Archive pour mai, 2013

Dove of Holy Spirit

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http://cardinalsblog.adw.org/2012/12/reconciliation-is-the-sacrament-of-the-year-of-faith/

Publié dans:immagini sacre |on 18 mai, 2013 |Pas de commentaires »

FIGLI DEL VENTO – PENTECOSTE (ANNO B,CREDO)

http://www.toscanaoggi.it/Rubriche/Commento-al-Vangelo/Figli-del-vento

FIGLI DEL VENTO – PENTECOSTE (ANNO B,CREDO)

Domenica 27 maggio, Pentecoste

Letture: At 2,1-11; Gal 5,16-25: Gv 15,26-27; 16,12-15. «Lo Spirito della verità vi guiderà a tutta la verità»

di GIANCARLO BRUNI

Eremo delle Stinche – Panzano in Chianti

1. Cristianesimo è l’auto-rivelarsi e l’auto-comunicarsi di Dio in Cristo come amore senza argini per l’uomo fallito. Un Dio che in Cristo messo in croce china il capo verso chi lo uccide e verso il mondo intero consegnando-donando il suo Spirito (Gv19,30), l’amore nel momento stesso che viene spento raccoglie l’ultimo suo respiro e lo espande sul cosmo intero. Un Dio che nel Cristo risorto alita sui suoi il suo Spirito (Gv 20,22), ove Spirito sta per soffio e soffiare a trasmissione di ciò che si ha nel cuore e di ciò che sta a cuore.
Se l’accoglienza e la cura dell’altro il soffio sull’altro diventa indice di attenzione e di premura: pulirlo da ciò che lo sporca, alleviarlo da ciò che gli arreca dolore, ravvivarlo da ciò che lo fa morire e sradicarlo da ciò che gli impedisce di camminare. E’ il soffio di Gesù venuto non a spegnere ma a ridare vita ai condannati a morte (Mt 12,20). Non tutti i soffi si equivalgono, per questo è urgente il «discernimento degli spiriti» (1Cor 12,10) per tenere ciò che è buono (1 Ts 5,21), fondamentale per l’uomo infatti è sapere chi e che cosa lo sospinge e lo fa muovere, quale vento, quale aria, quale soffio. In breve quale spirito.
2. Questo spiega la centralità della Pentecoste nella esperienza cristiana, il puntualizzare il da dove, il tramite chi, il verso dove e il perché del dono dello Spirito o Soffio santo, da esso dipende la qualità dell’esistere umano personale e comunitario. Spirito, così in Giovanni, la cui origine è dal Padre (Gv 14,16;15,26); il cui tramite è Gesù il risorto (Gv 7,37-39; 14,26; 15,26; 16,7), per questo è venuto (Gv 1,33; 3,1-15); la cui destinazione è particolare, presso i discepoli (Gv 14,17), interiore, nei discepoli (Gv 14,17), e universale: «Il vento soffia dove vuole» (Gv 3,8); Spirito il cui perché, che ne verifica l’autenticità, è dato dai frutti che produce. Egli infatti è il «chiamato vicino», questo significa Paraclito, a suggerire-soffiare all’uomo il suo essere dimora (Gv 14,23) del «Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro» (Gv 20,17), in un rapporto filiale (1 Gv 3,1-3) e di adorazione (Gv 4,24); e a suggerire-soffiare all’uomo il suo essere dimora del Figlio (Gv 14,23) «maestro e Signore» (Gv 13,13), in un rapporto amicale (Gv 15,15) nell’ascolto di una parola di cui lo Spirito stesso è memoria, annuncio e spiegazione al cuore personale e comunitario (Gv 14,26; 16,13-15). E ancora Spirito chiamato vicino a suggerire-soffiare all’uomo il suo essere dimora dell’uomo in un rapporto fraterno a misura di quello di Cristo: «Amatevi come io vi ho amati» (Gv 13,34). Nessuno è straniero e estraneo al cuore del discepolo, lo Spirito di comunione (2 Cor 13,13) genera creature di accoglienza ospitale dell’altro infranta ogni barriera divisoria. Spirito infine chiamato vicino a suggerire-soffiare all’uomo il suo essere dimora della vita eterna, egli è la mano di Dio che scrive in ogni corpo fragile e mortale l’ «Io sono la resurrezione della vita» del Cristo (Gv 11,25). Se figli anche «eredi di Dio, coeredi di Cristo» (Rm 8,17).
3. Pentecoste dunque come apice dell’azione di Dio a vantaggio dell’uomo, nel Risorto il dono di uno Spirito che introduce all’ordinarietà della vita, liturgicamente il «tempo ordinario», in maniera singolare. In compagnia di un Tu unico: «Non vi lascerò orfani, verrò da voi» (Gv 14,18) con il mio Dio; orientati da una parola unica, amatevi e amate con mente, cuore e orizzonti dilatati sapendo che non si esagera mai abbastanza; sostenuti da una speranza unica: «Dov’è , o morte, la tua vittoria?» (1Cor 15,55). Per questo cantiamo il «Vieni, Santo Spirito», il vento inviato dal Padre e soffiato dal Risorto a spazzare via l’uomo vecchio che è in noi e a dare forma all’uomo nuovo che dobbiamo essere noi: terra che adora, terra che ama, terra che spera. Figli del vento.

Publié dans:immagini sacre |on 18 mai, 2013 |Pas de commentaires »

Pentecoste

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Publié dans:immagini sacre |on 17 mai, 2013 |Pas de commentaires »

EFFUSIONI DELLO SPIRITO SANTO (Rm 8, 1-17)

http://www.gesuconfidointe.org/dblog/articolo.asp?articolo=64

EFFUSIONI DELLO SPIRITO SANTO (Rm 8, 1-17)

