Archive pour avril, 2013

DELLA SPIRITUALITÀ, OSSIA IL MISTERO DI CRISTO E LA VITA DEL CRISTIANO – PARTE PRIMA

http://www.sanfrancescodipaola-palermo.it/format/spiri.pdf

(Paolo è presente in molte parti del testo; è un PDF l’ho dovuto trasformare in Txt e stringere, se c’è qualche errore scusate)

DELLA SPIRITUALITÀ, OSSIA IL MISTERO DI CRISTO E LA VITA DEL CRISTIANO – PARTE PRIMA

DON MASSIMO NARO

 «Un giorno rabbì Nahum entrò all’improvviso nella scuola del Talmud e trovò gli studenti che giocavano a dama. Quando questi videro entrare il maestro, si confusero e smisero di giocare; ma il maestro scosse benevolmente la testa e chiese: « Conoscete le regole del gioco della dama? ». E siccome gli allievi non aprivano bocca per la vergogna, Nahum si rispose da sé: « Vi dirò io le regole del gioco della dama. Primo, non è permesso fare due passi alla volta. Secondo, è permesso andare solo in avanti ma non tornare indietro. Terzo, quando si è arrivati in alto, beh, allora si può andare dove si vuole »».  Questa breve e simpatica lezione «rabbinica» è tratta dall’opera del filosofo ebreo Martin Buber, intitolata I racconti dei Chassidim (Milano 1979). Rabbì Nahum, senza umiliare i suoi giovani allievi, più inclini a giocare a dama che a studiare il Talmud, coglie l’occasione per dar loro un importante insegnamento sulla vita del credente, servendosi — secondo lo stile che fu già di Gesù — del gioco della dama a mo’ di parabola. La lezione è trasparente e immediata: il gioco della vita si evolve secondo regole ben precise, procedendo gradualmente verso il suo pieno sviluppo; ma, allorché si raggiunge la maturità interiore, si conquista allora la libertà dello spirito.  La parabola di Nahum può servire per introdurci nella riflessione di oggi, che ho preferito intitolare Il mistero di Cristo e la vita del cristiano, in quanto — per noi credenti in Cristo Gesù — la piena realizzazione della nostra vita avviene quando raggiungiamo «la statura» (per usare una parola di san Paolo) del nostro Maestro e Redentore, grazie al dono del suo stesso Spirito che opera in noi.  Lo schema, che dovreste avere in mano, prevede tre punti, su cui ci fermeremo un po’ a riflettere:  a) «nella foresta dei vocaboli»: cercheremo di chiarire il significato di alcune parole che spesso sentiamo pronunciare e usiamo noi stessi, in riferimento alla vita cristiana;
 b) «la spiritualità cristiana»: identificando la vita cristiana con la vita
spirituale, tenteremo di comprendere in cosa questa consiste;
 c) «una mistica dell’azione e per l’azione»: tenuto conto che la vita cristiana è
vivere nel mistero di Cristo, vedremo in che senso essa può e deve coincidere con la nostra
esperienza quotidiana, sino ad assimilarla tutta quanta in sé.
 NELLA FORESTA DEI VOCABOLI
 Innanzitutto tentiamo di districarci nella «foresta dei vocaboli», ossia di capire, almeno per sommi capi, di cosa parliamo quando usiamo certe parole come vita cristiana, mistero di Cristo, attività apostolica, contemplazione, ascetica e mistica.  La nozione di vita cristianadovrebbe essere scontata per tutti noi, che ormai da un certo tempo, più o meno lungo, abbiamo intrapreso un rapporto di amicizia con Cristo Gesù. Già questa semplicissima affer-mazione: «intraprendere un rapporto d’amicizia con Gesù», dovrebbe bastarci per comprendere nella sua essenza più intima la vita cristiana. Tuttavia può tornare utile ricordare che nella Bibbia, come pure negli scritti dei Padri della Chiesa, la parola «vita», accompagnata e qualificata dall’aggettivo «cristiana», ha un significato particolare e per niente ovvio. Nella traduzione greca dell’A.T., e poi anche nel N.T. e negli scritti cristiani dei primi secoli — anch’essi redatti prevalentemente in greco –, si incontrano due termini diversi per dire «vita»: bìos e zoé.  Il termine bìos sta ad indicare la vita biologica, quella che il Creatore pone in essere allorché crea dal nulla il cosmo, e in esso la terra, e in essa tutti gli esseri viventi, che 2popolano il cielo, il mare, la terraferma; è il principio biologico di cui anche Adamo usufruisce da Dio quando questi gli alita nelle narici il suo soffio vitale. In quanto tale bìos è una prerogativa creaturale: appartiene a tutti gli esseri viventi creati da Dio; essa è destinata a terminare il suo ciclo vitale, ad estinguersi, a cedere il posto alla morte, a ritornare presso il Creatore, da cui era scaturita in forma di alito vivificatore.  Il termine zoé, invece, sta ad indicare, nel linguaggio biblico, la completezza della vita. Completezza intesa in senso antropologico, poiché zoé è la vita dell’essere esistente razionale, dell’uomo, che ha un cuore e una mente che lo innalzano su un gradino superiore rispetto a tutte le altre creature terrestri. Completezza, inoltre, intesa anche e soprattutto in senso teologico, in quanto zoé è la vita che rimanda inequivocabilmente al suo divino datore, a Colui che la dona gratuitamente all’uomo, offrendogliela in segno della sua predilezione fra tutte le altre creature, e che la preserva da mille pericoli facendosene il garante fedele e provvidente. In questa prospettiva, zoé è un concetto più vasto e più ricco di significato rispetto a bìos; zoé risulta essere una vita più intensa e più piena, che include anche la dimensione della vita biologica, ma che, al contempo, la trascende. Zoé, insomma, è l’esistenza stessa dell’uomo che si identifica col suo fondamento: il rapporto di comunione, di intima vicinanza, di amicizia, di alleanza indefettibile con Dio Creatore e Liberatore. Nel N.T. — specialmente nelle lettere paoline e, ancor più, negli scritti giovannei –, zoé comincia a indicare la partecipazione dell’uomo, reso solidale al Cristo crocifisso-risorto, alla Vitadel Dio uni-trino che Gesù è venuto a rivelare. Secondo san Paolo, l’uomo, liberato dal peccato, riassurge alla sua originaria dignità di creatura prediletta di Dio, arricchito però della dignità che gli deriva ora dalla figliolanza adottiva ottenutaci dal e nel Figlio. Secondo san Giovanni, l’uomo, visitato dal Verbo di Dio, diventa discepolo e testimone del Cristo. In tal senso, se bìos rimane una prerogativa creaturale e in quanto tale appartiene all’uomo creato, zoé diventa invece una prerogativa salvifica e in quanto tale compete esclusivamente all’uomo redento, all’uomo ri-creato, che accetta di rinascere nella vita nuova del Crocifisso-Risorto e di farsi suo discepolo, assurgendo così alla nuova condizione di figlio del Padre nell’Unigenito Figlio. Zoé diventa il principio vitale del cristiano, che avverte in sé e proclama davanti a tutti gli altri uomini la vocazione a vivere con Dio e di Dio, partecipe della vita divina in solidarietà col Figlio incarnato e redentore. La vita cristiana, dunque, risulta essere una conseguenza e una continuazione del mistero di Cristo, della sua morte e resurrezione intese a rivelare l’Amore del Padre e a salvare gli uomini, e di tutto ciò che tale mistero comporta per gli uomini. La vita cristiana è vita del cristiano, che gli appartiene del tutto e per sempre, ma che tuttavia egli ha ricevuto come un dono gratuito, una sorta di «talento» (per usare l’immagine evangelica), che deve essere trafficato secondo delle «regole» (per tornare alla lezione di rabbì Nahum) ben precise: la sequela e l’imitazione di Cristo Gesù, realizzate con quella dedizione totalitaria che Gesù stesso richiede ai suoi discepoli nel vangelo: «Chi mette mano all’aratro ma poi si volge indietro, non è degno di me». E l’inserimento nel mistero di Cristo, cioè nella sua pasqua di morte e resurrezione, — inserimento che inizia col battesimo e si fa sempre più profondo man mano che si cresce nella fede, nella speranza e nella carità –, costituisce come il «cordone ombelicale», per mezzo del quale il cristiano riceve il dono della vita divina. Ripeto: «vita divina», perché, in realtà, la vita del cristiano, in quanto zoé, si caratterizza anche teologicamente, e non solo antropologicamente: è vita che proviene dal Dio uni-trino, vita che scaturisce dal seno del Padre, e tramite il Cristo e per la potenza dello Spirito Santo, si attenda in mezzo all’umanità, nel cuore dell’uomo redento, mentre — allo stesso tempo — innesta l’umanità nel cuore di Dio.  La vita del cristiano, cioè la vita di colui che entra per Grazia di Dio nel mistero di Cristo, diventando discepolo e amico di Gesù, si caratterizza comunemente come «apostolato». Coloro che Gesù di Nazareth chiamò a sé, divennero gli apostoli del suo vangelo. Ciò avviene, in un certo qual modo, anche oggi: tutti noi siamo, in un certo senso, «apostoli», perché testimoniamo il vangelo di Cristo nella comunità ecclesiale e nel mondo. Il termine «apostolato», in questo senso, indica il modo più comune di vivere la sequela di Cristo. Esso fa pensare all’attività dell’evangelizzatore: di colui che predica il vangelo, ma anche di chi opera la carità tra i fratelli. E’ apostolato quello che svolgono gli operatori pastorali (per esempio: i catechisti). Ma è apostolato anche quello che ciascun cristiano, nella sua vita d’ogni giorno, svolge nel proprio ambiente di lavoro, nella famiglia, nella società, nella misura in cui si mantiene coerente allo stile di vita che col battesimo ha intrapreso. Si tratta, comunque, di una vita di tipo «attivo», in cui il cristiano si apre sì, passivamente, alla Grazia, lasciandosi da essa condurre e rinfrancare, ma collabora, nel contempo, con essa prestando il proprio impegno in una serie di «attività» apostoliche.  Per quanto riguarda la contemplazione, se stiamo al significato etimologico della parola, essa altro non è che fissare lo sguardo su una realtà che attira fortemente l’attenzione e il desiderio di chi guarda. Si contempla la bellezza dei paesaggi naturali, del mare, dei monti, del cielo d’estate. Nell’ambito della vita cristiana, l’oggetto della contemplazione è Dio uni-trino: il mistero del Padre che crea e salva gli uomini, del Cristo che ce lo rivela, dello Spirito che ce lo fa conoscere e comprendere. E’, insomma, il mistero trinitario, che si realizza in mezzo a noi nel mistero pasquale di Cristo Gesù e che illumina, includendolo in sé, il nostro stesso mistero, il mistero dell’uomo redento. Contemplare, in questo orizzonte, significa affondare gli occhi della fede, della speranza e dell’amore in questo mistero. Contemplare significa sapere, a prescindere dalle nostre umane conoscenze e dalle nostre umane capacità di conoscere, che un tale mistero esiste e si realizza per noi. Contemplare è un sapere tale mistero; sapere nel senso originario di «sàpere», ossia di «gustare», «assaporare» il mistero, più che di scandagliarlo o di anatomizzarlo. E’ chiaro, comunque, che la contemplazione più autentica e più «pura» non è, di fatto, appannaggio di tutti i cristiani, anche se tutti i cristiani possono approdarvi: non tutti i cristiani sono dei contemplativi nel senso proprio del termine, benché la storia del cristianesimo ne conosca moltissimi; ma tutti i cristiani possono giungere a contemplare il mistero di Dio. Questo perché, in verità, colui che giunge alla contemplazione non vi riesce per suo merito personale, ma perché gli viene concesso in dono da Dio stesso. In questo senso, coglieva nel segno san Francesco d’Assisi, che fu vero contemplativo, quando augurava a tutti coloro che incontrava sulla sua strada: «Il Signore faccia splendere su di te il suo viso, ti mostri la sua faccia, volga a te il suo sguardo e ti dia pace!». Un’altra parola che spesso si sente pronunciare, o che noi stessi pronunciamo, parlando della vita cristiana, è il termine «ascetica». L’ascetica, lo dice la parola stessa, indica la «salita» che l’uomo religioso compie per trascendere, in un certo qual modo, la propria situazione «terrena», anelando ad attingere Dio stesso, dopo essersi perfezionato dalle proprie mancanze e difetti umani. Insomma, mentre il contemplativo attinge Dio perché questi si china su di lui, lasciandosi quasi vedere dagli occhi della fede, l’asceta dal canto suo tenta di attingere Dio, innalzandosi da sé e percorrendo gli irti sentieri che portano, dalla condizione umana alla presenza dell’Altissimo. Per riuscire in tale scopo, l’asceta disciplina la propria vita, sottoponendosi volontariamente a una serie di «esercizi». Si tratta, ovviamente, principalmente di esercizi di tipo spirituale, ma, tante volte, anche di esercizi corporali, ossia di pratiche di autoperfezionamento che implicano la partecipazione di tutto l’essere dell’asceta, anche del suo corpo. E’ chiaro, del resto, che in questo orizzonte l’asceta può anche non essere cristiano: basti pensare ai mitici «fachiri» indiani e ai santoni indù. Esiste, però, certamente un’autentica ascesi cristiana: l’asceta cristiano sa bene che il proprio perfezionamento è solo un riflesso della divina perfezione; l’asceta cristiano, soprattutto, sa che l’«esercizio» che deve compiere è quello di portare, insieme a Cristo, la sua stessa croce. L’ascesi cristiana esige che si accolga la croce di Cristo, come dei novelli «cirenei». Si capisce, però, in questo caso, che l’ascesi cristiana non è uno sforzo semplicemente e solamente umano, che l’uomo compie per conto suo tendendo alla perfezione in quanto tale o comunque a una non meglio definita perfezione divina. Sappiamo bene, infatti, che nel caso cristiano è in realtà la croce di Cristo che porta e sostiene l’asceta, che gli dà la forza e il desiderio necessari per continuare con perseveranza nel cammino della perfezione. Non si tratta, cioè, di un conato soltanto umano; si tratta, ancora una volta, di un dono che viene dall’alto e che mette l’asceta cristiano nelle condizioni di conformarsi in maniera particolarissima al Cristo crocifisso e di partecipare alle sue sofferenze. Tuttavia, a questo dono dall’alto — che è, poi, pur sempre la Grazia — l’asceta cristiano si sforza eroicamente di collaborare.  Più difficile risulta definire, e persino descrivere, che cosa è la mistica; anche gli studiosi specialisti in questo campo non sono del tutto d’accordo sul significato da attribuire al termine «mistica». Secondo don Divo Barsotti la mistica consiste nel fatto che «Dio Padre genera il Figlio suo nel cuore dell’uomo, così che l’uomo partecipi in qualche modo a una divina « maternità ». Dio si comunica all’uomo prolungando, in qualche modo, all’uomo la generazione del Verbo». La mistica, allora, sarebbe, in tal senso, la generazione del Verbo in noi da parte di Dio Padre, per la potenza dello Spirito Santo. Altri autori preferiscono sottolineare l’aspetto «sponsale» della mistica: l’anima del credente celebra le «nozze» col suo amato Sposo Cristo Gesù. A noi può bastare, innanzitutto, distinguere ancora tra una mistica genericamente religiosa o misteriosofica e la mistica propriamente cristiana: la mistica misteriosofica è stata e continua ad essere, presso le religioni non cristiane, il proiettarsi da parte di alcuni eletti dentro il mistero, o i misteri, che circondano l’uomo,ma che rimangono inaccessibili ai più. La mistica cristiana, invece, rimanda sì al mistero, ma al mistero cristiano così come lo si intende sin dai tempi neotestamentari, secondo la lezione di san Paolo, cioè il mistero di Dio, per secoli rimasto nascosto nel seno del Padre, ma che poi si è manifestato agli uomini in Cristo Gesù e che tra gli uomini continua a realizzarsi per la potenza dello Spirito Santo. In questo orizzonte, il mistero non è più considerato come l’«arcano» invisibile,inconoscibile e inaccessibile, bensì come la realtà di Dio-Amore, che si è fatta manifesta e si è messa alla portata di tutti in Cristo Gesù, di «tutti», nessuno escluso. In tal senso, la mistica diventa alla portata del cristiano, di ciascun cristiano, già al momento del battesimo, che nel nome della Trinità inserisce l’uomo nel mistero di Dio, facendolo «mistericamente» (non semplicemente «misteriosamente»!) morire insieme a Cristo e risorgere insieme con Lui. E tale inserimento nel mistero continua e si approfondisce man mano che il credente progredisce nella vita cristiana in seno alla Chiesa, ricevendo in mezzo ai fratelli l’unzione del crisma e realizzando con i fratelli il vincolo della comunione eucaristica. In questa prospettiva, già i sacramenti — e in modo eminente il sacramento dell’iniziazione cristiana — sono «eventi» mistici per tutti e per ciascun cristiano. Che esistano, poi, anche dei «fenomeni» mistici, come l’estasi e le stimmate, non contraddice alla veritàche la mistica cristiana non è un fatto elitario, per pochi eletti, ma un fatto che interessa da vicino tutti i cristiani. Spesso i fenomeni mistici si pongono al culmine di un rapporto d’amicizia particolarmente intenso con Gesù, a coronamento di un determinato cammino di santità; ma altre volte può avvenire che un fenomeno mistico sia il primo passo nell’itinerario della santità cristiana, basti pensare all’esperienza di san Paolo sulla via di Damasco. Sperimentare — ancora una volta per Grazia di Dio — i fenomeni mistici, come è avvenuto a san Francesco d’Assisi e a santa Caterina da Siena (tanto per citare due santi italiani), significa partecipare al mistero di Cristo in modo particolare, ma non per forza in modo più eccelso. Prova di ciò che sto affermando è il fatto che la santità cristiana, che in un certo senso è proprio la mistica, non è realizzata solo dai grandi mistici.  La chiamata alla santità, insegna il Vat. II nel n. 40 della Lumen Gentium, è rivolta dal Padre, in Cristo, a tutti i cristiani, nessuno escluso. La santità è l’orizzonte che attende tutti i cristiani. L’attività apostolica, la contemplazione, l’ascesi e la mistica, sono modalità diverse, spesso tra di esse complementari, dell’unica santità cristiana in cui deve maturare e culminare la vita di ciascun cristiano.  Se così stanno le cose, forse è proprio il caso di sfatare la preminenza di una semplice modalità della santità sulle altre, e di riconoscere, invece, il primato a Dio che realizza in ciascuno la santità e a ciascuno dà una particolare vocazione di santità. Solo nella consapevolezza che la santità non è una conquista umana, bensì un dono e una chiamata — una chiamata rivolta atutti! — ogni cristiano può giungere a fare della propria vita il teatro in cui si realizza l’esperienza di Dio. Si badi bene: diciamo «esperienza di Dio», nel senso che è Dio che agisce principalmente nell’esistenza dell’uomo. La preposizione «di» (esperienza di Dio) regge un genitivo soggettivo, non oggettivo: l’esperienza di Dio è l’esperienza che Dio fa nei confronti dell’uomo e non l’esperienza che fa l’uomo captando o impossessandosi o mettendo alla prova Dio. Nella Bibbia — ricordiamolo – è sempre Dio che mette alla prova i suoi fedeli, è Dio che saggia l’amore del suo popolo, la fedeltà dei patriarchi (Noé, Abramo, Mosé), la giustizia dei giudici e dei re (Jefte, Davide), il coraggio e l’abnegazione dei profeti (Isaia, Geremia, Giona, Osea), la pazienza dei santi d’Israele (Giobbe). E’ sempre Dio che si china gratuitamente sugli uomini e li rende suoi interlocutori, è Dio che si pone graziosamente alla portata del loro cuore e della loro mente, delle loro orecchie e dei loro occhi, sino al punto che, in Gesù di Nazareth, si consegna persino nelle loro mani. Agli uomini non resta che accogliere con gratitudine il Dio che si fa loro vicino, accettarne la presenza nella loro storia; e nella misura in cui lo fanno, riescono, a loro volta, a «sperimentare» l’amore di Dio: è Dio che entra nella loro esistenza e poi li accoglie nell’intimo del suo mistero, non gli uomini che lo afferrano e ne scandagliano le profondità.

