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LA TRASFIGURAZIONE DI PAOLO – CARLO MARIA MARTINI

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/martini_confessioni_di_paolo7.htm

CARLO MARIA MARTINI

LE CONFESSIONI DI PAOLO

MEDITAZIONI

LA TRASFIGURAZIONE DI PAOLO

Partendo dall’episodio storico della sofferenza nella vita di Paolo, riflettiamo sulla trasfigurazione a cui l’ha portato l’interiore purificazione, per meditare poi sulla trasfigurazione del pastore.
Come grazia di questa meditazione chiediamo di potere, attraverso la conoscenza dell’ Apostolo, giungere alla conoscenza di Cristo, la cui gloria risplende sul suo volto e vuole risplendere in noi.
Ti ringraziamo, Padre, per il dono di gloria luminosa, affascinante, che hai posto sul volto del tuo Figlio Risorto. Questa gloria l’hai mostrata alla tua Chiesa, nel tuo servo Paolo, come l’avevi mostrata interiormente a Maria, Madre di Gesù, a Pietro e agli Apostoli.
Ti ringraziamo perché continui a mostrare questa gloria nella storia della Chiesa attraverso i santi. Ti ringraziamo per i santi che abbiamo conosciuto, per tutti coloro i cui scritti, le cui parole ci edificano, per tutti coloro la cui vita ci è di sostegno. Manifesta la gloria del volto di Cristo anche a noi, perché qualcosa di quello splendore risplenda in noi stessi e, interiormente trasformati, possiamo conoscere il tuo Figlio Gesù e farlo conoscere come sorgente di trasformazione della vita di ogni uomo. Te lo chiediamo, Padre, per Cristo nostro Signore. Amen.
Quanto abbiamo detto della sofferenza di Paolo per la rottura con Barnaba può essere esteso ad altri conflitti, che hanno segnato la vita di quest’uomo straordinario: i conflitti con le comunità, soprattutto quelli a cui fanno riferimento la seconda lettera ai Corinti e la lettera ai Galati. In esse Paolo ei appare chiaramente in contrasto con certi modi di agire e in situazioni di tensione, di dolore, di solitudine. Emblematico è il conflitto con Pietro ad Antiochia, in cui Paolo si trova in una situazione estremamente imbarazzante e difficile.
Innanzitutto ciò che dobbiamo ricavare da queste considerazioni è che non ei si deve stupire di queste cose: nella storia della Chiesa questi conflitti nascono. Le difficoltà di collaborazione tra preti, le difficoltà di collaborazione tra parroco e coadiutore sono di origine apostolica, cioè le troviamo già nel Nuovo Testamento.
È una realtà sulla quale dobbiamo, come Paolo, continuamente riflettere per purificarci e per trovarne la soluzione in un approfondimento delle cose e non in una semplice rassegnazione. Non stupirei, ma crescere nella comprensione di noi stessi e degli altri. Se nella vita di Paolo sono entrati, in qualche momento, dei personalismi, quanto più in noi. Bisogna sapersi conoscere, sapere comprendere come nei conflitti che viviamo non sempre è in gioco soltanto l’onore e la gloria di Dio, ma qualche volta anche la nostra personalità. Bisogna saper crescere nella misericordia che è l’atteggiamento con cui Dio considera la storia e le realtà umane.

Cosa si intende per trasfigurazione
Diamo alla meditazione il titolo di « trasfigurazione » perché il punto di riferimento è la Trasfigurazione di Cristo: «Mentre pregava, il suo volto cambiò di aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante» (Lc 9, 29). È interessante osservare che il verbo usato qui è lo stesso che Luca userà nel descrivere la luce nella quale Paolo entra nel momento dell’apparizione di Damasco: anche Paolo vive il riflesso del Cristo trasfigurato.
Per descrivere la stessa scena il Vangelo di Marco parla di trasformazione: «Si trasformò, si trasfigurò» (cf. Mc 9, 2 ss). Il verbo greco è: «metamorfòthe: si trasformò», tradotto « si trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime ». Questo verbo è il medesimo che Paolo usa nella lettera scritta ai Corinti per descrivere il processo di trasformazione che lui – e ogni apostolo e pastore dietro di lui ~ esperimentano, riflettendo la gloria di Cristo: «Noi tutti – è chiaro che esprime una sua esperienza che poi vuole condividere con noi – a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3, 18). È la descrizione di quanto stiamo considerando: Paolo investito della gloria del Signore a Damasco, si trasforma. Ma il verbo è al presente per indicare una azione di continua trasformazione, di gloria in gloria, per la forza dello Spirito di Dio. Si trasforma ad immagine di Gesù, acquista la luminosità di Cristo.
Non dimentichiamo che la festa e l’episodio della Trasfigurazione è ampiamente usato nella liturgia della Chiesa greca per indicare ciò che avviene nel cristiano attraverso l’integrazione progressiva che egli fa dei doni battesimali e, per noi, della grazia dell’Ordinazione.
Parlando di «trasfigurazione» di Paolo voglio riferirmi al crescendo di luminosità e di trasparenza che avviene in lui lungo il suo cammino pastorale e che si riflette in maniera inimitabile nelle grandi lettere.
Leggendole siamo affascinati dalla chiarezza e dallo splendore della sua anima e dopo duemila anni sentiamo che dietro alle parole scritte c’è una persona viva, ricca, palpitante e illuminante.
Il suo aspetto trasfigurato attraeva la gente e costituiva uno dei segreti della sua azione apostolica. Era il risultato del lungo cammino di prova, di sofferenza, di preghiere incessanti, di confidenza rinnovata.
Anche il pastore, come Paolo, è chiamato a diventare, attraverso l’esperienza, le sofferenze, le fatiche, i doni di Dio, luminoso e trasparente.
Nelle sue parole e nella sua azione la gente deve trovare quel sentimento di pace, di serenità, di confidenza, che è indescrivibile ma che si percepisce senza alcun ragionamento.
Ciascuno di noi ha avuto modo, per grazia di Dio, di conoscere preti che sono stati così nella loro vita: irradiavano ciò che Paolo lascia trasparire abbondantemente da tutto il suo modo di parlare e di esprimersi.
Vediamo di descriverlo analiticamente perché possa essere specchio ideale del pastore su cui confrontarci. – Quali sono le caratteristiche della luminosità di Paolo?
Possiamo ricavarle da tre atteggiamenti interiori tipici di questa trasfigurazione e da due più esteriori. – Come raggiungere e mantenere in noi qualcosa di simile a questa trasfigurazione, che è dono di Dio anche per noi?

