San Mattia Apostolo

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SAN MATTIA APOSTOLO
14 MAGGIO
SEC. I
Di Mattia si parla nel primo capitolo degli Atti degli apostoli, quando viene chiamato a ricomporre il numero di dodici, sostituendo Giuda Iscariota. Viene scelto con un sorteggio, attraverso il quale la preferenze divina cade su di lui e non sull’altro candidato – tra quelli che erano stati discepoli di Cristo sin dal Battesimo sul Giordano -, Giuseppe, detto Barsabba. Dopo Pentecoste, Mattia inizia a predicare, ma non si hanno più notizie su di lui. La tradizione ha tramandato l’immagine di un uomo anziano con in mano un’alabarda, simbolo del suo martirio. Ma non c’è evidenza storica di morte violenta. Così come non è certo che sia morto a Gerusalemme e che le reliquie siano state poi portate da sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino, a Treviri, dove sono venerate. (Avvenire)
Etimologia: Mattia = uomo di Dio, dall’ebraico
Martirologio Romano: Festa di san Mattia, apostolo, che seguì il Signore Gesù dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui Cristo fu assunto in cielo; per questo, dopo l’Ascensione del Signore, fu chiamato dagli Apostoli al posto di Giuda il traditore, perché, associato fra i Dodici, divenisse anche lui testimone della resurrezione.
Mattia, abbreviazione del nome ebraico Mattatia, che significa dono di Jahvè, fu eletto al posto di Giuda, il traditore, per completare il numero simbolico dei dodici apostoli, raffigurante i dodici figli di Giacobbe e quindi le dodici tribù d’Israele. Secondo gli Atti apocrifi, egli sarebbe nato a Betlemme, da una illustre famiglia della tribù di Giuda. Una cosa è certa, perché affermata da S. Pietro (Atti, 1,21), che Mattia fu uno di quegli uomini che accompagnarono gli apostoli per tutti il tempo che Gesù Cristo visse con loro, a cominciare dal battesimo nel fiume Giordano fino all’Ascensione al cielo. Non è improbabile che facesse parte dei 72 discepoli designati dal Signore e da lui mandati, come agnelli fra i lupi, a due a due davanti a sé, in ogni città e luogo dov’egli stava per andare. S. Mattia conosceva certamente il più antipatico degli apostoli, Giuda, nativo di Kariot, quello che nella lista dei Dodici è sempre messo all’ultimo posto e designato con l’espressione « colui che tradì il Signore ». Durante le peregrinazioni apostoliche, Gesù e i discepoli ricevevano doni e offerte dalle folle entusiaste e riconoscenti per i malati che guarivano. S’impose perciò la necessità di affidare a qualcuno di loro l’incombenza di economo. Fu scelto Giuda, ma ci dice San Giovanni che non fu onesto nel suo ufficio.
Sei giorni prima della Pasqua, Gesù fu invitato a Betania, con gli apostoli e l’amico Lazzaro risuscitato dai morti, ad un banchetto in casa di Simone, il lebbroso. Mentre Marta serviva, Maria, sua sorella, prese una libbra d’unguento di nardo genuino, di molto valore, unse i piedi di Gesù e glieli asciugò con i suoi capelli.
Allora Giuda Iscariota protestò: « Perché quest’unguento non è stato venduto per più di 300 denari e non è stato dato ai poveri? ». Ma, commenta ironicamente S. Giovanni l’evangelista, « disse questo non perché si preoccupasse dei poveri, ma perché era ladro, e avendo la borsa portava via quello che vi si metteva » (Giov 12,1-11). Aveva paura di morire di fame? Temeva forse, avaro com’era, una vecchiaia triste e solitaria? Quando seppe che i capi del Sinedrio cercavano il modo di catturare Gesù per condannarlo a morte, ingordo di denaro, andò dai sommi sacerdoti e promise loro di tradirlo per trenta monete d’argento, il compenso fissato dalla legge per l’uccisione accidentale di uno schiavo (Es. 21,32).