Di Padre Bentivegna – RnS

 L’intervento ripercorre, attraverso l’esegesi di un brano della Lettera ai Romani (Rm 8, 1-17), ricevuto in preghiera, lo stile di vita nuova, che viene introdotto nell’esistenza di quanti fanno vera esperienza di una rinnovata effusione dello Spirito di Pentecoste. L’autore, per affrontare questo tema, affascinante e complesso, riporta l’interpretazione che le espressioni dell’Apostolo ricevono negli scritti dei Padri più rappresentativi della Chiesa. 
Prima di commentare questo brano della Lettera di san Paolo ai Romani (Rm 8, 1-17), vorrei ricordare il testo in cui si afferma testualmente che nelle lettere di Paolo: «ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina» (2 Pt 3, 16).
Ebbene, proprio questo passo della Lettera ai Romani è considerato tra i più difficili di tutte le lettere di san Paolo: per 5 volte, ricorre la parola « Legge » con significati differenti; la parola « carne » con sfumature diverse viene ripetuta 12 volte; la parola « spirito » con significati vari ritorna 13 volte; e il termine « Cristo » viene presentato in un gioco di prospettive.
Da parte mia, per affrontare questo tema, mi sono rivolto a coloro i quali, lungo la storia della Chiesa, da buoni padri della nostra fede, ci hanno insegnato come interpretare queste espressioni così impegnative della parola di Dio. Intanto, per il fatto che voi rileggete, con un cuore ben disposto, questa parola, essa, anche se non ben compresa, ottiene il suo effetto. La parola di Dio, quando è bene accolta, esercita sempre la sua efficacia, allontanando da noi il malefico influsso di ogni forza avversa che non si concilia con la presenza del Signore (cf Eb 4, 12). Vorrei ora passare all’interpretazione di ogni singola espressione, attraverso quindici paragrafi ispirati ai vari commenti dei Padri della Chiesa. Si tratta di pensieri non strettamente coordinati e talvolta ripetitivi, come non rigorosamente coordinato e ripetitivo è lo stile che in questo brano viene usato da san Paolo.
Nessuna condanna per chi accoglie Gesù
«Non c’è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù» (Rm 8, 1).
Questa affermazione presuppone che noi ormai « siamo » in Cristo Gesù. Quand’è che siamo in Cristo? Quando abbiamo ricevuto il battesimo. E cosa succede dopo che abbiamo ricevuto il battesimo?
Se moriamo senza nuovi peccati andiamo dritti in paradiso (cf concilio di Trento, DS 1515).
Dopo il battesimo, poi, c’è una sorta di secondo battesimo, attraverso il quale – se abbiamo personalmente offeso il Signore perdendo la grazia con il peccato mortale o riducendone la forza con il peccato veniale – grazie all’assoluzione sacramentale, ritorna o si rinnova in noi la presenza dei Signore. Allora, se siamo sinceramente pentiti per quello che ci ha afflitto agli occhi del Signore, ritroviamo la nostra buona condizione di non condanna dinanzi a Cristo. Dopo che una persona ha ricevuto il battesimo o l’assoluzione sacramentale dei suoi peccati, non c’è più in essa alcuna colpa, nulla che sia degno di dannazione eterna. Rimane però sempre la concupiscenza o stimolo al male e la soggezione alla pena da scontare per i peccati commessi e rimessi dopo il battesimo.
 Lo Spirito libera dal peccato 
«Poiché la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte» (Rm 8,2).
Abbiamo lo Spirito che, con la sua azione, rinnova la nostra vita e ci dà la grazia di amare con un cuore pieno dei sentimenti di Gesù. Se accettiamo il dominio dello Spirito di Gesù, rimane lontana da noi ogni tendenza a perdere la pace del Signore. Se ci capita di perdere la pace dei cuore, si tratta di un impulso che non viene dallo Spirito Santo ma dallo spirito del diavolo, al quale il Signore permette di oltraggiare la nostra natura ferita. 
Questa è una « Legge » che ci mortifica: ecco cosa vuole dire san Paolo. La legge del peccato e della morte sono principi insiti nella nostra natura decaduta, che ci portano ad agire in contrasto con la nostra ragione; ma se pregando ci mettiamo in comunione con lo Spirito Santo, riusciremo a superare questa umiliante condizione. 
Le convinzioni umane non bastano a salvarci 
«Infatti ciò che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente, Dio lo ha reso possibile» (Rm 8,3a). 
La legge, di cui qui si parla, cos’è? Si intende l’insieme delle convinzioni umane, che riempiono di confusione la nostra testa: e quante ne abbiamo! Si tratta di credenze e atteggiamenti che non hanno la capacità di orientare la nostra vita verso la salvezza, verso la liberazione da tutto ciò che è disordine, perché questa liberazione può venire solo dal Signore. 
Le semplici convinzioni umane (la « Legge ») non ci danno la luce necessaria per camminare verso il cielo. La nostra natura, lasciata a se stessa, ci impedisce di compiere opere buone per la vita eterna, non può elevare le nostre inclinazioni a fare cose degne di Dio (Teofilatto). 
Quando ragioniamo solo con la nostra testa, sbagliamo. Perché questo non avvenga, dovremmo poter dire: quello che sto facendo lo farebbe anche Gesù. Pensiamo bene a questo. Se non possiamo dirlo, vuol dire che siamo sotto la legge della carne, dei peccato: quello che sto facendo non è benedetto da Gesù. 
Quando Gesù mi benedice, «posso sentire la spinta al male, ma dispongo – dice sant’Agostino – delle forze sufficienti per non consentire, perché lo Spirito di Gesù ci ha liberato dalla legge dei peccato e della morte», cioè da tutti i principi estranei a Dio che svuotano di senso la nostra vita. 
Lo Spirito di Gesù ci fa ricominciare da capo 
«Mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne» (Rm 8,3b). 
Il Figlio è stato inviato dal Padre con la missione di caricarsi della nostra natura con tutte le ferite causate dal peccato. In questo modo il Padre ha liberato ogni uomo dall’incapacità di compiere azioni degne di salvezza, cioè dall’incapacità di andare in paradiso. 
Noi dobbiamo realizzare alla perfezione il disegno di salvezza che il Signore ha per noi, in maniera che scompaia tutto ciò che non è accetto ai suoi occhi. Ecco, allora, come si può salvare il mondo, come si può realizzare la missionarietà, l’ecclesialità, l’evangelizzazione, la comunione. Quando hai fatto tutto quello che il Signore si attende da te, fai aumentare la « colata di lava » piena di grazia, che invade il mondo. Questo è il mistero che dobbiamo professare e adorare: il mistero della grazia dei Signore nel mondo, grazia che aumenta anche con un’Ave Maria detta bene. 
Gesù si è fatto carne in vista dei sacrificio destinato a espiare il peccato. Diverse volte san Paolo parla di Cristo in questi termini e afferma che Dio lo fece peccato per noi e mediante il suo corpo crocifisso prese e abolì il peccato. Eppure il peccato è rimasto. Allora, Gesù cosa ha abolito? Le conseguenze eterne dei peccato. Mediante il peccato di coloro che lo hanno crocifisso cancellò il peccato, si servì persino di quel peccato per fare del bene a noi e, speriamo, anche a coloro che lo hanno crocifisso. 
