che deve riuscire bella: quegli in parte scalpella, in parte appiana; qui leviga, lì affina, sino a quando avrà espresso un bel volto nella statua. Similmente anche tu togli il superfluo, raddrizza ciò che è storto, e, a furia di purificare ciò che è oscuro, fa’ che diventi lucido e non cessare dal tormentare la tua statua fino a quando il divino splendore della virtù ti brilli dinanzi”16.
Se la scultura, come diceva Leonardo da Vinci, è l’arte di levare, ha ragione il filosofo di paragonare la purificazione e la santità alla scultura. Per il cristiano non si tratta però di raggiungere un’astratta bellezza, di costruire una bella statua, ma di riportare alla luce e rendere sempre più splendente l’immagine di Dio che il peccato tende continuamente a ricoprire.
Si racconta che un giorno Miche­langelo, passeggiando in un cortile di Firenze, vide un blocco di marmo grezzo ricoperto di polvere e fango. Si fermò di scatto a guardarlo, poi, come rischiarato da un improvviso lampo, disse ai presenti: « In questo masso di pietra è nascosto un angelo: voglio tirarlo fuori! ». E si mise a lavorare di scalpello per dare forma all’angelo che aveva intravisto. Così è anche di noi. Noi siamo ancora dei massi di pietra grez­za, con addosso tanta « terra » e tanti pezzi inutili. Dio Padre ci guarda e dice: « In questo pezzo di pietra è nascosta l’immagine del mio Figlio; voglio tirarla fuori, perché brilli in eterno accanto a me in cielo! » E per fare questo usa lo scalpello della croce, ci pota (cf. Gv. 15,2)
I più generosi, non solo sopportano i colpi di scalpello che vengono dall’esterno, ma collaborano anch’essi, per quanto è lo­ro concesso, imponendosi delle piccole, o grandi, mortificazioni volontarie e spezzando la loro volontà vecchia. Diceva un padre deserto:
« Se vogliamo es­sere completamente liberati, impariamo a spezzare la nostra volontà, e così, poco a poco, con l’aiuto di Dio, avanzeremo e arriveremo alla piena liberazione dalle passioni. È possibile spezzare dieci volte la propria volontà in un tempo brevissimo e vi dico come. Uno sta passeggiando e vede qualcosa; il suo pensiero gli dice: ‘Guarda là!’, ma lui ri­sponde al suo pensiero: ‘No, non guardo!’, e spezza la sua volontà »17.
Questo antico Padre porta altri esempi tratti dalla vita monastica. Si sta parlando male di qualcuno, forse del superiore; il tuo uomo vecchio ti dice: « Partecipa anche tu; di’ quello che sai. Ma tu ri­spondi: « No! ». E mortifichi l’uomo vecchio … Ma non è difficile allungare la lista con altri atti di rinuncia, propri dello stato in cui si vive e dell’ufficio che si ricopre.
Finché si vive assecondando i desideri della carne noi somigliamo ai due famosi “Bronzi di Riace”, al momento in cui furono ripescati dal fondo del mare, tutti ricoperti di incrostazioni e appena riconoscibili come figure umane. Se vogliamo risplendere anche noi, come questi due capolavori dopo il loro restauro, la Quaresima è il tempo opportuno per mettere mano all’impresa.

5. Una mortificazione “spirituale”
C’è un punto in cui la trasformazione dell’ideale di Plotino in ideale cristiano è rimasta incompleta, o almeno poco esplicita. San Paolo, abbiamo sentito, dice: “mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, voi vivrete”. Lo Spirito non è dunque solo il frutto della mortificazione, ma anche ciò che la rende possibile; non è solo al termine del cammino, ma anche all’inizio. Gli apostoli non ricevettero lo Spirito a Pentecoste perché erano diventati fervorosi; diventarono fervorosi perché avevano ricevuto lo Spirito.
I tre Padri Cappadoci, erano fondamentalmente degli asceti e dei monaci; Basilio, in particolare, con le sue Regole monastiche (Asceticon!), fu il fondatore del monachesimo cenobitico. Questo li portò ad accentuare fortemente l’importanza dello sforzo dell’uomo. Il fratello e discepolo di Basilio, Gregorio Nisseno, scriverà in questa linea: “Nella misura in cui tu sviluppi le tue lotte per la pietà, in questa medesima misura si sviluppa anche la grandezza dell’anima per mezzo di queste lotte e di questi sforzi”18.
Nella generazione seguente, questa visione dell’ascesi verrà ripresa e sviluppata da autori spirituali, come Giovanni Cassiano, ma staccata dalla solida base teologica che aveva in Basilio e in Gregorio Nisseno. “È da questo punto –nota il Bouyer – che il pelagianesimo, ponendo lo sforzo umano prima della grazia, prenderà il suo avvio”19. Ma questo esito negativo non si può certo imputare a Basilio e ai Cappadoci.
Torniamo per concludere al motivo che rende la dottrina di Basilio sullo Spirito Santo perennemente valida e oggi, dicevo, più che mai attuale e necessaria: la sua concretezza e aderenza alla vita della Chiesa. Noi latini abbiamo un mezzo privilegiato per fare nostro e trasformare in preghiera questo stesso tipo di pneumatologia: l’inno del Veni creator.
Esso è da cima a fondo una contemplazione orante di ciò che lo Spirito concretamente fa: in tutta la terra e l’umanità come Spirito creatore; nella Chiesa, come Spirito di santificazione (dono di Dio, acqua viva, fuoco, amore e unzione spirituale) e come Spirito carismatico (multiforme nei tuoi doni, dito della destra di Dio, che mette sulle labbra la parola); nella vita del singolo credente, come luce per la mente, amore per il cuore, guarigione per il corpo; come nostro alleato nella lotta contro il male e guida nel discernimento del bene.
Invochiamolo con le parole della prima strofa, chiedendogli di far passare anche il nostro mondo e la nostra anima dal caos al cosmo, dalla dispersione all’unità, dalla bruttezza del peccato alla bellezza della grazia.

Veni, Creator Spiritus,
mentes tuorum visita,
imple superna gratia
quae tu creasti pectora.

O Spirito che susciti il creato,
pervadi i tuoi fedeli nel profondo,
riversa la pienezza della grazia
nei cuori che creasti per te solo.

ENZO BIANCHI – LE PAROLE DELLA SPIRITUALITÀ

http://www.atma-o-jibon.org/italiano8/bianchi_lessicointeriore3.htm

ENZO BIANCHI

LESSICO DELLA VITA INTERIORE

LE PAROLE DELLA SPIRITUALITÀ

MEDITAZIONE

Il carattere proprio della meditazione cristiana è stato colto dal cristianesimo antico nella sua applicazione e nel suo rapporto con la Bibbia. Spezzato, o affievolito, questo rapporto nei secoli dell’esilio della Scrittura dalla chiesa, si è assistito, nell’epoca della devotio moderna, e particolarmente nell’epoca barocca, a un fiorire di molteplici forme di metodi di meditazione, sempre più schematici e complessi, isolati e assolutizzati, che si applicavano a temi di meditazione sempre più dettagliati (vite dei santi, dottrine dei teologi ecc.), fino a cadere nell’artificiosità, nella macchinosità, nella razionalizzazione e intellettualizzazione, nella ginnastica psicologica. Del resto, ci si trovava nel momento storico dell’emergere e dell’affermarsi della coscienza riflessa.
Per la Bibbia «meditare» (in ebraico hagah) significa «mormorare», «sussurrare», «pronunciare a mezza voce», e si applica alla Torah, cioè alla rivelazione scritta della volontà di Dio. La meditazione biblica si propone infatti come fine la conoscenza della volontà di Dio, per poterla praticare, vivere, obbedire. Il latino meditari rinvia etimologicamente all’idea di esercizio, di ripetizione che conduce alla memorizzazione, all’assimilazione di una Parola che non deve semplicemente essere capita, ma vissuta, incarnata. La meditazione è dunque organica a un atto di lettura che sia «incarnazione» della Parola. Non a caso la terminologia biblica e poi della letteratura cristiana parla di manducazione della Parola, di masticare e ruminare le Scritture. E se l’uso linguistico è arrivato a riservare exercere alle attività fisiche e meditari a quelle dello spirito, è però vero che la meditazione era intesa come applicazione di tutto l’essere personale: «Per gli antichi meditare è leggere un testo e impararlo a memoria nel senso più forte di questo atto, cioè con tutto il proprio essere: con il corpo poiché la bocca lo pronuncia, con la memoria che lo fissa, con l’intelligenza che ne comprende il senso, con la volontà che desidera metterlo in pratica» (Jean Leclercq). Questo legame tra corpo e meditazione, tra lettura orante e gestualità è ben visibile nei molti atteggiamenti motòri e nei dondolii del corpo e della testa che ritmano la recitazione dei versetti in scuole coraniche o in scuole talmudiche. Ma anche nei monasteri cristiani la prassi della lectio divina ha sempre cercato di legare corpo e lettura: la parola deve imprimersi nel corpo! Ugo di San Vittore (XII secolo) distingue la cogitatio, che è analisi concettuale delle parole, dalla meditatio, che è invece immedesimazione. La meditazione dunque muove dalla lettura, ma evolve verso la preghiera e la contemplazione. Capiamo perché la meditazione cristiana ci porti inevitabilmente a far riferimento alla lectio divina, cioè alla prassi di lettura-ascolto della Scrittura condotta non con intento speculativo, ma sapienziale e rispettoso del mistero, che tenta di farne emergere la Parola di Dio per portare il credente ad applicare se stesso al testo e il testo a se stesso in un processo dialogico che diviene preghiera e sfocia nella condotta di vita conforme alla volontà di Dio espressa dalla pagina biblica. Questo processo è stato elaborato come cammino in quattro tappe definite rispettivamente lectio, meditatio, oratio, contemplatio.
La meditazione è l’operazione spirituale (mossa cioè dallo Spirito santo e attuata da tutto l’uomo, corpo e intelligenza) che dall’ascolto della parola conduce alla risposta di preghiera e di vita al Dio che esprime la sua volontà attraverso la parola scritturistica. Questa centralità della Scrittura nella meditazione cristiana non è casuale, ma deriva direttamente dal carattere proprio del cristianesimo: Dio si rivela parlando, e la sua rivelazione definitiva è la Parola fatta carne, Gesù Cristo. Perciò la meditazione cristiana sarà sempre la ricerca di appropriazione e interiorizzazione della Parola di Dio. Se di questa Parola la Scrittura è sacramento, è però anche vero che essa raggiunge l’uomo attraverso le vie dell’esistenza, degli incontri umani, degli eventi della vita. Ma anche allora il credente sarà chiamato a leggere e ascoltare, quindi ad approfondire, a interpretare pensando e riflettendo, a meditare, cioè a dar senso a eventi e incontri, per poi discernere la presenza, la Parola di Dio nel mondo e nella storia, e quindi a vivere conformemente ad essa. Del resto la lettura del libro della Scrittura deve accompagnare quella del libro della natura e del libro della storia. La meditazione cristiana non consiste perciò in una tecnica, né mai può assegnare come fine al soggetto la sua stessa soggettività, ma sempre cerca di aprire il soggetto all’alterità, alla carità e alla comunione guidandolo ad avere in sé lo stesso sentire e lo stesso volere che furono in Cristo Gesù.