Durante l’ultima cena, Gesù fece più volte allusione al suo traditore, anzi lo designò apertamente (Mt 26,25), Dopo la cena, quando il Signore si ritirò a pregare al di là del torrente Cedron, il perfido Giuda giunse a capo di sgherri armati di spade e bastoni e, secondo il segnale loro dato, glielo consegnò nelle mani baciandolo. Il rimorso però non tardò ad attanagliargli l’animo. L’apostolo, infedele alla sua missione, quando seppe che il sinedrio aveva condannato il suo Maestro, che lo aveva sempre trattato con bontà anche nell’ora buia del tradimento, riportò i trenta denari, che gli scottavano in mano, ai sommi sacerdoti e agli anziani, gemendo; « Ho peccato, tradendo sangue innocente! ». Ed egli, gettati i denari d’argento nel tempio, fuggì e, in preda alla disperazione alla quale non seppe reagire, andò ad impiccarsi (Mt 27,3-5).
Gesù nell’ultima cena, dopo lo smascheramento di chi lo tradiva, aveva esclamato: « Guai a quell’uomo per opera del quale il Figlio dell’uomo è tradito: era meglio per lui che non fosse mai nato! » (Mt 26,24). Dopo l’Ascensione di Gesù al cielo, gli apostoli ritornarono a Gerusalemme, nel cenacolo. Di comune accordo essi erano perseveranti nell’orazione con alcune donne, con Maria, la Madre di Gesù, e con i cugini di lui. Mentre attendevano « la promessa del Padre », cioè lo Spirito Santo, Pietro, alzatesi in mezzo ai fratelli (c’era una folla di circa 120 persone), prese a dire: « Era necessario che si adempisse la Scrittura che lo Spirito Santo, per bocca di David, aveva predetto nei riguardi di Giuda, il quale si fece guida a coloro che catturarono Gesù; poiché egli era annoverato tra noi ed ebbe la sorte di partecipare a questo ministero. Costui, inoltre, con la mercede del suo delitto, acquistò un campo; caduto a capofitto, gli scoppiò il ventre e si sparsero tutte le sue viscere. Il fatto divenne noto a tutti gli abitanti di Gerusalemme, tanto che quel campo, nel loro idioma, fu chiamato Aceldama, cioè campo del sangue. Infatti nel libro dei Salmi sta scritto: « Divenga deserta la sua dimora, e non vi sia chi l’abiti! ». E ancora: « Prenda un altro il suo ufficio ». E’ dunque necessario che uno degli uomini che ci furono compagni per tutto il tempo che il Signore Gesù trascorse tra noi, a partire dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui fu assunto di mezzo a noi, divenga, insieme con noi, testimone della sua risurrezione » (Atti 1, 16-22).
Ne presentarono due: Giuseppe, di cognome Barsabba, il quale era soprannominato Giusto, e Mattia. Poi pregarono dicendo: « O Signore, tu che conosci i cuori di tutti, indicaci quale di questi due hai scelto per assumere l’ufficio di questo ministero e di questo apostolato, dal quale Giuda perfidamente si partì per andarsene al proprio luogo ». Poi tirarono la sorte, e la sorte cadde su Mattia, e venne annoverato con gli undici apostoli.
Quando giunse il giorno della Pentecoste, stavano tutti insieme nello stesso luogo. A un tratto, ci fu dal ciclo un fragore, come di vento impetuoso, e pervase tutta la casa dove essi si trovavano. E videro delle lingue che sembravano come di fuoco, dividersi e posarsi sopra ciascuno di loro. Tutti furono ripieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, secondo il modo in cui lo Spirito concedeva loro di esprimersi. Ora in Gerusalemme dimoravano pii Giudei di ogni nazione che è sotto il cielo. Udito quel fragore, si radunò una gran folla che rimase sbalordita, perché ciascuno li sentiva parlare nella propria lingua » (Atti c. 1).
Allora Pietro, insieme con gli undici, si fece avanti, alzò la voce e spiegò che quell’evento era stato predetto dal profeta Gioele e che Gesù, risuscitato dai morti, era stato costituito da Dio « Signore e Messia ». Molti presenti, sentendosi il cuore compunto, chiesero a Pietro e agli altri apostoli: « Fratelli, che cosa dobbiamo fare? ». E Pietro disse loro; « Convertitevi e ognuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo per la remissione dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo ».
