DELLA SPIRITUALITÀ, OSSIA IL MISTERO DI CRISTO E LA VITA DEL CRISTIANO – PARTE PRIMA
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(Paolo è presente in molte parti del testo; è un PDF l’ho dovuto trasformare in Txt e stringere, se c’è qualche errore scusate)
DELLA SPIRITUALITÀ, OSSIA IL MISTERO DI CRISTO E LA VITA DEL CRISTIANO – PARTE PRIMA
DON MASSIMO NARO
«Un giorno rabbì Nahum entrò all’improvviso nella scuola del Talmud e trovò gli studenti che giocavano a dama. Quando questi videro entrare il maestro, si confusero e smisero di giocare; ma il maestro scosse benevolmente la testa e chiese: « Conoscete le regole del gioco della dama? ». E siccome gli allievi non aprivano bocca per la vergogna, Nahum si rispose da sé: « Vi dirò io le regole del gioco della dama. Primo, non è permesso fare due passi alla volta. Secondo, è permesso andare solo in avanti ma non tornare indietro. Terzo, quando si è arrivati in alto, beh, allora si può andare dove si vuole »». Questa breve e simpatica lezione «rabbinica» è tratta dall’opera del filosofo ebreo Martin Buber, intitolata I racconti dei Chassidim (Milano 1979). Rabbì Nahum, senza umiliare i suoi giovani allievi, più inclini a giocare a dama che a studiare il Talmud, coglie l’occasione per dar loro un importante insegnamento sulla vita del credente, servendosi — secondo lo stile che fu già di Gesù — del gioco della dama a mo’ di parabola. La lezione è trasparente e immediata: il gioco della vita si evolve secondo regole ben precise, procedendo gradualmente verso il suo pieno sviluppo; ma, allorché si raggiunge la maturità interiore, si conquista allora la libertà dello spirito. La parabola di Nahum può servire per introdurci nella riflessione di oggi, che ho preferito intitolare Il mistero di Cristo e la vita del cristiano, in quanto — per noi credenti in Cristo Gesù — la piena realizzazione della nostra vita avviene quando raggiungiamo «la statura» (per usare una parola di san Paolo) del nostro Maestro e Redentore, grazie al dono del suo stesso Spirito che opera in noi. Lo schema, che dovreste avere in mano, prevede tre punti, su cui ci fermeremo un po’ a riflettere: a) «nella foresta dei vocaboli»: cercheremo di chiarire il significato di alcune parole che spesso sentiamo pronunciare e usiamo noi stessi, in riferimento alla vita cristiana;
b) «la spiritualità cristiana»: identificando la vita cristiana con la vita
spirituale, tenteremo di comprendere in cosa questa consiste;
c) «una mistica dell’azione e per l’azione»: tenuto conto che la vita cristiana è
vivere nel mistero di Cristo, vedremo in che senso essa può e deve coincidere con la nostra
esperienza quotidiana, sino ad assimilarla tutta quanta in sé.