Gli atteggiamenti interiori della trasfigurazione
a) Il primo atteggiamento, che troviamo in tutte le lettere, anche le più conflittuali, è una grande gioia interiore e pace: «Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2 Cor 7, 4). Paolo mette chiaramente insieme le sue moltissime tribolazioni con la gioia, anzi con una gioia sovrabbondante. Che non sia forzata o idealistica lo ricaviamo dalle stesse lettere: «Abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che la potenza straordinaria viene da Dio e non da noi» (2 Cor 4, 7). Paolo riconosce che questa gioia straordinaria viene da Dio: da sé non potrebbe averla. È tipica della trasfigurazione, non frutto di buon carattere, non dote naturale, non umana. «Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti ma non disperati; perseguitati ma non abbandonati; colpiti ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo»(2 Cor 4, 8-10). Non è una situazione di tranquillità; è una gioia vera che fa i conti con tutti i tipi di pesantezze, di difficoltà, di cose spiacevoli che gli avvengono; coi malintesi, coi malumori nei quali vive la sua giornata. Come la viviamo noi. Paolo era un po’ nevrastenico di carattere e perciò soggetto a depressioni e a momenti di sconforto. Egli sperimenta gradualmente nella sua vita che non c’è momento di sconforto in cui non appaia qualcosa di più forte dentro di lui.
Ancora, è una gioia che guarda intorno a sé, è per la sua comunità, non è privata; è gioia per ciò che succede intorno a lui, per le comunità che sta seguendo. « Siamo i collaboratori della vostra gioia» (2 Cor 1, 24). E scrivendo ai Filippesi definisce le comunità come « mia gioia e mia corona» (Fil 4, 1). Non illudiamoci che fosse una comunità ideale, perfetta: anzi dalla lettera sappiamo che Paolo deve scongiurarli, quasi in ginocchio, di non litigare, di non mordersi, di non dividersi: «Non fate nulla per spirito di rivalità, per vanagloria» (Fil 2, 3). Vuole dire che c’erano rivalità e vanagloria, che la comunità non era facile, che gli creava problemi e molestie. Eppure riesce a considerarla come la sua gioia perché gli è stata donata una visuale di fede che va aldilà della considerazione delle cose puramente pragmatica, abituale, di routine. È un vero dono soprannaturale, potenza dello Spirito che era in lui ormai in grado eminente.
b) Il secondo atteggiamento interiore conseguente al primo è la capacità di riconoscenza. Esorta i suoi a ringraziare con gioia il Padre (Coll, 12). È tipico dell’Apostolo unire la gioia al ringraziamento.
Tutte le lettere cominciano con una preghiera di ringraziamento, eccetto quella ai Galati perché è di rimprovero. Paolo sa ringraziare e le sue parole non sono un formulario vuoto ma esprimono ciò che sente. D’altra parte lo stesso Nuovo Testamento incomincia con una preghiera di ringraziamento: infatti, con ogni probabilità, lo scritto più antico del Nuovo Testamento, quello che ha preceduto anche la stesura definitiva dei Vangeli, è la prima lettera ai Tessalonicesi. Quindi, la prima parola del Nuovo Testamento è: «Grazia a voi e pace. Ringraziamo sempre Dio per tutti voi ».
All’opposto, non troviamo mai in Paolo la deplorazione sterile. C’è il rimprovero, non la rassegnata amarezza. Come dono di Dio, nella sua trasfigurazione apostolica ha la capacità di vedere sempre per prima cosa il bene. Cominciare ogni lettera col ringraziamento, vuol dire saper valutare innanzitutto il positivo che c’è nella comunità a cui scrive, anche se poi ci saranno cose gravissime, negative. All’inizio della prima lettera ai Corinti la comunità è lodata come piena di ogni dono, di ogni sapienza; poi vengono i rimproveri; ma non è un’incongruenza. Gli occhi della fede gli permettono di vedere che un briciolo di fede dei suoi poveri pagani convertiti è un dono talmente immenso da fargli lodare Dio senza fine.
Il pastore maturo ha la capacità di riconoscere il bene che c’è intorno e di esprimerlo con semplicità.
c) Il terzo atteggiamento è la lode.
In Paolo abbiamo quelle lodi meravigliose che continuano la tradizione giudaica delle benedizioni. Egli le sa ampliare per tutto quello che riguarda la vita della comunità, nel Cristo. Per esempio: «Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo» (Ef 1, 3). La preghiera di Paolo, così come la conosciamo nelle lettere, è prima di tutto di lode: diventa anche di intercessione ma spontaneamente la prima espressione che gli viene è di lode. Così può valorizzare i suoi momenti più oscuri: «Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio» (2 Cor 1, 3). Potremmo usare le sue frasi come specchio per domandarci se possiamo dirle in prima persona come espressione di ciò che c’è in noi di più profondo (o se invece sentiamo la fatica di dire queste cose).
La grazia da chiedere a Dio è che questi atteggiamenti tipici del pastore trasfigurato dal Cristo risorto, diventino nostra esperienza abituale. Il demonio ci tenta continuamente per farci ricadere nelle forme mondane della vita: la tristezza è caratteristica dell’uomo che vive nella chiusura delle prospettive. E la tristezza di fondo poi cerca l’evasione, il divertimento, tutto ciò che sembra rendere allegra la vita pur di non affrontare la tristezza.

Gli atteggiamenti esterni di Paolo trasfigurato nel Cristo
a) Il primo atteggiamento esterno è l’instancabile ripresa che ha davvero del prodigioso.
Fin dal primo giorno della sua conversione: predica a Damasco e deve fuggire; va a Gerusalemme, predica e lo fanno partire; a T arso rimane finché la provvidenza non lo richiama; quando lo richiama, dimenticati i risentimenti passati, riparte. Nel suo viaggio missionario praticamente ogni stazione è un ricominciare da capo; predica ad Antiochia di Pisidia, viene cacciato e va a Iconio; a Iconio minacciano un attentato contro di lui, tentano di lapidarlo e va a Listra. A Listra è sottoposto a una gragnuola di sassi. È interessante notare l’impassibilità con cui Luca descrive la scena: «Giunsero da Antiochia e da Iconio alcuni Giudei, i quali trassero dalla loro parte la folla; essi presero Paolo a sassate e quindi lo trascinarono fuori della città, credendolo morto. Allora gli si fecero attorno i discepoli ed egli, alzatosi, entrò in città. Il giorno dopo partì con Barnaba alla volta di Derbe. Dopo aver predicato il Vangelo in quella città e fatto un numero considerevole di discepoli, ritornarono a Listra, Iconio e Antiochia» (At 14, 19-21).
È così un po’ tutta la sua vita: da Atene esce umiliato, preso in giro dai filosofi, eppure va a Corinto e ricomincia, anche se ha l’animo pieno di timore.
Questa ripresa non è umana: un uomo dopo alcuni tentativi falliti, umanamente resta fiaccato. Noi non possediamo la sua instancabilità, nemmeno lui la possedeva: è un riflesso di quella che chiamerà «la carità ». «La carità non si stanca mai» (1 Cor 13, 7). È la carità di Dio: «La carità di Dio è stata riversata nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5). Il suo modo di agire è riversato dall’alto, è un dono, ed è quello che fa sì che la delusione non sia mai definitiva. «Siamo addirittura orgogliosi delle nostre sofferenze» (Rm 5, 3), «perché sappiamo che la sofferenza produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 3-5).
Se queste parole fossero dette da un neo-convertito ai primi inizi dell’entusiasmo, potremmo pensare che parli senza esperienza. Dette da un missionario che ha vissuto vent’anni di prove, acquistano un suono diverso e ci fanno profondamente riflettere. Nessuno sforzo umano può giungere a questo atteggiamento: è la carità di Dio diffusa nei nostri cuori per lo Spirito che ci è dato.
La trasfigurazione di Paolo è, ancora una volta, la forza del Risorto che entra nella sua debolezza e vive in lui.
b) Il secondo atteggiamento esterno è la libertà dello spirito. Sente di avere raggiunto una situazione in cui non agisce più per costrizione o per conformazione volontaristica a modelli esterni: agisce perché è ricco dentro. Può allora assumere atteggiamenti arditi che sarebbe temerario imitare. Vediamo questa libertà di spirito nella lettera ai Galati quando dice che umanamente sarebbe stato più prudente circoncidere Tito secondo le richieste dei giudeo-cristiani: «Ad essi però non cedemmo per riguardo neppure un istante perché la verità del V angelo continuasse a rimanere salda tra di voi» (Gal 2, 5). Paolo è libero da ogni giudizio o opinione corrente: è molto difficile perseverare isolati di fronte ad una mentalità comune, ad una cultura avversa. Lo fa con estrema libertà, senza vittimismi, perché la ricchezza che sente dentro non è paragonabile in peso all’opinione altrui. Questa sua forza gli permette, a un certo punto, di opporsi addirittura a Cefa. È un caso-limite di libertà: «(Ad Antiochia) anche gli altri Giudei imitarono Pietro nella simulazione, al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia» (Gal 2, 13). Quella che chiama ipocrisia evidentemente per Barnaba era il desiderio di mediare tra le parti. Paolo non accetta e di qui la sua resistenza che chiarisce la situazione.
Una libertà che non è arbitrio o presunzione ma senso di assoluta e totale appartenenza come schiavo, come servo di Cristo. Lui stesso mette talora in parallelo l’essere servo di Cristo con l’essere libero da tutte le altre opinioni umane.
In questa luce la libertà diventa una forma rigorosissima di servizio: «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Ecco, io Paolo vi dico: Se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà a nulla. E dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato a osservare tutta quanta la legge. Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia. Noi infatti pei virtù dello Spirito attendiamo dalla fede la giustificazione che speriamo. Poiché in Cristo Gesù non è la circoncisione, ma la fede che opera per mezzo della carità. Correvate così bene; chi vi ha tagliato la strada che non obbedite più alla verità? Questa persuasione non viene sicuramente da colui che vi chiama! Un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta. Io sono fiducioso per voi nel Signore che non penserete diversamente; ma chi vi turba, subirà la sua condanna, chiunque egli sia. Quanto a me, fratelli, se io predico ancora la circoncisione, perché sono tuttora perseguitato? È dunque annullato lo scandalo della croce? Dovrebbero farsi mutilare coloro che vi turbano. Voi fratelli, siete stati chiamati a libertà… Purché questa libertà non divenga pretesto» – e noi sappiamo che sotto la parola libertà c’è molto spesso un pretesto – « per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri» (Gal 5, 1-13). È uno dei pochi passi in cui essere a servizio – in greco essere schiavi – si applica gli uni agli altri. L’assolutezza del servizio di Cristo rende l’uomo libero al punto di non temere di farsi schiavo del fratello. Questa libertà quindi è fonte di servizio umilissimo ed è la radice di quel «con tutta umiltà»che è la caratteristica dell’apostolato di Paolo.
È difficile esprimere queste cose a parole perché si rimpiccioliscono, si banalizzano: il tentativo serve da invito a riprendere i testi di Paolo e a lasciare che agiscano su di noi come parola ispirata, in tutta la loro forza.