Quelli dunque che accettarono la sua esortazione si fecero battezzare, e, in quel luogo, circa tremila persone si associarono alla Chiesa. Ed erano sempre assidui alle istruzioni degli apostoli, alle riunioni comuni, allo spezzamento del pane e alle orazioni. Il timore si era impadronito di ogni anima, poiché per mezzo degli apostoli avvenivano molti segni e prodigi. E tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune. Anzi vendevano le proprietà e i beni, e ne distribuivano fra tutti il ricavato, in proporzione al bisogno di ciascuno. E frequentavano insieme e assiduamente il tempio ogni giorno; spezzavano il pane di casa in casa; mangiavano insieme con giocondità e semplicità di cuore, lodando Iddio e godendo il favore di tutto il popolo. Il Signore, poi, associava alla Chiesa quelli che di giorno in giorno venivano salvati. (Ivi, c. 2).
La moltitudine dei credenti era di un sol cuore e di un’anima sola. Infatti tra loro non c’era alcun indigente, poiché tutti i padroni di campi o di case, man mano che li vendevano, portavano il ricavato delle cose vendute e lo mettevano a disposizione degli apostoli: poi veniva distribuito a ciascuno secondo la necessità che uno ne aveva.
E gli apostoli, frattanto, con grande energia rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e, verso tutti loro, c’era una gran simpatia. Sicché la moltitudine di uomini e donne credenti nel Signore andava aumentando sempre più. (Ivi, cc. 4 e 5).
Si mosse allora il sommo sacerdote con tutti i suoi seguaci. Al colmo della gelosia afferrarono gli apostoli e li misero nella prigione popolare. Un angelo li mette in libertà? Essi li fanno arrestare dal prefetto del tempio, dove stanno imperterriti a istruire il popolo, intimano loro, dopo averli fatti fustigare, di non parlare affatto nel nome di Gesù. Essi se ne vanno via dal sinedrio giulivi per essere stati ritenuti degni di subire oltraggi a causa di quel nome. E ogni giorno, nel tempio e per le case, continuano a insegnare e ad annunziare senza posa la buona novella del Messia Gesù, (Ivi, cap. 5) fino a tanto che il martirio di S. Stefano prima, e l’imprigionamento di S. Pietro poi, li costringe provvidenzialmente a disperdersi per il mondo allora conosciuto per fare discepole del Martire del Golgota tutte le nazioni.
Le notizie posteriori riguardanti S. Mattia sono contraddittorie. Tutte però concordano nel dirlo martire. Le sue reliquie, vere o presunte, sono venerate a Roma nella basilica di S. Maria Maggiore.
Autore: Guido Pettinati
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«LA LETTERA UCCIDE, LO SPIRITO VIVIFICA»
DI PADRE ALBERT VANHOYE, S.J.
GIUGNO 2002
Nella sua Seconda Lettera ai Corinzi, l’apostolo Paolo esprime un forte contrasto tra la lettera (in greco gramma) e lo spirito (pneuma). «La lettera uccide, ma lo Spirito vivifica» (2Cor 3,6). La lettera fa morire, mentre lo spirito fa vivere. Come succede spesso nella Bibbia, questa parola è suscettibile di diverse interpretazioni, la si può capire in modo più o meno profondo, a seconda del senso che si dà a spirito.
Una prima interpretazione consiste nel distinguere in un dato testo lettera e spirito. La lettera designa le parole scritte, prese nel loro senso oggettivo, lo spirito invece designa la disposizione mentale con la quale sono state scritte, l’intenzione di fondo dell’autore. In molti casi, c’è corrispondenza tra lettera e spirito. L’amore si esprime con parole affettuose, l’odio con parole offensive. In alcuni casi, invece, il senso della lettera non è tanto chiaro. Potrebbe essere presa in cattiva parte o in buona parte. Per interpretarla correttamente, è necessario conoscere per altre vie la mente di chi l’ha scritta. La distinzione tra spirito e lettera riveste una importanza speciale, quando si tratta di testi giuridici. Per poter applicare correttamente una legge a un caso concreto, bisogna aver afferrato lo spirito della legge.