NELLA FORESTA DEI VOCABOLI
Innanzitutto tentiamo di districarci nella «foresta dei vocaboli», ossia di capire, almeno per sommi capi, di cosa parliamo quando usiamo certe parole come vita cristiana, mistero di Cristo, attività apostolica, contemplazione, ascetica e mistica. La nozione di vita cristianadovrebbe essere scontata per tutti noi, che ormai da un certo tempo, più o meno lungo, abbiamo intrapreso un rapporto di amicizia con Cristo Gesù. Già questa semplicissima affer-mazione: «intraprendere un rapporto d’amicizia con Gesù», dovrebbe bastarci per comprendere nella sua essenza più intima la vita cristiana. Tuttavia può tornare utile ricordare che nella Bibbia, come pure negli scritti dei Padri della Chiesa, la parola «vita», accompagnata e qualificata dall’aggettivo «cristiana», ha un significato particolare e per niente ovvio. Nella traduzione greca dell’A.T., e poi anche nel N.T. e negli scritti cristiani dei primi secoli — anch’essi redatti prevalentemente in greco –, si incontrano due termini diversi per dire «vita»: bìos e zoé. Il termine bìos sta ad indicare la vita biologica, quella che il Creatore pone in essere allorché crea dal nulla il cosmo, e in esso la terra, e in essa tutti gli esseri viventi, che 2popolano il cielo, il mare, la terraferma; è il principio biologico di cui anche Adamo usufruisce da Dio quando questi gli alita nelle narici il suo soffio vitale. In quanto tale bìos è una prerogativa creaturale: appartiene a tutti gli esseri viventi creati da Dio; essa è destinata a terminare il suo ciclo vitale, ad estinguersi, a cedere il posto alla morte, a ritornare presso il Creatore, da cui era scaturita in forma di alito vivificatore. Il termine zoé, invece, sta ad indicare, nel linguaggio biblico, la completezza della vita. Completezza intesa in senso antropologico, poiché zoé è la vita dell’essere esistente razionale, dell’uomo, che ha un cuore e una mente che lo innalzano su un gradino superiore rispetto a tutte le altre creature terrestri. Completezza, inoltre, intesa anche e soprattutto in senso teologico, in quanto zoé è la vita che rimanda inequivocabilmente al suo divino datore, a Colui che la dona gratuitamente all’uomo, offrendogliela in segno della sua predilezione fra tutte le altre creature, e che la preserva da mille pericoli facendosene il garante fedele e provvidente. In questa prospettiva, zoé è un concetto più vasto e più ricco di significato rispetto a bìos; zoé risulta essere una vita più intensa e più piena, che include anche la dimensione della vita biologica, ma che, al contempo, la trascende. Zoé, insomma, è l’esistenza stessa dell’uomo che si identifica col suo fondamento: il rapporto di comunione, di intima vicinanza, di amicizia, di alleanza indefettibile con Dio Creatore e Liberatore. Nel N.T. — specialmente nelle lettere paoline e, ancor più, negli scritti giovannei –, zoé comincia a indicare la partecipazione dell’uomo, reso solidale al Cristo crocifisso-risorto, alla Vitadel Dio uni-trino che Gesù è venuto a rivelare. Secondo san Paolo, l’uomo, liberato dal peccato, riassurge alla sua originaria dignità di creatura prediletta di Dio, arricchito però della dignità che gli deriva ora dalla figliolanza adottiva ottenutaci dal e nel Figlio. Secondo san Giovanni, l’uomo, visitato dal Verbo di Dio, diventa discepolo e testimone del Cristo. In tal senso, se bìos rimane una prerogativa creaturale e in quanto tale appartiene all’uomo creato, zoé diventa invece una prerogativa salvifica e in quanto tale compete esclusivamente all’uomo redento, all’uomo ri-creato, che accetta di rinascere nella vita nuova del Crocifisso-Risorto e di farsi suo discepolo, assurgendo così alla nuova condizione di figlio del Padre nell’Unigenito Figlio. Zoé diventa il principio vitale del cristiano, che avverte in sé e proclama davanti a tutti gli altri uomini la vocazione a vivere con Dio e di Dio, partecipe della vita divina in solidarietà col Figlio incarnato e redentore. La vita cristiana, dunque, risulta essere una conseguenza e una continuazione del mistero di Cristo, della sua morte e resurrezione intese a rivelare l’Amore del Padre e a salvare gli uomini, e di tutto ciò che tale mistero comporta per