E’ difficile, per noi, capire come il Signore operi attorno a noi la salvezza. Ricordiamo, ad esempio, tante carneficine descritte come approvate da Dio nel Vecchio Testamento. In simili descrizioni Dio, che vuole la salvezza di tutti, si abbassa al nostro linguaggio. Ecco un motivo di riflessione per tutte le tristezze che accompagnano la cultura umana nella quale viviamo e anche i suoi progressi. 
Quando leggiamo: «ora non c’è più circoncisione, non c’è né giudeo, né greco, né schiavo» (cf Gal 3, 28), dobbiamo tenere presente che Paolo scrive in un’epoca in cui ancora esistevano gli schiavi. Eppure, il Signore proclama il principio di abolizione della schiavitù, anche se poi si adatta al progresso lento della cultura umana. La stessa cosa fa anche nella vita di ciascuno di noi. 
«Il Figlio è stato inviato dal Padre con la missione di caricarsi della nostra natura con tutte le ferite causate dal peccato. In questo modo ha liberato ogni uomo dalla incapacità di compiere azioni degne di salvezza, cioè della beatitudine eterna» (Teofilatto). 
«Mediante il sacrificio destinato a espiare il peccato (cf 2 Cor 5, 21), mediante il suo corpo crocifisso prese e abolì il peccato, cioè le conseguenze eterne del peccato. Mediante il peccato di coloro che l’hanno crocifisso, cancellò il peccato» (Agostino). 
Gesù, subendo ingiustamente e da innocente la condanna del peccato (la morte per noi) ci ha liberato da due mali: ha condannato il diavolo, autore della morte di Cristo (Ilario); ha tolto al diavolo il dominio che, a causa del peccato, esercitava sugli altri uomini. Questo, secondo san Giovanni Crisostomo, è il significato della promessa di Gesù: “ Il Consolatore convincerà il mondo quanto al peccato» (cf Gv 16, 8). 
Quante volte Paolo ripete la stessa idea! Questo metodo è educativo. Infatti, anche Gesù ripete molte volte che dobbiamo amare gli altri come noi stessi. Questa maniera di educarci viene da Gesù ed è seguita anche da san Paolo. Però, siccome Paolo non era Gesù, le sue espressioni non sono felici come quelle usate dal Maestro.
Cerchiamo, allora, di capire cosa Paolo ci vuole dire quando insegna che le convinzioni umane non sono capaci di elevare le nostre inclinazioni a fare cose degne di Dio. Vuole insegnarci che dobbiamo ogni giorno guardare al distacco che c’è fra le iniziative del Signore e quello che facciamo. Questo non ci deve abbattere, ma ci deve incoraggiare a ricominciare sempre da capo, finché lo Spirito di Gesù non avrà conseguito in noi la sua ultima vittoria. 
Lo Spirito di Gesù continuamente ci purifica. 
«Perché la giustizia della legge si adempisse in noi, che non camminiamo secondo la carne ma secondo lo Spirito» (Rm 8,4). 
«Quelli infatti che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne» (Rm 8,5a). 
San Paolo ribadisce che i principi di bontà dettati dalla ragione (« la Legge ») non sono buoni per farci meritare la vita beata. Devono prima essere purificati dallo Spirito che dà a questi principi un valore e un significato nuovo, cioè li rende utili per la vita eterna. Questa purificazione avviene non in virtù delle nostre inclinazioni naturali (« secondo la carne”), ma in virtù della dignità che la presenza dello Spirito Santo dà a tutte le cose che facciamo (“secondo lo Spirito »). Tutti i mezzi che usiamo devono essere assoggettati all’uso voluto dal Signore (G. Crisostomo). 
Gli uomini che si regolano secondo dettami suggeriti dai loro istinti umani seguono, approvano,scelgono, ambiscono e gustano le cose che tengono presente solo la compiacenza o approvazione degli uomini (“le cose della carne »). Non hanno alcun riguardo per la legge della carità, cioè per la presenza di quei sentimenti – i sentimenti dei Signore – che attirano su di noi la compiacenza di Dio.
Abitualmente sentiamo dire: « Ho fatto tanto del bene e qualcuno, per giunta, mi ha disprezzato». Chi si mette sinceramente al servizio del Signore, dice sant’Ignazio, dovrebbe invece rimanere contento o addirittura desiderare obbrobri e disprezzi, perché da queste due cose procede l’umiltà » (Esercizi spirituali, n. 146). Meglio subire insuccessi che raggiungere successi collegati alla legge della .carne. Questo non significa che bisogna provocare gli insuccessi, ma se arrivano dobbiamo essere in grado di accettarli e benedirli, in forza dello Spirito di preghiera. 
Lo Spirito di Gesù ci spinge con le sue mozioni 
«Quelli che vivono secondo lo Spirito pensano alle cose dello Spirito» (Rm 8,5b). 
Dobbiamo abituarci a vivere in continua comunione con lo Spirito. Il fatto che san Paolo parlava dell’essere « morti », ha questo significato: dobbiamo smetterla di sistemarci la vita su due strade parallele. L’unica strada è quella di Gesù, dobbiamo camminare stretti a Gesù che si fa porta e via della nostra vera vita.
Le persone spirituali pensano alle cose dello Spirito, assecondano le emozioni, gli istinti suscitati in loro dallo Spirito Santo, istinti insoliti, imprevedibili, bellissimi. Vivono per una sola cosa: seguire le vie dettate dalla carità in tutte le loro affezioni, in tutti i loro interessi, in tutte le loro iniziative. Assecondano le mozioni e gli impulsi suscitati in loro dallo Spirito Santo (cf Gal 5, 22: i frutti dello Spirito »). Adeguano a queste mozioni la loro vita e i loro comportamenti; amano i beni che hanno soprattutto un valore eterno. 
Quando capiamo « troppo » quello che facciamo, spesso vuol dire che le cose vanno più secondo i nostri criteri umani, che secondo i criteri di Dio. Il dolore, ad esempio, chi può capirlo? Di fronte a tante sofferenze incomprensibili viene da dire: «Ma perché così, Signore?». Non si può capire nulla, ma è bello così, perché, anche allora, si adora il mistero di Dio. 
Lo Spirito di Gesù riempie di pace e desideri di cielo la nostra esistenza 
«Ma i desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace» (Rm 8,6). 
«Infatti i desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perché non si sottomettono alla sua legge e neanche lo potrebbero» (Rm 8, 7). 
«Quelli che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio» (Rm 8,8). 
C’è un modo di pensare che, ”per compiacere noi stessi e gli altri” riempie la nostra esistenza di sentimenti di morte. Quali sono questi sentimenti? Vanagloria, ricerca di successi, presunzioni, gelosie, invidie, prudenza dettata dalla superbia, arroganza e chi più ne ha più ne metta. Chissà quanti di questi difetti possiamo notare nei nostri gruppi. Infatti, i gruppi e gli stessi pastorali di servizio sono formati da persone che ogni giorno confessano dì essere peccatori. Ecco cosa deve fare il Signore per noi: farci accogliere questa miseria, liberarci da tutto ciò che viene dettato dai modi esclusivamente umani, che non appartengono a Gesù. 
