Archive pour avril, 2013

11 APRILE: SANTO STANISLAO VESCOVO E MARTIRE

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SANTO STANISLAO VESCOVO E MARTIRE

11 APRILE

SZCZEPANOWSKI, POLONIA, C. 1030 – CRACOVIA, POLONIA, 11 APRILE 1079

Vescovo di Cracovia, fu pastore sapiente e sollecito. Succedette al vescovo Lamberto nel 1072. Intrepido sostenitore della libertà della Chiesa e della dignità dell’uomo, difensore dei piccoli e dei poveri, subì il martirio sotto il re Boleslao II? Canonizzato da Innocenzo IV ad Assisi nel 1253, è patrono della Polonia. Le sue spoglie, custodite nella cattedrale di Cracovia, sono mèta di pellegrinaggio attraverso i secoli. (Mess. Rom.)

Etimologia: Stanislao = la gloria dello stato, dal polacco

Emblema: Bastone pastorale, Palma
Martirologio Romano: Memoria di san Stanislao, vescovo e martire, che fu strenuo difensore della civiltà e dei valori cristiani tra le ingiustizie del suo tempo; resse come buon pastore la Chiesa di Cracovia, prestando soccorso ai poveri e visitando ogni anno il suo clero; mentre celebrava i divini misteri, fu ucciso dal re di Polonia Boleslao, che aveva severamente rimproverato.