gli uomini. La vita cristiana è vita del cristiano, che gli appartiene del tutto e per sempre, ma che tuttavia egli ha ricevuto come un dono gratuito, una sorta di «talento» (per usare l’immagine evangelica), che deve essere trafficato secondo delle «regole» (per tornare alla lezione di rabbì Nahum) ben precise: la sequela e l’imitazione di Cristo Gesù, realizzate con quella dedizione totalitaria che Gesù stesso richiede ai suoi discepoli nel vangelo: «Chi mette mano all’aratro ma poi si volge indietro, non è degno di me». E l’inserimento nel mistero di Cristo, cioè nella sua pasqua di morte e resurrezione, — inserimento che inizia col battesimo e si fa sempre più profondo man mano che si cresce nella fede, nella speranza e nella carità –, costituisce come il «cordone ombelicale», per mezzo del quale il cristiano riceve il dono della vita divina. Ripeto: «vita divina», perché, in realtà, la vita del cristiano, in quanto zoé, si caratterizza anche teologicamente, e non solo antropologicamente: è vita che proviene dal Dio uni-trino, vita che scaturisce dal seno del Padre, e tramite il Cristo e per la potenza dello Spirito Santo, si attenda in mezzo all’umanità, nel cuore dell’uomo redento, mentre — allo stesso tempo — innesta l’umanità nel cuore di Dio. La vita del cristiano, cioè la vita di colui che entra per Grazia di Dio nel mistero di Cristo, diventando discepolo e amico di Gesù, si caratterizza comunemente come «apostolato». Coloro che Gesù di Nazareth chiamò a sé, divennero gli apostoli del suo vangelo. Ciò avviene, in un certo qual modo, anche oggi: tutti noi siamo, in un certo senso, «apostoli», perché testimoniamo il vangelo di Cristo nella comunità ecclesiale e nel mondo. Il termine «apostolato», in questo senso, indica il modo più comune di vivere la sequela di Cristo. Esso fa pensare all’attività dell’evangelizzatore: di colui che predica il vangelo, ma anche di chi opera la carità tra i fratelli. E’ apostolato quello che svolgono gli operatori pastorali (per esempio: i catechisti). Ma è apostolato anche quello che ciascun cristiano, nella sua vita d’ogni giorno, svolge nel proprio ambiente di lavoro, nella famiglia, nella società, nella misura in cui si mantiene coerente allo stile di vita che col battesimo ha intrapreso. Si tratta, comunque, di una vita di tipo «attivo», in cui il cristiano si apre sì, passivamente, alla Grazia, lasciandosi da essa condurre e rinfrancare, ma collabora, nel contempo, con essa prestando il proprio impegno in una serie di «attività» apostoliche. Per quanto riguarda la contemplazione, se stiamo al significato etimologico della parola, essa altro non è che fissare lo sguardo su una realtà che attira fortemente l’attenzione e il desiderio di chi guarda. Si contempla la bellezza dei paesaggi naturali, del mare, dei monti, del cielo d’estate. Nell’ambito della vita cristiana, l’oggetto della contemplazione è Dio uni-trino: il mistero del Padre che crea e salva gli uomini, del Cristo che ce lo rivela, dello Spirito che ce lo fa conoscere e comprendere. E’, insomma, il mistero trinitario, che si realizza in mezzo a noi nel mistero pasquale di Cristo Gesù e che illumina, includendolo in sé, il nostro stesso mistero, il mistero dell’uomo redento. Contemplare, in questo orizzonte, significa affondare gli occhi della fede, della speranza e dell’amore in questo mistero. Contemplare significa sapere, a prescindere dalle nostre umane conoscenze e dalle nostre umane capacità di conoscere, che un tale mistero esiste e si realizza per noi. Contemplare è un sapere tale mistero; sapere nel senso originario di «sàpere», ossia di «gustare», «assaporare» il mistero, più che di scandagliarlo o di anatomizzarlo. E’ chiaro, comunque, che la contemplazione più autentica e più «pura» non è, di fatto, appannaggio di tutti i cristiani, anche se tutti i cristiani possono approdarvi: non tutti i cristiani sono dei contemplativi nel senso proprio del termine, benché la storia del cristianesimo ne conosca moltissimi; ma tutti i cristiani possono giungere a contemplare il mistero di Dio. Questo perché, in verità, colui che giunge alla contemplazione non vi riesce per suo merito personale, ma perché gli viene concesso in