MEMORIA DEI
Due testi biblici chiedono al cristiano di pregare «sempre», «senza interruzione». Nel Vangelo di Luca Gesù pronuncia una parabola sulla «necessità di pregare sempre, senza stancarsi» (Luca 18,1), e Paolo comanda: «Pregate senza interruzione» (1 Tessalonicesi 5,17). Com’è possibile? E com’ è possibile conciliare questo comando con l’altro che chiede di lavorare (2 Tessalonicesi 3,12) e con l’esempio di Paolo stesso che afferma di lavorare «notte e giorno» (2 Tessalonicesi 3,8)? E com’è possibile pregare mentre si dorme?
Questi interrogativi hanno traversato il cristianesimo antico, soprattutto il monachesimo, ricevendo diversi tentativi di risposta. Da quello radicale ed estremista dei «messaliani» (o «euchiti», «coloro che pregano») i quali, rifiutando assolutamente il lavoro, pretendevano di dedicarsi unicamente alla preghiera, a quello, altrettanto estremista e altrettanto votato all’impossibilità, degli «acemeti» («coloro che non si coricano»), che cercavano di ridurre il più possibile il tempo di sonno per consacrarsi solamente alla preghiera. Altre risposte, più estrinseche, e tipiche del monachesimo cenobita, hanno cercato di moltiplicare le ore di preghiera liturgica e di assicurare, mediante appropriati turni e rotazioni dei monaci del monastero, una continua preghiera liturgica, una laus perennis. Altre risposte hanno battuto la via dell’interiorità, della preghiera ritmata sul battito del cuore, sul ritmo del respiro, sulla ripetizione di un’invocazione rivolta a Dio, fino a giungere alla cosiddetta «preghiera monologica», che cioè ripete instancabilmente una sola parola, per esempio, il nome di Gesù.
Frutto di questa concentrazione dello spirito dell’uomo sul nome del suo Signore, di questa attenzione che vuota il cuore di ogni altro pensiero e lo fa inabitare solamente dal pensiero di Dio, è la cosiddetta mnéme theou, la memoria Dei, il «ricordo di Dio». Espresso soprattutto dall’insegnamento spirituale dello Pseudo-Macario, il ricordo di Dio è un atteggiamento spirituale profondo di unificazione del cuore davanti alla presenza di Dio interiorizzata. È ricordo nel senso di custodia nel cuore, cioè nella mente e nell’intimo della persona, della presenza di Dio così che alla luce di tale presenza venga unificata e integrata nella vita interiore anche la vita esteriore dell’uomo. È ricordo alla cui luce si vive e si ricomprende il presente giudicandolo nella fede. La memoria Dei diviene così la matrice del discernimento che forgia la sapienza spirituale e rende l’uomo capace di vivere ogni atto e ogni parola alla luce del terzo che il credente fa regnare in ogni relazione: Dio. L’uomo spirituale autorevole nasce da questa vivificante memoria.
È memoria che si associa ad amore, carità, zelo, ardore, compunzione, nei confronti di Dio stesso. Dice lo Pseudo-Macario: «Il cristiano deve sempre custodire il ricordo di Dio, perché non deve amare Dio solamente in chiesa ma anche camminando, parlando, mangiando». Questa memoria diviene presenza interiore, dunque preghiera, cioè vita davanti a Dio e nella coscienza di tale presenza. Il credente è così reso «dimora del Signore», come afferma l’apostolo Paolo. Ovvio allora che tale memoria non sia semplicemente un movimento psicologico: in effetti essa è azione dello Spirito santo. TI quarto Vangelo, per cui lo Spirito ha la funzione di «insegnare e ricordare» (Giovanni 14,26), afferma che lo Spirito insegnerà e ricorderà «tutto» ciò che Gesù ha detto e fatto. Lo Spirito appare dunque memoria di totalità. Ma questa totalità non è data dalla somma di gesti compiuti e di parole pronunciate e fissate nella Scrittura, bensì dalla presenza stessa di Gesù. È memoria delle parole e del silenzio di Gesù, del detto e del non detto, del compiuto e del non compiuto, del già e del non ancora, dunque anche di ciò che ancora non vi è stato. Opera dello Spirito, questa memoria è anche profezia. Essa guida a quella consonanza profonda con Cristo, con ciò che sta a monte del suo parlare e del suo agire, che infonde nel credente la capacità di obbedire creativamente all’Evangelo, guidato dallo Spirito che fa abitare in lui il Cristo. Questa memoria Dei cela in sé un’ attitudine di riconoscenza e di ringraziamento, di fedeltà e di impegno, di dedizione e di speranza. È memoria che unifica il passato, dà luce e senso al presente e apre all’ attesa e alla speranza per il futuro. Capiamo perché Gregorio Sinaita (XIV secolo) abbia potuto affermare che il comando «Ricordati del Signore tuo Dio in ogni tempo» è il più fondamentale di tutti i comandi. È grazie ad esso, infatti, che gli altri possono essere adempiuti.

MEMORIA
«Tu che prevedi l’avvenire degli uomini, aiutami a non staccarmi dal mio passato». Così Elhanan, l’anziano protagonista del romanzo L’oblio di Elie Wiesel, si rivolge al suo Dio: è un anziano la cui memoria ormai «è un colabrodo… una foglia d’autunno avvizzita, bucherellata… un fantasma». Sì, la memoria è l’esile filo interiore che ci tiene legati al nostro passato: quello personale, quello familiare di ciascuno, come quello della società civile cui apparteniamo o della comunità di fede in cui ci riconosciamo. Certo è difficile e faticoso vivere in modo fecondo questo rapporto intimo con il proprio passato perché corriamo sempre due pericoli di segno opposto: il restare prigionieri del passato o la tentazione di spezzare ogni legame con esso.
Memoria e oblio, passato e futuro si intrecciano, assieme alla consapevolezza che chi sa far tesoro del suo passato è più «anziano» della propria età perché è intessuto delle generazioni che lo hanno preceduto. È l’intuizione che Bemardo di Chartres già nel 1100 aveva reso con un’efficacissima immagine: siamo «nani che camminano sulle spalle di giganti». Intuizione costantemente ripresa e rielaborata che, per esempio, fa ribadire a Paul Ricoeur l’importanza di «lavorare la memoria per aprire un futuro al passato… Ciò che più bisogna liberare del passato è ciò che non è stato effettuato nel passato, le promesse non mantenute. Gli uomini del passato hanno avuto anch’essi dei progetti, cioè avevano un futuro che fa parte del nostro passato. Ma forse è il futuro del nostro passato che bisogna liberare per ingrandire il passato».
Viviamo in una stagione che fatica a gestire il proprio passato in funzione di un presente aperto al futuro: molti sogni delle generazioni che ci hanno preceduto sono svaniti, magari dopo essersi tramutati in incubi; in compenso c’è chi cerca di rimuovere o negare gli incubi che già i contemporanei non avevano voluto vedere, quando addirittura non si arriva a riscrivere la storia per piegarla ai propri opportunismi. Come ha osservato Barbara Spinelli, non riusciamo, a «usare la storia nell’immediato»: così, per esempio, assistiamo all’ estendersi di sentimenti, atteggiamenti e legislazioni xenofobe a cerchie di persone che hanno già dimenticato il passato prossimo in cui «gli albanesi eravamo noi»; così finiamo per confondere le cause con gli effetti e attribuiamo a un presunto odio ancestrale le guerre tra due popoli dimenticando che, viceversa, sono proprio le guerre a generare l’odio; così succede che il ricordo delle nostre sofferenze ci rende ciechi e insensibili a quelle degli altri sui quali, anzi, riversiamo la nostra sete di rivalsa.
Ma la legislazione sugli stranieri sancita nel libro dell’Esodo non si fondava proprio sulla riflessione inversa: «Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri nel paese d’Egitto» (Esodo 23,9)? In realtà la Bibbia ci fornisce a più riprese una preziosa indicazione: la memoria, cioè il rapporto con il passato, è innanzitutto un fatto interiore, essenziale per discernere il presente e per operare in un futuro nuovo. Un’interiorità che, come ci ricorda Jorge Semprun, un sopravvissuto dei campi di sterminio nazisti, conosce «una dialettica tra il tempo della memoria e il tempo della capacità di ascolto che sfugge completamente alla volontà dei testimoni». Non è certo un caso se solo in questi ultimi anni stiamo assistendo a una maggior disponibilità, quasi a uno sfogo liberatorio, da parte degli ultimi sopravvissuti nel narrare l’inenarrabile dell’inferno concentrazionario: quelle stesse persone cui gli aguzzini avevano predetto l’incredibilità dei loro racconti, quelle persone cui amici e familiari avevano suggerito di cercare di dimenticare, quelle persone che avevano visto morire, assieme a ogni umanità, anche le proprie facoltà di comunicazione.
A noi, nel nostro quotidiano in cui raramente siamo obbligati a chiederci come ci esorta Primo Levi «se questo è un uomo», spetta il compito di tener desta la memoria anzi, siamo paradossalmente chiamati a ricordarci di quello che non abbiamo mai appreso e perfino di ciò che ignoriamo. Tutto questo affinché sia viva l’identità, affinché restino aperte vie di senso, affinché l’umanità non perda se stessa: «L’uomo – scrive Wiesel – è definito dalla sua memoria individuale, legata alla memoria collettiva. Memoria e identità si alimentano reciprocamente… Per questo dimenticare i morti significa ucciderli una seconda volta, negare la vita che hanno vissuto, la speranza che li sosteneva, la fede che li animava». Dimenticare significa uccidere assieme alloro passato anche il futuro che esso conteneva, significa mortificare il nostro presente privandolo di ogni sbocco futuro, significa nutrirsi di menzogna e negarsi ogni possibilità di giungere alla propria e all’ altrui verità, come ricorda l’anziano Elhanan nella sua preghiera: «Dio di verità, ricordaTi che senza la memoria la verità diventa menzogna poiché essa non prende che la maschera della verità. RicordaTi che è grazie alla memoria che l’uomo è capace di ritornare alle fonti della propria nostalgia per la Tua presenza».