I buoni esempi dei genitori esercitarono una profonda impressione sul figlio che imparò presto a darsi alla preghiera, ad evitare i frivoli divertimenti, a imporsi delle piccole privazioni e a soffrire volentieri le incomodità della vita. Dopo i primi studi, egli fu inviato a completarli dapprima a Gniezno, celebre università della Polonia, poi a Parigi, dove per sette anni si applicò allo studio dei diritto canonico e della teologia. Per umiltà rifiutò il grado accademico di dottore.
Quando ritornò in patria e divenne, per la morte dei genitori, possessore di una considerevole fortuna, Stanislao potè disporre dei beni in favore dei poveri e servire Dio con maggiore libertà. Il vescovo di Cracovia, Lamberto Zurla, conoscendo quanto grande fosse la sapienza e la virtù di lui, lo ordinò sacerdote e lo fece canonico della cattedrale.
Stanislao fu il modello del capitolo per le penitenze con cui affliggeva il proprio corpo, la lettura e la meditazione continua della Sacra Scrittura, le vigilie e l’assiduità ai divini uffici. Incaricato della predicazione, si acquistò in breve una così grande reputazione che parecchi ecclesiastici e laici accorsero da tutte le parti della Polonia a consultarlo per la tranquillità della loro coscienza.
Dopo la morte di Lamberto, tutti, ad una voce, elessero Stanislao suo successore. Egli, che si riteneva indegno e incapace di tanto ufficio, rifiutò energicamente. Dovette tuttavia piegarsi all’ordine formale di Alessandro II e lasciarsi consacrare vescovo nel 1072. Costretto a compiere le funzioni degli apostoli, egli cercò di praticarne le virtù. Per tenere sottomessa la carne portò il cilicio fino alla morte e per distaccarsi sempre di più dai beni della terra soccorse i bisognosi con generosità. Per non dimenticare nessuno ne fece compilare un elenco completo. La sua casa era sempre aperta a quanti ricorrevano a lui per consiglio e aiuto. Ogni anno visitava la diocesi per togliere gli abusi ed esigere dal clero una vita che fosse di edificazione per i fedeli. Dimentico delle ingiurie, trattava tutti con la dolcezza e la bontà di un padre, e prediligeva i deboli e gli oppressi, che difendeva sempre e ovunque con invincibile fermezza.
La Polonia in quel tempo era governata da Boleslao II l’Ardito. Costui si era dimostrato valoroso nella guerra contro i Russi, ma nella vita privata non rifuggiva dalle orge, e in quella pubblica dalla tirannia. I rapimenti e le violenze erano i crimini che quotidianamente consumava con grande scandalo dei sudditi. Nessuno di coloro che lo avvicinavano osava fargliene la minima rimostranza. Soltanto Stanislao ogni tanto lo andava a trovare per indurlo a riflettere sulla enormità dei propri crimini e le funeste conseguenze degli scandali che dava. Boleslao II in principio cercò di scusarsene, poi parve dare segni di pentimento e promise di emendarsi.
Le buone risoluzioni del re non durarono a lungo. Nella provincia di Siradia un giorno Boleslao fece rapire a viva forza Cristina, la moglie del signore Miecislao, famosa per la sua bellezza. L’atto tirannico e immorale provocò l’indignazione di tutta la nobiltà polacca. L’arcivescovo di Gniezno, primate del regno, e i vescovi della corte furono pregati d’intervenire, ma essi, timorosi di dispiacere al sovrano, rimasero dei cani muti. Soltanto Stanislao, dopo avere a lungo pregato, osò affrontare il re per la seconda volta e minacciargli le censure ecclesiastiche se non poneva termine alla sua vita disordinata e prepotente. Alla minaccia di scomunica Boleslao uscì dai gangheri e ingiuriò grossolanamente il coraggioso prelato dicendogli: « Quando uno osa parlare con tanto poco rispetto ad un monarca, converrebbe che facesse il porcaio, non il vescovo ». Il santo, senza lasciarsi intimidire, rinnovò le sue istanze e disse al sovrano: « Non stabilite nessun paragone tra la dignità regale e quella episcopale perché la prima sta alla seconda come la luna al sole o il piombo all’oro ».
Boleslao II, risoluto a vendicarsi a costo di ricorrere alla calunnia, si ritirò bruscamente senza neppure congedare lo sconcertante visitatore. Il santo vescovo aveva comperato da un signore, chiamato Pietro, la terra di Piotrawin, ne aveva pagato il prezzo alla presenza di testimoni, poi ne aveva dotata la chiesa di Cracovia. Nell’atto di vendita nessuna formalità era stata omessa, tuttavia Stanislao, confidando nella buona fede dei testimoni, non aveva richiesto dal venditore una quietanza. Essendo costui morto, il re chiamò a sé i nipoti di Pietro, li esortò a richiederne l’eredità come un bene usurpato dal vescovo, e li assicurò che avrebbe saputo intimidire i testimoni al punto da chiudere loro la bocca. Gli eredi, seguendo le istruzioni di Boleslao II, intentarono un processo al vescovo, lo citarono a comparire davanti ad un’assemblea di giudici presieduta dal re e lo accusarono di avere usurpato la loro proprietà. Il santo sostenne di averla pagata, ma essi negarono. Allegò allora dei testimoni, ma essi non ebbero il coraggio di dire la verità. Stanislao stava per essere condannato quando, in seguito ad una improvvisa ispirazione, chiese ai giudici una dilazione di tre giorni, promettendo di fare comparire in persona Pietro, morto da tre anni. La richiesta fu accolta con uno sprezzante sogghigno.