dono da Dio stesso. In questo senso, coglieva nel segno san Francesco d’Assisi, che fu vero contemplativo, quando augurava a tutti coloro che incontrava sulla sua strada: «Il Signore faccia splendere su di te il suo viso, ti mostri la sua faccia, volga a te il suo sguardo e ti dia pace!». Un’altra parola che spesso si sente pronunciare, o che noi stessi pronunciamo, parlando della vita cristiana, è il termine «ascetica». L’ascetica, lo dice la parola stessa, indica la «salita» che l’uomo religioso compie per trascendere, in un certo qual modo, la propria situazione «terrena», anelando ad attingere Dio stesso, dopo essersi perfezionato dalle proprie mancanze e difetti umani. Insomma, mentre il contemplativo attinge Dio perché questi si china su di lui, lasciandosi quasi vedere dagli occhi della fede, l’asceta dal canto suo tenta di attingere Dio, innalzandosi da sé e percorrendo gli irti sentieri che portano, dalla condizione umana alla presenza dell’Altissimo. Per riuscire in tale scopo, l’asceta disciplina la propria vita, sottoponendosi volontariamente a una serie di «esercizi». Si tratta, ovviamente, principalmente di esercizi di tipo spirituale, ma, tante volte, anche di esercizi corporali, ossia di pratiche di autoperfezionamento che implicano la partecipazione di tutto l’essere dell’asceta, anche del suo corpo. E’ chiaro, del resto, che in questo orizzonte l’asceta può anche non essere cristiano: basti pensare ai mitici «fachiri» indiani e ai santoni indù. Esiste, però, certamente un’autentica ascesi cristiana: l’asceta cristiano sa bene che il proprio perfezionamento è solo un riflesso della divina perfezione; l’asceta cristiano, soprattutto, sa che l’«esercizio» che deve compiere è quello di portare, insieme a Cristo, la sua stessa croce. L’ascesi cristiana esige che si accolga la croce di Cristo, come dei novelli «cirenei». Si capisce, però, in questo caso, che l’ascesi cristiana non è uno sforzo semplicemente e solamente umano, che l’uomo compie per conto suo tendendo alla perfezione in quanto tale o comunque a una non meglio definita perfezione divina. Sappiamo bene, infatti, che nel caso cristiano è in realtà la croce di Cristo che porta e sostiene l’asceta, che gli dà la forza e il desiderio necessari per continuare con perseveranza nel cammino della perfezione. Non si tratta, cioè, di un conato soltanto umano; si tratta, ancora una volta, di un dono che viene dall’alto e che mette l’asceta cristiano nelle condizioni di conformarsi in maniera particolarissima al Cristo crocifisso e di partecipare alle sue sofferenze. Tuttavia, a questo dono dall’alto — che è, poi, pur sempre la Grazia — l’asceta cristiano si sforza eroicamente di collaborare. Più difficile risulta definire, e persino descrivere, che cosa è la mistica; anche gli studiosi specialisti in questo campo non sono del tutto d’accordo sul significato da attribuire al termine «mistica». Secondo don Divo Barsotti la mistica consiste nel fatto che «Dio Padre genera il Figlio suo nel cuore dell’uomo, così che l’uomo partecipi in qualche modo a una divina « maternità ». Dio si comunica all’uomo prolungando, in qualche modo, all’uomo la generazione del Verbo». La mistica, allora, sarebbe, in tal senso, la generazione del Verbo in noi da parte di Dio Padre, per la potenza dello Spirito Santo. Altri autori preferiscono sottolineare l’aspetto «sponsale» della mistica: l’anima del credente celebra le «nozze» col suo amato Sposo Cristo Gesù. A noi può bastare, innanzitutto, distinguere ancora tra una mistica genericamente religiosa o misteriosofica e la mistica propriamente cristiana: la mistica misteriosofica è stata e continua ad essere, presso le religioni non cristiane, il proiettarsi da parte di alcuni eletti dentro il mistero, o i misteri, che circondano l’uomo,ma che rimangono inaccessibili ai più. La mistica cristiana, invece, rimanda sì al mistero, ma al mistero cristiano così come lo si intende sin dai tempi neotestamentari, secondo la lezione di san Paolo, cioè il mistero di Dio, per secoli rimasto nascosto nel seno del Padre, ma che poi si è manifestato agli uomini in Cristo Gesù e che tra gli uomini continua a realizzarsi per la potenza dello Spirito Santo. In