La trasfigurazione di Paolo
è modello della trasfigurazione del pastore
Ci proponiamo di riflettere quale sia la metodologia per raggiungere e mantenere questa condizione di trasfigurazione.
Paolo incomincia a diventare un pastore secondo il cuore di Cristo dopo quindici anni di fatiche e sofferenze. Lo diventa per dono di Dio, non per sua conquista.
Riconoscere che Dio nella sua misericordia ci trasfigura è la metodologia fondamentale.
- Il primo modo per ricevere il dono divino è la contemplazione del cuore di Cristo crocifisso, che effonde lo Spirito. Contemplazione che potremmo chiamare eucaristica: prendere sul serio la duplice mensa della Parola di Dio e dell’Eucaristia, lasciarsi nutrire dalla Parola di Dio come forza che chiarisce il significato storico-salvifico del cibo che è Cristo morto e risorto. Questo cibo diventa nostro nutrimento e ci inserisce nella storia di salvezza di cui la Parola di Dio ci comunica la realtà, l’ampiezza, la direzione.
Come per Paolo, anche per noi questa contemplazione è la via della Trasfigurazione. L’Apostolo ha vissuto la preghiera incessante e prolungata che è la contemplazione del Cristo morto e risorto.
- Il dono del cuore trasfigurato nella gioia, nella lode, nella riconoscenza, nella perseveranza, nella libertà, viene per intercessione di Maria.
Maria, come mistero di Dio nella storia della Chiesa e della salvezza, è colei che sostiene e che alimenta in noi la luminosità della fede. Una esperienza cristiana matura sa scoprire il posto .della Vergine come modello e intercessione per raggiungere l’umile dipendenza dalla Parola di Dio che ci trasfigura, assicurando la nostra continua apertura alla forza rinnovatrice dello Spirito. Maria ci richiama a vivere autenticamente quel livello di contemplazione e di ascolto che è il livello che essa occupa nella Chiesa.
- Il dono della trasfigurazione pastorale viene anche dalla condivisione} dalla capacità di mettere la mano nel buio sulla spalla di colui che vede la luce. È questa la nostra comunione ecclesiale e presbiteriale: tenere la mano sulla spalla di chi ha visto la lucei a vicenda.
Si innesta qui il tema della direzione spirituale, del colloquio penitenziale che sono molto importanti perché significano il tenerci la mano gli uni gli altri, la maniera pratica di aprirci e conservare in noi i doni di trasfigurazione che ammiriamo in Paolo.
- Il dono della trasfigurazione ha bisogno della vigilanza evangelica. «Vegliate e pregate per non cadere in tentazione»; «lo spirito è pronto ma la carne è debole»; «vegliate e resistete saldi nella fede». Questo invito ripetuto è l’espressione esortativa della intuizione fondamentale che l’uomo è un essere storico, che si stanca, che di natura sua non è capace di perseveranza.
Ogni cristiano, ogni vescovo, ogni prete deve convincersi che nessuno è assicurato nella perseveranza e che il maggior rischio è in coloro che pensano di aver raggiunto un grado di stabilità tale che le precauzioni non sono più necessarie. La vigilanza neotestamentaria ci dice che fino all’ora della morte il demonio cerca di togliere in noi la gioia, la fede, la lode. Siamo sempre attaccati su questi atteggiamenti fondamentali.
Occorre vigilare sapendo che non c’è tregua in questa lotta e che rapidamente possiamo ritrovarci tristi, stanchi, nervosi, irritati, oppure dissipati in gioie esteriori che infiacchiscono la fede. Paolo ritorna più volte sul tema della vigilanza e della insistenza nella preghiera.
Chiediamo per intercessione di Maria, di poter vigilare con lei, con Gesù e con Paolo perché si compia in noi la trasfigurazione apostolica che assicura una vita pastorale in cui – malgrado le difficoltà, le sofferenze, le delusioni – il fondo di noi è afferrato da Cristo e saldamente posseduto dalla mano di Dio.

Our Lady of the Bread? (interesting to read)

  Our Lady of the Bread? (interesting to read) dans immagini sacre IconMadonnaoftheBreadRussian

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Publié dans:immagini sacre |on 15 mai, 2013 |Pas de commentaires »

VITTORIO GASSMAN : PREGHIERA A DIO

http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/vittorio_gassman_preghiera.htm

VITTORIO GASSMAN    

PREGHIERA A DIO

Eri nello spazio impensato
perché scontato.
Eri e Sei – forse ora ho capito – fra le parole
che ho tanto usato e osato;
sempre ci sei stato, eri lì,
ci sei ancora e voglio decifrarti,
stanarti usando sì le parole ma in modo
diverso e in diverso modo la follia,
il mestiere con cui la parola
mi diventa grafia, mania, modo,
vuoto suono od effetto.
Solo quello so fare, solo lì
c’è speranza che Tu adesso
compaia, perfetto,
se vuoi in rima, rimando con te stesso,
in un metro o in un altro.
Tu puoi innalzare al cielo
qualunque prosodia;
purché Tu appaia, le fruste parole si fanno
Parola, e col mio io
sepolto finalmente parlerai,
che mai è stato quel che era forse destinato
ad essere, un io mancato, strangolato.
Parlami a perdifiato.
Ti cedo ogni suono o silenzio; e già ti vedo
emergere da quella pila di parole
inutilmente sparse nel cassetto,
cancellarne rime e rumore,
facendone linguaggio perfetto.
Cancella anche me,
cambiami, conducimi, ritraducimi,
parla Tu per sempre Signore.

* Inviata ad « Avvenire » (01.07.10) da Nino De Chirico, a 10 anni dalla sua morte.

LETTERA AGLI EFESINI: IN CONTEMPLAZIONE DEL MISTERO DI CRISTO UNICO SIGNORE.

http://www.dossetti.com/attivita/meditazioni/100601ilcombattimento.html

LETTERA AGLI EFESINI (I, sono 7 studi) :

 IN CONTEMPLAZIONE DEL MISTERO DI CRISTO UNICO SIGNORE.