Dopo aver digiunato, pregato e vegliato, Stanislao il terzo giorno si recò al luogo in cui Pietro era stato seppellito, fece aprire la tomba e, toccandone con il pastorale la salma, gli ordinò di alzarsi nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Il defunto ubbidì e il santo lo condusse con sé al tribunale dov’era ad attenderlo il re, la corte e una grande folla di curiosi. « Ecco – disse Stanislao ai giudici entrando con Pietro nella sala – colui che mi ha venduto la terra di Piotrawin; egli è risuscitato per rendervene testimonianza. Domandategli se non è vero che gli ho pagato il prezzo di quella terra. Lo conoscete e la sua tomba è aperta ». I presenti rimasero allibiti. Il risorto dichiarò che il vescovo gli aveva pagato quella terra davanti ai due testimoni che pochi giorni prima avevano tradito la verità, rimproverò i suoi nipoti per avere osato perseguitare ingiustamente il vescovo di Cracovia e li esortò a farne la penitenza. Dopo di che egli ritornò alla tomba da cui era uscito scongiurando il santo di pregare Nostro Signore affinché gli abbreviasse le pene del Purgatorio.
Quel prodigio fece una grande impressione sopra Boleslao II. Per un certo tempo trovò la forza di reprimere la sua lussuria e di mitigare le sue crudeltà. Compì persino una spedizione contro i Russi e s’impadronì della loro capitale, Kiew. Tuttavia, l’ebrezza della vittoria lo fece ricadere in braccio alle più sregolate passioni. Non contento degli ordinari eccessi, volle abbandonarsi pubblicamente alle abominazioni di Sodoma e Gomorra. Stanislao, quale novello Giovanni Battista, prese la risoluzione di porre un freno alla licenza del novello Erode anche a costo del martirio per la gloria di Dio e la salute della Polonia. Egli chiese al Signore con preghiere e penitenze la conversione del re, lo visitò parecchie volte per fargli aprire gli occhi e sollevarlo dall’abisso in cui era precipitato. La sua fatica fu inutile: il sovrano lo caricò d’ingiurie e lo minacciò di morte se continuava a censurare la condotta come aveva fatto.
Stanislao, acceso di sdegno per l’offesa che il re faceva a Dio, dopo avere chiesto il parere di altri vescovi, scomunicò pubblicamente Boleslao II e gl’interdisse l’ingresso in chiesa. Siccome il re continuava, nonostante le pene canoniche in cui era incorso, a prendere parte con i fedeli ai riti liturgici, il vescovo ordinò ai sacerdoti di sospendere i divini uffici ogni volta che lo scomunicato ardiva varcare la soglia delle loro chiese. Per parte sua, allo scopo di non essere turbato dalla presenza di lui nella celebrazione della Santa Messa, andava a dirla nella chiesa di San Michele, fuori Cracovia. Pieno di furore, Boleslao II si recò colà e ordinò ad alcune guardie di entrare in chiesa e di massacrarvi Stanislao. Esse ubbidirono, ma mentre stavano per mettere le mani addosso al santo che celebrava la Messa, furono fatti stramazzare a terra da una forza misteriosa. Il re, irridendo alla loro debolezza, si avvicinò in persona a Stanislao con in mano la spada sguainata, e gli assestò un fendente sulla testa con tale violenza da farne schizzare le cervella contro la parete. Era l’11 aprile del 1079. Per assaporare di più la sua atroce sete di vendetta tagliò il naso e le labbra al martire, e quindi diede ordine che il cadavere fosse trascinato fuori della chiesa, fatto a pezzi e disperso per i campi affinché servisse di cibo agli uccelli e alle bestie selvagge.
Tuttavia Iddio fece sì che quattro aquile difendessero per due giorni le reliquie del santo e che durante la notte esse rilucessero di uno strano splendore. Alcuni sacerdoti e pii fedeli, fatti audaci da quei prodigi, osarono, malgrado la proibizione del re, raccogliere quelle membra sparse, emananti un soave profumo, e seppellirle alla porta della chiesa di San Michele. Due anni più tardi il corpo di Stanislao fu trasportato a Cracovia e seppellito prima in mezzo alla chiesa della fortezza e poi nella cattedrale (1088).
S. Gregorio VII (+1085) lanciò l’interdetto sul regno di Polonia, scomunicò Boleslao II e lo dichiarò decaduto dalla dignità regale. Il principe, perseguitato esternamente dalla riprovazione dei sudditi, straziato internamente dal rimorso dei crimini commessi, cercò rifugio presso Ladislao I (+1095), re d’Ungheria, che lo accolse con bontà. Il pentimento non tardò ad impossessarsi del suo animo e allora intraprese un pellegrinaggio a Roma per implorare dal papa l’assoluzione dalle censure. Giunto ad Ossiach, nella Carinzia, la grazia lo spinse ad andare a bussare alla porta del monastero dei benedettini e chiedere di potervi passare il restante della vita come un fratello laico. Vi rimase sconosciuto fino alla morte (+1081) dedito alla penitenza e ai lavori più umili.
S. Stanislao di Cracovia fu canonizzato da Innocenze IV nel 1253. Sulla sua tomba avvennero dei prodigi, tra cui la risurrezione di tre morti.