DELLA SPIRITUALITÀ, OSSIA IL MISTERO DI CRISTO E LA VITA DEL CRISTIANO – PARTE SECONDA

DELLA SPIRITUALITÀ, OSSIA IL MISTERO DI CRISTO E LA VITA DEL CRISTIANO – PARTE SECONDA

DON MASSIMO NARO

LA SPIRITUALITÀ CRISTIANA
 Il processo, che il cristiano affronta per maturare nella santità, è denominato comunemente «vita spirituale» o anche «spiritualità». Si tratta di espressioni che dicono molto di più di ciò che, di primo acchito, sembrerebbero dire. Come la vita del cristiano non è la vita meramente biologica, ma la vita stessa divina, che fa del cristiano un figlio di Dio nella misura in cui lo rende solidale all’unigenito Figlio Cristo Gesù, così pure la vita spirituale non è solo la vita che «interiormente» il cristiano vive per colmare in sé la misura della santità. La vita spirituale coincide solo in parte con la cosiddetta «vita interiore» del cristiano. Vita spirituale significa sì vita interiore, nel senso che costituisce un movimento vitale spesso non manifesto, bensì discretamente agitato nell’intimo del proprio animo, un movimento «interiore» che alimenta anche l’attività «esteriore» del cristiano, un rapporto «privato» e «confidenziale» con Dio, che sostiene e motiva la testimonianza «pubblica» che il credente rende, nella Chiesa e nella società, al suo Cristo.  Tuttavia, la vita spirituale propriamente detta, non si riduce a «vita interiore». La vita spirituale, cioè, è la vita dello Spirito di Dio, che si travasa nel cristiano, per informarne i moti e i desideri dell’animo, ma anche le scelte operative e le azioni quotidiane. La vita spirituale, cioè, non è solo la vita dello spirito del cristiano, ma è anche e soprattutto la vita dello Spirito Santo, che irrompe — mistericamente — nel cuore del cristiano e che lo inserisce — misticamente — nel cuore di Dio.  In questo senso, è chiaro che il vero protagonista della vita spirituale è lo Spirito Santo, e che noi cristiani siamo i deutero-agonisti, i co-attori, della nostra stessa santità. Si tratta di riconoscere a Dio il primato assoluto nella nostra esistenza: da Lui proviene la vita nuova che Cristo ci ha guadagnato con la sua Pasqua, da Lui procede lo Spirito di Vita che ci santifica, è Lui che prende l’iniziativa di chiamarci alla santità. Il cammino di santità è «nostro» solo perché noi accettiamo di compierlo insieme con Dio, ma in realtà è Dio stesso che ci sostiene durante il cammino. Vale per tutti noi l’esperienza di sant’Agostino, il quale racconta nelle sue Confessioni come egli, una volta, sognò di camminare sulla spiaggia, spalla a spalla con Gesù; ma voltatosi indietro per un attimo, si accorse che sulla sabbia erano impresse solo due, e non quattro, orme; si rese allora conto che egli aveva sì camminato, ma sorretto saldamente in braccio dal suo Compagno di viaggio. Anche noi dobbiamo essere fiduciosi nella presenza amica di un compagno di viaggio:«Non vi lascio soli, ma vi mando un Consolatore», ci ha promesso Gesù. E’ lo Spirito del Risorto che ci accompagna nel viaggio di ritorno verso il Padre.  Forse, a questo punto, è il caso di parlare un po’ di più di questo nostro Compagno di viaggio, da sempre presente nella storia della salvezza, nell’avventura dell’antico Israele, nella vicenda terrena di Gesù di Nazareth e nella vita della Chiesa di Cristo.  Dio realizza la storia della salvezza con la potenza del suo santo Spirito. L’economia salvifica è tutta percorsa dalla «dynamis» (forza) di Dio, che è il suo Spirito. Lo Spirito, inoltre, è stato rivelato da Gesù, perché in lui ha agito con potenza e da lui è stato promesso alla Chiesa nascente. La fede della Chiesa nello Spirio Santo, quale «Signore che dà la vita, procede dal Padre, che insieme col Padre e col Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti» (Costantinopoli, a. 381), tale fede trae origine proprio da questo: dal riconoscere in Gesù il Figlio inviato dal Padre, il Dio vivente, che ci salva nel suo Spirito. Lo Spirito Santo appartiene dunque alla confessione della fede in Cristo e con essa rende conto della verità e dell’efficacia della rivelazione e del dono della salvezza cristiana. Tutta la storia della salvezza testimonia l’opera salvifica dello Spirito. Lo Spirito di Dio, per l’A.T., è la potenza personale di Jahvé, la forza comunionale che stabilisce la relazione fra Dio e le sue creature: escludendo una parentela ontica, anzi proprio in forza di una radicale alterità, lo Spirito consente l’incontro tra Dio e l’uomo, attuato attraverso una serie di interventi storici progressivi, volti ad un futuro universale di salvezza. Nell’esperienza dell’antico Israele, che sperimenta le meraviglie di salvezza, la «ruah Adonai» (Spirito del Signore) assume un  triplice compito: cosmologico, antropologico e teologico. Cosmologico: la ruah è il respiro di Dio, il vento divino che spira dolcemente o che sibila impetuosamente su tutte le creature e che le mantiene in vita, perché segno della presenza e della potenza del Creatore. Antropologico: il respiro di Dio è la condizione di vita dell’uomo, in un certo senso è la vita stessa. Quando muore, l’uomo perde la ruah («Se ritrai il tuo respiro, muoiono e ritornano nella polvere; mandi il tuo alito, vengono creati e rinnovi la faccia della terra – Sal 104,29»). Teologico: nell’A.T. c’è un senso del termine ruah qualitativamente superiore agli altri: essa (la ruah) non è solo il principio della vita biologica, ma anche il principio della comunione e dell’amicizia con Dio: lo Spirito crea un cuore nuovo (Ez) ed è una forza che trasforma gli uomini e li conferma nell’alleanza e nella vocazione di servitori e collaboratori di Dio.  Nel N.T. lo Spirito è svelato quale prerogativa dell’Uomo Nuovo, che è Cristo. Nei sinottici la storia di Gesù è interpretata tutta in senso pneumatologico: Gesù è un carismatico, non nel senso che è un «invasato» dello Spirito come gli antichi veggenti, ma nel senso che in lui dimora la potenza di Dio, che lo fa parlare con autorità ed agire con potenza; lo Spiriro Santo è la «regola» della vita di Gesù: Egli è presente al momento dell’incarnazione, al momento del battesimo al Giordano, sulla croce, nel sepolcro scoperchiato per lasciare ascendere al Padre il Risorto, nella pentecoste. In tal senso, già san Basilio Magno, nel IV sec., definì lo Spirito come «il compagno di viaggio» del Cristo (De Spiritu Sancto). Negli Atti degli Apostoli, la Chiesa è il tempo dello Spirito di Gesù: lo Spirito fa ripetere i gesti di Gesù, fa annunciare la parola di Gesù, rende presente Gesù nella frazione del pane, garantisce la comunione in Cristo e tra i fratelli. In Paolo la pneumatologia assume un chiaro tenore soteriologico: lo Spirito diventa prerogativa degli uomini nuovi, cioè di coloro che, consepolti e risorti con Cristo Uomo Nuovo, sono tempio dello Spirito e figli di Dio. In Gv lo Spirito è il Paraclito (l’avvocato, colui che intercede a favore dei discepoli, il consolatore); ed è lo Spirito di Verità, che, pur rimanendo — come scrive Balthasar — «lo Sconociuto al di là del Verbo», guida alla verità tutta intera, la verità che salva e libera dal peccato. Insomma, nella linea dell’A.T., lo Spirito secondo il N.T. agisce nella storia, concentrandosi nella singolare persona del Cristo: Cristo è il salvatore, e lo Spirito è lo Spirito del Salvatore. In quanto nell’evento di Cristo si ha la massima concentrazione dell’opera dello Spirito, attraverso Cristo si attua pure la massima dilatazione pneumatica: lo Spirito si diffonde su ogni «carne» e nella Chiesa e attraverso la Chiesa anticipa e prepara la rigenerazione universale, cosmica e umana. Avviene, così, la prosecuzione storico-salvifica dell’evento di Cristo nell’evento dello Spirito, come ha affermato il Vat. II: «Il Signore Gesù, « che il Padre santificò e inviò nel mondo – Gv 10,36″, rese partecipe dell’unzione dello Spirito, con la quale è unto, tutto il suo Corpo mistico» (OPT 1,2). Il senso è chela storia della salvezza dopo la dipartita di Gesù consiste in una partecipazione storico-salvifica all’unzione di Gesù stesso, così che qualcosa di lui continua nella storia, cioè la pienezza del suo Spirito. Questa «tradizione» (nel senso di «trasmissione») dello Spirito nella storia avviene nella e per mezzo della Chiesa fondata da Cristo, di cui lo Spirito del Risorto è come l’anima. L’opera dello Spirito nella storia della salvezza, nella Chiesa e tramite la Chiesa Mistica Persona, secondo la suggestiva definizione del teologo H. Mühlen, si può dunque descrivere con la formula: «una Persona in molte persone». In tal senso la Chiesa è il mistero dello Spirito Santo che «vive» in Cristo e nei cristiani. E il cristiano, a sua volta, è l’uomo «spirituale»: l’uomo «nato dallo Spirito» (cf. Gv 3) e che vive «secondo lo Spirito» (cf. Gal 5,13 ss.). L’uomo «spirituale», reso solidale al Cristo dallo Spirito Santo, è una «nuova creatura» (cf. 2 Cor 5), uomo nuovo rispetto all’uomo vecchio, l’antico Adamo, che ormai, a causa del peccato, è fatiscente e votato alla distruzione.  Da quanto detto sin qui, risulta chiaro che è proprio lo Spirito Santo che realizza, nella Chiesa e in ciascun cristiano, la santità. La santità, in tale prospettiva «pneumatica», si caratterizza come vita dello Spirito in noi: è lo Spirito Santo che garantisce la presenza in noi della vita agapica trinitaria, colui che fa dell’uomo il tempio santo di Dio. E, allo stesso tempo, lasantità si caratterizza pure come vita nello Spirito: non solamente il cuore del credente diventa tabernacolo della vita pneumatica, ma la stessa vita pneumatica diventa l’ambiente vitale e l’atmosfera in cui il credente matura la santità. Ce lo insegna san Paolo nelle sue lettere ai Galati e ai Romani: «Lo Spirito grida in noi: Abbà, Padre» (Gal 4,6); «noi gridiamo nello Spirito: Abbà, Padre» (Rm 8,15).
 UNA MISTICA DELL’AZIONE E PER L’AZIONE