Quando compiamo delle azioni che, anziché fare prevalere la compiacenza di Dio, cercano la compiacenza del nostro egoismo e degli altri, la nostra vita si pone in uno stato che la distacca da Dio, oppone un rifiuto alle benedizioni dei Signore. 
Cerchiamo solo di piacere a noi stessi e agli altri uomini, ci fermiamo a gustare, a sentire e a ragionare secondo principi non indicati da Dio, ma solo dalla nostra intelligenza ferita, determinando in noi uno stato di avversione a Dio. Si prova una specie di ripugnanza per tutto ciò che appare come un ordine che contraddice a quello che ci suggerisce la convenienza umana. Si vive nella incapacità di trovare la nostra gioia e pace nell’esecuzione pronta e fedele degli ordini di Dio, anche quando questi ordini sono in contrasto con il modo di ragionare prevalente tra gli uomini. Finché si vive in uno stato di contrasto con la guida dello Spirito di Dio, rimaniamo nella incapacità di gioire nell’eseguire i comandi dei Signore. 
Quando ci riuniamo in assemblea dobbiamo prefiggerci di “imparare » Gesù. Noi siamo discepoli di Gesù non se impariamo le cose dì Gesù, ma se impariamo Gesù. 
Le verità collegate alla sua presenza nel nostro cuore devono diventare testimonianza. Se non diventano operanti, potremmo rimanere atei, pur conoscendo tutta la dottrina di Gesù: non saremmo gli amanti dei Signore. 
Lo Spirito Santo ci fa proprietà di Cristo 
«Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo non gli appartiene» (Rm 8,9). 
Dire che lo Spirito abita in noi è lo stesso che dire che lo Spirito « si accasa » in noi. Quindi, la scelta dello Spirito, come nostra unica guida, non si manifesta attraverso una qualche specie di esperienza. Si può parlare di vera guida dello Spirito solo quando la nostra anima e il nostro cuore diventano una dimora fissa di Dio trino, una sorta di casa, una vera e propria abitazione di Dio: «accasamento» dello Spirito del Signore, come amava dire san Basilio; una proprietà di Cristo. 
Dobbiamo metterci il Signore in casa, dobbiamo prenderci in casa Gesù: è l’unico nostro amore. Tutte le altre cose sono aggiunte non indispensabili. Con Gesù si è soli, ma completi in tutto, perché si partecipa al benessere di Dio trino che è «solo, ma completo in tutto» (Ippolito).
La preghiera per l’effusione non è un fatto episodico, l’effusione dello Spirito Santo è un fatto permanente e non può ridursi al momento in cui gli altri hanno pregato per noi. L’effusione è un fatto permanente: così come tu sei figlio o figlia di tua madre, non perché sei nata vent’anni fa, ma perché continui a rapportarti a lei. 
Ecco: nella Trinità, il Padre ha generato il Figlio e questo fatto è permanente, si manifesta ìn continuità. Similmente si dica dello Spirito Santo che si è effuso: il participio passato indica che è in permanente attività. Se ogni giorno non si rinnova, questa effusione dello Spirito Santo non si produce: si tratta di una realtà che, se la meditiamo, ci può riuscire facile comprendere. 
Possiamo dire di appartenere a Cristo, se lasciamo che lo Spirito di Gesù agisca nella sua potenza, in ogni momento della nostra vita; perché nessun momento della nostra vita può sfuggire alla realizzazione dei disegno dei Signore su di noi, nella maniera più potente. Se questo non si verifica, non possiamo dire di appartenere come si deve al Signore. 
Lo Spirito Santo governa la nostra vita 
«E se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo Spirito è vita a causa della giustificazione» (Rm 8, 10).
«E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi» (Rm 8, 11). 
Cristo è in noi se, nei nostro modo di vivere, non c’è nessun’altra realtà che prevalga, sia nei nostri pensieri, sia nei nostri sentimenti, sia nelle nostre azioni. E’ questa la vita nuova che Gesù introduce nell’esistenza di coloro che veramente lo seguono. 
Il battesimo ci ha liberati dal peccato che ci teneva in uno stato di inimicizia con Dio. Ma, anche in questo nuovo stato di amicizia con Dio, ci tocca lottare con le conseguenze del peccato. Le consolazioni prodotte dalla presenza dello Spirito Santo non annientano le afflizioni causate in noi dallo stato mortale dei corpo che dobbiamo usare per servire e lodare il Signore. Anche dopo che crediamo, rimane in noi una strana convivenza tra lo Spirito di vita e un corpo di morte (Agostino). 
Ma il Signore non smette mai di arricchirci con la sua presenza. Lo Spirito Santo, il vivente per natura, infonde in noi la grazia che ci rende giusti davanti a Dio e ci assicura, per via dei meriti, che per concessione di Dio ci è dato di acquistare, un diritto crescente al premio della partecipazione alla vita eterna. 
Dio ha effuso, nella natura umana di Gesù, lo Spirito che lo ha fatto risorgere. Il medesimo Dio fa abitare nella natura umana posseduta da ognuno di noi credenti lo stesso Spirito che ha fatto risorgere Cristo dai morti. E’ un gesto di misericordia che ci deve stupire e consolare e rendere fieri del futuro che è riservato al nostro corpo mortale che per il momento si unisce a Gesù nella prova. 
Lo Spirito Santo ci fa suoi debitori 
«Così dunque fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la carne per vivere secondo la carne; [aggiungi: ma siamo debitori allo Spirito per vivere secondo lo Spirito» (Rm 8,12). 
In questo versetto san Paolo inizia la conclusione di tutto l’insegnamento precedente. 
Noi credenti non siamo «debitori verso la carne per vivere secondo la carne», ma siamo debitori allo Spirito per vivere secondo lo Spirito. Questa espressione la aggiungono i Padri, perché san Paolo aveva presumibilmente dimenticato di dirla.   
Come credenti siamo esseri umani che, a partire dal loro incontro con Cristo, sono stati trasferiti dalla vita secondo la carne alla vita secondo lo Spirito. Gesù in persona ha operato questo trasferimento. Il battesimo ci ha uniti in maniera strettissima a Cristo. Siamo sue membra; egli è il nostro grande capo. 
La conseguenza è che noi siamo per così dire costretti a essere debitori, non verso la carne per vivere in maniera carnale, ma verso io Spirito per vivere in maniera spirituale. Il Cristo, dei quale ci siamo rivestiti, esiste e vive non nella carne, ma nello Spirito. Solo conducendo un’esistenza guidata dallo Spirito, come la sua, potremo aspirare al raggiungimento della vita eterna. 
Lo Spirito ci fa uomini liberi 
«Poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete» (Rm 8,13). 
La via che ci libera dalla morte della colpa su questa terra e dalla dannazione eterna nell’altra vita si basa sulla morte di quelle che Paolo chiama « opere del corpo ». Diamo la morte alle opere del corpo quando, ricorrendo all’aiuto dello Spirito, non consentiamo, anzi, resistiamo alle inclinazioni malvagie suscitate in noi dalla concupiscenza che ci spinge al peccato, concupiscenza che, neppure con il battesimo, è stata annientata. li Signore ci vuole uomini liberi, che gioiscono nell’ubbidire alle mozioni dello Spirito (san Tommaso). 