LA PREGHIERA, UN CAMMINO
«L’opera più difficile è la preghiera.» Quanti giovani monaci si sono sentiti dare questa risposta dall’anziano, dall’abba da loro interrogato. E la difficoltà resta nel tempo pur assumendo sfumature differenti. Ogni generazione, e ogni uomo in ogni generazione, ha il compito di raccogliere l’eredità di preghiera che gli viene consegnata e la responsabilità di ridefinirla. E di ridefinirla vivendola! Oggi è difficilmente comprensibile quella definizione della preghiera come «elevazione dell’anima a Dio» che ha traversato tanto l’Oriente quanto l’Occidente. Dopo Auschwitz è stato posto l’interrogativo circa la possibilità stessa della preghiera. Ma io penso che la risposta non debba limitarsi a rimpiazzare il titolo di «Onnipotente» dato da sempre a Dio con quello di «Impotente» (vi è chi parla dell’«onnidebolezza» di Dio). Mi sembra che così si resti sempre all’interno di una logica di teodicea. Invece, prendendo sul serio il fatto che molti anche ad Auschwitz, come in tanti altri inferni terreni, sono morti pregando, penso che si possa comprendere la preghiera come cammino del credente verso il suo Dio. O meglio, come coscienza di tale cammino. La preghiera cristiana appare così come lo spazio di purificazione delle immagini di Dio. Dunque come la faticosa e quotidiana lotta per uscire dalle immagini manufatte del divino per andare verso il Dio rivelato nel Cristo crocifisso e risorto, vera immagine di Dio consegnata all’umanità.
Se la preghiera è il colloquio fra Dio e l’uomo, fatto, di ascolto della Parola divina contenuta nelle Scritture e di risposta umana (risposta che implica anche responsabilità), essa allora è la via che apre l’uomo alla dimensione della comunione, con Dio e con gli altri uomini. Così essa diviene adattamento dell’uomo all’ambiente divino, vita davanti a Dio e con Dio, relazione con Dio. Nella preghiera il cuore, cioè il centro della persona, si concentra su Colui che gli parla, che lo chiama, e così si decentra da sé entrando nel movimento dell’ «estasi», dell’uscita da sé per conoscere e incontrare il Signore. Così avviene la preghiera: come costante e interminabile itinerario del credente verso il suo Dio, un Dio la cui conoscenza non è mai già data, ma sempre «diviene» in una storia, in una vita. E non è neppure mai pienamente realizzata: la preghiera infatti è ricerca del volto di Dio, ricerca incessante e ostinata da parte di colui che è stato vinto da una Presenza, anche se forse questi non saprà mai pienamente render ragione, tradurre verbalmente l’esperienza ineffabile che ha vissuto, che l’ha segnato e che ha fatto di lui un credente.
La preghiera allora è la coscienza della vita cristiana come cammino verso Dio. Un Dio che è invisibile e silenzioso, ma la cui invisibilità e il cui silenzio sono quelli del Padre: non è l’assente, ma il Presente che cela la sua presenza dietro al silenzio e al nascondimento, è il Padre che, grazie al suo ritiro e al suo silenzio fa della sua presenza un appello, una chiamata, una vocazione. E così la preghiera, forma di comunicazione con Colui che non si vede e che resta nel silenzio, può rispondere a tale appello liberando la libertà dell’uomo, la sua espressione, portando l’ orante alla conoscenza di sé mentre lo guida alla ricerca di Dio. La preghiera dell’uomo a Dio è la risposta alla preghiera che Dio rivolge all’uomo. In questo dialogo entra tutto l’uomo: l’uomo è attesa, domanda, desiderio, relazione… e la preghiera conosce le sue molteplici modulazioni: ringraziamento, invocazione, intercessione, richiesta…
«Norma» della preghiera cristiana è la preghiera di Gesù, il Figlio di Dio: la sua preghiera conosce anche il non-esaudimento nel momento cruciale del Getsemani, quando Gesù chiede al Padre che «passi da lui quell’ora» tragica, che gli possa essere risparmiato il calice dell’amarezza, ma tutto rimette al compimento della volontà di Dio, non della sua. La preghiera non è la sublimazione del desiderio umano, la richiesta che Dio compia la nostra volontà, ma il cammino attraverso il quale avviene il riconoscimento e l’accettazione della volontà di Dio. Avviene cioè la sempre migliore conoscenza di Dio e il conseguente adeguamento della relazione a tale conoscenza. L’esperienza mostra che la preghiera muta, in una stessa persona, con il trascorrere degli anni. Solo così essa è reale relazione con Dio, relazione che resta viva, che non si atrofizza. Fine di tale cammino e di tale relazione è la conformazione di una vita all’immagine di Dio che è Gesù il Cristo.