 Per concludere la nostra riflessione, passiamo a considerare in che senso si può parlare di «una mistica dell’azione e per l’azione». Avendo già chiarito che la vita cristiana è, in un certo senso, vita «mistica», — in quanto vuol dire «vivere nel mistero di Cristo», in comunione col Crocifisso-Risorto, nel vincolo dello Spirito Santo –, possiamo affermare che essa (la vita cristiana) può e deve coincidere con la nostra esperienza quotidiana, sino ad assimilarla tutta in sé. Esistono due ambiti — in cui contemplazione ed azione si accompagnano vicendevolmente — che mostrano molto chiaramente la portata «mistica» della vita cristiana; si tratta della liturgia e della preghiera, che in realtà, spesso, si incontrano l’una con l’altra sino a identificarsi.  La liturgia costituisce il tempo e lo spazio teologici in cui il mistero di Cristo si ripresenzializza in seno alla comunità ecclesiale riunita in assemblea. E’, dunque, un momento della vita cristiana che potremmo dire «mistico» per eccellenza. Già i Padri della Chiesa definivano le azioni liturgiche, specialmente le celebrazioni dei sacramenti, come dei «misteri», i sacri misteri di Cristo, che rendono presente per i cristiani d’ogni epoca, al di là dei limiti spazio-temporali, la Pasqua del Cristo. Il Vat. II ha ricordato, ai nostri giorni, questa importante verità. Secondo il n. 2 della Sacrosanctum Concilium, «la liturgia [...] contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo», che è come dire che la liturgia rende possibile, realizza e manifesta il pieno inserimento del cristiano (e dei cristiani che costituiscono la comunità) nel mistero della salvezza di Cristo. La stessa SC, al n. 10, afferma ancora che «la liturgia è il culmine verso cui tende tutta l’azione della Chiesa e, al contempo, la fonte da cui promana tutta la sua energia».  «Tutta l’azione» della Chiesa (e quindi dei cristiani) è espressione che racchiude in sé tutti quei «livelli», o quelle «modalità», della vita cristiana di cui oggi abbiamo parlato. Nella celebrazione liturgica, specialmente nella celebrazione eucaristica, ogni impegno apostolico, ogni sforzo ascetico, ogni contemplazione, confluiscono e si inverano, diventando autentiche dimensioni del vivere alla sequela di Cristo, come figli del Padre e tempio dello Spirito. Nella liturgia il cristiano diventa «mistico», in quanto nell’azione liturgica avviene il più intimo legame tra Dio e gli uomini, la loro comunione. Come ci ha assicurato Gesù stesso: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me, ed io in lui» (Gv 6,56). E’ ancora la SC n. 10 che afferma: «La liturgia spinge i fedeli, nutriti dei « sacramenti pasquali », a vivere « in perfetta unione »; prega affinché « esprimano nella vita quanto hanno ricevuto mediante la fede »; [...]. Dalla liturgia, dunque, — continua la SC — e particolarmente dall’eucarestia, deriva in noi, come da sorgente, la Grazia, e si ottiene con la massima efficacia la santificazione degli uomini nel Cristo e la glorificazione di Dio [...]» (n. 10).  La preghiera, a sua volta, è anch’essa un momento privilegiato, in cui il cristiano si incontra faccia a faccia con Dio. Bisogna però constatare, insieme a Giuseppe Lazzati (che ha scritto bellissime pagine sulla preghiera del cristiano), «che purtroppo i cristiani non pregano; [...]. E naturalmente questo ha come conseguenza che diventa difficilissimo per il cristiano cogliere quell’aspetto contemplativo della vita, che ha una [sua speciale] potenza per trasformare il senso della vita, [...che da Dio ci viene offerta in dono]. Allora che cos’è pregare? [...] Pregare è avere coscienza dell’essere creatura, e creatura in stato di redenzione, che non riesce ad essere se stessa se non attraverso la forza, l’aiuto, l’alimentazione, il respiro che le è dato precisamente da questo approfondire il rapporto con Dio, penetrandolo sempre più attraverso quelle che sono le vie che permettono questa penetrazione. E la prima via è la via della Parola, [...]. Pregare è prima ascoltare [e meditare la Parola]; per poi dire. Per poi dire e dire in molti modi [nell'adorazione silenziosa, oppure nella lode gioiosa, oppure ancora nel ringraziamento, nell'umile e nascosta richiesta di perdono, nell'impetrazione]».  «Ecco perché — osservava Lazzati — la contemplazione per l’uomo normale (non per quello che ha la possibilità di ritirarsi per unicamente dedicarsi a questo [ossia il «monaco»]), per l’uomo normale che vive tutti gli impegni della propria giornata, tutti i doveri, gli affari della propria vita quotidiana, nella situazione normale [e feriale] della vita familiare e sociale, diventa la preghiera», ossigeno divino nei nostri polmoni. La preghiera, in questa prospettiva, può diventare uno strumento potente ed efficace per acquisire e maturare un vissuto autenticamente «mistico»: per mezzo della preghiera costante e silenziosa ci si può ritagliare un pezzo di «deserto» (inteso, in senso biblico, come «luogo» in cui si incontra Dio) nel bel centro della città, ossia della nostra attività quotidiana. A questo proposito Carlo Carretto consigliava di «crearsi un piccolo luogo tranquillo nella propria casa, nel proprio giardino, nella propria soffitta, per trovarvi Dio nel silenzio e nella preghiera». Ma, con la preghiera quotidiana, fatta di silenziose parole rivolte a Dio nel cuore e nella mente, e impastata delle varie nostre azioni giornaliere, dei nostri impegni di lavoro, del nostro ascoltare e dialogare, delle nostre relazioni personali, persino del nostro semplice leggere il giornale, con una tale preghiera — che pulsa vita e fa pulsare la nostra vita — si può e si deve, oserei dire, trasformare la «città», ossia la nostra esistenza privata, comunitaria e pubblica, in un pezzo di «deserto», ove incontrare il Signore che ci parla e ci viene a visitare.  In tal modo, la nostra esperienza quotidiana viene assimilata tutta nella nostra «vita cristiana», acquista senso e motivazione: noi la offriamo al Cristo, e il Cristo se la assume per presentarla al Padre. E’ a questo livello che la santità diventa Vita: la Vita dello Spirito di Dio in noi; e la vita nostra vissuta in comunione allo Spirito di Dio. Vita dello Spirito e nello Spirito, che assimila in sé tutta la nostra esistenza, rendendola il «luogo» dove Dio si incontra con noi, e noi con Dio: questa è la santità.  Ma attenzione: la santità intesa come «salvezza che viene donata dall’Alto», non è mai una santità che indulge al miracolismo e al quietismo; non è una santità dissociata dall’impegno personale e comunitario di tipo apostolico e caritativo, e — persino — etico e sociale.Mons. A.A. Intreccialagli, che fu vescovo santo della mia diocesi di Caltanissetta dal 1907 al 1921, in una lettera ad una sua discepola spirituale, scrisse che bisogna «vivere la vita di Maria senza lasciare quella di Marta». Evocare le figure delle due sorelle di Betania amiche di Gesù è un bel modo per descrivere come, nella vita del cristiano, spiritualità «incarnazionista» e spiritualità «escatologica», attività apostolica e contemplazione vanno insieme, fino a coincidere. Voglio dire che, a mio parere, la contemplazione e l’azione, nella vita del cristiano, non hanno lo stesso rapporto che per gli umanisti discepoli di Cicerone hanno l’otium e il negotium, ossia il periodo di quiete totale (l’otium) in cui si riacquistano le energie fisiche e mentali per affrontare, poi, meglio gli affari pratici della vita (il negotium). La spiritualità cristiana, almeno per noi credenti, non prevede semplicemente che la contemplazione faccia da sostegno all’azione apostolica e alle attività quotidiane; ma prevede piuttosto che, nella docilità all’opera dello Spirito dentro di noi e in mezzo a noi, la nostra stessa attività quotidiana diventi l’«occasione» d’incontro comunionale con Dio, dandoci l’opportunità di diventare dei veri «mistici», mistici che accolgano con gratitudine i doni che gratuitamente lo Spirito di Dio elargisce e che li lascino fruttificare come Dio vuole.  Per noi tutto ciò vuol dire non solo essere «contemplativi nell’azione», come spesso si dice, ma anche essere «apostoli nella contemplazione». Nel momento in cui vi ritirerete alla scuola dello Spirito, infatti, non avrete abbandonato il ruolo che esercitate nella comunità parrocchiale o in seno alla società civile, poiché ascoltare la voce di Dio è anche, oggi più che mai, ascoltare quello che ci dicono i fratelli (anche i più «piccoli»!) e ravvisare, nelle loro parole di richiesta e di protesta, ciò che Dio vuole per tutti noi. Se essere «contemplativi nell’azione» significa agire sempre nella consapevolezza di stare immersi nel «mistero»; essere «attivi nella contemplazione» vuol dire portare dentro il «mistero» i problemi, le ansie, le soddisfazioni, i fallimenti, i progetti, le attività della nostra giornata, facendo di tutto ciò una continua preghiera a Dio. Se ci poniamo alla completa disposizione verso il «mistero», ci accorgiamo che contemplazione e azione sono due dimensioni dello stesso «mistero» che si lascia cogliere da noi e che opera in noi e in mezzo a noi; due dimensioni coestensive che finiscono per costituire un’unica dimensione: la dimensione «misterica» in cui il cristiano viene reso solidale al suo Cristo. In tal senso, nella vita del cristiano, il contemplare non può essere disgiunto dall’operare. Per noi ciò significa disporci, nella docilità all’ispirazione dello Spirito di Dio, all’ascolto dei fratelli, per discernerne e interpretarne i disagi e le aspirazioni più intime; significa scegliere prudentemente i momenti più opportuni per bussare alla porta della loro esistenza; significa percorrere insieme con la gente comune la strada della vita, ma con la sollecitudine a fermarci per soccorrere chi si stanca o si infortuna e per invitare a camminare con letizia, mentre, già noi stessi, procediamo con passo di danza.