Nei racconti dei vangeli, osserviamo a più riprese un netto contrasto tra due interpretazioni diverse di certi precetti della Legge di Mosè; da una parte vediamo l’interpretazione rigida dei Farisei che esigono l’osservanza stretta della lettera di questi precetti, in qualsiasi circostanza; dall’altra parte, ammiriamo l’interpretazione generosa di Gesù, che si preoccupa di corrispondere allo spirito della Legge e prende quindi una certa libertà con la lettera, quando le circostanze lo richiedono. Questo contrasto si manifesta specialmente a proposito dell’osservanza del sabato. Gli episodi sono numerosi in tutti e quattro i vangeli. Prendiamo nel vangelo secondo Marco, il caso dell’uomo «che aveva una mano inaridita» e che si trovava nella sinagoga dove Gesù era entrato un giorno di sabato (Mc 3,1-6). I farisei osservano Gesù «per vedere se lo curava in giorno di sabato per poi accusarlo». Curare (greco therapeuein, da cui deriva terapia) è il lavoro del medico. Il decalogo vieta di lavorare in giorno di sabato (Es 20,8-11; Dt 5,12-15). Si tratta di un divieto severissimo, sotto pena di morte (Es 31,15; 35,2; Nm 15,32-36). I farisei prendono alla lettera questo divieto e ritengono che, se Gesù cura allora l’infermo, si meriterà la pena di morte (cfr. Mc 3,6). Gesù, invece, vuol essere fedele allo spirito della legge e perciò chiede ai farisei: «È lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o uccidere?». Gesù sa che lo spirito della Legge è uno spirito di misericordia; secondo il libro dell’Esodo, infatti, lo scopo dell’osservanza del sabato è che «possano goder quiete il tuo bue e il tuo asino e possano respirare i figli della tua schiava e il forestiero» (Es 23,12; cfr. anche Dt 5,14). Gesù ne conclude che «il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27). Egli, quindi, non esita a fare un’opera di misericordia un giorno di sabato; non vuole peccare per omissione, vuole «salvare una vita». Qui si vede bene che «la lettera uccide, mentre lo spirito fa vivere». Per fedeltà cieca alla lettera della legge, i farisei ostacolano la guarigione dell’infermo e quindi la sua piena vita e poi «tengono consiglio» contro Gesù «per farlo morire» (Mc 3,6). Gesù invece fa vivere pienamente l’infermo. Egli agisce similmente a favore del paralitico alla piscina di Betzata (Gv 5,8-9) e per la guarigione del cieco nato (Gv 9,14), suscitando ogni volta una reazione quanto mai ostile da parte dei farisei, attaccati alla lettera della legge.
Bisogna però osservare che l’apostolo Paolo non è rimasto a questo livello d’interpretazione, quando ha scritto: «La lettera uccide, lo Spirito invece fa vivere» (2Cor 3,6). Non ha preso, cioè, la parola spirito in un senso generico, ma l’ha presa in un senso molto specifico, quello di «Spirito del Dio vivente», come dice in una frase precedente (2Cor 3,3). L’antitesi tra lettera e Spirito caratterizza, secondo Paolo, la «Nuova Alleanza», di cui gli Apostoli sono stati «resi ministri capaci», Alleanza «non di lettera, ma di Spirito». Effettivamente, gli oracoli profetici che annunciavano l’instaurazione di una Nuova Alleanza, la descrivevano come una relazione interiore con Dio stabilita dallo Spirito Santo. L’oracolo di Geremia sottolineava la differenza tra la Nuova Alleanza e l’Alleanza del Sinai, basata in un testo fatto di lettere scritte su due tavole di pietra. La Nuova non sarà così (Ger 31,32), ma sarà scritta sui cuori (31,33). Ezechiele precisa che Dio darà ai suoi fedeli «un cuore nuovo», nel quale verserà «uno spirito nuovo», che sarà, dice, «il mio Spirito» (Ez 36,26-27). Nella sua Seconda Lettera ai Corinzi, san Paolo accenna a questi oracoli, a quello di Geremia, quando dice ai Corinzi che sono una «epistola di Cristo», scritta «non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei cuori» (2Cor 3,3), poi all’oracolo di Ezechiele, quando dice che «questa epistola» è stata scritta «con lo Spirito del Dio vivente» (2Cor 3,3) e che la «Nuova Alleanza» non è «di lettera, ma di Spirito» (3,6). L’Apostolo mette in forte contrasto la «Disposizione Antica» (cfr. 2Cor 3,14), caratterizzata da una legge esterna, una lettera, e la «Disposizione Nuova» (3,6), caratterizzata dal dono interiore dello Spirito Santo, che «abita» nei cristiani (Rm 8,9.11; 1Cor 3,16; 2Tm 1,14).