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE

MEDITAZIONE DI PINO STANCARI –

1 giugno 2010 – Settimo incontro del ciclo 2009-2010

Si è chiuso il ciclo 2009-2010  è dedicato alla lettura della Lettera agli Efesini, a cui è strettamente connessa la Lettera ai Colossesi.
L’esperienza della carcerazione diviene per Paolo occasione propizia per volgere Il suo ministero apostolico in una prospettiva di valore propriamente contemplativo. La rivelazione Del “mistero” di Dio gli insegna a ricapitolare tutto e tutti nell’appartenenza alla signoria di Cristo.
Esprimendo la gioia incontenibile che impregna tutta la sua fatica pastorale, Paolo è in grado di cogliere i rischi di ricaduta nelle culture del paganesimo – fatte di devozioni, di comportamenti, di obbedienze ideologiche – a cui vanno incontro le Chiese, nel corso della loro missione, e i cristiani, nel discernimento della loro posizione nel mondo.
Gli interventi di Paolo spalancano dinanzi a noi gli spazi immensi della profezia evangelica sul mondo.
I testi delle conversazioni – ricavati da registrazione su nastro – sono disponibili anche sul sito Internet dell’Associazione “Maurizio Polverari” all’indirizzo: www.indes.info
Leggiamo questa sera gli ultimi versetti della Lettera agli Efesini, dal v. 10 del cap. 6. Siamo alle prese con la seconda parte della Lettera che ha un’intonazione di carattere esortativo, ma il tono dominante rimane segnato da quell’atteggiamento contemplativo che abbiamo riscontrato, attraverso le parole di Paolo, nell’animo di chi, come lui, si trova in carcere. Il mistero di Cristo è il mistero di Dio che si è rivelato a noi in modo tale da dimostrare come Dio ha realizzato la sua intenzione d’amore, la sua volontà di salvezza. La signoria di Cristo è il tema dominante di tutta la lettera, in un contesto polemico in rapporto a situazioni di carattere pastorale che danno spazio a cedimenti nei confronti di una cultura pagana che rimane dominante anche nel linguaggio e nell’atteggiamento dell’animo: altre signorie, altri riferimenti che conservano il loro valore sacro, che valgono come istanze idolatriche. In questo contesto i cristiani provenienti dal paganesimo restano condizionati, messi alle strette, con il rischio di rimanere impantanati in tanti modi. Paolo interviene con uno scritto –  la lettera che abbiamo letto – che è tutto positivo, propositivo, testimonianza di questo animo contemplativo che rimane affascinato dinanzi al mistero, così come si è rivelato; il suo richiamo e i suoi interventi urgenti, pressanti, risoluti, a suo modo intransigenti, sono sempre segnati da una nota di dolcezza, che è propria dell’animo contemplativo, che, anche nei momenti dell’attrito più aspro e tagliente, è in grado di proporre elementi che annunciano un disegno di riconciliazione, un disegno sempre più grande, una rivelazione sempre più larga, uno scavo sempre più profondo nel cuore umano in corrispondenza allo spalancamento del mistero di Dio. Laddove Paolo pone delle alternative in maniera molto radicale non si tratta mai di escludere per cancellare, ma si tratta sempre di ricomporre, riconciliare in una prospettiva che si viene allargando oltre ogni misura, logica, discorsiva, devozionale: la stessa teologia di Paolo esplode man mano che ci pone dinanzi all’Evangelo nella sua inesauribile fecondità e smisurata potenza rivelativa.
Abbiamo letto fino al cap. 6, v. 9. Parlavamo la volta scorsa di come sono nuove le relazioni interpersonali, l’ambiente sociale; relazioni che sono proprio elementi strutturali nella nostra vocazione alla vita. Tutto è nuovo dal momento che noi siamo inseriti nel mistero di Cristo. E, d’altra parte, è proprio la vita che è ristrutturata in tutta la sua dinamica e, dunque, tutte le relazioni sono ristrutturate per quanto riguarda la loro qualità da recuperare in rapporto a quella che è stata l’originaria vocazione alla vita secondo l’intenzione di Dio. Tutto in Cristo si è rinnovato. Si tratta di rivestirsi di Cristo, di assumere pienamente quelle nuove configurazioni strutturali che danno alla nostra vita, nel tempo e nello spazio, una fisionomia che porta con sé la potenza inesauribile di quel mistero di cui non siamo ormai solo spettatori, ma nel quale ci troviamo immersi, risucchiati, sprofondati, coinvolti: il mistero di Dio a noi rivelato in modo tale che tutto del mondo in quel mistero è “tuffato”. E’ la signoria di Cristo; non è una presa di potere dall’esterno, ma è quella novità che ci visita in tutte le dimensioni della nostra condizione creaturale e ci sigilla nella comunione con la vita stessa di Dio.