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Publié dans:immagini sacre |on 3 avril, 2013 |Pas de commentaires »

INTERPRETAZIONE DEI PRIMI TRE COMANDAMENTI – DIETRICH BONHOEFFER

http://www.atma-o-jibon.org/italiano3/bonhoeffer2.htm

DIETRICH BONHOEFFER 

LE DIECI PAROLE DEL SIGNORE: PRIMA TAVOLA

INTERPRETAZIONE DEI PRIMI TRE COMANDAMENTI

(forse l’ho già messo, ma è sempre bello!)

In mezzo a tuoni, lampi, dense nubi, terremoti e terrificante squillare di tromba Dio manifesta al suo servo Mosè sul Monte Sinai i dieci comandamenti. Non si tratta del risultato di lunghe riflessioni di uomini saggi ed esperti della vita umana e dei suoi ordini: è la Parola rivelata di Dio, al cui suono la terra trema e gli elementi si scatenano. Non si tratta di una saggezza universale, offerta ad ogni uomo pensante, ma di un avvenimento sacro, al quale persino il popolo di Dio non può avvicinarsi pena la morte; di una rivelazione di Dio nella solitudine della vetta di un vulcano fumante: ecco come i dieci comandamenti entrano nel mondo. Non è Mosé a dadi; li dà Dio; non è Mosé a scriverli; li scrive Dio stesso con il suo dito su tavole di pietra, come ripetutamente ed energicamente sottolinea la Bibbia: «E non aggiunse altro» (Deut. 5,19), cioè Dio in persona scrisse solo queste parole; in esse è compresa tutta la volontà di Dio. La preminenza dei dieci comandamenti di fronte a tutte le altre parole di Dio è messa in rilievo con la massima chiarezza dal fatto che le due tavole vengono conservate nell’arca nel Santo dei santi. I dieci comandamenti hanno il loro posto nel santuario; bisogna cercarli qui, nel luogo della benevola presenza di Dio nel mondo, e da qui sempre di nuovo essi si diffondono nel mondo (Is. 2,3 ).
In ogni tempo gli uomini si sono chiesti qual è il principio fondamentale della loro vita, ed è un fatto assai strano che i risultati di queste riflessioni concordano quasi sempre tra di loro e per lo più con i dieci comandamenti. Ogni volta che le situazioni umane sono scosse da profondi rivolgimenti e disordini esteriori o interiori, gli uomini che sanno mantenere la chiarezza e l’avvedutezza della riflessione e del giudizio riconoscono che senza timor di Dio, senza rispetto dei genitori, senza protezione della vita, del matrimonio, della proprietà e dell’onore – qualunque sia la forma di questi beni – non è possibile che gli uomini vivano insieme. Per riconoscere queste leggi della vita non è necessario essere cristiani, basta seguire la propria esperienza e la propria sana ragione. Il cristiano prova piacete ad avere in comune con altri uomini questi concetti così importanti. È pronto a collaborate e a lottate con loro dove si tratta di realizzare scopi comuni. Non si meraviglia che in ogni tempo certi uomini abbiano raggiunto le stesse conclusioni sulla vita umana, che, per lo più, coincidono con i dieci comandamenti; infatti i comandamenti sono stati dati appunto dal creatore e conservatore della vita. Ma ciononostante il cristiano non dimentica mai la differenza fondamentale che c’è tra queste leggi della vita e i comandamenti di Dio. In quelle è la ragione a parlare, in questi Dio. La ragione umana predice al trasgressore delle leggi della vita che la vita stessa si vendicherà su di lui portandolo, dopo un iniziale apparente successo, al fallimento ed all’infelicità. Ma Dio non parla della vita, dei suoi successi o fallimenti, Egli parla di se stesso. La prima Parola di Dio nei dieci comandamenti è ‘Io’. L’uomo deve trattare con questo « io », non con una legge generale, non con un « si deve fare questo o quello », ma col Dio vivente. In ogni parola dei dieci comandamenti, in fondo, Dio parla di se stesso; e questo, nei comandamenti, è la cosa più importante. Sono, infatti, la rivelazione di Dio. Nei dieci comandamenti non obbediamo a una legge ma a Dio; e la nostra trasgressione non è un fallimento di fronte alla Legge, ma di fronte a Dio stesso. Non solo disordine e insuccesso colpiscono il trasgressore, ma l’ira stessa di Dio. Non è solo stoltezza trasgredire il comandamento di Dio, ma è peccato, ed il salario del peccato è la morte. Perciò il Nuovo Testamento chiama i dieci comandamenti « Parole di vita » (Atti 7,38).
Forse invece di dire « dieci comandamenti » sarebbe meglio parlare delle « dieci parole » di Dio, come si esprime la Bibbia (Deut. 4,13). Così, non li confonderemmo tanto facilmente con le leggi umane, e non metteremmo tanto facilmente da parte le prime parole: «Io sono il « Signore, l’Iddio tuo», come se si trattasse di un preambolo che veramente non fa parte dei dieci comandamenti e non sta bene nel contesto. In realtà, invece, proprio queste prime parole sono le più importanti, la chiave dei dieci comandamenti; ci fanno vedere in che cosa il comandamento di Dio si distingue per tutta l’eternità dalle leggi umane. Nei dieci comandamenti Dio parla altrettanto della sua grazia quanto del suo comandamento. Non si tratta di un brano che in certo qual modo potremmo considerare volontà di Dio, separatamente da Dio; in essi al contrario si manifesta tutto il Dio vivente quale è veramente. Questa è la cosa fondamentale.
I dieci comandamenti, come li conosciamo noi, sono un’abbreviazione del testo biblico. Chi ci dà il diritto di allontanarci in questo modo dalla Bibbia in un passo così decisivo? La chiesa cristiana universale ascolta i dieci comandamenti in forma diversa dal popolo di Israele. Ciò che riguarda Israele quale popolo dotato di una realtà politica, non è vincolante per la chiesa cristiana, che è popolo spirituale in mezzo a tutti i popoli. Perciò la chiesa, nella libertà della sua fede nel Dio dei comandamenti, ha osato sostituire la traduzione letterale del testo biblico con una traduzione che è esegesi ecclesiastica del testo. «Io sono il Signore, l’Iddio tuo»: quando Dio dice « Io », allora si tratta di rivelazione. Dio potrebbe anche lasciare che il mondo vada per la sua strada, e tacere. Perché Dio dovrebbe aver bisogno di parlare di se stesso? Se Dio dice « Io », questo è grazia. Quando Dio dice « Io », dice semplicemente tutto, la prima cosa e l’ultima; quando Dio dice « Io », vuol dire: «tienti pronto a comparire davanti al tuo Dio, o Israele» (Amos 4,10).
«Io sono il Signore». Non un Signore, ma il Signore! Con ciò Dio pretende di essere l’unico Signore. Ogni diritto di comandare e di pretendere obbedienza appartiene a lui solo. Dio, rivelandosi come Signore, ci libera da ogni assoggettamento umano. C’è e noi abbiamo un solo signore e «nessuno può servire due padroni». Serviamo solo Dio e non serviamo nessun uomo. Anche quando eseguiamo ordini di signori terreni, in realtà serviamo solo Dio. È un grave errore di molti cristiani credere che Dio durante la nostra vita terrena ci abbia sottomesso a molti altri signori accanto a lui, e che la nostra vita sia posta in continuo conflitto tra gli ordini di questi signori terreni e il comandamento di Dio. Abbiamo un solo Signore a cui obbedire; i suoi ordini sono chiari e non ci pongono in balìa di conflitti. È vero che Dio ha dato a genitori e superiori il diritto ed il potere di darci degli ordini, ma ogni autorità terrena è fondata solamente sulla signoria di Dio, in questa trova la sua autorità ed il suo onore; altrimenti è usurpazione e non ha diritto a pretendere obbedienza.
Obbedendo solo al comandamento di Dia, obbediamo anche ai nostri genitori e superiori. La nostra obbedienza a Dio ci impone anche l’ obbedienza a genitori e superiori. Ma non ogni obbedienza a genitori e superiori è anche obbedienza a Dio. La nostra obbedienza non ha valore in quanto è resa a uomini, ma solo in quanta è resa a Dio. «Qualunque cosa fate, agite di buon animo, come per il Signore e non per gli uomini» (Col. 3,23). «Siete stati riscattati a gran prezzo, non vogliate diventar schiavi degli uomini» (1Cor. 7,23).
Solo l’obbedienza a Dio è il fondamento della nostra Libertà. Ma il Signore Iddio non solo è l’unico ad avere il diritto di comandare, ma anche il solo ad avere il potere di far valere il suo comandamento; ha a disposizione tutti i mezzi per farlo. Chi vuole erigersi a Signore accanto a lui, necessariamente precipita. Chi disprezza il suo comandamento deve morire. Ma chi serve lui solo e confida in lui, viene da lui sostenuto e preservato; a costui farà godere ogni bene ora ed in eterno.
«Il tuo Dio». Dio parla al suo popolo eletto, alla comunità che lo ascolta nella fede. Per lei il Signore irraggiungibilmente lontano e potente è allo stesso tempo vicino, presente e misericordioso. «Qual è quella nazione che abbia gli dei così vicini a sé, com’è vicino a noi il nostro Dio quando lo invochiamo?» (Deut. 4,7). Non è un estraneo, un tiranno, né un cieco destino che ci carica di pesi insopportabili, sotto i quali dobbiamo crollare; ma è Dio, il Signore, che ci ha eletto, creato e amato, che ci conosce e vuol essere accanto a noi, con noi e per noi. Ci dà i comandamenti perché possiamo essere e restare accanto a lui, per lui e con lui. Si mette dalla nostra parte, facendoci conoscere il suo comandamento come Signore e amichevole aiuto: «Così non agisce verso nessun pagano» (Salmo 147,20). Dio è tanto grande, che anche la cosa più piccola non è troppo piccola per lui; egli è a tal punto il Signore, da sapersi porre accanto a noi per sostenerci. Se Dio è accanto a noi, allora i suoi comandamenti non sono difficili, allora la sua legge è la nostra consolazione (Salmo 119, 92), il suo giogo è soave, il suo peso leggero. «Io corro la via dei tuoi precetti, poiché tu consoli il mio cuore» (Salmo 119,32). Nell’arca dell’alleanza che è il trono della benevola presenza di Dio, sono deposte le due tavole, rinchiuse, avvolte, circondate dalla grazia di Dio.
Chi vuol parlare dei dieci comandamenti, deve cercarli nell’arca dell’alleanza, e così deve allo stesso tempo parlare della grazia di Dio. Chi vuole annunziare i dieci comandamenti, deve contemporaneamente annunziare la libera grazia di Dio.