La legge esterna non fa vivere, perché non cambia il cuore delle persone, non comunica un dinamismo vitale. Quando il cuore è cattivo, l’effetto della legge esterna è quello di suscitare una voglia di trasgressione. Lungi dall’essere raffrenate dalla legge, «le passioni peccaminose» sono piuttosto stimolate da essa (cfr. Rm 7,5). «Non avrei conosciuto la concupiscenza, scrive Paolo, se la legge non avesse detto: Non avrai concupiscenza. Prendendo occasione da questo comandamento, il peccato scatenò in me ogni sorta di concupiscenza» (Rm 7,7-8). La legge può soltanto vietare e poi condannare. Perciò Paolo chiama il sistema della legge «il ministero della condanna», anzi, «il ministero della morte» (2Cor 3,7.9), perché la lettera della legge condanna a morte le persone colpevoli di una trasgressione grave. Così «la lettera uccide» veramente. Al «ministero della condanna» e «della morte», Paolo contrappone «il ministero dello Spirito» e «della giustizia» (2Cor 3,8.9), cioè il ministero apostolico della Nuova Alleanza, che per mezzo della parola della fede in Cristo e per mezzo del battesimo comunica ai credenti lo Spirito Santo (cfr. Rm 15,16; 1Cor 6,11). L’azione dello Spirito non rimane esterna, come quella della legge; al contrario, penetra all’interno dei cuori e li purifica, li santifica, vi stabilisce una relazione interiore con Dio, un dinamismo di comunione vivificante. Il «ministero dello Spirito» viene chiamato da Paolo «il ministero della giustizia» in un senso che non ci è consueto, nel senso, cioè, che lo Spirito trasforma interiormente i peccatori e li rende giusti, conformi al progetto di Dio. Ai Corinzi, Paolo scrive: «siete stati lavati, santificati, giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio» (1Cor 6,11). Così «lo Spirito fa vivere» di una vita nuova, in comunione con Dio. Questa vita è feconda; produce «il frutto dello Spirito», che «è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22-23); essa si manifesta anche con una meravigliosa diversità di doni spirituali ossia carismi (cfr. 1Cor 12,4.7-11). La vita comunicata dallo Spirito rende facile ai credenti l’adempimento della legge, perché lo Spirito riversa l’amore divino nei cuori (Rm 5,5) e «tutta la legge trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso» (Gal 5,14); «pieno compimento della legge è l’amore» (Rm 13,10). Non si tratta, però, di una osservanza rigida e minuziosa della lettera della legge; si tratta invece di una osservanza attenta all’essenziale e adattata alle circostanze, sull’esempio di Gesù. Lo sforzo principale del cristiano deve essere di accogliere sempre meglio nella sua esistenza quotidiana la presenza e l’azione del Santo Spirito, che lo fa vivere.
Opera dello Spirito Santo: www.spiritosanto.org
http://anothertry.altervista.org/archivio/santi/0509.html
9 MAGGIO: SAN PACOMIO ABATE (mf)
BIOGRAFIA
È considerato, con S. Antonio abate, suo contemporaneo, il padre del cenobitismo egiziano. Fu il primo che ne fissò per scritto la regola. Pacomio nacque verso il 292 nella Tebaide superiore, nella diocesi di Latopoli dei Greci (Esneh), da genitori pagani. Fin dall’infanzia dimostrò di avere ricevuto da natura un temperamento dolce. I genitori lo educarono al culto degli idoli, ma egli provò sempre una grande avversione per le cerimonie profane.