Autore: Guido Pettinati

IL ‘LUOGO’ DELLA TEOLOGIA – DEL TEOLOGO KLAUS HEMMERLE

http://www.indaco-torino.net/gens/71_08_06.htm

DEL TEOLOGO KLAUS HEMMERLE UNA CONVERSAZIONE TENUTA ALLA SCUOLA SACERDOTALE DI GROTTAFERRATA

IL ‘LUOGO’ DELLA TEOLOGIA

Poter parlare qui è per me un avvenimento unico. Poiché mai ho avuto l’occasione di avere davanti a me un uditorio denso di unità co­me questo. Per questo non intendo svolgere una lezione, ma piuttosto cominciare con una esperienza per­sonale.
Una delle più intime esperienze fatte durante l’incontro dei sacerdoti del Movimento è la seguente: ho scoperto che fino ad oggi l’Ideale (uso questa parola per esprimere la sintesi teologica della spiritualità fo­colarina) lo vedevo in questo modo: l’amavo come teologo. Questo amore teologico conteneva però un gran­de errore: quando guardavo l’Ideale come teologo, allora avevo in mente ciò che dicono i teologi più eruditi e migliori, ed ero fiero che esso vi corrispondesse anche teologicamente. E cosi cercavo di vederlo nella luce teologica più moderna ed elegante.
ATTEGGIAMENTO MARIANO DEL TEOLOGO
Ho però costatato una cosa che vo­glio esprimere in una immagine. Ve­devo che Maria faceva da sfondo, che era quel silenzio nel quale ve­niva pronunciata la parola di Dio. Come teologo, tuttavia, me ne stavo davanti a questo sfondo con un ba­stone in mano per spiegarlo altri al­tri. Io stesso però, non facevo da sfondo, ma ero come uno che con­templa questo sfondo, dicendo agli altri che dobbiamo formare questo sfondo. Ora mi pare di aver capito che Maria stessa è questo sfondo, lei che è la « sedes sapientiae », e di conseguenza che il vero teologo non è colui che soltanto riflette, ma piut­tosto colui che col suo pensiero fa da sfondo, e nel quale la parola di Dio può essere pronunciata. La luce della conoscenza, quindi, che ci deve essere nella teologia, non deve for­mare come un rivestimento della vi­ta, bensi sprigionarsi da essa. E ciò avviene in questo modo: Dio stesso che è l’Amore emana da se stesso la luce, e questa luce è la Parola di Dio. Noi siamo come Maria, cioè amati, e siamo tali se noi stessi amia­mo. Amare, questo è il nostro com­pito, e da questo amore deve na­scere la parola. Eckart disse una volta che l’anima deve, come una madre, fare ciò che fa Dio Padre: partorire la parola.
NELL’UNITÀ VIENE CONCEPITO IL VERBO
Questa posizione nella teologia è da una parte la più conservatrice, poiché non può essere detta altra parola che quella del Padre stesso; dall’altra forma la teologia più mo­derna, poiché questa parola deve na­scere sempre nuovamente. Vi posso dire che per me questa non era cosa teoretica, ma bensì una realtà molto viva. Fu necessario dimenticare ogni teologia in nome della teologia, per gettarmi, per cosi dire, nell’agire di Dio, che ci dona il suo Figlio.
La teologia vista in questa luce è quindi un atto di conversione, in quanto mi converto dal mio modo di pensate per pensare alla maniera di Dio. Penso che questo atteggia­mento in teologia, deve essere quel­lo di ogni teologo, anche se non è ancora teologia. Il grembo di Maria, dal quale Cristo come luce vuole nascere, è sempre l’unità.
L’ORIGINE DELLE FORMULE TEOLOGICHE
Da questo venni arricchito di una nuova conoscenza che acquistai in questi ultimi tempi da un teologo tedesco, Heirich Schlier.
Studiando il Nuovo Testamento dal punto di vista degli inizi della dogma­tica su Cristo, egli trovò soprattutto in Paolo, ma anche nelle altre let­tere, le proto-formule anteriori a Pao­lo. Le si può riconoscere bene, dif­ferenziandosi esse dallo stile della lettera, e anzi furono per Paolo il pre­testo per poter scrivere ad un’altra comunità che Paolo non conosce an