Il primo comandamento
«Non avere altri dei nel mio cospetto». L’imperativo negativo che ora segue per ben dieci volte è solo la spiegazione della precedente testimonianza che Dio dà di se stesso. In dieci brevi frasi è espresso qui che cosa significa per la nostra vita che Dio è il Signore Iddio nostro. Il contesto acquista la massima chiarezza se davanti ad ognuna di queste proposizioni introduciamo un «perciò»: «Io sono il Signore, Iddio tuo»… e perciò non… È per bontà che Dio, mediante questi divieti, ci vuol preservare da errori e trasgressioni e ci indica i limiti, entro i quali possiamo vivere in comunione con lui.
«Non avere altri dei nel mio cospetto». Non è affatto una cosa ovvia. In ogni tempo i popoli con civiltà progredite hanno conosciuto un cielo popolato da varie divinità, ed era segno della grandezza e dignità di un dio, se non era geloso del posto che un altro dio occupava nel cuore devoto degli uomini. La virtù umana della generosità e della tolleranza veniva attribuita anche agli dei. Ma Dio non ammette altro dio accanto a sé; vuol essere l’unico Dio. Vuole essere e fare tutto per l’uomo; perciò vuole anche essere adorato come unico Dio. Accanto a lui non c’è posto per null’altro; sotto di lui si pone la creazione. Dio vuole essere l’unico Dio, perché egli soltanto è Dio.
Qui non si tratta di altri dei che potremmo adorare al posto di Dio, ma del fatto che potremmo pensare di porre qualcosa accanto a Dio. Ci sono dei cristiani che dicono che accanto alla fede in Dio, che non lascerebbero per nulla al mondo, hanno ragion d’essere anche il mondo, lo stato, il lavoro, la famiglia, la scienza, l’arte, la natura. Dio dice che nulla, assolutamente nulla ha il diritto di esistere accanto a lui, ma solo al di sotto di lui. Ciò che noi poniamo accanto a lui è un idolo.
Si è soliti dire che i nostri idoli sono il denaro, là voluttà, l’onore, altri uomini, noi stessi. Più appropriato sarebbe dire che nostri idoli sono lo spiegamento delle nostre forze, il potere, il successo. Ma, in fondo, gli uomini nella loro debolezza hanno sempre amato tutte queste cose, e nulla di tutto quanto è stato detto sopra è ciò che veramente intende il primo comandamento parlando di « altri dei ». Per noi il mondo è stato privato dei suoi dei; non adoriamo più nulla. Troppo chiaramente abbiamo provato la debolezza e nullità di tutte le cose, per poterle ancora divinizzare. Troppo abbiamo perso la fiducia in tutto ciò che esiste, per poter essere ancora in grado di avere dei e di adorarli. Se per noi c’è ancora un idolo, questo è forse il nulla, la fine, l’insensatezza di tutto. E il primo comandamento ci chiama al solo vero Dio, l’onnipotente, il giusto e misericordioso, che ci salva dalla rovina, dal nulla, e ci fa rimanere nella sua comunità.
Ci furono tempi in cui l’autorità profana puniva severamente il rinnegamento di Dio e l’idolatria. Se anche lo faceva per proteggere la comunità dal traviamento e dal disonore, tuttavia non rendeva un servizio a Dio, perché, in primo luogo, Dio vuole essere servito in piena libertà; poi, le forze della seduzione, secondo il piano di Dio, devono servire a mettere alla prova i credenti e a rinvigorirli; terzo, il rinnegamento aperto di Dio nonostante tutto è in noi più promettente che una confessione di fede ipocrita, ottenuta con un ricatto. Le autorità profane devono concedere protezione esteriore alla fede nel Dio dei dieci comandamenti; ma la lotta con l’incredulità deve essere lasciata solo alla potenza della Parola di Dio.
Non è sempre facile fissare il momento in cui la partecipazione ad un atto ordinato dallo stato diviene idolatria.
I primi cristiani rifiutavano di contribuire anche solo con un granello di incenso al sacrificio che serviva al culto dell’imperatore romano, e per questo sopportavano il martirio. I tre uomini nel libro del profeta Daniele (cap. 3) rifiutarono di inginocchiarsi, secondo gli ordini del re, davanti all’idolo d’oro che simboleggiava la potenza del re e del suo regno. D’altro canto il profeta Elia permise espressamente al capo dell’esercito siriano Naaman di inginocchiarsi, accompagnando il suo re, nel tempio pagano (2 Re 5,12). La maggior parte dei cristiani in Giappone di recente ha dichiarato che la partecipazione al culto statale dell’imperatore è lecita.
In tutte le decisioni di questo genere si dovrà considerare quanto segue: 1) l’ordine di partecipare a simili atti politici richiede univocamente l’adorazione di altri dei? allora è preciso dovere del cristiano rifiutarsi. 2) ci sono dei dubbi se si tratta di un atto religioso o politico? allora nella decisione si dovrà considerare se partecipandovi si dia scandalo alla comunità di Cristo e al mondo; se cioè si susciti anche minimamente l’impressione del rinnegamento di Gesù Cristo. Se per il giudizio comune dei cristiani non è così, nulla impedisce la partecipazione; ma se è così, anche qui si dovrà rifiutare la partecipazione.
La chiesa luterana ha fatto rientrare il secondo comandamento biblico, la proibizione di farsi delle immagini, nel primo. Non è vietato alla chiesa la rappresentazione figurativa di Dio. Dio stesso in Gesù Cristo ha preso forma umana e si è offerto alla vista degli uomini. È solo proibito adorare o venerare le immagini come se in esse fosse insita una potenza divina. Sotto lo stesso divieto cade h superstiziosa venerazione di amuleti, immagini protettive ecc., come se avessero un particolare potere di proteggere da disgrazie.
«Ascolta, o Israele, Jahve è il nostro Dio; Jahve è uno solo. Ama Jahve tuo Dio con tutto il cuore, con tutto l’animo, con tutta la forza» (Deut. 6,4). Gesù Cristo ci ha insegnato a rivolgerei fiduciosi in preghiera a questo nostro Dio: «Padre nostro, che sei nel cielo».

Il secondo comandamento
«Non usare il nome dell’Eterno, che è il tuo Dio, invano; perché l’Eterno non terrà per innocente chi avrà usato il suo nome invano». « Dio » non è per noi un concetto generale, con cui indicare quanto di più alto, di più santo, di più potente si possa pensare. « Dio » è un nome. È ben diverso se dei pagani dicono « dio », o se lo diciamo noi, ai quali Dio stesso ha parlato. Dio è per noi il nostro Dio, il Signore, il vivente. « Dio » è un nome e questo nome è la cosa più santa che possediamo, poiché in esso non abbiamo qualcosa di immaginario, ma Dio stesso in tutto il suo essere, nella sua rivelazione. Se ci è concesso dire « Dio », lo è solo perché Dio, nella sua incommensurabile grazia, si è fatto conoscere da noi. Se diciamo « Dio », è come se lui stesso ci parlasse, ci chiamasse, ci consolasse e ci comandasse. Avvertiamo la sua vicinanza a noi nella sua azione, nella sua creazione, nel suo giudizio, nel suo ammonimento. «Ti ringrazio, o Signore, perché il tuo nome ci è così vicino» (Salmo 75,2). «Il nome di Jahve è una torre fortissima; il giusto vi si rifugia ed è al sicuro» (Prov. 18,10).

La parola « dio » è nulla; il nome « Dio » è tutto.
Gli uomini, per lo più, oggi intuiscono bene che Dio non è solo una parola, ma un nome. Perciò cercano di evitare di dire « Dio »; e dicono invece « divinità », « destino », « provvidenza », « natura », « l’onnipotente ». « Dio » suona quasi come una confessione di fede. E questo non lo vogliono. Vogliono la parola, non il nome. Il nome, infatti, è impegnativo.
Il secondo comandamento ci invita a santificare il nome di Dio. Il secondo comandamento, veramente, possono violarlo solo coloro che conoscono il nome di Dio. La parola « dio » non vale né più né meno di altre parole umane, e chi ne abusa disonora solo se stesso ed i propri pensieri. Ma chi conosce il nome di Dio e ne abusa, disonora e profana Dio. Il secondo comandamento non parla di bestemmia del nome di Dio, ma del suo abuso, così come il primo comandamento non parlava del rinnegamento di Dio, ma di altri dei accanto a Dio. I credenti non corrono pericolo di bestemmiare Dio, ma di usare male del suo nome.
Noi, che conosciamo il nome di Dio, lo usiamo male se lo pronunciamo come se fosse solo una parola, come se in questo nome non fosse sempre Dio stesso a parlarci. C’è un abuso del nome di Dio nel bene e nel male. È veramente difficile immaginare che i cristiani possano abusare del nome di Dio nel male; eppure succede. Se nominiamo Dio e lo invochiamo coscientemente per far apparire buona e pia dinanzi al mondo una causa empia e malvagia, se chiediamo la benedizione di Dio per una causa malvagia, se nominiamo Dio in un contesto che lo disonora, allora noi ne abusiamo per il male. Sappiamo bene che in tal caso Dio stesso sarebbe senz’altro contrario alla causa per cui lo invochiamo; ma, dato che il suo nome ha un potere anche di fronte al mondo, noi ci richiamiamo a Lui.
Più pericoloso, perché più difficile da riconoscere, è l’abuso del nome di Dio nel bene. Accade quando noi cristiani pronunciamo il nome di Dio così spesso, così semplicemente, così scorrevolmente, in modo così confidenziale da pregiudicare la santità e il miracolo della sua rivelazione. È un abuso se a ogni problema ed a ogni necessità umana rispondiamo sempre prontamente con la parola Dio o con un versetto biblico, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo che Dio debba risolvere subito tutti i nostri problemi umani ed essere già lì pronto ad accorrere in nostro aiuto ad ogni difficoltà. È abuso se noi facciamo di Dio un tappabuchi per ogni nostra minima difficoltà. È abuso se mettiamo semplicemente a tacere ogni sincero sforzo scientifico o artistico con la parola Dio. È abuso se gettiamo la « perla ai porci ». È abuso parlare di Dio senza essere coscienti della presenza vivente nel suo nome. È abuso parlare di Dio come se lo avessimo sempre a nostra disposizione e come se ci fossimo seduti con lui a consiglio. In tutti questi modi noi abusiamo del nome di Dio e ne facciamo una vuota parola umana e chiacchiere inefficaci. Con ciò noi lo profaniamo più di quanto potrebbero fare tutti i bestemmiatori.
Al pericolo di un tale abuso del nome di Dio gli Israeliti ovviarono col divieto di pronunciarlo in genere. Dal rispetto che questa regola mette in luce non possiamo che trarre un insegnamento. È certo meglio non pronunciare affatto il nome di Dio che abbassarlo a semplice parola umana. Ma noi abbiamo l’obbligo sacro e il fondamentale diritto di testimoniare di Dio gli uni agli altri e di fronte al mondo. E questo lo facciamo solo se pronunciamo il nome di Dio in modo tale che in esso la Parola del Dio vivente, presente, giusto e pieno di grazia renda testimonianza a se stessa. Ciò accade solo se noi preghiamo ogni giorno come ci ha insegnato Gesù Cristo: «Sia santificato il tuo nome».
Le autorità profane dell’occidente hanno sempre punito la bestemmia in pubblico. Con ciò hanno testimoniato di essere chiamate a proteggere la fede in Dio e il servizio di Dio da disprezzo e oltraggio. Ma esse non furono mai in grado di soffocare da sole i movimenti spirituali, dalle cui aberrazioni, bene o male intese, nascono tali oltraggi; e non può nemmeno essere loro compito. La soppressione violenta dei movimenti spirituali non aiuta la chiesa. Questa non pretende altro che di poter liberamente annunziare il suo messaggio e liberamente vivere, e confida che il nome di Dio correttamente annunziato riesca a imporsi e a incutere rispetto da solo.
È abuso giurare nel nome di Dio? Per il contenuto del parlare di un cristiano non c’è differenza se egli parla sotto giuramento o no, se usa il testo del giuramento così detto religioso o quello non religioso. Il suo sì è sì ed il sua no è no, non imparta quali giuramenti vi si aggiungano. Tra cristiani non c’è giuramento, ma solo un sì o un no. Solo per via degli altri uomini e per via della menzogna che regna nel mondo il cristiano può rendere la sua parola – non certo più vera – ma più credibile, servendosi della formula di giuramento richiesta dallo stato; e per lui è di secondaria importanza se in questa formula è nominato Dio o no. Il giuramento per il cristiano è solo una conferma esteriore, di ciò che, in ogni caso, per lui è un dato di fatto, cioè che la sua parola è stata detta al cospetto di Dio.