Verso i vent’anni Pacomio fu costretto ad arruolarsi nell’esercito dell’imperatore Massimino Daia, che aveva bisogno di soldati per continuare la guerra contro Licinio e Costantino i quali, con l’editto di Milano (313), avevano ridato libertà alla Chiesa. Il giovane, con parecchie altre reclute, fu imbarcato di prepotenza sopra un vascello e trasportato a Diospoli, capitale della Tebaide. I cristiani che vi si trovavano, verso sera portarono ai soldati stanchi e affamati cibi e denari con la stessa sollecitudine con cui avrebbero soccorso i loro cari. Pacomio rimase profondamente impressionato nel sapere che essi trattavano così i prigionieri « per il Dio del cielo ». Durante la notte e in seguito così egli pregò il loro Dio: « Dio creatore del cielo e della terra, getta su di me uno sguardo di pietà; liberami dalle mie miserie; insegnami il modo di rendermi gradito ai tuoi occhi; tutti i miei desideri e tutti i miei sforzi saranno di servirti e di compiere la tua santa volontà ». Il giorno dopo fu costretto a rimettersi in viaggio. Il ricordo della carità dei cristiani e della risoluzione che aveva preso di essere utile in qualche modo al genere umano lo sostenne nella lotta contro una tentazione della carne che lo assalì mentre scendeva il Nilo.
Alla scomparsa di Massimino, in guerra contro Licinio nel Tauro (313), Pacomio, invece di ritornare alla casa dei genitori, stabilì la propria residenza presso la comunità cristiana di Senesit (l’attuale Kasr-es-Sayad). Prese alloggio in un piccolo tempio pagano abbandonato, si fece iscrivere tra i catecumeni e studiò le verità della fede con grande impegno. La notte dopo il battesimo, fece un sogno; vide la rugiada del cielo discendere sul suo capo, quindi scorrere sulla sua mano destra dove, prima di spandersi su tutta la superficie della terra, si condensava in miele. Era un presagio della sua futura missione che Iddio gli avrebbe manifestato a poco a poco. Cominciò subito a vivere da asceta, a pregare di più e ad esercitare la carità verso il prossimo, specialmente durante un’epidemia, ma non tardò ad accorgersi che gli era impossibile condurre nel villaggio la vita solitaria che desiderava. Decise perciò di farsi anacoreta mettendosi sotto la direzione di S. Paiamone, famoso monaco dei dintorni. Per sette anni ne condivise l’austerissimo genere di vita digiunando nell’estate quotidianamente e, a giorni alternati, nell’inverno; mangiando soltanto pane, sale e legumi, senza olio e senza vino; lavorando buona parte della giornata per il proprio sostentamento e il soccorso ai poveri; passando buona parte della notte in orazione. Durante le veglie, quando Paiamone vedeva il suo discepolo cascare dal sonno, lo invitava ad uscire con lui dalla cella per trasportare della sabbia da un posto all’altro e così poter continuare le loro orazioni senza correre il rischio di addormentarsi.
La vita anacoretica offriva possibilità di vita penitente e devota, ma rappresentava pure delle deficienze non essendo soggetta ad una vera regola e alla stretta ubbidienza ad un superiore. Nell’intento d’introdurre tra gli asceti la vita comune, sotto la guida di un unico superiore, con una regola uguale per tutti, Pacomio si separò da Paiamone e si stabilì a Tabennisi, villaggio abbandonato sulla riva destra del Nilo, nella diocesi di Tentiri. Un giorno, mentre pregava nella solitudine, gli giunse dal cielo una voce che gli disse: « Pacomio, Pacomio, lotta, installati qui e costruisci una dimora perché una folla di uomini verrà a te. Seguendoti essi si faranno monaci con profitto delle loro anime ». I primi venuti non si sottomisero alla vita comune nel monastero che aveva costruito per loro. Altri Iddio gliene mandò che si dichiararono disposti ad accettare la regola che aveva composto, a vivere assieme, ad adattarsi agli uffici e ai lavori che il superiore avrebbe loro affidato. In poco tempo il monastero di Tabennisi fu riempito da un centinaio di monaci così che Pacomio sentì il bisogno di fare costruire per essi una chiesa.
Quando il monastero divenne troppo piccolo per accogliere quanti chiedevano di vivere sotto la sua guida, ne fondò un altro poco distante a Pebu, presso Tebe, che divenne sede centrale della Congregazione. Intere colonie di anacoreti chiesero allora di fare parte della nuova istituzione. Tra il 320 ed il 346 essa contava già nove monasteri di uomini e due di donne, uno dei quali alle dipendenze della sorella del santo che lo aveva seguito nella solitudine insieme con il fratello maggiore, che poco dopo morì.