LECTIO DIVINA
«È apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna [...] a vivere» (Tito 2,11-12). Questo passo neotestamentario parla di Cristo come grazia personificata che insegna all’uomo a vivere. Se è lo Spirito il grande maestro della vita cristiana, la Scrittura, che è sacramento della volontà e della Parola di Dio, può essere intesa come l’elemento che trasmette questo insegnamento. Certo, si tratta della Scrittura interpretata nello Spirito santo, della Scrittura pregata.
La lectio divina è l’arte – debitrice nei confronti della tradizione ebraica di lettura della Bibbia ed erede della grande tradizione ermeneutica patristica – che cerca di attuare il passaggio dal testo biblico alla vita e si presenta così come un prezioso strumento che può aiutare a superare il fossato spesso constatabile nelle nostre chiese tra fede e vita, tra spiritualità e quotidianità. Essa appare come un’ermeneutica esistenziale della Scrittura che, portando l’uomo a volgere innanzitutto lo sguardo a Cristo, a cercare lui attraverso la pagina biblica, lo guida poi a porre in dialogo la propria esistenza con il volto di Cristo rivelato, per arrivare a veder illuminata di luce nuova la propria quotidianità. I quattro gradini della lectio divina – lectio, meditatio, oratio, contemplatio – rappresentano un approfondimento progressivo del testo biblico in cui l’atto di lettura è chiamato a divenire incontro con il Signore vivente, dialogo con lui, esposizione della propria vita alla luce del Cristo che ordina l’esistenza del credente.
Il processo messo in atto dalla lectio divina è l’umanissimo itinerario che dall’ ascolto conduce alla conoscenza e da qui all’ amore. Si tratta, nella lectio, di fare lo sforzo di uscita da sé per superare l’alterità e la distanza cronologica e culturale del testo, dell’ «altro» nella relazione; quindi, nella meditatio, di approfondire la conoscenza, di cercare il messaggio centrale del testo, di far emergere il volto di Cristo dalla pagina biblica; poi, nell’ oratio, di applicare il messaggio emerso alla propria vita e la propria vita al messaggio biblico: l’ oratio si configurerà così come risposta alla Parola in forma di preghiera, ma anche come assunzione di responsabilità della stessa Parola ascoltata.
Il piano della preghiera è il piano stesso della vita: etica e fede non appaiono disgiunte, ma intrinsecamente connesse. L’intenzionalità dialogica della Bibbia viene così attuata dalla lectio divina e raggiunge la dimensione dialogica costitutiva dell’ essere umano stesso: l’efficacia della Parola di Dio contenuta nella Bibbia si manifesta sul piano dell’ essere, ben più e ben prima del fare. Questo significa la contemplatio, che non si riferisce a esperienze mistiche o estatiche, ma indica un livello di comunicazione intraducibile in parole: silenzio, lacrime, presenza dell’amato all’amante, discernimento dell’ineffabile presenza del Signore… Ma indica anche ciò che opera in noi l’azione dello Spirito che abita la Parola: egli crea in noi la longanimità, la pazienza, l’unificazione interiore, il discernimento, la capacità eucaristica, la compassione per tutte le creature, in una parola, la dilatazione della carità. La lectio divina opera il passaggio della Parola nella vita anzitutto così: facendo dell’uomo un essere capace di ascolto, quindi di fede.
La lettura richiesta dalla lectio divina non è tanto intellettuale, quanto sapienziale, e obbedisce al principio esposto dal beato Francesco da Siena: «Non l’erudizione ma l’unzione, non la scienza ma la coscienza, non la carta ma la carità». È una lettura che esige capacità di interiorizzazione, affinché la Parola si depositi e si radichi nel cuore umano; richiede perseveranza, cioè quotidiano rinnovamento dell’ attitudine di ascolto, capacità di durare, di rimanere nel tempo, perché la fede non è l’esperienza di un momento o di un’ora della vita, ma abbraccia l’interezza dell’ esistenza; richiede lotta spirituale, cioè capacità di restare attaccati alla Parola ascoltata e di custodirla come bene prezioso senza svenderla preferendole quei beni illusori ma seducenti che sono gli idoli.
La lettura della Bibbia attraverso la lectio divina situa dunque la vita del credente nella tensione più evangelicamente feconda, quella della conversione. Essa porta il lettore-ascoltatore a leggere e pensare la propria vita da »‘ vanti alla volontà di Dio rivelata nella Scrittura, per arrivare a vivere in conformità alla stessa volontà divina. La lettura della Bibbia secondo la lectio divina si riflette nella vita non tanto nel senso che conduca a compiere determinate opere piuttosto di altre, bensì nel senso che essa accende e tiene accesa quella luce grazie alla quale soltanto tutto l’agire del credente diviene testimonianza ed evangelizzazione per gli uomini: «Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché, se vedono le vostre opere belle, rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Matteo 5,16).
La Scrittura esige di essere vissuta per essere veramente compresa, ed esige di essere vissuta in uno spazio comunitario, insieme e accanto ad altri: «Molte cose nella sacra Scrittura che da solo non sono riuscito a capire, le ho capite mettendomi di fronte ai miei fratelli [...]. Mi son reso conto che l’intelligenza mi era concessa per merito loro» (Gregorio Magno). Così dunque avviene il passaggio dalla Scrittura alla vita, dal testo alla testimonianza: la Scrittura ispirata è anche ispirante e vuole accendere nel cuore del credente il fuoco dello Spirito (cfr. Luca 24,32) affinché questo dispieghi in lui la sua potenza. La lettura della Scrittura tende a divenire testimonianza della Presenza, martyria, etrova il suo compimento più alto nel martirio, nel dono della vita per amore. Rabbi Akiva ha vissuto il suo martirio come compimento della richiesta dello Shema’: «Amerai il Signore con tutta la tua vita» (Deuteronomio 6,5). Mentre il suo corpo veniva scarnificato dai torturatori rabbi Akiva recitava lo Shema’ e ai suoi discepoli che volevano interromperlo rispose: «Per tutta la vita mi sono preoccupato di questo versetto: « Amerai Dio con tutta la tua vita », cioè lo amerai anche nel caso che ti tolga la vita, e dicevo: Quando mi sarà possibile compiere ciò? E ora che mi è possibile non dovrei adempierlo?» (Talmud babilonese, Berakot 61B). La Parola che ha illuminato la vita arriva a vivificare anche la morte. Quanto detto ci aiuta a rispondere all’ obiezione oggi diffusa in ambienti cattolici e che possiamo esprimere così: se la Parola di Dio è efficace, se vi è tra i credenti questo ritorno alla Parola di Dio ascoltata nella Scrittura, dove si manifesta tale efficacia? Dove sono reperibili i segni di tale potenza? È un’ obiezione rivelatrice di come sia difficile assumere dalla Scrittura e non da noi stessi o da ambienti mondani il criterio dell’ efficacia della croce. La Parola, come il Cristo, è inscindibile dalla croce e la sua potenza e sapienza è paradossale come la potenza e la sapienza della croce. Non a caso Paolo parla di ho logos ho tou staurou, cioè di «parola della croce» (1Corinti 1,18), e comunque questa efficacia è ordinata alla fede e coglibile solo nello spazio della fede. E solo la fede ci può guidare nel cogliere 1′attuale stagione ecclesiale di martirio come frutto dell’ efficacia della Parola ascoltata e servita fino al dono della vita » per amore. Per amore di Dio e degli uomini, anche dei nemici e degli aguzzini.

CONTEMPLAZIONE
«Contemplazione» è una parola classica del vocabolario cristiano. È però anche una parola abusata, spesso impiegata per indicare una «specializzazione» particolarmente elevata dell’ esperienza cristiana da contrapporsi alla «vita attiva» secondo uno schematismo che lacera la fondamentale unità e semplicità dell’ esperienza cristiana. Nel Nuovo Testamento il vocabolo «contemplazione», in greco theoria, si trova una sola volta, in Luca 23,48, e ha per oggetto il Cristo crocifisso: «Tutte le folle che erano venute a questo spettacolo (theoria: si intende la crocifissione), vedendo le cose accadute, se ne tornavano percuotendosi il petto». TI termine dunque designa lo «spettacolo concreto… di Gesù di Nazaret « Re dei Giudei » crocifisso» (Giuseppe Dossetti) ed è ormai su questo centro focale, irriducibile e irrinunciabile, il Cristo crocifisso, che dev’essere valutata l’autentica contemplazione cristiana. Questa theoria trova un suo corrispondente nel vocabolo, molto più frequente nel Nuovo Testamento, gnosis, «conoscenza», o epignosis, «sovraconoscenza». Ma anche questo termine ci rimanda alla centralità della croce di Cristo, vero nucleo fontale della conoscenza cristiana (cfr. 1 Corinti 2,2) e dunque dell’annuncio (1 Corinti 1,23) e della prassi (Marco 8,34) cristiane. Al cuore della contemplazione cristiana sta dunque la croce di Cristo: essa norma, ispira il contenuto della fede «non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu», Marco 14,36) e anche la forma che la fede deve assumere nella storia («non come voglio io, ma come vuoi tu», Matteo 26,39). Non si tratta dunque per nulla di qualcosa riservato ai mistici o ai monaci, ma di una realtà a cui è chiamato ogni battezzato: infatti, colui che è stato battezzato, è stato innestato nella vita in Cristo (Romani 6,1-6), si è rivestito di Cristo (Galati 3,27), e la contemplazione-conoscenza cristiana non mira ad altro che a conformare al Cristo l’esistenza personale ed ecclesiale dei cristiani: il Crocifisso contemplato arriva a configurare il volto e la testimonianza del singolo credente e della comunità ecclesiale nel suo insieme. Il contemplativo non è dunque un uomo che fugge la compagnia degli uomini o evade la storia, ma un credente che cerca di discernere nella storia e negli uomini, negli eventi e nella propria persona la presenza del Cristo. È colui il cui sguardo è talmente affinato che sa riconoscere che tempio di Dio («contemplare», etimologicamente, ci rinvia al templum, all’ arte di «osservare i profili del tempio»), e dunque dimora dello Spirito santo e luogo di inabitazione del Cristo, è l’uomo stesso. Sì, il contemplativo è un esperto nell’arte del discernimento della presenza di Dio, presenza che non è relegata in luoghi sacri, non è ristretta al religioso, ma è diffusa dappertutto.
La contemplazione cristiana è attività transitiva e coinvolgente che si mostra capace di plasmare un’umanità rinnovata, di ricreare il cuore dell’uomo: «Mostrami la tua qualità umana e io ti mostrerò il tuo Dio», diceva Teofilo di Antiochia, e l’icona perfetta del Dio-uomo è il Cristo crocifisso che può essere fatto conoscere, reso visibile all’umanità dalla compassione senza limiti per l’uomo sofferente, dalla misericordia per l’uomo peccatore nella piena solidarietà di chi si sa altrettanto peccatore. Del resto la contemplazione del Crocifisso diviene immediatamente visione del proprio peccato, conoscenza di sé quale peccatore, e dunque si risolve in pentimento e conversione: contemplato il Crocifisso, le folle «se ne tornavano percuotendosi il petto» (Luca 23,48). Sì, come diceva Isacco il Siro: «È più grande colui che sa vedere il proprio peccato di chi vede gli angeli». Dunque la contemplazione cristiana è finalizzata alla carità, alla makrothymia, alla compassione, alla dilatazione del cuore, è evento che non «salta» né la mediazione ecclesiale né quella sacramentale, e si manifesta in una vita, personale e comunitaria, in stato di conversione.
Di più. La contemplazione cristiana diviene anche capacità di giudizio e di sguardo critico sulla storia: non a caso Giovanni, il testimone della crocifissione (cfr. Giovanni 19,35-37), è divenuto nella tradizione «il veggente», «il teologo», «il contemplativo», e a lui è attribuita la composizione dell’ Apocalisse, un testo che sa volgere uno sguardo critico severo e penetrante al totalitarismo dell’impero romano e leggere la storia con gli occhi di Dio, cioè con lo spirito imbevuto dal Vangelo. È solo da lì, infatti, che può nascere uno sguardo sulla storia che sappia discernervi il peccato dell’uomo e la presenza di Dio.
È infatti dall’ascolto della Parola che nasce la contemplazione cristiana: essa si fonda sul primato della Parola di Dio nella vita del credente e sulla fede che la Scrittura è mediazione privilegiata di questa Parola e della presenza di Cristo. Nella fede cristiana – è stato detto – «si vede attraverso le orecchie», cioè si accede alla contemplazione attraverso l’ascolto. E questo svela come la contemplazione cristiana avvenga in uno spazio relazionale in cui l’iniziativa spetta a Dio, che «ci ha amati per primo» (I Giovanni 4,I9), ci ha parlato per primo fino a manifestare nel Figlio la Parola fatta carne. È la Parola che trova nella Scrittura uno strumento privilegiato di mediazione, nella comunità cristiana il luogo della sua trasmissione e l’ambito in cui è vissuta e declinata come carità, nella croce l’esito a cui conduce chi l’accoglie radicalmente (cfr. «la parola della croce» di cui parla Paolo), nella compagnia degli uomini lo spazio in cui è testimoniata con fierezza e dolcezza. È questa la Parola da cui scaturisce la contemplazione cristiana.