Il terzo comandamento

«Ricordati del giorno del riposo per santificarlo». È difficile per noi comprendere che questa comandamento occupa un posto di pari dignità accanto al divieto di adorare idoli o anche a quello di non uccidere, che chi viola questo comandamento non è meno colpevale di chi disprezza i genitori, del ladro, dell’adultero, del calunniatore. La nostra vita è fatta di giorni feriali riempiti di lavoro, in mezzo alla gente. A noi sembra che il giorno del riposo sia un piacevole permesso, ma è divenuto per noi un pensiero alquanto estraneo che in esso sia contenuta tutta la serietà del comandamento di Dio.
Dio comanda il giorno di festa. Comanda il riposo e la santificazione della festa.
Il decalogo non contiene nessun ordine di lavorare, ma uno di riposare dal lavoro sì. È proprio il contrario di quanto siamo soliti pensare. Nel terzo comandamento il lavoro è presupposto come stato naturale; ma Dio sa che l’opera che l’uomo compie acquista un tale potere su di lui, che egli non riesce più a liberarsene, e si aspetta ogni cosa dalla propria opera, e così dimentica Dio. Perciò Dio comanda di riposare dal proprio lavoro. Non è il lavoro a mantenere l’uomo, ma solo Dio; non del suo lavoro può vivere l’uomo, ma solo di Dio. «Se l’Eterno non edifica la casa, invano s’affaticano gli edificatori; se l’Eterno non guarda la città, invano vegliano le guardie. Egli dà altrettanto ai suoi diletti, mentre essi dormono» (Salmo 127,12); così la Bibbia parla contro tutti quelli che del lavoro fanno la loro religione. Il riposo festivo è il segno visibile che l’uomo vive della grazia di Dio e non delle proprie opere.
Durante il giorno del riposo dovrebbe regnare il silenzio esteriore ed interiore. Nelle nostre case si lascino da parte tutti i lavori non strettamente necessari per la vita; il decalogo include espressamente in questo comandamento anche servi, estranei, animali. Non dobbiamo cercare una distrazione disordinata, ma tranquillità e raccoglimento. Poiché questo non è facile, poiché, anzi, l’inoperosità spinge facilmente a vuoto ozio, a distrazione e divertimenti stancanti, ci deve essere espressamente comandato il riposo. Si richiede forza per obbedire a questo comandamento.
Il riposo festivo è la premessa indispensabile per la santificazione della festa. L’uomo abbassato ad essere una macchina da lavoro e sovraffaticato ha bisogno di riposo, perché il suo pensiero possa chiarirsi, i suoi sentimenti possano purificarsi, la sua volontà possa ricevere una nuova direzione.
La santificazione del giorno festivo è il contenuto del riposo in esso. Il giorno di festa viene santificato mediante l’annunzio della Parola di Dio nel culto e mediante l’ascolto pronto e rispettoso di questa Parola. La dissacrazione del giorno di festa inizia col decadimento della predicazione cristiana. È, perciò, in primo luogo, colpa della chiesa e soprattutto dei suoi ministri. Il rinnovamento della santificazione della festa parte dal rinnovamento della predicazione.
Gesù ha infranto le leggi ebraiche del riposo del sabato. Lo fece per richiamare alla vera santificazione del sabato. Il giorno del riposo viene santificato non da quello che fanno o non fanno gli uomini, ma dall’azione di Gesù Cristo per la salvezza degli uomini. Perciò i primi cristiani hanno sostituito il sabato con il giorno della risurrezione di Gesù Cristo e lo hanno chiamato giorno del Signore. A ragione, perciò, Lutero non traduce letteralmente la parola ebraica con « sabato » ma ne dà un’interpretazione spirituale come «giorno festivo». La nostra domenica è il giorno in cui lasciamo che Gesù Cristo agisca in noi e negli uomini. Veramente questo dovrebbe accadere ogni giorno, ma la domenica riposiamo dal nostro lavoro per poter essere più aperti a questa azione di Cristo in noi.
« Il riposo domenicale è lo scopo della santificazione della domenica. Dio vuole condurre il suo popolo alla sua quiete, a riposare dal lavoro quotidiano in terra. «Cuore, rallegrati, sarai liberato dalla miseria di questa terra e dal lavoro del peccato». Liberato dall’operare umano imperfetto, il popolo di Dio guarderà la pura e perfetta opera di Dio e vi parteciperà. Il cristiano che santifica la domenica può trovare in questo riposo domenicale un riflesso e una promessa del riposo eterno presso il Creatore, il Redentore, Colui che porta a compimento il mondo.
Agli occhi del mondo la domenica ha la funzione di mettere in evidenza, che i figli di Dio vivono della grazia di Dio e che gli uomini sono chiamati al suo Regno. Perciò preghiamo: «Venga il tuo Regno».

LA VITA HA SCAMBIATO LA TOMBA CON IL CIELO – LECTIO PER LA DOMENICA DI PASQUA

http://www.zenit.org/it/articles/la-vita-ha-scambiato-la-tomba-con-il-cielo

LA VITA HA SCAMBIATO LA TOMBA CON IL CIELO

LECTIO DIVINA DI MONSIGNOR FRANCESCO FOLLO PER LA DOMENICA DI PASQUA

PARIGI, 31 MARZO 2013 (ZENIT.ORG)

Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi ai lettori di Zenit la seguente riflessione sulle letture liturgiche della Domenica di Pasqua.
Come di consueto, il presule propone anche una lettura patristica.
***
LECTIO DIVINA
La Vita ha scambiato la tomba con il cielo: Gesù è risorto, ha distrutto la morte ed è luce di amore per il nostro cammino
Domenica di Pasqua di Risurrezione – Anno C – 31 marzo 2013.
RITO ROMANO
At 10, 34a. 37-43; Sal 117; Col 3, 1-4; Gv 20, 1-9
RITO AMBROSIANO
At 1,1-8a; Sal 117; 1Cor 15,3-10a; Gv 20,11-18

1) La prima di tutte le Domeniche.
Il primo giorno della settimana è la domenica, giorno in cui si celebra il fatto che Cristo è risorto. Cristo risorge nella notte prima che il sorgere del sole illumini questa giornata di festa.
La prima di tutte le Domeniche è un giorno nato da due notti speciali: quella dell’Incarnazione in cui il Verbo si fece carne, e quella della Risurrezione in cui la carne indossò l’eternità, in cui si aperse il sepolcro, vuoto del Corpo di Cristo che ha svuotato la potenza della morte. Cristo risorto ci invita a mettere il nostro respiro in sintonia con il suo, con quell’immenso soffio di vita, che unisce incessantemente il visibile e l’invisibile, la terra e il cielo, il Verbo e la carne, il presente e l’Eterno.
A Pasqua, il primo di tutti i giorni del Signore, Dio rinnova il mondo e dice di nuovo: “Sia la luce!”. Prima erano venute la notte del Monte degli Ulivi, l’eclisse solare della passione e morte di Gesù, la notte del sepolcro. Ma ora è di nuovo il primo giorno – la creazione ricomincia tutta nuova. “Sia la luce!”, dice Dio, “e la luce fu”.
Gesù risorge dal sepolcro: la vita è più forte della morte, il bene è più forte del male, l’amore è più forte dell’odio. la verità è più forte della menzogna.
Il buio dei giorni passati è dissipato nel momento in cui Gesù risorge dal sepolcro e diventa, Egli stesso, pura luce di Dio. Questo, però, non si riferisce soltanto a Lui e non si riferisce solo al buio di quei giorni. Con la risurrezione di Gesù, la luce stessa è creata nuovamente. Egli ci attira tutti dietro di sé nella nuova vita della risurrezione e vince ogni forma di buio. Egli è il nuovo giorno di Dio, che vale per tutti noi (cfr Benedetto XVI, 7 aprile 2012).
Preghiamo il Signore, Creatore e Amore, perché faccia scaturire dall’oscurità del mondo la luce del suo Figlio: nella notte del Natale, nella notte della Risurrezione, nella notte della nostra umanità faccia scaturire quello che noi speriamo: l’incontro con Cristo, la vicinanza con Cristo, la conoscenza di Cristo e l’amore che ci unisce a Lui.
Preghiamo fissando in primo luogo le piaghe gloriose di Cristo e contempliamo la Croce, sulla quale Cristo “ha versato il sangue del suo Cuore per guadagnare il tuo cuore” (S. Benedetta della Croce – Edith Stein). Poi con San Agostino, che ha vissuto un’esperienza di peccato come la Maddalena, preghiamo: “Ma che cosa amo amando Te? Non la bellezza di un corpo, non il fascino passeggero della terra, non la candida luce amica di questi occhi, non la carezza di dolci melodie di canti d’ogni specie, non il profumo di fiori, di unguenti, di aromi, non la manna né il miele di abbracci carnali. Non amo queste cose, quando amo il mio Dio. E tuttavia nell’amare Lui amo una certa luce, una sorta di voce e di profumo e di cibo e un tipo di abbraccio che sono la luce, la voce, il profumo, il cibo, l’abbraccio dell’uomo interiore che è in me, dove splende alla mia anima una luce che nessun fluire di secoli può portar via, dove si espande un profumo che nessuna ventata può disperdere, dove si gusta un sapore che nessuna voracità può sminuire, dove si intreccia un rapporto che nessuna sazietà può spezzare. Tutto questo io amo, quando amo il mio Dio …” (Sant’Agostino d’Ippona, Le Confessioni, X, 6, 8).
2) I primi incontri con Cristo-Luce.
Ma Maria Maddalena non sa ancora che il giorno della gioia senza fine era già iniziato. Quindi piena di dolore va alla tomba di Gesù, perché ha nostalgia di Lui (avessimo noi come lei questa nostalgia del Cielo) e vuole completare l’unzione, che lei aveva iniziata tempo prima quando lavò i piedi di Gesù con le sue lacrime e li unse con un profumo che valeva 300 denari (dieci volte di più del prezzo pagato a Giuda per il suo tradimento – con 30 denari restituiti da Giuda i capi comprarono un campo per i pellegrini che morivano a Gerusalemme).
Nell’alba di questo giorno di festa -che per Maria Maddalena è ancora un giorno di tristezza perché non sa ancora che il suo Gesù è risorto- questa donna è consolata almeno dal pensiero che questo “fraterno amico” è morto perché ha voluto bene a lei e a tutti i discepoli, Giuda compreso.   Maria va al sepolcro, preoccupata di come togliere la lastra di pietra che chiudeva il sepolcro, per potere completare l’unzione mortuaria, prescritta dalla legge mosaica e dal suo amore di donna salvata da Redentore. E piange (si veda il Vangelo ambrosiano di oggi) perché la tomba era vuota: non sa ancora che era diventata come un tabernacolo da cui il Corpo di Cristo risorto è uscito e può essere mangiato.
Non immagina che il Cristo Signore, Luce d’eternità, aveva spazzato via non una ma due lastre: quella di pietra sul sepolcro e quella, ancora più pesante e inamovibile della morte sul suo corpo immolato del Salvatore e sul cuore della Maddalena.
Questa donna fu la prima a costatare che la morte aveva lasciato la sua presa sulla preda.
Fu la prima nella fede perché fu la prima nell’amore, ed ebbe il premio dell’amore.
Ricevuta la notizia stupefacente portata agli Apostoli dalla prediletta di Cristo, da colei che la Liturgia delle Chiese Orientali chiama Isoapostola (uguale agli apostoli) della Risurrezione, Pietro e Giovanni corsero al sepolcro, perché sono quelli il cui amore è più grande che corrono più veloci degli altri. Arrivati videro che Cristo aveva mantenuto la parola profeticamente annunciata più volte: “Come Giona stette tre giorni e tre notti nel ventre della balena, così il Figlio dell’uomo starà tre giorni e tre notti nel cuore della terra” (Mt 12,40).“Lo consegneranno ai gentili per farlo schernire, flagellare, e crocifiggere, e il terzo giorno risorgerà” (Mt 20,19).“Distruggete questo Tempio, e in tre giorni lo ricostruirò. Ma Egli parlava del Tempio del Suo Corpo” (Gv. 2,19-20).“Dopo che sarò risuscitato vi precederò in Galilea” (Mc 14,28).“Comandò loro di non dire a nessuno le cose che avevano visto finché il Figlio dell’uomo non fosse risorto dai morti. Ed essi osservarono l’ordine, chiedendosi tuttavia fra di loro che cosa significasse questo: ‘Quando fosse risorto dai morti’” (Mc 9,9-10).
Erano stupefatti. Dopo giorni passati nella desolazione, perché sembrava che tutto fosse irrimediabilmente perduto, ecco l’avvenimento di luce, che mostra come la violenza, l’ingiustizia, l’infamia e la morte non hanno avuto l’ultima parola. Un fatto che permette di vedere chiaro: sono illuminati dalla luce di Cristo, luce santa e colma dell’amore di Dio.
3) Evangelizzatori della Luce, che salva.
Senza la luce di Dio nessun uomo si salva.
Essa fa muovere all’uomo i primi, timorosi passi: “Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrà paura?” (Sal 26/27, 1);
essa lo conduce nel pellegrinaggio della fede verso l’alto: “Manda la tua verità e la tua luce, siano esse a guidarmi, mi portino al tuo monte santo alle tue dimore” (Sal 42/43, 3).
 Se vogliamo continuare a possedere questa luce di Dio, preghiamo.