Lo Spirito ci fa agire da figli di Dio 
«Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio» (Rm 8,14). 
Anche dopo che abbiamo ricevuto lo Spirito Santo, se non siamo fedeli alla sua guida, non meritiamo di essere chiamati figli di Dio. Non meritiamo il nome di figli di Dio, se la nostra vita non è deiforme, se la nostra vita non manifesta una vera conformità con Dio. Il governo dello Spirito non costringe nessuno. Ma promuove, con una dolcezza tutta sua, la nostra libera adesione ai suoi comandi. 
Quando i comandi dello Spirito sono così accolti, abbiamo ragione di chiamarci figli di Dio. L’iniziativa però spetta sempre ai Signore. Agimur, non agimus – siamo mossi, non ci muoviamo da noi (Agostino). 
Lo Spirito ci fa invocare Dio come Padre 
«E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno Spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: « Abbà, Padre! »» (Rm 8,15). 
Ogni vero credente è spronato a invocare Dio come Padre con il linguaggio a lui proprio. Lo Spirito ci concede di gridare a Dio e invocarlo: «Abbà, Padre!» come veri figli nel Figlio. 
Molti cristiani rimangono estranei allo Spirito dei Nuovo Testamento, vivono con sentimenti che si addicono meglio a chi è schiavo anziché a un vero figlio di Dio. Sono oppressi dalla paura di chi non sa a chi fare appello per ricevere le sicurezze di cui ha bisogno in mezzo alle tante tribolazioni di questa terra. 
Questi credenti non hanno ancora ricevuto lo Spirito della nuova vita. Si rivolgono a Dio, come coloro che non hanno veramente conosciuto Gesù.Chi porta nel cuore lo Spirito di Gesù si rivolge a Dio chiamandolo Padre nel modo più adatto al suo pensiero, con i termini più adatti al suo linguaggio: come alla persona che, meglio di qualsiasi altra persona nell’universo, si prende cura di ciascuno di noi. San Paolo usa le due voci: « Abbà » e “Padre », per indicare che chi ha lo Spirito Santo possiede il titolo per rivolgersi a Dio in una maniera tutta personale. Gridi a Dio nella sua propria lingua, sia civile sia psicologica; ricordi che parla a quel Dio che lo ama con lo stesso cuore con il quale ama il proprio Figlio, Gesù (Agostino). 
Lo Spirito ci dà la testimonianza di essere amati da Dio come figli 
«Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio» (Rm 8,16). 
Bisogna confidare e pregare perché si affermi sempre più la nostra sicurezza di essere amati da Dio come figli. La certezza assoluta di essere figli di Dio non l’avremo mai su questa terra. Questa certezza può essere data soltanto dal Signore e non dalla nostra intelligenza. 
La grazia infatti è una realtà che supera totalmente la nostra natura e pertanto non può in nessun modo cadere sotto la nostra esperienza diretta. E’ questo un dogma definito dal concilio di Trento contro coloro che ammettevano il contrario: «Come nessuna persona pia deve dubitare della misericordia di Dio, del merito di Cristo e della forza ed efficacia dei sacramenti, così ciascuno, quando considera se stesso e la sua debolezza e imperfezione, può spaventarsi e temere riguardo ai proprio stato di grazia; poiché nessuno può sapere con una certezza di fede, che non sia suscettibile di falso, di aver conseguito la grazia di Dio» (Sess. VI cap. 9, DS 1534). Questo dogma è fermamente basato sulla Scrittura (cf Fl 12, 12; 1 Cor 4, 4; 9, 27; 10, 11‑12). Esso non impedisce però che l’uomo possa avere una certezza pratica della presenza in se stesso di quell’amore di Dio in Cristo, dal quale nessuna creatura può separarlo (cf Rm 8, 31-39; Gal 5, 23). 
Di questa certezza pratica troviamo tante conferme nella vita dei grandi mistici della Chiesa. «Tanto ferma fede pone Dio nell’interno di quell’anima che, quando torna in sé, le è impossibile dubitare d’essere stata in Dio e Dio in lei. Le rimane questa verità così profondamente impressa, che, quando passassero molti anni senza che Dio tornasse a farle tal grazia, non se la può dimenticare né dubitare di essere stata in Dio» (santa Teresa d’Avila, Castello interiore). 
Viviamo di congetture basate sulla certezza morale che in questo determinato momento ci fanno giudicare che siamo in buoni rapporti con Dio. Giudice immediato rimane sempre la coscienza (Gaudium et spes, n. 16), iI cui stato è in continuo processo di purificazione.Non si può però neanche escludere che, in questo giudizio, potrebbe anche introdursi uno spirito malvagio che si trasfigura in angelo di luce (cf 2 Cor 11, 14) (G. Crisostomo).
Lo Spirito ci fa coeredi di Cristo 
«E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rm 8,17). 
Ai figli è dovuta l’eredità del Padre. Non si tratta della appropriazione dei beni di un defunto. Dio nostro Padre è immortale. Si tratta dei possesso fermo, eterno e inalienabile dello stesso Dio. Dio stesso è la nostra eredità: «Il Signore è mia parte di eredità» (Sai 16, 5). 1 figli adottivi sono ammessi al possesso di Dio mediante la visone beatifica. 
Come « eredi di Dio », parteciperemo ai suoi beni, vivremo con lui da immortali, regneremo felicemente con lui. Non si tratta di una successione ma di una accessione o ammissione al possesso. Un possesso che non diminuisce a causa della moltitudine dei figli, non si accorcia a causa dei numero degli eredi. 
Per raggiungere in cielo il possesso dell’eredità dei Dio vivo, dobbiamo vivere secondo lo Spirito di Dio, dobbiamo mortificare la nostra carne per mezzo dello Spirito, dobbiamo lasciarci manovrare dallo Spirito, dobbiamo impegnarci a ubbidire allo Spirito (cf Rm 8, 13-14). 
Come « coeredi di Cristo », dobbiamo condividere l’eredità dei Dio morto in croce per noi, dobbiamo con Cristo e per Cristo morire sulla nostra croce. La nostra attesa della beatitudine promessa è tanto certa e sicura, quanto certa e sicura è la nostra partecipazione alla passione e morte di Gesù risorto. Siamo coeredi di Cristo come fratelli di lui, Figlio naturale di Dio, «primogenito tra molti fratelli» (Rm 8, 29). 
Siamo eredi dei Dio vivo; coeredi dei Dio morto in croce. Eredi di Dio come Padre, coeredi di Cristo come nostro fratello. Se partecipiamo alle sofferenze di Gesù crocifisso, sperimenteremo anche su questa terra manifestazioni certe e sicure della sua potenza, cioè un anticipo della sua gloria in ciascuno di noi e in mezzo a noi (G. Crisostomo). 
Siamo eredi di Dio, in quanto Padre, e coeredi di Cristo, in quanto nostro fratello. Come afferma Paolo: «siamo eredi di Dio e coeredi di Cristo se veramente partecipiamo al le sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria». 
Siamo coeredi di Cristo, figlio naturale di Dio, primogenito tra molti fratelli e sorelle di questo primogenito siamo proprio tutti noi.