Pacomio visse quindici anni senza coricarsi, prendendo soltanto un po’ di riposo seduto sopra una pietra. A partire dal giorno della sua conversione, non fece mai un pasto completo. Ogni monaco indossava una tunica di lana bianca senza maniche, stretta ai fianchi da una cinghia, portava sulle spalle una pelle di capra conciata, chiamata melote, che gli scendeva fino alle ginocchia e sopra di essa si metteva una corta cocolla dotata di un cappuccio recante il segno del monastero e della casa alla quale ciascuno apparteneva. Infatti i monasteri, circondati da muretti, comprendevano fino a cinquanta case, con una trentina di celle ciascuna per i religiosi, la chiesa, il refettorio in cui tutti mangiavano in silenzio con il cappuccio in testa in modo da non vedere il vicino, la cucina, la dispensa, il guardaroba, l’infermeria, la biblioteca, le officine e il luogo di riunione per l’intera comunità. Ogni monastero aveva il suo superiore, nominato direttamente dal generale, assistito da un secondo. Anche le singole case del monastero avevano il proprio preposito con il secondo. I monaci erano assegnati all’una o all’altra casa conforme al mestiere che esercitavano, e avevano il proprio grado conforme all’anzianità di professione.
Il primo e l’ultimo giorno della settimana ogni monaco faceva la comunione. Pacomio non ammetteva i monaci agli ordini sacri. Ogni sabato essi si recavano ad ascoltare la Messa nella chiesa del villaggio e la domenica i preti del villaggio andavano a celebrare il divino sacrificio nella chiesa del monastero. Quando il santo cominciò ad accogliere tra i suoi monaci anche dei sacerdoti, è probabile che la Messa venisse celebrata tutte le volte nella chiesa della comunità. Per le pratiche di pietà c’era l’assemblea generale verso mezzanotte, presieduta generalmente dal superiore, in cui i monaci salmodiavano, leggevano la Sacra Scrittura e facevano alcune preghiere. Verso l’aurora e poi prima del pranzo, della cena e del riposo notturno, nelle singole case i monaci recitavano sei preghiere e alcun salmi.
La formazione ascetica dei monaci era curata dal superiore del convento il quale, tre volte la settimana, teneva loro convenienti istruzioni spirituali, e dai prepositi delle case i quali, due volte la settimana, facevano altrettanto con i loro sudditi. Ad esse si aggiungevano i frequenti colloqui dei sudditi con i superiori, le conferenze spirituali, le esortazioni occasionali e lo studio a tutti prescritto della Bibbia. Per questo Pacomio esigeva che i monaci imparassero a leggere. La regola che egli un po’ alla volta diede ai suoi discepoli, e che S. Girolamo tradusse dal latino nel 404, reca l’impronta della moderazione e della praticità. Benché fosse diretta a una comunità, lasciava uno spazio sufficiente all’iniziativa individuale, soprattutto in materia di ascetismo e di preghiera, non avendo la pretesa di regolamentare minuziosamente tutti gli atti che i monaci dovevano compiere.
A tutti i membri era imposto il digiuno il mercoledì e il venerdì, mentre negli altri giorni gli addetti alla cucina preparavano per la comunità due pasti frugali a base di pane, legumi, frutta, formaggio, ma sufficienti e tali da permettere ai monaci di mortificarsi volontariamente in qualche cosa.
Ad alcuni Pacomio permetteva speciali mortificazioni e digiuni, ma a condizione che non impedissero ad essi di attendere al proprio ufficio non volendo che ne soffrisse la regolare osservanza. Tutti i monaci, non escluso il superiore, dovevano attendere al lavoro manuale, che in principio veniva limitato alla tessitura di stuoie, corde e canestri con i giunchi del Nilo e le foglie di palma. In seguito, quando i monaci divennero diverse migliaia, per procurarsi le risorse necessarie al sostentamento esercitarono pure le professioni indispensabili alla vita, la cultura dei campi fuori del monastero e, al tempo dei raccolti, il servizio ai padroni in cambio di una quantità di derrate.