Queste formule, e qui non vorrei esaminarle ulteriormente, sono ac­clamazioni, brevi professioni di fede, oppure una omologia. Se ci si chiede come sono sorte queste formule, si può rispondere soltanto: la comunità era radunata nel nome di Gesù, e sperimentando la presenza del Signo­re glorioso, lo acclamava. E da que­ste acclamazioni, scaturite dall’unità della comunità, hanno pure avuto origine gli articoli del credo, che so­no l’origine della teologia.
Il congresso di studiosi di teologia dogmatica svoltosi nel gennaio del ’68, si è posto la domanda: « Come possiamo noi, oggi, giungere a quel­la unità nella quale possiamo accla­mare Gesù? ». In realtà dobbiamo trovare la stessa acclamazione di al­lora, ma è necessario trovarla nuo­vamente in altro modo. Dovranno essere le stesse acclamazioni a Cristo, ma acclamazioni corrispondenti alla nostra situazione.
Questo è il compito della teologia oggi. Venne riconosciuto da tutti che non sono soltanto importanti bei di­scorsi teoretici intorno alle formule di fede, ma più importante è pre­parare il terreno per una testimonian­za presente. In caso contrario il cri­stianesimo e la dogmatica diventano un museo. In fondo si vede come questo compito della teologia esige semplicemente l’unità; con essa si può giungere a questa conoscenza che fondamentalmente è la stessa di Ma­ria come sede della sapienza. Maria è il silenzio che ci dona la parola. La nostra unità deve essere nuovamen­te quello sfondo che dona la parola. Dopo questa considerazione possia­mo ora parlare di alcuni punti della esegesi moderna.
CRISTO PRESENTE NELLA COMUNITÀ PASQUALE
Spesso noi abbiamo paura e sia­mo delusi se scopriamo che queste o quelle parole o azioni di Gesù non possono essere dimostrate storica­mente. E allora pensiamo che vada perduto per noi qualche cosa. In fon­do, però, non è cosi. Se Dio agisce, se Dio ci è vicino in Gesù è chiaro che soltanto allora questo agire di­venta luce, diventa chiaro, qualora noi ci troviamo in quella luce nella quale la luce può sorgere.
E’ chiaro quindi che la condizione per conoscere la verità di Gesù è l’unità della comunità pasquale, do po che il Signore si è sacrificato e ci ha donato il suo spirito. £ la verità di ciò che Gesù ha fatto prima di Pasqua non poteva essere capita dai discepoli prima di Pasqua, ma sol­tanto dopo la loro « conversio ad uni­tatem ». Cosicché la verità storica di Gesù non è quella che noi possia­mo assicurare con elementi, con pro­ve del Cristo prima di Pasqua, ma ciò che la presenza di Gesù glorioso ci dice in questa unità.
Soltanto nella luce di tutta la re­denzione riconosciamo la verità di Gesù, come quella di Maria, e so­prattutto ciò che viene rivelato. E una cosa sola è stata rivelata; essa si esprime nel versetto che le prime focolarine volevano aver scritto sul­la loro lapide sepolcrale: « credidi­mus caritati » (I Giov. 4, 16). Ma l’Amore si svela solo all’amore. Se la parola che nasce dall’amore del Padre viene umanamente reincarnata dall’amore della madre di Gesù, Ge­sù viene nuovamente alla luce per mezzo della Chiesa, cioè dall’essere uniti nel suo nome.
L’AGIRE DI DIO VERO MIRACOLO STORICO
In fondo nella teologia dobbiamo fare la stessa conversione di coloro che vogliono vivere l’Ideale. Chi vi­ve l’Ideale deve confidare nel prov­videnziale agire di Dio. Dobbiamo essere convinti che Gesù nel momen­to presente vuole qualche cosa da noi, che egli agisce con noi. Qualora volessimo nella nostra vita toccare con mano dei miracoli, non trove­remmo nulla. Se però noi liberamen­te ci abbandoniamo all’agire di Dio, allora facciamo continuamente l’espe­rienza che Lui agisce. La stessa cosa succede anche con la teologia.