Rivestiti dell’armatura di Dio
Il testo che leggiamo, gli ultimi versetti della Lettera, si articola in due momenti, due esortazioni: dal v. 10 al v. 17 e dal v. 18 a seguire (fino al v. 20 perché poi ci sono versetti che contengono le notizie conclusive e il congedo). La prima esortazione, dal v. 10 al v. 17, ha come suo tema determinante il combattimento. Poco fa vi parlavo della dolcezza che è propria dell’animo contemplativo e paradossalmente adesso Paolo si rivolge a noi per esortarci al combattimento: tutto dimostrerebbe la contraddizione con l’affermazione di poco fa perché  il combattimento è aspro, urgente, pressante, violento, spietato.
Nei versetti seguenti l’esortazione è rivolta ai cristiani che, attraverso l’esperienza del combattimento, imparano a pregare.
“Per il resto, attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza”. Siamo ingaggiati in un’avventura che comporta impegno serio, rigoroso, esigentissimo: c’è di mezzo un combattimento, ma Paolo ci parla di un combattimento che ci coinvolge in quanto siamo nel Signore, e questa sottolineatura non è affatto casuale. E’ un combattimento che coincide con quel radicamento nella comunione con il mistero del Dio vivente che si è rivelato a noi di cui Paolo ci ha parlato in lungo e in largo nel corso della Lettera; ma, adesso, quella nostra immersione, quel nostro “tuffo”, quello sprofondamento nella comunione con il mistero del Dio vivente, là dove noi, con tutte le nostre relazioni vitali, i nostri impegni, con tutto quel che ci riguarda in quanto creature nel tempo e nello spazio, apparteniamo alla signoria di Cristo, tutto questo assume, in queste battute finali della Lettera, una fisionomia singolarmente combattiva. E’ vero, ma occorre precisare meglio. “Rivestitevi dell’armatura di Dio”. Paolo parla di una “panoplia”, un’armatura. Vedete che non è un combattimento che può essere definito in sé e per sé: è un combattimento che ci riguarda in quanto apparteniamo al Signore e in quanto noi siamo rivestiti dell’armatura di Dio. Il combattimento per il quale siamo ingaggiati è il combattimento nel quale Dio stesso ha già dimostrato le sue capacità di guerriero e ha riportato vittoria. Si parla a più riprese nell’Antico Testamento di questa intraprendenza di Dio in quanto guerriero che affronta il combattimento e riporta vittoria. Le esemplificazioni sarebbero innumerevoli; un caso classico, forse più di ogni altro, in Esodo, cap. 15: il Signore che affronta il faraone, che scende in campo, che sgomina in battaglia l’avversario, “il Signore è un guerriero, cavaliere potente, ha sgominato l’esercito del faraone”. E’ quello che cantano quanti hanno attraversato il mare, il cantico che è sempre presente nella liturgia di Pasqua, nella veglia pasquale: “Voglio cantare in onore del Signore:
perché ha mirabilmente trionfato,
ha gettato in mare
cavallo e cavaliere”. E così in numerosi altri testi che conferiscono al Signore la fisionomia del combattente e del vittorioso in quanto sa come intervenire con le armi opportune e sgominare l’avversario. Quello che a noi interessa qui è esattamente questo riferimento all’armatura di Dio. Leggevamo a suo tempo la raccomandazione che Paolo rivolge ai cristiani “Rivestitevi di Cristo”: è un rivestimento battesimale; Paolo ribadisce ancora una volta il valore di quella immersione battesimale che ci coinvolge nella radicale intimità della comunione di vita col Dio vivente, così come si è rivelato a noi col suo Figlio, Gesù Cristo e con la potenza dello Spirito Santo. Questo rivestimento battesimale (“Quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo”, Lettera ai Galati) qui assume la forma di una predisposizione al combattimento. E insiste Paolo: “per poter resistere alle insidie del diavolo”. Resistere si può tradurre “per stare in piedi”: è un conflitto nel quale si riporta vittoria restando in piedi in rapporto all’avversario che viene individuato nel diavolo, il divisore. Già si parlava di questo diavolo nel cap. 4, v. 27; l’avversario che è insidioso, petulante, micidiale, invadente nelle sue insidie, tanto è vero che in greco Paolo usa l’espressione “gli interventi metodici del diavolo”; il diavolo ha una sua metodologia. L’avversario non è estemporaneo, occasionale, un interlocutore che ogni tanto si sveglia, scatena la sua aggressione e poi, latente, si assopisce: è un’avversità metodologica. Per fronteggiare l’avversario che è sistematicamente incalzante nella sua aggressività bisogna stare in piedi. E Paolo insiste: “La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne (non è un combattimento comparabile ai criteri correnti nei quali si intendono conflitti, aggressioni, scontri, contrapposizioni, schieramenti che urtano uno contro l’altro), ma (e qui elenca quattro tipologie che servono a raffigurare in maniera più precisa quell’avversario che è stato citato in maniera generica, il diavolo) contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti”. Quattro espressioni che proviamo a passare in rassegna in modo da renderci meglio conto. Non è la prima volta che Paolo usa questo linguaggio; già nel capitolo primo leggevamo quel suo incoraggiamento a restare radicati nell’appartenenza alla signoria di Cristo e non essere preda di quelle situazioni ambigue che rischiano sempre di compromettere l’autenticità della vita cristiana; e qui ci parla del diavolo sotto queste quattro forme descrittive. E’ sempre il medesimo avversario, ma assume una fisionomia cangiante a seconda dei casi e val la pena di notare che dove, nel v. 12, leggiamo “la battaglia”, lui usa un termine greco che indica una rissa, un conflitto corpo a corpo, una colluttazione, un tipo di conflitto che non possiamo rinviare alle grandi scenografie degli schieramenti tra crociati e infedeli, ma è una colluttazione continua, che ci riguarda in ogni ambiente, in ogni luogo, che ci assilla nella dimensione visibile e invisibile del nostro vissuto, che incrocia i nostri passi anche nelle strade più nascoste e solitarie che stiamo percorrendo. Paolo dice: “il nostro avversario con sistematica puntualità, con precisione micidiale continua a tallonarci, a stringerci ai fianchi, a batterci proprio sul viso, dovunque ci volgiamo e comunque pensiamo di poterci districare o di avere raggiunto una posizione di sicurezza”.
I “Principati” sono qualcosa che potremmo definire come i principi di riferimento; per fare un esempio banale, tanto per intenderci, la salute, la malattia o la carriera. Principi di riferimento in base ai quali si interpreta il senso della vita e principi di riferimento in base ai quali la vita si trova intrappolata dentro al meccanismo insidioso che il diavolo a modo suo gestisce: lo stato sociale. Il benessere, il successo sono principi di riferimento che assumono il volto di quell’avversario che ci stringe, ci risucchia, ci svuota, ci imprigiona, ci intrappola, si impossessa di noi. E allora non è più la signoria di Cristo il riferimento determinante, vitale per noi. Le “potestà” sono strutture di dominio, come potrebbero essere, per fare esempi un po’ banali, un diploma scolastico, un diploma universitario o professionale, la cittadinanza, vincoli di parentela, la lingua, la casa in cui abitiamo, il vestito che indossiamo. Quando parla di “potestà” parla di quello che avviene continuamente nella rissa domestica, nella rissa stradale, nella rissa sociale, di quello che avviene quotidianamente nella nostra strada, la strada della vita. Il nostro nemico non è “carne e sangue” ma principati, potestà e “dominatori di questo mondo di tenebre”: io tradurrei “i registi delle ombre o il gioco delle ombre”, con la regia che è competenza di chi si abitua a questo certo sistema e al momento opportuno ne approfitta. Pensate alle mode, giochi d’ombra, quel certo modo di illuminare e corrispondentemente oscurare la realtà in modo tale che appaia e scompaia quello che corrisponde all’intenzione di un regista che gioca con le ombre. La cosiddetta opinione pubblica è un gioco dove la scena si illumina o si oscura a seconda di come si muovono i fari, i riflettori e a seconda di come si provocano certi riflessi, certi giochi, certe allusioni: giochi d’ombra. Tanti sistemi che interferiscono con le nostre relazioni sociali o con l’organizzazione della vita sociale e anche della vita religiosa; interferiscono nel senso che gettano ombre nel discernimento a cui le coscienze sono chiamate. La questione si fa sempre più delicata: come le coscienze sono illuminate od oscurate, sono soccorse nel discernimento o disturbate, danneggiate, offese con argomentazioni che possono essere più o meno brillanti, geniali, persuasive, rigorose, intransigenti in alcuni casi o in altri casi sdolcinature abbastanza melense: giochi d’ombra. E le nostre relazioni sociali sono intrappolate dentro meccanismi che ci ripropongono costantemente l’urgenza della rissa, della colluttazione. E insiste, quarta tipologia: “gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti”; io tradurrei “la spiritualità della cattiveria”, che è il massimo; quelle forze spirituali – chiamiamole pure così – che in realtà si appoggiano sulla cattiveria, solleticano la cattiveria: una spiritualità che promuove la cattiveria. Spiritualità in senso ampio, ma, per fare un altro esempio, la “sicurezza” che diventa un valore assoluto, sacro, divino. E sicurezza allora cosa significa? Respingimenti, fili elettrici sul balcone per mandare all’altro mondo qualche gatto. Oppure il diritto alla vacanza. Cosa vuol dire? Lo spirito si deve ricreare. Quale spirito? L’ambiguità giunge a compromettere, inquinare, deturpare, abbruttire anche i dati che di per sé potrebbero essere considerati come espressioni sane e estremamente positive della nostra condizione umana. Pensate all’eredità, un istituto che ha un suo valore pressoché sacro nel nostro modo di appartenere alla discendenza umana, alla storia di una famiglia, e a come un’eredità diventa l’incentivo più dirompente che esaspera il crogiolo delle cattiverie. Come è possibile? Lì c’è l’avversario. Tutta la cosiddetta pastorale delle nostre chiese è interpellata: tante volte avviene che di fatto la nostra predicazione promuove una spiritualità della cattiveria. Notate bene che mentre Paolo dice queste cose non vuole farci lo sgambetto e dire “siamo veramente ripiombati in una situazione infernale”, ma dice “c’è l’armatura di Dio”, non perché dobbiamo diventare crociati contro gli infedeli, ma perché nella rissa che ci spinge, ci stritola, maciulla quotidianamente noi siamo “rivestiti”, non siamo abbandonati a noi stessi, siamo immersi nella comunione con il mistero; altrimenti saremmo già risucchiati in un inferno di cui eravamo prigionieri e da cui siamo stati liberati. Ci saremmo ricaduti dentro e non potremmo fare altro che ricaderci dentro, ma da quell’inferno siamo stati tirati fuori. Paolo ci vuole aiutare a renderci conto di come è vero che ci ha tirati fuori, che veramente noi veniamo dall’inferno. “Prendete perciò l’armatura di Dio (v. 13), perché possiate resistere nel giorno malvagio”. I giorni sono difficili, Salmo 49, v. 6, giorni aspri, duri, ma senza stare adesso ad imprecare perché i tempi sono cattivi perché non è che lo sono indipendentemente da noi, sono i nostri tempi. Ma in questi tempi noi siamo dotati dell’armatura di Dio per resistere, “e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove” che comunque non ci saranno risparmiate. C’è l’armatura di Dio per noi; siamo veramente rivestiti, tirati fuori, consolidati, confermati, radicati nell’appartenenza alla signoria di Cristo e non possiamo dimenticarcene e scendere a compromessi. “State dunque ben fermi” (per la terza volta Paolo usa quello stesso verbo). E adesso ci dà una sommaria descrizione di questa “panoplia”, di questa armatura. Rimarca più volte la fierezza della resistenza nell’atto di restare in piedi e poi, sommariamente, cita i pezzi dell’armatura. Anche qui abbiamo a che fare con diverse citazioni dell’Antico Testamento, quelle scritte in corsivo, (ce n’è una in particolare su cui poi tornerò, nel libro di Isaia). “Cinti i fianchi con la verità”: il primo pezzo dell’armatura è la cintura; Paolo mette la cintura in rapporto alla verità, la verità non in senso concettuale ma nel senso della solidità, della stabilità. Notate bene che questa solidità è un pezzo dell’armatura di Dio ed è esattamente quell’armatura che adesso noi rivestiamo. Noi siamo in grado di affrontare il combattimento ed è un combattimento in cui già siamo vincitori perché siamo rivestiti: una coerenza, una fedeltà, una stabilità, una pazienza nella posizione che ci è stata conferita, quella posizione che ci ha, per l’appunto, collocati nella comunione con il mistero a noi rivelato.
Il secondo pezzo dell’armatura è la “corazza della giustizia”: la corazza è il pettorale ed è messo in rapporto alla giustizia. Il pettorale serve per sostenere l’impatto. La giustizia, nel linguaggio biblico, è la capacità di sostenere il peso altrui e qui il pettorale è esattamente, nella nostra vita cristiana, la capacità di sopportare l’urto con il peso altrui e di sopportare il peso altrui. Ancora una volta non c’è da pensare a chissà quale avanzata strepitosa, ma là dove si è radicati in una posizione di paziente fedeltà, ci si trova abilitati a sopportare il peso delle situazioni. Terzo pezzo: “e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace”; questa è la citazione di un famoso poema nel libro di Isaia, cap. 52: “Come sono belli sui monti

i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace,
messaggero di bene che annunzia la salvezza,
che dice a Sion: «Regna il tuo Dio»”.