LA PAROLA DELLA CROCE
Da sempre nel cristianesimo ciò che appare «scandalo e follia» è l’evento della croce e, di conseguenza, anche le metafore e i segni della croce. Al cristiano si ripresenta la tentazione di «svuotare la croce», come denuncia Paolo nella Prima lettera ai Corinti, così come al non cristiano la croce e la sua logica appaiono disumane oppure un falso tentativo di interpretazione della sofferenza. Questo da sempre. Ma oggi – in questi nostri tempi contrassegnati nel mondo occidentale dal benessere materiale, dall’ abbondanza di ricchezze e di comodità, dalla ricerca di piacere a basso prezzo, dalla convinzione che tutto ciò che è tecnicamente possibile ed economicamente ottenibile è per ciò stesso lecito e auspicabile – dobbiamo constatare che la rimozione della croce è quotidianamente attestata in mille modi, a volte rozzi, a volte molto sottili, e il fondamento stesso del cristianesimo ha perso evidenza, risulta sbiadito, annebbiato. Si pensi al tentativo di presentare la vita cristiana soltanto sotto il segno della resurrezione, quasi fosse una festa continua; si pensi alle energie spese per presentare ai giovani un Vangelo accattivante perché liberato dalle esigenze della «rinuncia» (elemento essenziale della stessa liturgia battesimale, oggi ridotto a termine impronunciabile), della disciplina, del rinnegamento di sé, del prendere su di sé la croce (espressioni evangeliche oggi considerate «sconvenienti» a pronunciarsi); si pensi alla scena, cui si assiste sempre più frequentemente nello spazio ecclesiale, di retori gnostici non cristiani che declinano a loro modo la fede cristiana, riproponendo ai credenti un cristianesimo svuotato della follia della croce e arricchito dal discorso intellettuale persuasivo.
Ormai Celso non è più il filosofo del II secolo che denigrava i cristiani a causa del loro Signore – un crocifisso – e della composizione sociologica – estremamente povera – della chiesa: no, il nuovo Celso elogia e loda un Gesù che è maestro di filantropia e adula i cristiani così importanti e determinanti nella polis, ma per fare questo annebbia, oscura, relega nell’oblio ciò che è l’evento fondatore e ispiratore della vita cristiana. E accanto al nuovo Celso c’è il nuovo imperatore, che come l’antico tratteggiato da Ilario di Poitiers, il grande Padre della chiesa del IV secolo, «è insidioso e lusinga, non ci flagella la schiena, ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni (dandoci così la vita), ma ci arricchisce per darci la morte; ci spinge non verso la libertà mettendo ci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo; non ci colpisce il corpo, ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l’anima con il denaro» (Liber contra Constantium 5). Così, senza essere contestata visibilmente e direttamente, la croce è svuotata! Eppure, con quanta insistenza e con che forza Giovanni Paolo II ritorna a chiedere ai cristiani di «non svuotare la croce di Cristo»!
Almeno una volta all’anno, al venerdì santo, la croce è posta davanti ai fedeli in tutta la sua realtà e la sua verità: c’è Gesù di Nazaret, un uomo, un rabbi, un profeta che è appeso a un legno nella nudità assoluta, un uomo crocifisso che appare anatema, scomunicato, indegno del cielo e della terra, un uomo abbandonato dai suoi discepoli, un uomo che muore disprezzato da quanti sono testimoni del suo supplizio ignominioso. Quell’uomo è Gesù il giusto, che muore così a causa del mondo ingiusto in cui ha vissuto, quell’uomo è il credente fedele a Dio anche se muore come peccatore abbandonato da Dio, quell’uomo è il Figlio di Dio cui il Padre darà risposta nel passaggio dalla morte alla resurrezione.
Eppure questo evento della croce, avvenuto a Gerusalemme il 7 aprile dell’ anno 30 della nostra era, può essere svuotato anche attraverso le sue metafore e i suoi segni, e noi cristiani dobbiamo restare vigilanti per non finire come gli uomini «religiosi» di ogni tempo che sentono nella crocifissione uno scandalo, o come i «sapienti» di questo mondo che la giudicano follia. La croce è la «sapienza di Dio» e san Paolo, coniando l’espressione «la parola della croce» (I Corinti I, I 8) dice che l’evento che essa crea è l’Evangelo, la buona notizia. n cristiano non è invitato dalla croce né al dolorismo né alla rassegnazione, né tanto meno a leggere la vita di Gesù a partire da essa, ma deve riconoscere che la vita di Gesù e la forma della sua morte, la crocifissione, sono state narrazioni di Dio, del Dio vivente che ama gli uomini anche quando sono malvagi, del Dio che perdona quelli che gli sono nemici nel momento stesso in cui essi si manifestano come tali, del Dio che accetta di essere rifiutato e ucciso volendo che il peccatore si converta e viva. La croce è allora anche la denuncia del nostro essere malvagi, sedotti dal male, peccatori. e ingiusti, sicché il Giusto deve patire, essere rifiutato, condannato e crocifisso.
Sì, la croce è diventata l’emblema del cristiano – emblema a volte esaltato trionfalisticamente, altre volte ridotto a monile ornamentale o svilito a gesto scaramantico, altre ancora banalizzato a metafora di semplici avversità quotidiane – ma o essa permane memoria dello «strumento della propria esecuzione» per mettere a morte l’ «uomo vecchio» che è in noi, oppure è un segno non abitato dall’evento e diviene, quindi, una mistificazione. Lutero, meditando sulla croce e facendosi qui eco dei Padri della chiesa, scriveva: «Non è sufficiente conoscere Dio nella sua gloria e maestà, ma è necessario conoscerlo anche nell’umiliazione e nell’infamia della croce [...]. In Cristo, nel Crocifisso stanno la vera teologia e la vera conoscenza di Dio».

LA PREGHIERA, UNA RELAZIONE
All’interno di ogni tradizione religiosa la preghiera, nelle sue forme e nei suoi modi, appare essere direttamente connessa al volto del Dio che essa intende raggiungere. E il Dio della rivelazione biblica è il Dio vivente che non sta al termine di un nostro ragionamento, ma nella libertà amorosa dei suoi atti, dei suoi interventi che lo mostrano essere egli stesso alla ricerca dell’uomo. È pertanto vero che, lungi dall’ essere il frutto del naturale senso di autotrascendenza dell’uomo o l’esito del suo innato senso religioso, la preghiera cristiana, che contesta ogni autosufficienza antropocentrica, appare come risposta dell’uomo alla decisione gratuita e prioritaria di Dio di entrare in relazione con l’uomo. È Dio che, secondo tutte le pagine bibliche, cerca, interroga, chiama l’uomo, il quale è condotto dall’ascolto alla fede, e nella fede reagisce attraverso il rendimento di grazie (benedizione, lode ecc.) e la domanda (invocazione, supplica, intercessione ecc.), cioè attraverso la preghiera sintetizzata nei suoi due momenti fondamentali. La preghiera è dunque oratio fidei (Giacomo 5, I 5), eloquenza della fede, espressione dell’ adesione personale al Signore.
Al tempo stesso la rivelazione biblica attesta anche la dimensione della preghiera come ricerca di Dio fatta dall’uomo: ricerca come spazio che l’uomo predispone allo svelarsi, che resta libero e sovrano, di Dio a lui; ricerca come apertura dell’uomo all’evento dell’incontro in vista della comunione; ricerca come affermazione dell’alterità di Dio stesso rispetto all’uomo, come segno del fatto che egli non può essere posseduto dall’uomo anche quando dall’uomo è conosciuto; ricerca come elemento costitutivo della dialettica dell’ amore, della relazione di dialogicità centrale nella preghiera. Se la preghiera cristiana è risposta al Dio che ci ha parlato per primo, essa è anche invocazione e ricerca del Dio che si nasconde, che tace, che cela la sua presenza. La dialettica amorosa presente nel Cantico dei Cantici, il gioco di nascondimento e scoperta, di desiderio e ricerca tra amante e amata può applicarsi anche alla preghiera. I Salmi lo mostrano: «o Dio, dall’ aurora io ti cerco, la mia anima ha sete di te, mio Dio L..] ti parlo nelle veglie notturne, [...] il mio essere aderisce a te, la tua destra mi abbraccia e mi sostiene» (Salmo 63). E il dialogo amoroso presente nel Cantico è in fondo la realtà a cui la Scrittura vuole condurre l’uomo nel suo rapporto con Dio. È forse questa dimensione relazionale ciò che meglio esprime il proprium della preghiera cristiana, preghiera che si immette e vive all’interno della relazione di alleanza stabilita da Dio con l’uomo.
Posta questa fondamentale premessa, possiamo dire che, se la vita è adattamento all’ ambiente, la preghiera, che è vita spirituale in atto, è adattamento al nostro ambiente vitale ultimo che è la realtà di Dio in cui tutto e tutti sono contenuti. Essenziale, come disposizione fondamentale della preghiera cristiana, è 1′accettazione e la confessione della propria debolezza. Esemplare è l’atteggiamento del pubblicano della parabola evangelica (Luca 18,9-14) che prega presentandosi a Dio così com’è in realtà, senza menzogne e senza maschere, senza ipocrisie e senza idealizzazioni, e accettando come propria verità quello che Dio pensa di lui, lo sguardo di Dio su di lui. Solo chi è capace di un atteggiamento realistico, povero e umile, può stare davanti a Dio accettando di essere conosciuto da Dio per ciò che egli è veramente. Del resto ciò che davvero è importante è la conoscenza che Dio ha di noi, mentre noi ci conosciamo solo in modo imperfetto (cfr. 1 Corinti 13,12; Galati 4,9). Base di partenza per la preghiera è allora la confessione della nostra incapacità di pregare: «Noi non sappiamo cosa domandare per pregare come si deve, ma lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza e intercede per noi con gemiti inesprimibili» (Romani 8,26). Da questa confessione scaturisce 1′apertura all’ accoglienza della vita di Dio in noi. La preghiera porta il soggetto a decentrarsi dal proprio «io» per vivere sempre più della vita di Cristo in lui, per vivere sotto la guida dello Spirito, per vivere da figlio nei confronti del Padre. Questo decentramento non ha nulla a che vedere con il «far il vuoto in se stessi» che scimmiotta atteggiamenti spirituali afferenti ad altre tradizioni culturali e religiose. È un decentramento finalizzato all’ agape, all’ amore. Infatti il fine della preghiera cristiana, che la distingue anche dalle forme di meditazione e dalle tecniche di ascesi o di concentrazione diffuse nelle religioni orientali, è la carità, l’uscita da sé per l’incontro con la persona vivente di Gesù Cristo e per pervenire ad amare gli uomini «come lui ci ha amati». Questa relazionalità, che è riflesso della vita del Dio trinitario e che abbraccia tanto Dio quanto gli altri uomini, è dunque il contrassegno fondamentale della preghiera cristiana.