PENTECOSTE: « VIENI, SANTO SPIRITO! »

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/12-13/04-Pasqua/Omelie/08-Domenica-Pentecoste-2013_C-SC.html

9 maggio 2013  | 8a Domenica: Pentecoste – Anno C  |  Appunti esegesitico-spirituali

« VIENI, SANTO SPIRITO! »

Non è facile presentare la ricchezza del « mistero » della Pentecoste, che non è solo un fatto di ieri, e perciò irripetibile nella sua « sostanza » come sono tutti i misteri della vita di Cristo, ma è anche e soprattutto l’inizio di una irruzione e di una « presenza » che si continua nella Chiesa di tutti i tempi. La Chiesa vive solo della forza e della « presenza » dello Spirito: insegna, santifica, guida, solo in virtù dello Spirito. Senza l’assistenza dello Spirito la Chiesa non potrebbe neppure celebrare l’Eucaristia, cioè realizzare di nuovo la presenza di Cristo in mezzo a noi!
La Liturgia odierna, pur consapevole della immensità del mistero, si sforza di farci percepire almeno i risultati o, come dire, i « frutti » di questa inabitazione dello Spirito nella comunità dei credenti, un po’ a somiglianza di quello che avvenne circa duemila anni fa a Gerusalemme nel giorno della prima Pentecoste cristiana.
È quanto si esprime nella meravigliosa colletta iniziale: « O Padre, che nel mistero della Pentecoste santifichi la tua Chiesa in ogni popolo e nazione, diffondi sino ai confini della terra i doni dello Spirito Santo, e continua oggi, nella comunità dei credenti, i prodigi che hai operato agli inizi della predicazione del Vangelo ». Dunque si prega il Padre che « rinnovi » oggi, in qualche maniera, i prodigi che furono realizzati in quegli inizi.
« Furono tutti pieni di Spirito Santo »
E i « prodigi » di quegli inizi sono appunto narrati, sia pure con linguaggio pieno di simbolismi, da S. Luca, all’inizio degli Atti degli Apostoli.
Di questo racconto noi vogliamo raccogliere soltanto alcune sollecitazioni. La prima è data dalla veemenza, come di un ciclone, che si abbatte gagliardo e riempie « tutta la casa dove si trovavano » gli Apostoli (At 2,2). È il simbolo della potenza dello Spirito, a cui niente e nessuno può resistere!
La seconda sollecitazione deriva dal senso di quelle « lingue come di fuoco che si dividevano e si posavano su ciascuno di loro » (2,3): simbolo dell’ardore che invade gli Apostoli, prima timidi e paurosi, adesso invece coraggiosi, e li abilita a « parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi » (2,4). Comunque si debba spiegare il miracolo delle « lingue », il suo significato di fondo è che il Vangelo della salvezza deve esser espresso « in ogni lingua », a tutti gli uomini della terra.
E precisamente questa è la terza sollecitazione che emerge dal testo, il quale sottolinea espressamente la « moltitudine » di persone che in occasione della festa ebraica della Pentecoste si trovavano a Gerusalemme: « Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia… stranieri di Roma… » (2,9-11). Eppure tutti « li udivano annunciare nella propria lingua le grandi opere di Dio » (2,1). È chiaro che la salvezza operata da Cristo è ormai destinata a tutte le genti. Proprio da questo nasce la domanda: dove abbiamo relegato noi cristiani, noi ministri della Chiesa, la responsabilità « missionaria » dell’annuncio del Vangelo a tutti i popoli della terra? È molto probabile che neppure nella nostra casa sappiamo annunciare e testimoniare il Vangelo: e forse neppure nella nostra parrocchia!
« Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore »
Se il racconto del libro degli Atti (2,1-11) ci descrive la discesa dello Spirito nel giorno della Pentecoste, come un evento che rende « visibile » la potenza di Dio in quel piccolo gruppo di credenti in Gesù morto e risorto, e perciò li indica davanti al mondo come la nuova « comunità » dei salvati, il brano del Vangelo di Giovanni (14,15-16.23-26) ci descrive piuttosto gli « effetti » della presenza dello Spirito nel cuore dei cristiani.
Vorrei dire che la lettura evangelica mette in evidenza la « forza » di trasformazione interiore e di illuminazione, che porta con sé questo « ospite dolce dell’anima », come lo invoca la insuperabile « sequenza » liturgica: « Consolator optime, / dulcis hospes animae, / dulce refrigerium.. / O lux beatissima, / reple cordis intima / tuorum fidelium ». È tutta l’anima mistica di Giovanni che si esprime nel brano di Vangelo odierno.
Esso è ripreso dal lungo discorso di addio, che Gesù fa dopo l’ultima Cena. Anche per temperare l’amarezza del distacco, egli promette ai suoi Apostoli il dono dello Spirito: « Se mi amate, osserverete i miei comandamenti. Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre » (Gv 14,15-16).
Il termine greco, reso qui con « Consolatore », è il più vago « Paraclito » (paràkletos), che può indicare sia colui che perora una causa (avvocato), sia colui che dà assistenza, rianima, conforta, dona sicurezza. Tutto questo orizzonte concettuale è espresso dal termine « Paraclito », che perciò indica molto di più che « Consolatore ».
Quello che è importante, comunque, è che esso continua, in qualche maniera, la funzione stessa di Cristo presso i discepoli: perciò viene chiamato « un altro Consolatore ». Tutto questo egli lo farà interiorizzandosi al cuore dei credenti, dando loro soprattutto la forza di penetrare meglio il mistero di Cristo e di attuarne il messaggio in una docilità amorosa. Di qui il riferimento iniziale all’amore: « Se mi amate, osserverete i miei comandamenti » (v. 15).