Le calzature sono considerate non tanto in se stesse, ma perché servono a rendere agile il movimento dei piedi anzi a favorire la corsa della evangelizzazione. Il terzo pezzo dell’armatura in rapporto alla continuità, coerenza, coraggio nella trasmissione dell’evangelo, accolto e proclamato: la corsa, dove ancora una volta tutto si volge nel senso di un consumarsi della nostra vita al servizio dell’evangelo in una positività assoluta, dove non si tratta di eliminare l’avversario, si tratta di evangelizzare.
Quarto pezzo: “Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno”. Lo scudo, uno strumento difensivo, che viene messo in rapporto alla fede come esercizio di libertà, è in grado di spegnere tutti i dardi infuocati del maligno. Lo scudo sta nella fede e sta nell’esercizio della libertà che esorcizza tutte le asprezze anche le più aggressive, incisive, trafiggenti con cui l’avversario riesce a scatenarsi. Quinto elemento: “prendete anche l’elmo della salvezza”. L’elmo serve a coprire il capo che è la componente più preziosa del corpo umano; quindi l’elmo ci rimanda a ciò che è veramente il valore per eccellenza di tutto questo combattimento: l’elmo della salvezza. Questa colluttazione continua nella quale siamo impegnati non perde mai di vista che il valore per eccellenza, il valore supremo, quello decisivo a cui bisogna rivolgersi sta in quell’opera di salvezza che riguarda, nell’intenzione di Dio, la storia umana. Sesto pezzo: “la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio”. La spada, come altre volte leggiamo nell’Antico Testamento, è la parola di Dio, ascoltata, consegnata, trasmessa, testimoniata; e la Parola è inseparabile dal soffio dello Spirito, è la Parola nel soffio dello Spirito, è la Parola non soltanto proclamata come rumore dalla bocca, ma sostenuta, interpretata, motivata, riempita di significato dal soffio dello Spirito: questa è la spada. Qui conviene, tra tutti i testi dell’Antico Testamento, ricordarne uno che leggiamo nel libro di Isaia, cap.11: uno dei grandi oracoli messianici. “Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse,

un virgulto germoglierà dalle sue radici.
Su di lui si poserà lo spirito del Signore, (è uno degli oracoli dell’Emmanuele, il Messia: è in lui che lo Spirito sarà deposto in tutta la sua potenza carismatica)
spirito di sapienza e di intelligenza,
spirito di consiglio e di fortezza,
spirito di conoscenza e di timore del Signore”.

 E’ l’Emmanuele, questa figura messianica che, impregnata di tutte le qualità carismatiche, “giudicherà con giustizia i miseri

e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese.
La sua parola sarà una verga che percuoterà il violento;
con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio.
Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia,
cintura dei suoi fianchi la fedeltà”.

Paolo sta citando Isaia. Rivestire quell’armatura fa veramente tutt’uno con quello che Paolo ci diceva precedentemente: rivestirsi di Cristo, nella comunione con il Figlio, morto e risorto; il Figlio, protagonista dell’impresa redentiva, il Figlio che ha portato a compimento l’opera della salvezza.

Affidati allo Spirito nella preghiera
Questa colluttazione quotidiana ci riguarda, e in questa colluttazione quotidiana siamo già testimoni di quella vittoria che è stata realizzata perché la misericordia di Dio si è riversata su di noi; quella vittoria che adesso in noi trova il riscontro della nostra risposta, della nostra benedizione, della nostra offerta, di quella offerta che diventa (guarda caso, qui dal v. 18 a seguire) la nostra preghiera. Preghiera in un senso pieno, non solo nel senso di qualche formula recitata, di cui pure c’è bisogno, ma nel senso del nostro costante, intenso, affettuoso, puntuale affidamento allo Spirito, quel soffio che era stato segnalato nel v. 17, in rapporto alla Parola, la spada. “Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito”. Vedete come siamo in continuità. E questa esortazione alla preghiera non è un’esortazione che si aggiunge alla precedente ma un’esortazione che prolunga la precedente. Siamo esortati al combattimento, siamo esortati alla preghiera: è il combattimento che si sviluppa, per una sua intrinseca necessità, nella preghiera, ma la preghiera in quanto è esattamente la ricapitolazione e la completezza del nostro combattimento, il nostro affidamento allo Spirito. Nel soffio noi, ormai, siamo in comunione con la signoria di Cristo che ha vinto; nel soffio, nell’affidamento, là dove siamo spossessati, espropriati, sradicati, svestiti per essere rivestiti. Allora la preghiera non si aggiunge, è la ricapitolazione completa, matura, esauriente di quel combattimento, di quella rissa. “Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche (non sta a precisare quale preghiera, se di lode, di supplica, di intercessione) nello Spirito”, questo è il punto. E’ come dire in comunione con l’Emmanuele: su di lui lo Spirito è stato effuso, Spirito di sapienza, di consiglio, di conoscenza, ecc. Si tratta di vivere nel soffio.
Siamo alle ultime battute della Lettera e Paolo ci investe non solo con la sua parola ma col suo soffio; non per nulla ha appena accennato a quella parola di Dio che noi ascoltiamo e testimoniamo in quanto siamo attraversati dal soffio dello Spirito. “Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi (notate come qui, insieme a questo affidamento al soffio dello Spirito, che è espressione matura per eccellenza nella vita cristiana rivestita dell’armatura di Dio, Paolo ci tiene a sottolineare questa larghezza dell’orizzonte nel quale proprio la preghiera ci introduce; la preghiera che man mano viene maturando, si viene esplicitando, diventa la nostra stessa interiore aspirazione al soffio, il nostro modo di essere docili e disponibili all’attraversamento di quel soffio che è lo Spirito; ebbene, la preghiera ci pone sulla scena del mondo e la prospettiva di una intercessione universale, dove imparare a vivere nella rissa significa, paradossalmente, non programmare l’eliminazione di qualcuno, ma significa imparare a respirare al ritmo di quel soffio di Dio che è effuso nell’universo), e anche per me, perché quando apro la bocca mi sia data una parola franca, per far conoscere il mistero del vangelo, del quale sono ambasciatore in catene, e io possa annunziarlo con franchezza come è mio dovere”. Paolo qui parla ancora una volta di se stesso e della sua condizione di carcerato. E parla di sé presentandosi a noi a bocca aperta perchè attraverso questa bocca aperta circoli la parola di Dio; che questa bocca aperta sia adeguata all’Evangelo, alla evangelizzazione. E questo avviene quando la voce è modulata dal soffio, quando la voce è gestita, strutturata, educata, sostenuta, moderata, abitata dal soffio. E Paolo dice: “pregate per me” perché tra voi e me circola il soffio dello Spirito di Dio. E per questa circolazione non ci sono impedimenti, limiti di spazio, limiti di tempo (tanto è vero che noi leggiamo questa lettera duemila anni dopo); la stessa precisione del linguaggio diventa secondaria in questo caso (niente affatto inutile, tanto è vero che noi facciamo una bella fatica per cercare di precisare anche i contenuti linguistici) perché quel che conta è questa circolazione del soffio. La nostra vita, rivestiti dall’armatura di Dio, ci proietta sulla scena del mondo come depositari di una Parola che raggiunge ogni interlocutore nel suo vissuto, nella pesantezza del suo dramma, nell’intimo del cuore; lo raggiunge in quanto è il soffio che circola in noi, quello stesso soffio che, nella sua pienezza, è stato effuso sull’Emmanuele, di cui è impregnato Cristo. E noi siamo crismati del suo unguento, profumati del suo profumo, attraversati dal soffio di cui Lui vive nella sua vittoria, ormai glorioso e definitivo. “Anche se io sono in catene – lo dice espressamente – sono un ambasciatore, un evangelizzatore; evangelizzo in catene”. “Pregate per me perché io possa evangelizzare con franchezza, come è mio dovere”: sta in piedi, rivestito dell’armatura di Dio.