San Paolo, Naufragio a Malta

San Paolo, Naufragio a Malta dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 7 mai, 2013 |Pas de commentaires »

LETTERE DI SAN PAOLO – SANT’AGOSTINO

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LETTERE DI SAN PAOLO

SANT’AGOSTINO

Agostino legge il tredicesimo capitolo delle lettere di san Paolo: « Non nelle crapule, nelle ebrezze, nelle dissolutezze, nelle gelosie; ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non assecondate la carne nelle sue concupiscenze »

Agostino legge le lettere di san Paolo nel capitolo in cui il cristiano è invitato ad abbandonare il disordine della carne per seguire Cristo: per san Paolo infatti o si segue la carne, ossia il proprio egoismo, o lo Spirito, rivestendosi di Cristo. E’ il tredicesimo capitolo della lettera ai Romani. « Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno, non nelle crapule e nelle ubriachezze, non nelle immoralità e nelle disolutezze, non nelle contese e nelle gelosie; ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non abbiate cura della carne per soddisfarne i desideri » (Romani 13:13-14). Non vuole leggere più. Agostino viene colpito da questa frase, come San Paolo sulla via di Damasco. Nelle lettere di san Paolo Agostino ha finalmente trovato, accettandolo pienamente, Gesù Cristo come il proprio Maestro, la propria guida: per sant’Agostino Cristo rappresenta infatti l’unico mediatore tra Dio e gli uomini (“Ci hai fatti per Te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te”).
Mettere al centro Gesù comporta rinnegare se stessi, rinnegare il proprio egoismo, non fare di noi stessi e dei nostri piccoli interessi quotidiani l’unico scopo della nostra vita, ma porre nell’amore per gli altri, attraverso opere di amore e di giustizia, il nostro ideale di vita.
E’ la vittoria della grazia di Dio, che ha ascoltato con amore le incessanti preghiere e le molte lacrime della madre di sant’Agostino, santa Monica.
Finalmente una serenità completa pervade il cuore di Agostino. Ora non cerca una maggiore certezza di Dio, ma solo una maggiore fermezza nel suo amore. Tutte le tenebre del dubbio si sono dissipate.

Nelle lettere san Paolo non si accontenta di dimostrare, vuole convincere, coinvolgere, parte dalla sua esperienza e ne fa un’esortazione per tutti: in qualunque situazione umana ci si trovi – gioia o tristezza, comprensione o disaccordo, salute o malattia – l’uomo troverà sempre, con l’aiuto dello Spirito Santo, la forza per arrivare a Dio, raggiungendo così la tanto agognata pace, felicità.
San Paolo sa infatti molto bene, avendolo vissuto in prima persona, come il Vangelo cambi la vita, rendendola utile e piena.

L’esperienza, la vita di sant’Agostino, guidata dal bisogno di trovare la Verità, ha molto da insegnare agli uomini d’oggi, così spesso persi di fronte al grande mistero della vita.
S Agostino, l’instancabile cercatore di Dio, ci insegna che dobbiamo sempre cercare la Verità senza stancarci, seguire Gesù ogni giorno per sperimentare il fascino e la letizia di essere cristiani.

Da San Paolo a San Josemaría Escrivá: l’idea di università tra ragione e fede

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Da San Paolo a San Josemaría Escrivá: l’idea di università tra ragione e fede

Giulio Maspero

Non si tratta di parlare della riforma dell’università, ma di parlare dell’idea di università. Le domande alle quali cercheremo di rispondere sono: da dove è sorta? Quale la sua origine ed il suo fondamento? Cosa c’entrano la ragione e la fede? L’idea è che oggi la cultura rischia di essere considerata un optional. Non si investe in essa, perché ci sono cose più importanti a cui pensare. Si rischia un po’ quello che avviene con coloro che preferiscono piantare insalata piuttosto che querce, perché raccolgono prima i frutti della loro fatica… ma a lungo andare l’investimento si rivela insufficiente per affrontare l’avvenire. Sulla cultura, sull’idea di università e sul rapporto
tra ragione e fede ci giochiamo, invece, il futuro, e per convincercene basta guardare al passato, a quello che è successo. Lo schema di sviluppo è: partendo dalla Grecia si considererà la centralità della ragione nelle origini della cultura umana, per poi passare al mondo ebraico ed evidenziare la novità essenziale introdotta dalla rivelazione, con l’apertura di orizzonte radicale permessa dalla dimensione fondamentale della fede. Successivamente, attraverso la figura di Paolo si mostrerà come un nuovo pensiero è sorto dall’incontro tra Atene e Gerusalemme, un pensiero che ha permesso di pensare l’universo e la storia come un tutto. Da qui è sorto il concetto di università, legato a doppio filo a quello di verità e di libertà. Attraverso alcuni esempi concreti si metterà in evidenza l’attualità di questo pensiero che è ripreso da San Josemaría Escrivá, nei suoi insegnamenti sul valore della libertà e sulla necessità di una radicale apertura della ricerca a tutto campo. Fede e ragione richiedono che il cristiano sia appassionato di tutto il reale, in quanto tutto il reale è uscito dalle mani di Dio e può portare a Lui.