« Se uno mi ama, osserverà la mia parola »
È solo in forza dello Spirito che il cristiano potrà attuare le rigorose esigenze del Vangelo (si pensi soltanto al Discorso della montagna!), senza sentirle come un « giogo », ma come una manifestazione di « amore ».
Questo tema viene ripreso e approfondito nei versetti successivi: « Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato » (vv. 23-24).
Come si vede, il discorso qui si amplia: Gesù non reclama solamente fedeltà ai suoi « comandamenti », ma più in generale alla « parola » in quanto « parola » del Padre. Il cerchio dell’amore allora si allarga: da Cristo arriva fino al Padre che lo ha « mandato », e di cui egli è la « immagine » che lo esprime nella maniera più perfetta. D’altra parte, il Padre, vedendosi amato nel Figlio, sua Parola vivente, non potrà rifiutarsi a coloro che a questa « parola » totalmente si affidano.
Non è facile però avvertire la Parola come « presenza » del Padre e del Figlio in noi, senza la luce dello Spirito che ce la interpreta e ce la fa penetrare fino in fondo.
Infatti, essa non è un messaggio generico, ma contiene delle indicazioni precise per tutte le situazioni sempre cangianti della storia. Solo lo Spirito può aiutarci a vedere le infinite implicanze di questa Parola, senza che essa si stemperi e si vanifichi nella storia medesima, accondiscendendo a tutte le pretese e ai fraintendimenti degli uomini, magari anche teologi e responsabili delle comunità cristiane. Tutti, dal più sprovveduto cristiano al capo visibile della Chiesa, possiamo essere tentati di strumentalizzare la Parola!
« Lo Spirito di verità… vi insegnerà ogni cosa »
Ecco perché Gesù promette di mandare lo Spirito Santo, che è « Spirito di verità » (v. 17): « Queste cose vi ho detto quando ero ancora tra voi. Ma il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto » (vv. 25-26).
L’ »insegnamento » dello Spirito non è qualcosa di autonomo da quello di Cristo, ma una maggiore comprensione del medesimo, un richiamo alla mente e al cuore dei credenti, nelle situazioni più diversificate e imprevedibili, la « Parola » che fa per quel momento. Egli è la « memoria » fedele del passato, di tutto quello che Gesù ha fatto e detto, perché il « presente » della Chiesa e degli uomini riviva in tutta la sua forza esplodente la « Parola », che è stata detta una volta per sempre.
Per conto proprio, Giovanni più di una volta ricorda come lo Spirito ha aiutato gli stessi Apostoli a capire meglio i gesti e i detti di Gesù. Si pensi alla cacciata dei venditori dal tempio (2,17.22), oppure al suo ingresso solenne in Gerusalemme: « Sul momento i suoi discepoli non compresero queste cose, ma quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che questo era stato scritto di lui e questo gli avevano fatto » (12,16).
Ecco perché la Chiesa a tutti i suoi livelli (pastori, teologi e semplici fedeli) ha bisogno di riscoprire la « presenza » dello Spirito, che l’aiuti a interpretare il presente alla luce del passato, per preparare il « futuro »: proprio perché « Spirito di verità », egli è anche « Spirito di profezia » (Ap 19,10). Perché allora molte volte la Chiesa è in ritardo sugli eventi e non sa leggere i « segni dei tempi »?
Giustamente perciò la liturgia ci fa oggi pregare: « Manda, Signore, lo Spirito Santo promesso dal tuo Figlio, perché riveli pienamente ai nostri cuori il mistero di questo sacrificio e ci apra alla conoscenza della verità » (Orazione sulle offerte).
« Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio,
sono figli di Dio »
Anche la seconda lettura (Rm 8,8-17) ci descrive in maniera mirabile gli « effetti » della presenza dello Spirito nel cuore dell’uomo redento: però in prospettiva più « personale » che comunitaria, a differenza del testo evangelico.
Un primo effetto è quello di trasformare la nostra vita in una vita « secondo lo Spirito », sottraendoci alle voglie della « carne », che sta qui a indicare il principio del mero calcolo utilitaristico, o anche della dimensione esclusivamente umana dell’agire: « Quelli che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio. Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi… Così dunque, fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la carne per vivere secondo la carne; poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete » (Rm 8,8-9.12-13).
Lo Spirito, secondo tutta la prospettiva biblica, è principio di vita; le « opere della carne », invece, portano alla « morte ». Lo Spirito « di santità » non può convivere con il peccato!
Il secondo effetto dello Spirito è quello di costituirci « figli di Dio » in Cristo e di farcene gustare la gioia e la intimità, fino a poter chiamare anche noi Dio con il nome di « Abbà », come lo ha chiamato Gesù nella orazione del Getsemani. Il termine « Abbà », infatti, non vuol dire semplicemente « padre », ma « papà mio », con il senso di infantile abbandono con cui i bambini della Palestina di quel tempo si rivolgevano al loro genitore.
« Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: « Abbà, Padre! » Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze, per partecipare anche alla sua gloria » (vv. 14-17).
In tal modo Dio non è più il Dio « lontano », che ci atterrisce, o di cui ci si può disinteressare: ma è il Dio « vicino » che è coinvolto nella nostra vita, che noi possiamo riamare come lui ci ama, perché ci ha fatto partecipi del « suo » Spirito, che è essenzialmente « Spirito d’amore ».

Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola. Riflessioni biblico-liturgiche, Elledici, Torino

Our Lady of China

Our Lady of China dans immagini sacre virgin-peking-117

http://www.indefenseofthecross.com/Lady_of_China.htm

Publié dans:immagini sacre |on 16 mai, 2013 |Pas de commentaires »

MARTIN BUBER: RISOLUTEZZA

http://www.atma-o-jibon.org/italiano3/cammino_uomo3.htm

MARTIN BUBER

RISOLUTEZZA

Un chassid del Veggente di Lublino decise un giorno di digiunare da un sabato all’altro. Ma il pomeriggio del venerdì fu assalito da una sete così atroce che credette di morire. Individuata una fontana, vi si avvicinò per bere. Ma subito si ricredette, pensando che per un’oretta che doveva ancora sopportare avrebbe distrutto l’intera fatica di quella settimana. Non bevve e si allontanò dalla fontana. Se ne andò fiero di aver saputo trionfare su quella difficile prova; ma, resosene conto, disse a se stesso: « È meglio che vada e beva, piuttosto che acconsentire a che il mio cuore soccomba all’orgoglio ». Tornò indietro, si riavvicinò alla fontana e stava già per chinarsi ad attingere acqua, quando si accorse che la sete era scomparsa. Alla sera, per l’apertura del sabato, arrivò dal suo maestro. « Un rammendo! », esclamò lo zaddik appena lo vide sulla soglia.
Quando da giovane ascoltai per la prima volta questa storia, fui addolorato per la durezza con la quale il maestro aveva trattato quel discepolo zelante. Questi si impegna al massimo per realizzare una difficile ascesi, si sente tentato di romperla e supera la tentazione, e con tutto ciò non miete altro che un giudizio sfavorevole dal suo maestro. Indubbiamente il primo inciampo veniva da un potere del corpo sull’anima, cioè da un potere che bisognava spezzare, ma il secondo nasceva dalla più nobile delle motivazioni: meglio fallire che soccombere all’orgoglio per amore del successo! Com’è possibile essere rimproverati per una simile lotta interiore? Non significa esigere troppo dall’uomo?
È stato solo molto più tardi (ma già un quarto di secolo fa … ), cioè all’epoca in cui mi ero messo a narrare a mia volta questo racconto della tradizione, che ho capito che qui non si tratta assolutamente di esigere qualcosa dall’uomo. Lo zaddik di Lublino, per l’appunto, non aveva la reputazione di essere un sostenitore dell’ascesi, e il suo discepolo non aveva certo intrapreso quello sforzo con l’intenzione di fargli cosa gradita, ma piuttosto perché sperava di raggiungere così un grado più elevato dell’anima; d’altronde non aveva forse ascoltato, dalla bocca del Veggente stesso, che il digiuno può servire a questo fine nella fase iniziale dello sviluppo personale e nei successivi momenti critici? Le parole che il maestro rivolge ora al discepolo, dopo aver chiaramente osservato l’evolversi dell’azzardato tentativo con autentica comprensione, significano senza alcun dubbio questo: « In questo modo non è possibile raggiungere un grado più elevato ». Mette in guardia il discepolo su una cosa che inevitabilmente gli impedisce di realizzare il suo progetto; e questa ci appare chiaramente: oggetto del biasimo è il fatto di avanzare e poi indietreggiare; è l’andirivieni, il procedere a zigzag dell’azione che è opinabile. L’opposto del « rammendo » è il lavoro fatto di getto. Come realizzare un lavoro in un sol getto? Non in altro modo che con un’anima unificata.
Ma di nuovo ci si presenta l’interrogativo di sapere se questo alle volte non significhi trattare con eccessiva durezza un uomo. Le cose infatti vanno così nel nostro mondo: uno possiede – « per natura » o « per grazia », secondo come preferiamo esprimerci – un’anima unitaria, un’anima d’un sol getto e, di conseguenza, realizza opere unitarie, d’un sol getto, proprio perché la sua anima, così fatta, gliele ispira e gliele rende possibili; un altro invece possiede un’anima molteplice, complicata, contraddittoria, che naturalmente determina la sua azione: gli impedimenti e gli inciampi dell’agire dipendono dagli impedimenti e gli inciampi dell’anima, l’inquietudine di questa si manifesta nell’inquietudine di quello. Un uomo di questo genere cosa può mai fare se non sforzarsi di superare le tentazioni che gli si presentano sul cammino verso la meta prefissata? Cosa può fare se non, appunto, ogni volta, nel corso dell’azione, « riprendersi » – come si usa dire -, cioè raccogliere la propria anima sfilacciata in tutte le direzioni, concentrarla e indirizzarla sempre nuovamente verso la meta, pronto inoltre – com’è il caso del chassid del nostro racconto -, nel momento in cui l’orgoglio lo tenta, addirittura a sacrificare la meta pur di salvare l’anima?
Se riesaminiamo ancora una volta il nostro racconto a partire da queste domande, scopriamo finalmente l’insegnamento contenuto nella critica del Veggente. È l’insegnamento secondo il quale l’uomo è in grado di unificare la propria anima. L’uomo che ha un’anima molteplice, complicata, contraddittoria non è ridotto all’impotenza: il nucleo più intimo di quest’anima – la forza divina che giace nelle sue profondità – è in grado di agire su di essa e trasformarla, può legare le une alle altre le forze in conflitto e fondere insieme gli elementi che tendono a separarsi, è in grado di unificarla. Questa unificazione deve prodursi prima che l’uomo intraprenda un’opera eccezionale. Solo con un’anima unificata sarà in grado di compierla in modo tale che il risultato sia non un rammendo ma un lavoro d’un sol getto. È proprio questo che il Veggente rimprovera al chassid: di aver corso l’azzardo con un’anima non unificata; nel corso dell’opera, infatti, l’unificazione non riesce. Ma non bisogna nemmeno immaginarsi che l’ascesi possa provocare l’unificazione: può purificare, può anche concentrare, ma non può far sì che il risultato così ottenuto si mantenga fino al conseguimento della meta, non può proteggere l’anima dalla sua propria contraddizione.
C’è tuttavia un aspetto che bisogna tenere ben presente: nessuna unificazione dell’anima è definitiva. Come l’anima più unitaria per nascita è pur tuttavia assalita a volte da difficoltà interiori, così anche l’anima più accanita nella lotta per la propria unità non può mai raggiungerla pienamente. Però ogni opera che compio con un’anima unificata agisce di rimando sulla mia anima, agisce nel senso di una nuova e più elevata unificazione; ognuna di queste opere mi conduce, anche se con diverse deviazioni, a un’unità più costante di quella antecedente. Alla fine si giunge così a un punto in cui ci si può affidare alla propria anima perché il suo grado di unità è ormai cosi elevato che essa supera la contraddizione come per gioco. Anche allora, naturalmente, è opportuno restare vigilanti, ma è una vigilanza serena.
In uno dei giorni di Chanukkà, Rabbi Nahum, figlio del Rabbi di Rizin, entrò all’improvviso nella ieshivà e trovò gli studenti che giocavano a dama, com’è d’uso in quei giorni. Quando videro entrare lo zaddik, si confusero e smisero di giocare; ma questi scosse benevolmente la testa e chiese: « Ma conoscete anche le leggi del gioco della dama? ». E siccome essi non aprivano bocca per la vergogna, si rispose da sé: « Vi dirò io le leggi del gioco della dama. Primo: non è permesso fare due passi alla volta. Secondo: è permesso solo andare avanti e non tornare indietro. Terzo: quando si è arrivati in alto, si può andare dove si vuole ».
Ma significherebbe fraintendere completamente il significato di « unificazione dell’anima » il tradurre il termine « anima » diversamente da « l’uomo intero », corpo e spirito fusi insieme. L’anima è realmente unificata solo a condizione che tutte le forze, tutte le membra del corpo lo siano anch’esse. Il versetto della Scrittura: « Tutto ciò che la tua mano trova da fare, fallo con tutte le tue forze! » il Baal-Shem lo interpretava così: « quello che si fa, va fatto con tutte le membra », cioè: bisogna coinvolgere anche tutto l’essere corporale dell’uomo, nulla di lui deve restare fuori. Quando l’uomo diventa una simile unità di corpo e di spirito insieme, allora la sua opera è opera d’un sol getto.

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO - STUDI |on 16 mai, 2013 |Pas de commentaires »
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