Saluto finale
“Desidero che voi sappiate come sto e ciò che faccio; di tutto vi informerà Tìchico (è il latore della lettera destinata a circolare fra le chiese), fratello carissimo e fedele ministro nel Signore. Ve lo mando proprio allo scopo di farvi conoscere mie notizie e per confortare i vostri cuori”. Notate bene come Paolo ha appena accennato alla sua condizione di carcerato: “in questo mio carcere – probabilmente a Cesarea – sono evangelizzatore. Tichico è inviato a voi come ambasciatore”. Là dove lo Spirito di Dio ha impregnato l’Emmanuele e noi apparteniamo alla Signoria di Cristo, di Lui che è l’Unto, il profumato, là dove noi siamo alle prese con la lotta quotidiana (che per Paolo vuol dire trovarsi in un carcere con un procedimento giudiziario a suo carico), tra di noi la comunicazione è libera, è aperta all’accoglienza più serena e costruttiva.
“Pace ai fratelli, e carità e fede da parte di Dio Padre e del Signore Gesù Cristo. La grazia sia con tutti quelli che amano il Signore nostro Gesù Cristo, con amore incorruttibile”. Tra me e voi la signoria di Cristo, questa comunione indissolubile, incorruttibile (dice Paolo); non c’è incidente, avversità, caduta o smarrimento, debolezza che possa rimuovere o addirittura escludere o cancellare quella novità per cui tra me e voi circola l’unico soffio del Dio vivente in virtù del quale siamo in grado di accoglierci vicendevolmente e affidarci gli uni agli altri perché apparteniamo alla signoria di Cristo.

Publié dans:Lettera agli Efesini |on 15 mai, 2013 |Pas de commentaires »

Jacopo-Torriti, the-coronation-of-mary-st-maria-maggiore-roma-italy-1294-mosaic

 Jacopo-Torriti, the-coronation-of-mary-st-maria-maggiore-roma-italy-1294-mosaic dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 14 mai, 2013 |Pas de commentaires »

AVVICINARSI AL CIELO: « L’ASCENSIONE DI GESÙ » DIPINTA DA GIOTTO NELLA CAPPELLA DEGLI SCROVEGNI A PADOVA

http://www.zenit.org/it/articles/avvicinarsi-al-cielo

AVVICINARSI AL CIELO:

AVVICINARSI AL CIELO

« L’ASCENSIONE DI GESÙ » DIPINTA DA GIOTTO NELLA CAPPELLA DEGLI SCROVEGNI A PADOVA

(l’ho messa

Roma, 06 Maggio 2013 (Zenit.org) Rodolfo Papa

La solennità dell’Ascensione di Cristo è uno degli eventi della vita di Gesù più amati dalla storia dell’arte. Numerose sono, infatti, le sublimi rappresentazioni artistiche di questo mistero; una particolarmente bella si trova nella cappella degli Scrovegni a Padova, dipinta da Giotto.
Come è noto, Giotto fu chiamato ad affrescare la cappella di nuova edificazione, situata su quello che un tempo era stato un anfiteatro romano, acquistata dalla famiglia degli Scrovegni intorno all’anno 1300.
Giotto ricevette l’incarico di dipingere la Cappella tra il 1303 e il 1304, direttamente da Enrico Scrovegni, figlio di quel Reginaldo ricordato da Dante come usuraio nel canto XVII dell’Inferno. Dal fatto che Dante collochi Reginaldo tra gli usurai, possiamo dedurre sia l’immensa fama delle ricchezze accumulate da quest’uomo, sia  la probabile impopolarità della famiglia Scrovegni. È possibile che Enrico intendesse riscattarsi dalla cattiva fama della famiglia, proprio attraverso l’erezione di questa Cappella che aprì alla visita della intera cittadinanza, dopo averla fatta interamente affrescare da Giotto e dopo aver ottenuta l’indulgenza da Papa Benedetto XI.
La decorazione pittorica effettuata da Giotto sulle pareti si estende su quattro zone sovrapposte, utilizzando un complesso e rigoroso programma iconografico, organizzato su soggetti tratti dalla Legenda Aurea del domenicano Jacopo da Varazze: nel primo registro in alto, la Storia di Gioacchino ed Anna e la Storia di Maria; nel secondo e terzo, cioè nei registri centrali, le Storie di Gesù; in quello inferiore le rappresentazioni allegoriche dei Vizi e delle Virtù inframezzate da specchiature in finto marmo; nella controfacciata il Giudizio finale.
Il penultimo pannello del terzo registro, partendo dall’alto, nella parte sinistra di chi guarda entrando nella cappella, presenta la scena della Ascensione di Gesù al cielo.  Per comprendere bene  questo dipinto, è utile fare ricorso al prezioso testo di Jacopo da Varazze, che ne è alla base.
Nel capitolo LXXII della Legenda Aurea, Jacopo da Varazze scrive: «L’ascensione del Signore avvenne quaranta giorni dopo la sua resurrezione. Vi sono sette considerazioni a proposito dell’ascensione, e sono nell’ordine: 1 da dove ascese; 2 perché non ascese subito dopo la resurrezione ma aspettò tanti giorni;3 in che modo ascese; 4 con chi ascese; 5 per quale ragione ascese; 6 dove ascese; 7 perché ascese».
ll legame tra il dipinto di Giotto ed il testo della Legenda Aurea ci fanno, peraltro, comprendere quale attenzione avesse la cultura nei confronti dell’arte, e come ci fosse una rispondenza tra testo e immagine tale da offrire al predicatore strumenti validi per l’oratoria e al fedele immediata visione di immagini parlanti ed edificanti.
Giotto organizza l’affresco di questa scena in modo apparentemente semplice, ma totalmente coerente con le profondissime analisi teologiche svolte nel testo letterario.
In basso gli apostoli sono dipinti in ginocchio, divisi in due gruppi insieme a Maria che, un po’ separata dal gruppo di sinistra, emerge in tutta la sua figura con il volto orante e insieme rapito da quello che uno degli angeli le dice, indicando la figura di Gesù, che, come su una nuvola, con le braccia alzate quasi fuoriesce dal quadro visivo.
Giotto non costruisce i piani delle sfere celesti, come ci potremmo aspettare in una composizione gotica, ma si limita a farci comprendere che il luogo verso cui Gesù sta ascendendo è oltre la dimensione del quadro, fuori. Infatti, Jacopo da Varazze scrive: «Cristo ascese oltre tutti questi cieli fino al cielo supersustanziale. Che ascese al di sopra di tutti i cieli materiali si deduce da ciò che è detto nel Salmo: “La tua magnificenza è stata esaltata sopra i cieli” (Sal 8,2)».
Giotto dipinge Gesù mentre ascende al cielo, tra due schiere di angeli, una alla sua destra e l’altra alla sua sinistra; questi angeli risultano come trepidanti, in movimento ordinato e nel contempo ondulatorio, che trova rispondenza ancora nelle parole di Jacopo da Varazze: «salì al cielo con letizia, fra il giubilo degli angeli; per questo dice il Salmo: “Ascende Iddio fra le acclamazioni” (Sal 46,6)».
Sopra le prime due file di angeli, si notano altre figure, che possiamo individuare grazie a quanto scrive Jacopo da Varazze relativamente al punto quarto ovvero “Con chi ascese”: «si nota che salì al cielo con un grande bottino di uomini e con una grande moltitudine di angeli».
Ma dove ascende e perche? Quel luogo, verso il quale ascende, che è fuori del quadro visivo è il centro di tutto il dipinto, è il luogo dell’arte di Giotto, è il cuore della nostra fede. Scrive ancora Jacopo da Varazze: «Infatti come il Primo Adamo aprì le porte dell’Inferno così il Secondo aprì quelle del Paradiso […] L’ascensione di Cristo è il pegno della nostra ascesa; perché là dove è salito il capo c’è speranza che possa salire anche il corpo […] “Vado a preparare un posto per voi” (Gv 14,2)».
Costituisce un meraviglioso accompagnamento a questo quadro, una omelia di Benedetto XVI, nella Solennità dell’Ascensione del 2009: «L’Ascensione di Cristo significa dunque, in primo luogo, l’insediamento del Figlio dell’uomo crocifisso e risorto nella regalità di Dio sul mondo […]  C’è però un senso più profondo non percepibile immediatamente. Nella pagina degli Atti degli Apostoli si dice dapprima che Gesù fu “elevato in alto” (v. 9), e dopo si aggiunge che “è stato assunto” (v. 11). L’evento è descritto non come un viaggio verso l’alto, bensì come un’azione della potenza di Dio, che introduce Gesù nello spazio della prossimità divina.
La presenza della nuvola che “lo sottrasse ai loro occhi” (v. 9), richiama un’antichissima immagine della teologia veterotestamentaria, ed inserisce il racconto dell’Ascensione nella storia di Dio con Israele, dalla nube del Sinai e sopra la tenda dell’alleanza del deserto, fino alla nube luminosa sul monte della Trasfigurazione. Presentare il Signore avvolto nella nube evoca in definitiva il medesimo mistero espresso dal simbolismo del “sedere alla destra di Dio”.
In Cristo asceso al cielo, l’essere umano è entrato in modo inaudito e nuovo nell’intimità di Dio; l’uomo trova ormai per sempre spazio in Dio. Il “cielo”, questa parola cielo, non indica un luogo sopra le stelle, ma qualcosa di molto più ardito e sublime: indica Cristo stesso, la Persona divina che accoglie pienamente e per sempre l’umanità, Colui nel quale Dio e uomo sono per sempre inseparabilmente uniti. L’essere dell’uomo in Dio, questo è il cielo. E noi ci avviciniamo al cielo, anzi, entriamo nel cielo, nella misura in cui ci avviciniamo a Gesù ed entriamo in comunione con Lui. Pertanto, 1′odierna solennità dell’Ascensione ci invita a una comunione profonda con Gesù morto e risorto, invisibilmente presente nella vita di ognuno di noi» [1].