Atene
Per questo, per avvicinarsi a Paolo è essenziale comprendere bene l’importanza del Logos per la Grecia. La civiltà greca è segnata dall’esperienza di Troia e della tragica vittoria, che tanto costò agli stessi Elleni. Dovevano assolutamente ricordare che avevano 1desiderato troppo e che avevano messo a rischio la loro stessa esistenza. Le tragedie servivano proprio a ricordare l’esigenza di non lasciare sciolto il desiderio, perché altrimenti il Fato avrebbe punito. Stessa funzione svolgevano i miti. Ercole, che supera le colonne che portano il suo nome compiendo un gesto empio, o Prometeo che ruba il fuoco agli dèi per darlo agli uomini, venendo condannato poi ad una terribile pena, sono esempi di come il mondo greco sentisse l’esigenza di adeguarsi ad una legge di proporzione che caratterizzava il mondo. Questa legge si chiamava logos. Per comprenderlo basta pensare al Motore Immobile di Aristotele, che sta al vertice di una catena di cieli concentrici che sono mossi e muovono a loro volta. Questa scala ha un vertice ed è percorribile dal pensiero (logos appunto), che risale da una causa all’altra secondo il nesso (sempre logos in greco) che le unisce. In questo modo il greco trovava il fondamento della sua civiltà proprio nell’adeguarsi a questa legge insita nel mondo. I sofisti, però, reagirono a questa concezione, cercando di superare radicalmente i miti e le antiche narrazioni: essi concepivano il logos in senso meramente soggettivo, loro capacità di parola, contro la concezione oggettiva. Socrate, Platone ed Aristotele reagirono a questa operazione che minava le basi stesse della polis, in quanto ne intaccava i valori che la difendevano dallo scatenarsi del desiderio. I sofisti erano, infatti, abili nella parola, e negavano ogni fondamento predeterminato del mondo, per affermare solo l’interesse di chi era più abile nel discorso. Socrate e Platone reagirono proprio a questa concezione individualistica del logos, realizzando un approfondimento essenziale per lo sviluppo del pensiero umano: mostrarono che al di là del rivestimento mitologico, si doveva preservare un contenuto veritativo che il logos doveva riconoscere. Platone ammonisce a non perdere fiducia nei ragionamenti, in quanto la sfiducia in essi nasce allo stesso modo della sfiducia negli uomini: come la delusione di fronte al tradimento di persone che si credevano amiche non deve spingere a credere che tutti gli uomini siano cattivi, così lo stesso avviene con i ragionamenti 1. Invece, la filosofia è possibile perché la legge che regola il rapporto dell’uno e dei molti è sempre la stessa, nel presente come nel passato, in modo tale che ciò che dà valore ai ragionamenti sempre permane2 Un bellissimo esempio è il seguente: nelle Leggi Platone chiarisce il suo pensiero rispetto al mito, quando commenta l’immagine dell’uomo come mirabile burattino, costruito dagli dèi non si sa se per gioco o per qualche altra ragione più seria. Le passioni sono come le funi che tirano da una parte e dall’altra, verso il vizio e verso la virtù. La filosofia mira a mostrare la convenienza di lasciarsi guidare sempre solo da uno di questi fili, ed in concreto dal sacro filo aureo della ragione, che è il più flessibile proprio perché è d’oro. Questo filo ha bisogno di essere difeso, perché la ragione è sempre per natura pacifica ed aliena dalla violenza: per questo lo stato, che conosce quel filo grazie alla rivelazione di un dio o grazie al filosofo, dovrà proteggere la ragione attraverso la legge3. È interessante notare che il logos serve la vita, nel senso che deve proteggere dalla violenza (la vita e l’opera di Platone sono segnate dalla tragedia della condanna a morte di 2Socrate da parte della città di Atene, la più evoluta del tempo). L’affermazione del logos da parte dei grandi filosofi greci è stata essenziale, perché ha fondato la possibilità di cercare il vero ed ha affermato la necessità di farlo per la sopravvivenza della civiltà. Nello stesso tempo questo logos si dimostrava insufficiente, in quanto era semplicemente necessario e non parola personale, come la intendiamo noi. Ciò impediva che l’uomo si potesse spingere a pensare senza paura: ad esempio, di fronte alla scoperta del fatto che la diagonale del quadrato era incommensurabile al suo lato – cioè irrazionale – il mondo greco reagì con un rifiuto radicale. L’uomo doveva rimanere al suo posto, accettare la necessità e non lasciarsi trascinare dal desiderio di conoscere il senso di ogni cosa. La necessità limitava la loro ricerca e l’opposizione tra il desiderio dell’individuo e la legge del fato non poteva essere risolta se non in modo tragico. In questo i pastori nomadi ebrei erano molto più avanti. Gerusalemme Gli ebrei, infatti, erano un popolo errante (lo stesso termine ‘ebreo’ significa colui che attraversa, colui che passa). Non avevano nemmeno un loro dio, ma dovevano fare i conti con gli dèi dei popoli che incontravano. Eppure svilupparono ben prima dei greci una concezione su Dio estremamente fine, per il semplice fatto che il Signore gli era andato incontro. Loro non si dovevano elevare dal basso verso Dio come facevano gli altri, ma Dio stesso era sceso dal Cielo, ordinando prima di adorare solo Lui, in quanto come creatore aveva potere su ogni territorio ed era al di sopra degli altri dèi dei popoli che gli ebrei incontravano. Ma poi il Signore stesso rivelò di essere l’unico Dio. Gli ebrei pensavano a partire da un evento singolare accaduto nella storia. La creazione stessa fissava un inizio assoluto e fondava la capacità di pensare il mondo, in quanto l’uomo era stato creato ad immagine del Creatore. Mentre per gli altri popoli il sole e la luna erano divinità, per loro no, in quanto erano stati fatti dal nulla. Mentre gli altri popoli dovevano fare i conti con gli influssi delle stelle e del fato ed erano sotto l’influenza di un principio negativo che si opponeva al bene, per gli ebrei no. Tutto era uscito dalle mani di Dio, e solo la libertà era la spiegazione del male. Questo permise che si aprissero all’evento impensabile dell’incarnazione del Logos nel seno di Maria, in quanto non erano abituati a pensare a partire dal ripetersi necessario degli eventi, ma sapevano che il Creatore continuava a seguire il suo popolo e poteva entrare nella storia quando voleva. La teologia ed il pensiero di Paolo nacquero proprio da qui, da questo pensare a partire dalla singolarità di un evento, dall’irrompere di una presenza. Il Logos divino chiedeva di essere comunicato perché era mistero di amore e di comunicazione. Per questo i Padri della Chiesa, sull’esempio di Paolo, scelsero la filosofia e la filosofia greca: la religione pagana si basava sulla consuetudine, rientrava nei costumi di ogni popolo, per questo nell’olimpo romano potevano starci tutti gli dèi dei popoli che
via via venivano conquistati all’impero. Per i cristiani, che in molti casi morirono martiri per questo, Dio era semplicemente la verità, quella verità cercata dai filosofi. Tertulliano ha scritto “Cristo ha detto di essere la verità, non la consuetudine”. Il punto è essenziale anche per il mondo di oggi. La fede, cioè la conoscenza della possibilità di trovare il senso di ogni cosa ottenuta grazie alla relazione con il Creatore, permetteva al pensatore ebreo e cristiano di guardare il mondo come un tutto, aprendosi al mondo radicalmente senza paura. Tutto 3infatti deve essere considerato buono, in quanto uscito dalle mani di Dio, e per questa stessa ragione deve poter essere conosciuto.

Paolo
Alla luce di tutto ciò non sorprende quanto narrato in Atti 11,19-26: si racconta che i discepoli di Cristo furono chiamati per la prima volta cristiani ad Antiochia quando iniziarono ad annunciare il Vangelo ai greci. Infatti prima di allora i discepoli predicavano solo ad ebrei come loro e per questo non serviva un altro nome per indicarli, erano semplicemente ebrei che avevano trovato il Messia. È estremamente interessante che si sia iniziato a parlare di cristianesimo proprio con l’annuncio ai greci e proprio ad Antiochia, città della Siria poco distante da Tarso, di dove era originario Paolo. L’incontro tra Atene e Gerusalemme è, infatti, un elemento essenziale della sua vita. Si capisce perché Benedetto XVI a Regensburg ha pronunciato le seguenti frasi alle quali si ispira il titolo del mio intervento: «L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie
dell’Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: “Passa in Macedonia e aiutaci!” (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una “condensazione” della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l’interrogarsi greco.» Paolo aveva ricevuto a Tarso l’educazione tipica di una città grecizzata del tempo. Aveva letto Euripide e Omero ed era stato formato secondo i principi della retorica del tempo, come è evidente dalle sue opere. Da esse traspare anche la conoscenza della filosofia stoica. E proprio un trattato filosofico di origine aristotelica molto diffuso a quel tempo, ma oggi perduto, è alla base del discorso all’areopago (At 17), quando Paolo ad Atene si rivolge ai filosofi del tempo, citando in alcuni punti in modo quasi letterale lo scritto di Aristotele, come ha dimostrato Enrico Berti. Il punto di partenza è una
valutazione positiva della pietà dei greci, che avevano anche un altare per il dio ignoto. Questo Dio Paolo lo
annuncia partendo dal fatto che unico è il creatore, dal quale tutto ha avuto origine. Gli ateniesi lo seguono, ma
rifiutano repentinamente l’annuncio del Vangelo quando sentono parlare di resurrezione, cioè quando dalla natura si passa alla storia. Si tratta proprio del salto essenziale che è richiesto dal cristianesimo, quello dalla necessità alla libertà, quello che distingue natura e storia, riempiendo di valore quest’ultima e superando la concezione dell’eterno ritorno. Secondo le parole del teologo J. Ratzinger: “Il tono paradossale della fede biblica di Dio sta proprio nell’amalgama unitario, in cui risultano combinati i due elementi da noi descritti; sta quindi nel fatto che l’Essere vien creduto Persona e la Persona vien creduta Essere, ritenendo per vero che solo il Remoto
è il Vicinissimo, che solo l’Inaccessibile è l’Accessibile, che solo l’Unico è l’Universale, buono per tutti e per cui tutti sussistono” (Introduzione al cristianesimo, Brescia, 1979, pp. 96-97). Ma questo annuncio fu possibile proprio perché il mediterraneo era contraddistinto dall’uso di un’unica lingua, cioè la koiné greca, diffusa dalle conquiste di Alessandro Magno. Con la sua avanzata, le polis greche avevano perso il loro primato a 4 favore degli stati nazionali, come la Macedonia e l’Egitto. Le forze vive della Grecia vennero attratte verso le grandi città come Alessandria, Pergamo ed Antiochia, appunto, che divennero i nuovi centri culturali e commerciali dell’epoca. Gli anni che vanno dalla morte di Alessandro (323 aC) alla caduta dell’Egitto in mano romana (31 aC), sono segnati da un scambio intenso a livello culturale e religioso, che segna anche la Palestina, dove si diffonde la cultura greca. Di questo c’è traccia evidente anche nella Bibbia, ad esempio nel secondo Libro dei Maccabei dove si depreca la diffusione dell’ellenizzazione (2 Mac 4,13) che si oppone al giudaismo (2 Mac 2,21). È estremamente significativo che i più grandi autori ebrei dell’antichità scrissero in greco (Filone e Flavio Giuseppe). Fondamentale fu anche la traduzione della Bibbia detta dei Settanta in riferimento ai settanta esperti che tradussero per la prima volta il testo sacro ad Alessandria per gli ebrei della diaspora, che non riuscivano più a leggere in ebraico. Si era prodotto qualcosa di radicalmente nuovo rispetto alla Grecia classica, ma che affondava in essa le sue radici, in particolare nella concezione del Logos del IV sec. aC.