questo orizzonte, il mistero non è più considerato come l’«arcano» invisibile,inconoscibile e inaccessibile, bensì come la realtà di Dio-Amore, che si è fatta manifesta e si è messa alla portata di tutti in Cristo Gesù, di «tutti», nessuno escluso. In tal senso, la mistica diventa alla portata del cristiano, di ciascun cristiano, già al momento del battesimo, che nel nome della Trinità inserisce l’uomo nel mistero di Dio, facendolo «mistericamente» (non semplicemente «misteriosamente»!) morire insieme a Cristo e risorgere insieme con Lui. E tale inserimento nel mistero continua e si approfondisce man mano che il credente progredisce nella vita cristiana in seno alla Chiesa, ricevendo in mezzo ai fratelli l’unzione del crisma e realizzando con i fratelli il vincolo della comunione eucaristica. In questa prospettiva, già i sacramenti — e in modo eminente il sacramento dell’iniziazione cristiana — sono «eventi» mistici per tutti e per ciascun cristiano. Che esistano, poi, anche dei «fenomeni» mistici, come l’estasi e le stimmate, non contraddice alla veritàche la mistica cristiana non è un fatto elitario, per pochi eletti, ma un fatto che interessa da vicino tutti i cristiani. Spesso i fenomeni mistici si pongono al culmine di un rapporto d’amicizia particolarmente intenso con Gesù, a coronamento di un determinato cammino di santità; ma altre volte può avvenire che un fenomeno mistico sia il primo passo nell’itinerario della santità cristiana, basti pensare all’esperienza di san Paolo sulla via di Damasco. Sperimentare — ancora una volta per Grazia di Dio — i fenomeni mistici, come è avvenuto a san Francesco d’Assisi e a santa Caterina da Siena (tanto per citare due santi italiani), significa partecipare al mistero di Cristo in modo particolare, ma non per forza in modo più eccelso. Prova di ciò che sto affermando è il fatto che la santità cristiana, che in un certo senso è proprio la mistica, non è realizzata solo dai grandi mistici. La chiamata alla santità, insegna il Vat. II nel n. 40 della Lumen Gentium, è rivolta dal Padre, in Cristo, a tutti i cristiani, nessuno escluso. La santità è l’orizzonte che attende tutti i cristiani. L’attività apostolica, la contemplazione, l’ascesi e la mistica, sono modalità diverse, spesso tra di esse complementari, dell’unica santità cristiana in cui deve maturare e culminare la vita di ciascun cristiano. Se così stanno le cose, forse è proprio il caso di sfatare la preminenza di una semplice modalità della santità sulle altre, e di riconoscere, invece, il primato a Dio che realizza in ciascuno la santità e a ciascuno dà una particolare vocazione di santità. Solo nella consapevolezza che la santità non è una conquista umana, bensì un dono e una chiamata — una chiamata rivolta atutti! — ogni cristiano può giungere a fare della propria vita il teatro in cui si realizza l’esperienza di Dio. Si badi bene: diciamo «esperienza di Dio», nel senso che è Dio che agisce principalmente nell’esistenza dell’uomo. La preposizione «di» (esperienza di Dio) regge un genitivo soggettivo, non oggettivo: l’esperienza di Dio è l’esperienza che Dio fa nei confronti dell’uomo e non l’esperienza che fa l’uomo captando o impossessandosi o mettendo alla prova Dio. Nella Bibbia — ricordiamolo – è sempre Dio che mette alla prova i suoi fedeli, è Dio che saggia l’amore del suo popolo, la fedeltà dei patriarchi (Noé, Abramo, Mosé), la giustizia dei giudici e dei re (Jefte, Davide), il coraggio e l’abnegazione dei profeti (Isaia, Geremia, Giona, Osea), la pazienza dei santi d’Israele (Giobbe). E’ sempre Dio che si china gratuitamente sugli uomini e li rende suoi interlocutori, è Dio che si pone graziosamente alla portata del loro cuore e della loro mente, delle loro orecchie e dei loro occhi, sino al punto che, in Gesù di Nazareth, si consegna persino nelle loro mani. Agli uomini non resta che accogliere con gratitudine il Dio che si fa loro vicino, accettarne la presenza nella loro storia; e nella misura in cui lo fanno, riescono, a loro volta, a «sperimentare» l’amore di Dio: è Dio che entra nella loro esistenza e poi li accoglie nell’intimo del suo mistero, non gli uomini che lo afferrano e ne scandagliano le profondità.