NOTE

[1] Benedetto XVI, Omelia. Solennità dell’Ascensione del Signore, 24 maggio 2009.

Publié dans:immagini e testi, |on 14 mai, 2013 |Pas de commentaires »

COSA SIGNIFICA CHE DOBBIAMO VANTARCI DELLE NOSTRE DEBOLEZZE (2Cor)

http://www.toscanaoggi.it/Rubriche/Risponde-il-teologo/Cosa-significa-che-dobbiamo-vantarci-delle-nostre-debolezze

COSA SIGNIFICA CHE DOBBIAMO VANTARCI DELLE NOSTRE DEBOLEZZE?

UN LETTORE CI CHIEDE COSA VOGLIA DIRE SAN PAOLO CON L’ESPRESSIONE «VANTARSI DELLE SUE DEBOLEZZE».

Risponde don Stefano Tarocchi, Preside della Facoltà teologica dell’Italia centrale

Nella seconda lettera ai Corinzi San Paolo dice di vantarsi delle sue debolezze, in quanto necessarie per avere la grazia di Dio. Questo vale anche per i peccati? Non dobbiamo dolerci più di tanto di certi peccati, se questi aprono alla grazia di Dio? Certo la grazia si ha se siamo peccatori, infatti Gesù è venuto per i malati e non per i sani!

Il tema della debolezza è ampiamente presente nelle lettere dello stesso apostolo (e non solo!), e merita quindi un approfondimento, non fosse altro che per capire il significato esatto delle sue parole, così da non aprire a interpretazioni non necessarie.
Già nella stessa corrispondenza con la chiesa di Corinto, troviamo che l’apostolo accosta stoltezza e debolezza di Dio, per dire che esse sono rispettivamente più sagge e più forti degli uomini (1 Corinzi 1,25). Ma, aggiunge Paolo, «quello che è stolto per il mondo, Dio l’ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio l’ha scelto per confondere i forti (1 Corinzi 1,27). Più avanti l’apostolo precisa ai Corinzi che egli stesso si è presentato a loro «nella debolezza e con molto timore e trepidazione» (1 Corinzi 2,3).
Anche solo da questo primo sguardo, appare evidente che la debolezza ha a che fare con la condizione umana, con le sue contraddizioni, come quella che provano quanti, deboli nella coscienza, sono turbati dall’aver mangiato carni originariamente destinate al culto degli idoli (1 Corinzi 8,7). Nella complessa questione cui qui è possibile solo accennare, Paolo mette in guardia quanti si sono liberati da questo condizionamento: infatti «non esiste al mondo alcun idolo» (1 Corinzi 8,4), scrive, e se anche «alcuni hanno molti dèi e molti signori», «per noi c’è un solo Dio, il Padre … e un solo Signore, Gesù Cristo» (1 Corinzi 8,6). E tuttavia, egli conclude, se c’è il pericolo che la coscienza di un debole vada in rovina, «un fratello per il quale Cristo è morto», «non mangerò mai più [questo tipo di]carne, per non dare scandalo al mio fratello» (1 Corinzi 8,11.13). La debolezza si presenta anche per descrivere la lontananza da Dio dell’umanità non redenta: «quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi» (Romani 5,6). Per questo «anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in maniera conveniente, ma lo stesso Spirito intercede con gemiti inesprimibili (Romani 8,26).
Sono quelli che Paolo, a Roma ma anche a Corinto, con una felice espressione chiama «deboli nella fede» (Romani 14,1). Sul campo opposto si trova Abramo, l’uomo che non «fu debole nella fede», e per questo «credette, saldo nella speranza contro ogni speranza» (Romani 4,18-19).
La debolezza della condizione umana, oltre che la coscienza e lo spirito, colpisce il corpo dell’uomo con la malattia, come quella che assale i Corinzi di fronte alla loro incapacità di riconoscere il Corpo del Signore nelle loro assemblee eucaristiche: «è per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi (lett. « deboli »)» (1 Corinzi 11,30), ma anche il suo inviato Epafrodito (Filippesi 2,26), o lo stesso Timoteo che Paolo invita a bere un po’ di vino a causa delle sue frequenti debolezze (1 Timoteo 5,23).
Del resto Paolo, con un colpo d’ala straordinario, sostiene la totale comunione del suo ministero di apostolo verso coloro che gli sono stati affidati, aggiunge: «mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1 Corinzi 9,22). È lo stesso apostolo che alcuni a Corinto accusavano di essere debole quando presente fisicamente e, al tempo stesso, quasi prepotente mentre scrive da lontano (2 Corinzi 10,1). Qualcuno diceva infatti: «le lettere sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la parola dimessa» (2 Corinzi 10,10). È in questo modo che Paolo difende la sua persona di fronte alle accuse ricevute nel suo svolgere il ministero a Corinto: «dal momento che molti si vantano, mi vanterò anch’io» (2 Corinzi  11,18). Quindi conclude: «chi è debole che anch’io non lo sia… se è necessario vantarsi, mi vanterò della mia debolezza» (2 Corinzi 11,29-30).
E qui siamo arrivati al principale testo a cui il lettore si riferisce. Dopo aver parlato della «spina ricevuta nella sua carne», che Paolo ha chiesto gli venisse  allontanata, scrive che il Signore «mi rispose: « Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza ». Mi vanterò quindi volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo; quando sono debole è allora che sono forte» (2 Corinzi 12,9-10).
Nel paradosso per cui la forza divina, la sua potenza di salvezza, si «manifesta pienamente nella debolezza», c’è la chiave per una corretta interpretazione del linguaggio dell’apostolo. Del resto, a proposito di Gesù, egli scrive che «fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio» (2 Corinzi 13,4). Proprio in quanto crocifisso, Cristo «è potenza di Dio e sapienza di Dio» (1 Corinzi 1,24). Quindi, senza nulla togliere al detto evangelico dell’attenzione di Gesù verso i malati e i peccatori (così Matteo 9,12 e Luca 5,31, ma anche 1 Timoteo 1,15: «Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori»), l’accento va posto con maggiore convinzione sul tema della croce, che rovescia totalmente tutti i nostri termini abituali di riferimento: «quello che è debole per il mondo, Dio l’ha scelto per confondere i forti (1 Corinzi 1,27).

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