Il pensiero cristiano e l’università
Tre esempi possono servire a comprendere la dimensione universale di questo pensiero, che caratterizzerà poi la riflessione dei Padri, i quali senza paura si riallacciano alla riflessione dei filosofi pagani e riconoscono un senso a tutta la ricerca del vero di ogni epoca e di ogni uomo. Il primo è quello molto noto del mito della caverna di Platone: per il grande filosofo la condizione umana è quella di chi è legato in una caverna e vede le ombre di quello che c’è fuori proiettate sulla parete di fondo. Il mondo materiale è apparenza. Gregorio di Nissa, nel sec. IV (dC ovviamente), all’inizio, partendo dalla sua cultura filosofica greca ricevuta per mezzo di suo fratello Basilio, che aveva studiato ad Atene, modifica questa concezione, ffermando che solo per il peccato originale l’uomo è legato in una caverna e non semplicemente per il fatto di essere uomo. Dopo un viaggio a Gerusalemme, però, vede i luoghi santi ed in concreto la grotta di Betlemme e cambia
opinione. Adesso ha compreso che il sole stesso è entrato nella grotta, per cui le tenebre si sono dissipate. Il mondo ridiventa buono ed il movimento platonico di fuga è esattamente invertito, perché Dio stesso è sceso.
Il secondo esempio può essere quello della concezione dell’amicizia in Aristotele: egli afferma con grande profondità che non si può vivere senza amici, perché l’amicizia è necessaria per la vita. Nello stesso tempo considera l’amicizia come una rarità perché si può essere amici solo tra uomini simili nella virtù. Per questo, quando si soffre bisognerebbe nascondersi dagli amici e sempre per questo l’amicizia è difficile per le persone anziane. Infine, la possibilità di amicizia con Dio è radicalmente esclusa, per la distanza ontologica che separa l’uomo ed il Primo Principio. La visione aristotelica è nello stesso tempo estremamente profonda e realista. Nel suo disincanto e nella sua crudezza, differisce grandemente dalla visione biblica, ma nello stesso tempo è essenziale per comprendere l’assolutezza e la dismisura del dono ricevuto. In Es 11,33, infatti, si dice che Dio parlava con Mosè faccia a faccia, come ad un amico. E Cristo poi, chiama i discepoli amici (Gv 15, 15) e predica l’amore ai nemici. Il salto è radicale, perché la filosofia greca riconosce l’impossibilità di essere amici di Dio,
ed evidenzia le difficoltà dell’amicizia, non sapendo spiegare, ad esempio, perché le madri 5continuano ad amare i figli anche quando questi non corrispondono. La rivelazione cristiana, invece, afferma che Dio si fa nostro amico e che, quindi, è possibile amare tutti. Si comprende perché il Santo Padre, al n.10 della Deus Caritas est, ha scritto: “l’aspetto filosofico e storico-religioso da rilevare in questa visione della Bibbia sta nel
fatto che, da una parte, ci troviamo di fronte ad un’immagine strettamente metafisica di Dio: Dio è in assoluto la sorgente originaria di ogni essere; ma questo principio creativo di tutte le cose — il Logos, la ragione primordiale — è al contempo un amante con tutta la passione di un vero amore” L’ultimo esempio è quello della croce cosmica: infatti, alla luce della resurrezione i cristiani avevano potuto dedurre che Cristo era veramente Dio; ma allora sorgeva la domanda del perché avesse scelto come modo della propria morte proprio la croce. La
risposta viene individuata in Ef 3,18, dove si parla dell’amore di Dio che si estende alle quattro dimensioni dell’universo: queste quattro dimensioni vengono poste in relazione che i quattro bracci della croce, che indicherebbero l’estendersi della salvezza e dell’effusione della bontà di Dio a tutto l’universo, secondo le quattro direzioni cosmiche. Da qui nasce il disegno non solo di una cultura cristiana, ma di una civiltà cristiana, capace di presentarsi come unità che metta in evidenza la razionalità di ogni aspetto dell’esistenza umana e permetta di apprezzare la grandezza della ricerca dell’uomo in tutte le epoche, anche pagane.
Il progetto dell’università medioevale nasce da questa visione, che è alla base della concezione della stessa piazza del Duomo di Como. L’accostamento del simbolo del potere civile – Broletto, antico municipio – e della cattedrale mostra figurativamente questa armonia, ancora più evidente nella facciata stessa dell’edificio sacro, che presenta ai lati dell’ingresso due dotti pagani – i due Plinii – coronati dall’adorazione dei Magi, uomini di scienza che hanno trovato il Dio incarnato, osservando il cielo e perseguendo la loro ricerca al di là di ogni
forza che cercava di scoraggiarli. Salendo lungo la facciata, si trovano Adamo ed Eva e poi la Madonna ed i santi, lo Spirito Santo, l’Annunciazione e, al vertice, la Resurrezione. Lungo le lesene sono rappresentate figure umane che rappresentano la società civile dell’epoca. Tutto è presentato come un insieme armonico.
E proprio tutto è una parola che può riassumere l’insegnamento di San Josemaría Escrivá, che ricevette da Dio la chiamata a mostrare che ogni lavoro ed ogni situazione umana può essere cammino per unirsi a Dio. Riprendendo l’esempio dei primi cristiani, l’uomo si scopre chiamato ad amare il mondo appassionatamente scoprendo quella dimensione divina nascosta in ogni circostanza. Questo evidenzia il valore della storia e
della libertà dell’uomo, di ogni uomo, e quindi la necessità di ascoltarsi e di cercare insieme il vero. San Josemaría si richiama esplicitamente all’esempio di San Paolo: A me – nel mio piccolo – come a Paolo a Damasco, a Madrid sono cadute le squame dagli occhi, e a Madrid ho ricevuto la mia missione. (Lettera, 2-X-1965). Questa missione e la certezza della presenza di Dio nella storia lo porta a sottolineare radicalmente il valore della libertà e la necessità di cercare il vero tutti insieme, ascoltandosi e rispettando le scelte reciproche: “Dio, creandoci, ha accettato il rischio e l’avventura della nostra libertà: ha voluto che la storia sia una storia vera, fatta di decisioni autentiche, e non una finzione o un gioco. Ogni 6uomo deve fare la esperienza della propria autonomia personale, con tutti gli imprevisti, i tentativi e magari le incertezze che questo comporta.” (ABC, 2.XI.1969) Per questo la ricerca non può fare paura ad un cristiano vero e lo spirito universitario è praticamente inserito nel suo stesso DNA: “Con ricorrente monotonia, alcuni cercano di far rivivere una presunta incompatibilità tra fede e scienza, tra intelligenza umana e Rivelazione divina. Questa incompatibilità si manifesta, ma soltanto apparentemente, quando non si comprendono i termini reali del problema. (…) Non
possiamo aver paura della scienza, perché qualsiasi ricerca, se è veramente scientifica, tende alla verità. E Cristo ha detto: Ego sum veritas, io sono la verità. Il cristiano deve avere sete di sapere. Dall’approfondimento della scienza più astratta, all’abilità manuale degli artigiani, tutto può e deve condurre a Dio.” (È Gesù che passa, n.10). In questo modo l’apertura radicale e il rispetto per la libertà e la ricerca di ogni uomo permette di scorgere il fondamento dell’idea di università nella cattolicità stessa: “Per te, che desideri formarti una mentalità cattolica, universale, trascrivo alcune caratteristiche: – ampiezza di orizzonti, e un vigoroso approfondimento, in quello che c’è di perennemente vivo nell’ortodossia cattolica; – anelito retto e sano – mai frivolezza – di rinnovare le dottrine tipiche del pensiero tradizionale, nella filosofia e nell’interpretazione
della storia…; – una premurosa attenzione agli orientamenti della scienza e del pensiero contemporanei; – un atteggiamento positivo e aperto di fronte all’odierna trasformazione delle strutture sociali e dei modi di vita.” (Solco, n.428)

Conclusione
Comprendere il valore del rapporto tra fede e ragione perché possa concepirsi la possibilità dell’università stessa diventa allora essenziale per il mondo di oggi, che rischia di ricadere nella schiavitù della necessità, della superstizione e di una riduzione non solo del sapere, ma dell’uomo stesso, a mera funzione e prestazione.
In primo luogo, per essere cristiani è essenziale sapere quello che afferma la filosofia greca sull’impossibilità del rapporto con Dio, perché solo così si può cogliere il dono immenso di Dio stesso che viene incontro all’uomo. Se si parte dal logos greco, quindi, la sete di ogni uomo, tutte le seti dell’uomo, possono riconoscere il loro senso in
quell’incontro che ha segnato la vita di Paolo, il quale, camminando verso Damasco si è imbattuto in Cristo stesso, che gli ha chiesto “perché mi perseguiti?”. Il Dio cristiano chiede perché. Non risponde alla violenza con la violenza o con la forza, ma semplicemente ci salva chiedendoci perché e suscitando il nostro pensiero, la nostra ricerca della verità, facendoci interrogare sul senso del nostro desiderio. E questo perfino se il Logos stesso viene schiaffeggiato, come durante l’iniquo processo nella casa del gran sacerdote, quando Cristo dice: “se ho sbagliato dimostrami dove, altrimenti perché mi colpisci?”. È il mistero di Dio che si fa presente nel seno di una giovane donna, chiedendole permesso, in uno sperduto villaggio della Palestina, il mistero di una presenza che Atene ha tanto desiderato, ma che solo a Gerusalemme, nella singolarità e nella libertà della
Croce ha trovato il suo senso. Maria si presenta allora come regina del pensiero, in quanto ha accolto nel Suo seno il Logos stesso, il Quale la trasformò, grazie alla radicale apertura di lei, al di là di ogni paura, in modello di ogni autentica università, vera alma Mater.
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