Cristo è risorto non per allontanarsi da noi, ma per farci risorgere insieme con lui nel suo Regno, i cui confini sono la luce e l’amore.
Più guarderemo a Cristo risorto, più i nostri occhi rifletteranno la luce dei suoi occhi. L’importante che il nostro sguardo si faccia preghiera (=contemplazione), riconoscenza (=eucaristia) e dono di amore che perdona le offese.
E ciò accadrà se, come Maria Maddalena, andremo da Cristo addolorati per averLo perduto. Allora le lacrime purificheranno i nostri occhi che tersi, puliti potranno riflettere la Luce di Cristo, Luce che libera, Amore che redime, Bene che colma i nostri cuori. A noi che meschinamente e frequentemente ci accontentiamo di promesse di felicità, di parole di amore, di righe di luce, Cristo Luce ci fa uomini e donne di luce, testimoni della Luce, che da vita piena. Noi che non solo siamo affascinati dalla luce, la Luce è la nostra vocazione.
Questa vocazione è vissuta in modo particolare dalle Vergini consacrate, che ricevono il cero o la lampada illuminata per aver cura di conservare la luce del Vangelo che salva ed essere sempre pronte all’incontro con lo Sposo che viene (cfr Rito di Consacrazione delle Vergini, n. 28). Queste donne sono chiamate ad evangelizzare mediante la santità e la preghiera. Il modo di Evangelizzazione che le Vergini Consacrate sono chiamate a vivere e vivono è quello di comunicare la Sua luce, divenendo lampada che porta la luce della Presenza adorabile dell’eterno amore, mediante la loro sollecitudine umana di donne dedicate a Dio.

LETTURA PATRISTICA
LETTURE PATRISTICHE DALLA PRIMA APOLOGIA DI S. GIUSTINO (100-165 D.C), MARTIRE E FILOSOFO.
“Sull’Eucaristia domenicale”
“1. Da allora, la domenica, giorno della Risurrezione, noi ci ricordiamo a vicenda questo fatto. E quelli che possiedono, aiutano tutti i bisognosi e siamo sempre uniti gli uni con gli altri.
2. Per tutti i beni che riceviamo ringraziamo il creatore dell’universo per il Suo Figlio e lo Spirito Santo.
3. E nel giorno chiamato « del Sole » ci si raduna tutti insieme, abitanti delle città o delle campagne, e si leggono le memorie degli Apostoli o gli scritti dei Profeti, finché il tempo consente.
4. Poi, quando il lettore ha terminato, il preposto con un discorso ci ammonisce ed esorta ad imitare questi buoni esempi.
5. Poi tutti insieme ci alziamo in piedi ed innalziamo preghiere; e, come abbiamo detto, terminata la preghiera, vengono portati pane, vino ed acqua, ed il preposto, nello stesso modo, secondo le sue capacità, innalza preghiere e rendimenti di grazie, ed il popolo acclama dicendo: « Amen ». Si fa quindi la spartizione e la distribuzione a ciascuno degli alimenti consacrati, ed attraverso i diaconi se ne manda agli assenti.
6. I facoltosi, e quelli che lo desiderano, danno liberamente ciascuno quello che vuole, e ciò che si raccoglie viene depositato presso il preposto. Questi soccorre gli orfani, le vedove, e chi è indigente per malattia o per qualche altra causa, e i carcerati e gli stranieri che si trovano presso di noi: insomma, si prende cura di chiunque sia nel bisogno.
7. Ci raccogliamo tutti insieme nel giorno del Sole, poiché questo è il primo giorno nel quale Dio, trasformate le tenebre e la materia, creò il mondo; sempre in questo giorno Gesù Cristo, il nostro Salvatore, risuscitò dai morti. Infatti Lo crocifissero la vigilia del giorno di Saturno, ed il giorno dopo quello di Saturno, che è il giorno del Sole, apparve ai suoi Apostoli e discepoli, ed insegna proprio queste dottrine che abbiamo presentato anche a voi perché le esaminiate.
Nel giorno chiamato del Sole si fa l’adunanza di tutti nello stesso luogo, dimorino in città o in campagna, e si leggono le memorie degli apostoli e gli scritti dei profeti, finché il tempo lo permette. Quando il lettore ha terminato, chi presiede con un sermone ci ammonisce ed esorta all’imitazione di quei begli esempi. Poi tutti insieme ci leviamo e innalziamo preghiere; e, avendo noi terminato le preghiere, si porta pane, vino ed acqua e il capo della comunità fa similmente orazioni e azioni di grazie con tutte le sue forze, e il popolo acclama dicendo l’Amen, e si fa a ciascuno la distribuzione e la spartizione delle  cose consacrate e se ne manda per mezzo dei diaconi anche ai non presenti. I ricchi, invero, e quelli che vogliono, ciascuno a suo piacere dà ciò che vuole, e quello che si raccoglie viene depositato presso il capo; ed egli soccorre gli orfani e le vedove, e quelli che sono bisognosi per malattia o per altra ragione, quelli che sono carcerati e gli ospiti forestieri, e senza eccezione ha cura di tutti quelli che hanno bisogno. Ci aduniamo tutti nel giorno del sole, perchéè il primo giorno in cui Dio, avendo mutato la tenebra e la materia, creò il mondo e Gesù Cristo nostro salvatore nello stesso giorno risuscitò dai morti; infatti la vigilia del giorno di Saturno lo crocifissero e nel giorno dopo quello di Saturno, il quale è il giorno del sole, comparso agli apostoli suoi e discepoli insegnò queste cose, che abbiamo presentate anche al vostro esame” (Giustino, Prima Apologia, 67, 3-7: M. Simonetti – E. Prinzivalli, Letteratura cristiana antica,  Casale Monferrato, 1996, I, pp. 223-225)

Breve biografia di San Giustino (n. ca 100 – m. ca 165 d.C).
Questo Padre della Chiesa nacque intorno all’anno 100 presso l’antica Sichem, in Samaria, in Terra Santa. Cercò a lungo la verità, pellegrinando nelle varie scuole della tradizione filosofica greca. Finalmente – come egli stesso racconta nei primi capitoli del suo Dialogo con Trifone – un misterioso personaggio, un vegliardo incontrato lungo la spiaggia del mare, lo mise dapprima in crisi, dimostrandogli l’incapacità dell’uomo a soddisfare con le sole sue forze l’aspirazione al divino. Poi gli indicò negli antichi profeti le persone a cui rivolgersi per trovare la strada di Dio e la «vera filosofia». Nel congedarlo, l’anziano lo esortò alla preghiera, perché gli venissero aperte le porte della luce. Il racconto adombra l’episodio cruciale della vita di Giustino: al termine di un lungo itinerario filosofico di ricerca della verità, egli approdò alla fede cristiana. Fondò una scuola a Roma, dove gratuitamente iniziava gli allievi alla nuova religione, considerata come la vera filosofia. In essa, infatti, aveva trovato la verità e quindi l’arte di vivere in modo retto. Fu denunciato per questo motivo e venne decapitato intorno al 165, sotto il regno di Marco Aurelio, l’imperatore filosofo a cui Giustino stesso aveva indirizzato una sua Apologia.

Rembrandt, Supper at Emmaus

Rembrandt, Supper at Emmaus dans immagini sacre 17%20REMBRANDT%20SUPPER%20AT%20EMMAUS

http://www.artbible.net/3JC/-Luk-24,13_Emmaus_on_the_way_en_route/slides/17%20REMBRANDT%20SUPPER%20AT%20EMMAUS.html

Publié dans:immagini sacre |on 2 avril, 2013 |Pas de commentaires »

CAMMINARE CON CRISTO NELLA CHIESA – ANTIOCHIA E GERUSALEMME

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/04-05/7-Atti_Antiochia_Gerusalemme.html

CAMMINARE CON CRISTO NELLA CHIESA/8:

ANTIOCHIA E GERUSALEMME

Finalmente siamo fuori dalla Palestina e siamo in pieno ambiente pagano, in una bellissima città, Antiochia di Siria, situata nella pianura del fiume Oronte a trentacinque chilometri dal mare, dove c’è il porto di Seleucia. È la terza città dell’Impero romano dopo Roma e Alessandria d’Egitto e conta oltre mezzo milione di abitanti. Ebbene, è in questa città che nasce una comunità cristiana colma di vita e aperta a tutti. Le discriminazioni della Chiesa giudaica sono lontane, anche se sempre latenti. In pochi anni la Chiesa di Antiochia avrà un’importanza enorme, senza però perdere la comunione con la Chiesa-Madre di Gerusalemme. La convinzione che la Chiesa è una, pur nella diversità delle singole comunità, è un principio fondamentale.
Ora però ci chiediamo: come è nata la comunità di Antiochia di Siria? Chi è Gesù per i credenti che vivono in essa? Come si manifesta la sua comunione con Gerusalemme? A queste domande risponde il primo brano della sezione: 11,19-30. Nel capitolo 12° invece ritorneremo alla perseguitata Chiesa di Gerusalemme e la conclusione sarà che, malgrado tutto, la parola di Dio si diffonde sempre di più.
I problemi storici legati a questa sezione non sono pochi, ma partendo dal principio che nulla si improvvisa, diciamo che quanto si narra nella prima parte (11, 19-30) copre forse la spazio di 7 o 8 anni (41-48) con un accenno agli eventi dell’anno 36. Quanto invece è narrato nel capitolo 12° è contemporaneo agli eventi della prima parte. A Luca non interessa l’ordine cronologico, ma quello logico: nella prima parte parla di una Chiesa in pieno sviluppo, nella seconda di una Chiesa perseguitata. Si tratta però sempre dell’unica e indivisibile Chiesa impegnata nell’annuncio del Vangelo.
Come nasce una comunità (11,19-21)
Chi ha fondato la comunità di Antiochia è gente che è fuggita da Gerusalemme, quando si scatenò la persecuzione che travolse Stefano (anno 36). Là, annotando il lato positivo della persecuzione, si diceva che i dispersi andavano di luogo in luogo annunziando la Parola. Non si tratta di quelli, come gli Apostoli che hanno come compito primario l’annuncio del Vangelo, qui si tratta di tutti i discepoli. Ognuno sente che non può vivere pienamente la Parola, se non la dona agli altri. Di questo si è in parte già parlato in 8,1-4, ora si dice che i fuggiaschi andarono oltre i confini della Palestina, giunsero nella Fenicia, a Cipro e ad Antiochia.
Quanto segue è molto importante: “Mentre andavano non parlavano a nessuno della Parola se non ai soli Giudei”. Forse seguivano il principio: “prima ai Giudei”. In realtà si tratta di quei giudei-cristiani chiusi ad ogni apertura ai pagani. Ma non erano tutti così: “C’erano alcuni uomini, originari di Cipro e Cirene che, giunti ad Antiochia, cominciarono a parlare anche ai pagani, annunciando loro la lieta notizia del Signore Gesù”. Ebbene solo di questi si afferma: “La potenza del Signore era con loro”. Dio non è con chi si chiude nei suoi principi razziali, Dio è con coloro che si aprono a tutti e che vogliono convivere con tutti. Come a Cesarea, così avviene anche ad Antiochia, dove nasce una comunità senza tabù alimentari o sociali: una comunità aperta a tutti.
Anche l’oggetto del loro annuncio è importante: Il Signore Gesù, cioè: “Solo Gesù è il Signore”, o, come ha detto Pietro a Cesarea: “Gesù è il Signore di tutti”. Questo è il vero oggetto di una sana catechesi ed è un binomio che suona come uno slogan. In un ambiente come Antiochia, dove si veneravano varie divinità: Apollo, Dafne, Artemide, ecc. e dove vi erano anche tanti potenti di questo mondo, il grido Gesù è il Signore relativizzava ogni potere umano e annullava per sempre ogni idolatria.