Nessun istante della giornata era lasciato all’oziosità. L’abate stesso curava i malati con grande sollecitudine. Il silenzio era rigorosamente osservato da tutti. Per avere quello di cui ognuno aveva bisogno si ricorreva ai segni. Trasferendosi da un posto all’altro i religiosi erano esortati a riflettere su qualche brano della Scrittura. Il lavoro era accompagnato dal canto dei salmi. Alla morte di ogni monaco veniva celebrata la Messa per il riposo eterno della sua anima. Pacomio visitava sovente i monasteri che aveva fondato per vigilare affinchè ovunque fosse osservata la regola.
Un giorno il cellerario (economo) aveva venduto al mercato qualche stuoia a un prezzo più elevato di quanto gli era stato fissato. Il santo ordinò di restituire i soldi agli acquirenti e lo castigò per la sua avarizia. Un’altra volta un monaco si applicò con tanto impegno nel lavoro da riuscire a tessere due stuoie invece di una. Avendo poi fatto in modo che Pacomio le vedesse, costui si limitò a dire: « Questo fratello si è affannato dal mattino alla sera per lasciare il suo lavoro in balia del demonio ». E per guarirlo dalla vanità gl’impose per penitenza di restare cinque mesi nella sua cella senz’altro cibo che un po’ di pane, sale e acqua.
I biografi attribuiscono al santo il dono delle lingue, la guarigione dei malati e la liberazione degli ossessi con l’uso dell’olio benedetto. Sovente diceva agli afflitti che le loro prove, in realtà, erano un tratto della divina bontà a loro riguardo; egli si contentava di pregare per ottenere ad essi forza e coraggio, dal momento che il male non poteva recare pregiudizio alle loro anime. Teodoro (†368), il suo più caro discepolo, che gli successe nel governo dei monasteri, soffriva costantemente di mal di testa. Pacomio rispose un giorno ai monaci che lo supplicavano di guarirlo: « L’astinenza e la preghiera sono sicuramente una sorgente di grandi meriti, ma la malattia sopportata con pazienza è sicuramente di un merito ancora maggiore ». Prima di tutto egli chiedeva a Dio la salute spirituale dei suoi discepoli, e non si lasciava sfuggire occasione alcuna per guarire le loro passioni, specialmente quella dell’orgoglio. Pacomio fu pure dotato dello spirito di profezia.
Annunciò difatti con rammarico ai suoi discepoli che l’Ordine da lui stabilito sarebbe in seguito decaduto dal primitivo fervore. Nel secolo XI scomparve addirittura dopo essere stato isolato geograficamente, psicologicamente e spiritualmente.
Pacomio nutrì una grande stima per i vescovi e in modo speciale per S. Atanasio (†373), patriarca di Alessandria d’Egitto, che non disdegnava di andare a visitare nella Tebaide i suoi monaci. I vescovi in genere conservarono amichevoli relazioni con il santo cenobita. Alcuni monasteri egli fondò in seguito alle istanze di alcuni di loro. Serapione, vescovo di Tentiri, lo esortò a costruire una chiesa in un villaggio per i poveri pastori. In essa il santo adempì l’ufficio di lettore. Operò pure numerose conversioni e si oppose vigorosamente agli errori degli ariani. Nonostante le insistenze del suo vescovo, non volle mai ricevere il sacerdozio. Poco prima di morire fu convocato a Latopoli, davanti ad un sinodo di presuli, perché fornisse spiegazioni sulle sue visioni e sui suoi doni.
Pacomio due volte all’anno radunava attorno a sé i superiori dei vari monasteri per mantenere in tutti, desta l’idea, che essi formavano una sola famiglia di cui egli si considerava non il dominatore, ma il servo. Dopo la riunione della Pasqua del 346 a Pebu scoppiò la peste che in poco tempo fece più di cento vittime. La più illustre di esse fu Pacomio stesso che morì il 9-5-346, dopo quaranta giorni di atroci sofferenze.
Temendo che sul luogo della sua sepoltura si costruisse un martyrion, come si usava per i martiri, si fece promettere da Teodoro che non avrebbe lasciato il suo corpo nel luogo in cui sarebbe stato sepolto. Il discepolo tenne fede alla promessa fatta. Nel Martirologio romano la festa di San Pacomio è segnata al 9 maggio. Nei libri liturgici bizantini è segnata al 7.
Sac. Guido Pettinati SSP,