Barnaba e Saulo (11,22-26)
La notizia di ciò che accadeva ad Antiochia giunse alla Chiesa di Gerusalemme, e perciò, come avevano inviato Pietro e Giovanni in Samaria, così ora mandano Barnaba ad Antiochia, certamente per controllare, anche se il principio “la Chiesa è una” guida ogni cosa.
Hanno scelto la persona più adatta. Barnaba è “il figlio della consolazione” ed è un levita, perciò una persona fatta per far osservare la legge. Quando giunse però in quella città capì subito che non era lì per controllare: toccò con mano la grazia del Signore, cioè il meraviglioso sviluppo dell’opera evangelizzatrice. Non c’è da controllare niente dove agisce il Signore. Scoppiò di gioia e si limitò a “esortare tutti a rimanere saldi nel Signore”; e, come uomo pieno di Spirito Santo e fede si mise a collaborare all’opera evangelizzatrice. Risultato: “una folla considerevole fu condotta al Signore”. È la quinta volta che in questo brano (11,19-24) si parla del Signore o del Signore Gesù. Questo esprime la convinzione dei fedeli della continua presenza del Signore nella loro storia.
Barnaba fece poi di sua iniziativa qualcosa di grande. Andò a Tarso a cercare Saulo, “lo strumento scelto per portare il nome di Gesù ai pagani” (9,15) e lo ricondusse nella comunità. Forse erano passati sette o otto anni (39-46) da quando lasciò Gerusalemme (9,30).
Che cosa fece a Tarso in quegli anni? È probabile che abbia annunciato Gesù nelle regioni della Siria e della Cilicia (Gal 1,21), ed è certo che quelli furono per lui gli anni delle grandi rivelazioni, se un giorno ha potuto scrivere ai Galati: “Il messaggio di salvezza da me annunziato non viene dagli uomini… è Gesù Cristo che me lo ha rivelato” (Gal 1,11s; vedi pure 2 Cor 12,1-10). Ora eccolo ad Antiochia dove insieme a Barnaba per “un anno intero istruirono molta gente”. Il nome di Cristo dev’essere risuonato in continuità sulle loro labbra, se gli estranei finirono per chiamarli cristiani. Ai fedeli non spiacque questo appellativo, perché ricordava loro che essere cristiani significa appartenere a Cristo. Inoltre con questo nome si sentivano un gruppo ben diverso dal giudaismo. Il risultato fu che la Chiesa di Antiochia in breve superò per importanza quella di Gerusalemme senza diminuirne il primato.

Una colletta, segno di comunione
Vi è infine un fatto nuovo che rinsalda la comunione tra Antiochia e Gerusalemme (11,27-30). I fedeli di Antiochia di fronte all’annuncio di una grave carestia che stava per colpire “tutto il mondo”, si interessarono soprattutto di quella carestia che, sotto l’imperatore Claudio (41-54), colpì la Giudea. Perciò determinarono, secondo le possibilità di ciascuno, di “inviare aiuti ai fratelli che abitavano in Giudea” e li mandarono “ai presbiteri che sono in Gerusalemme” per mezzo di Barnaba e Saulo. Ma perché ai presbiteri e non, come si era soliti fare, agli apostoli? Dove sono gli apostoli? È possibile che la Chiesa madre si trovi in un momento di persecuzione e che la direzione sia stata affidata ad un gruppo collegiale. Ma c’è ancora un’altra difficoltà. Saulo nella lettera ai Galati parla solo di due andate a Gerusalemme: una tre anni dopo la sua conversione e l’altra quattordici anni dopo. Mentre Luca ne cita una terza. Chi ha ragione? I due. A Paolo nella lettera ai Galati non interessano tutte le sue andate a Gerusalemme, ma solo quelle che mettono in risalto il senso della sua missione. Infatti la prima che egli cita, aveva lo scopo di consultare Pietro, il testimone oculare, (Gal 1,18); la seconda, invece, quello “di difendere contro i falsi fratelli, che volevano imporre la circoncisione anche ai pagani, la libertà che avevano in Cristo” (Gal 2,1-5). Perciò cadono tutte le discussioni su chi è più fedele alla storia: se Saulo o Luca.

Gerusalemme: una Chiesa sotto pressione (12,1-5)
Da una Chiesa colma di entusiasmo per il suo meraviglioso sviluppo a una Chiesa perseguitata. Prima i persecutori erano Saulo e il potere religioso, ora si aggiunge il potere politico per mezzo di Erode Agrippa I, che regnò in Giudea dal 41 al 44, quando Saulo era ancora a Tarso. Era un uomo subdolo, sempre alla ricerca del plauso degli altri. Quando risiedeva a Gerusalemme era osservante della legge, partecipava ai sacrifici espiatori e, nel contatto con il potere religioso capì che se avesse perseguitato i cristiani avrebbe reso felici i farisei e i sadducei. Perciò “arrestò alcuni membri della chiesa per maltrattarli e fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni”. Qui ci stupisce assai che Luca con una semplice frase liquidi il fatto del martirio del primo apostolo. L’unica spiegazione possibile è che vuole concentrare il suo interesse su Pietro. Ma ci stupiscono anche quegli interpreti che dicono: «Ma perché gli altri apostoli non hanno ricostituito il numero di “Dodici” come si è fatto all’inizio». Il motivo è molto semplice: il valore dei Dodici sta nel loro essere testimoni oculari di tutta l’esistenza del Gesù terreno. Essi soli ci hanno lasciato la “Tradizione Apostolica”. Non ce ne possono essere altri. Sono irripetibili.
Torniamo al testo. Subito dopo l’uccisione di Giacomo “Erode vedendo che ciò era gradito ai Giudei decise di arrestare Pietro. Erano i giorni degli azzimi. Perciò lo catturò e lo gettò in prigione, custodito da quattro picchetti di quattro soldati ciascuno, col proposito di farlo comparire davanti al popolo dopo Pasqua”. Sedici soldati per custodire un prigioniero. Forse Erode sapeva che Pietro e gli altri apostoli erano già stati liberati dal carcere da un potere misterioso (5,17-21) e volle premunirsi. La sua intenzione era di imitare Pilato che aveva presentato Gesù alla gente e poi fatto uccidere. Così voleva fare con Pietro. Ma al suo potere si opponeva un altro potere: “La preghiera della Chiesa saliva incessantemente a Dio”. Già sappiamo di chi sarà la vittoria.

La liberazione di Pietro (12,6-19)
È un racconto fantastico, un racconto in cui Luca parla dell’agire di Dio. Perciò un racconto che dev’essere letto con fede. L’antica espressione “Angelo di Dio” indica la continua e potente presenza di Dio nella storia. Quello che avviene ha un prima e un dopo e perciò è un evento storico. L’autore però è Dio e il suo agire può essere colto solo nella fede, e poi espresso con le nostre limitate parole umane. Di qui il senso del drammatico che Luca dà al suo racconto. Egli cerca di mettere in risalto tanti piccoli particolari che bene evidenziano la bontà di Dio verso il suo apostolo: “Una luce sfolgorò nella cella… e l’Angelo disse a Pietro: «Alzati, cingiti i fianchi e mettiti i sandali; avvolgiti nel mantello e seguimi»… A Pietro gli sembrava tutto un sogno… Passarono tra il primo gruppo di guardia e poi tra il secondo e giunsero alla grande porta di ferro che automaticamente si aprì”. E le guardie? Con la cella piena di luce è impossibile pensare che non si accorgessero di nulla. Erano tutte sveglie, ma erano lì esterrefatte e incapaci di agire. Pietro continua a seguire l’angelo che lo conduce fuori e che, appena arrivano in una strada deserta, scompare. Allora capì che non si trattava di un sogno, ma che il Signore lo aveva liberato. Nell’agire dell’angelo Pietro scopre la presenza del Signore.
Anche la scena seguente (vv. 12-17) è molto bella. “Pietro va alla casa di Maria, madre di Giovanni, detto anche Marco, e bussò alla porta”. Lo sentì una fanciulla di nome Rode. Corse alla porta e appena udì la voce di Pietro, tutta gioiosa tornò indietro a dire a tutti che alla porta c’era Pietro. Pensarono che vaneggiasse. Ma Pietro continuava a bussare. Allora gli aprirono e vedendo che era proprio lui rimasero lì stupefatti. “Pietro fece segno di tacere. Poi raccontò come il Signore (non l’angelo) lo aveva tratto fuori dal carcere e aggiunse: «Riferite questo a Giacomo e ai fratelli». Poi uscì e si incamminò verso un altro luogo”.
Dove andò? Quante opinioni! Ma come si fa a inventarle se non ci sono dati? Forse l’unica risposta possibile è che ubbidì al Signore il quale aveva detto: “Se vi perseguitano in una città, fuggite in un’altra” (Mt 10,23). E probabilmente è questo che voleva dire a Giacomo e agli altri Apostoli (fratelli). L’ira di Erode infatti si stava scatenando: fece ricercare Pietro e uccidere le guardie della prigione.

La morte di Erode (12,20-23)
Luca si è trattenuto molto su Pietro, facendo così risaltare la continua presenza di Dio. Davvero Dio cammina con i suoi nella storia. E questo non si offusca se ora rapidamente narra la tragica morte del persecutore. Erode non essendo riuscito a mantenere la parola di presentare Pietro al popolo se ne andò a Cesarea dove riuscì a fare pace con quei di Tiro e Sidone. Poi vennero i giochi in onore di Cesare ed Erode volle presentarsi in tutta la gloria della sua onnipotenza. Flavio Giuseppe, che è forse la fonte di Luca, dice che “nel secondo giorno dello spettacolo Erode, rivestito di paramenti mirabilmente intessuti d’argento entrò all’alba nel teatro e i suoi abiti erano così raggianti alla luce del sole che incuteva timore e tremore in tutti coloro che lo guardavano” e quando poi si mise a parlare – dice Luca – “il popolo lo acclamava dicendo: «Parola di Dio, non di uomo»”. È la divinizzazione della creatura, “stanno adorando un uomo mortale invece di adorare il Dio glorioso e immortale” (Rm 1,23). E Dio li rifiuta: “improvvisamente un angelo di Dio lo colpì perché non aveva dato gloria a Dio, e roso dai vermi spirò”. È la distruzione di ogni idolatria e la condanna di ogni potere umano esercitato con senso di onnipotenza. Anche ai nostri giorni quanti onnipotenti sono svaniti nel nulla.
La conclusione (12.24s) è che, anche nella persecuzione, “l’annuncio della Parola continuava a crescere e a diffondersi sempre di più”. La Parola non è incatenata, non c’è potere umano che la possa fermare. Questo è l’insegnamento che Luca trae da tutto ciò che è avvenuto nell’anno 44. Poi, riprendendo il racconto sospeso in 11,30, dice: “Barnaba e Saulo, compiuta la loro missione a Gerusalemme, tornarono ad Antiochia conducendo con loro Giovanni, soprannominato Marco”. Sono i personaggi che domineranno le pagine seguenti. La meditazione su di esse ha lo scopo di infondere nel lettore il vero senso missionario della propria vita. Infatti non c’è vera gioia, la nostra vita cristiana non trova in sé il suo vero senso, se in noi manca il desiderio di donare ad altri la nostra fede.

Preghiamo
Signore Gesù, donaci di vivere come i cristiani di Antiochia il senso della tua presenza in mezzo a noi. Donaci la gioia dell’annuncio della nostra fede in te, unico Signore, e fa’ che tu sia l’unico oggetto della nostra catechesi. Noi vogliamo farti conoscere, Gesù, e lo vogliamo fare testimoniandoti come colui che dà senso alla nostra vita, perché anche altri trovino in te il senso della loro esistenza. Un’altra cosa abbiamo ancora imparato da quei cristiani: il senso della comunione tra i cristiani, una comunione che sa andare sempre oltre la propria comunità per vivere la comunione dell’unica e indivisibile Chiesa. Facci sentire, o Signore, che la Chiesa è una, perché sappiamo quant’è orribile il peccato della divisione e ci impegniamo a costruire quell’unità che tu vuoi. Solo vivendo questi ideali potremo davvero sperimentare quanto è bello essere cristiani. Amen.
Mario Galizzi SDB

RIVISTA MARIA AUSILIATRICE 2004-7

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