Se noi, usando un metodo critico­storico, indaghiamo per poter prova­re l’agire di Dio in Gesù, non tro­viamo molto. Ma se la teologia con­sidera il « vero miracolo », li sco­prirebbe la verità dell’agire di Dio; e il vero miracolo mi sembra essere il seguente: e cioè che degli uomini sono passati a questa fede e a que­sta unità, come testimonia il nuovo testamento. Uno dei migliori esegeti del nuovo testamento mi diceva una volta: « Se leggo la S. Scrittura con gli occhi della fede e della nuova esegesi, scopro che in ogni versetto si nasconde una grandissima rifles­sione teologica ». Che questa rifles­sione fosse possibile nel periodo do­po la morte di Gesù, sta a dimostra­re che il tutto non è un racconto privo di contenuto storico. E’ stato dimostrato, per esempio nella « Sto­ria della redazione », che il vangelo di Marco, che sulle prime sembra tanto semplice, è ordinato simmetri­camente per versi.
LA PAROLA PRESENTE NELLA RISPOSTA DELLA FEDE
Si vede quindi che dietro ai van­geli si nasconde un immenso lavo­ro spirituale, tanto è vero che i re­dattori sentivano che il segreto che volevano esprimere poteva essere espresso soltanto con le migliori for­ze del loro spirito e del loro cuore. E anche noi ci accorgiamo che la parola di Dio non può giungere a noi se non nella risposta. Essa è sol­tanto presente nella risposta che dà la fede.
Se vogliamo quindi riassumere la nuova esegesi in una formula breve, si può dire ciò che segue: « la scien­za cerca la parola di Dio; essa trova però soltanto la risposta alla parola di Dio; questa risposta è proprio il luogo nel quale è presente la pa­rola ».
DIO PRESENTE NEL MONDO NON SENZA DI NOI
Riassumo brevemente il concetto esposto sopra.
Mai troveremo una bobina della parola di Dio, ma soltanto una te­stimonianza della parola di Dio, ac­cettata e messa in pratica da coloro che hanno dato una risposta. Ma sol­tanto in questo modo diventa chiaro il senso della incarnazione di Dio, e cioè che lui non vuole più stare nel mondo senza di noi, ma che egli vuole starci attraverso di noi. Per questo penso che dobbiamo affron­tare con coraggio la nuova esegesi e i suoi risultati; ma non guardare troppo al senso della esegesi moder­na nei risultati esterni, bensì nel si­gnificato, e cioè che l’unico luogo della teologia è l’unità della fede e della carità.
Per questo la teologia è pressoché priva di aiuti per portare gli uomini alla fede. E’ necessario invece testi­moniare a questi uomini che essa conduce all’unità, affinchè l’uomo in questa unità comprenda di nuovo la parola di Dio. Corrisponde quindi esattamente a ciò che nel Movimen­to viene detto a proposito della pa­rola di vita. Mi ricordo di una focolarina, la quale diceva che il van­gelo è come una scritta al neon, che però non si può leggere qualora manchi la corrente, e che la sola cor­rente con la quale è possibile leg­gerlo è la nostra vita. La nostra vita dev’essere il Vangelo vissuto in unità.
Sono convinto che per conseguen­za i risultati della nuova esegesi e della nuova teologia ricevono un sen­so tutto nuovo.

Klaus Hemmerle

Publié dans:TEOLOGIA |on 10 avril, 2013 |Pas de commentaires »

Flossemburg Concentration Camp

Flossemburg Concentration Camp  dans immagini varie Flossenburg-front

http://www.soyoucallyourselfahomeschooler.com/2012/10/19/flossenburg-concentration-camp-flossenburg-germany/

Publié dans:immagini varie |on 9 avril, 2013 |Pas de commentaires »

DIETRICH BONHOEFFER – IL LIBRO DI PREGHIERA DELLA BIBBIA

http://www.atma-o-jibon.org/italiano3/bonhoeffer3.htm

DIETRICH BONHOEFFER

IL LIBRO DI PREGHIERA DELLA BIBBIA

INTRODUZIONE AI SALMI

QUERINIANA, 2001

«Signore, insegnaci a pregare!» (Lc 11,1). Così i discepoli dicevano a Gesù, riconoscendo in tal modo di non saper pregare con le proprie forze. Essi avevano necessità di imparare.
Imparare a pregare: l’espressione ci suona contraddittoria. Infatti ci sembra che il cuore o sarà così traboccante da iniziare da solo a pregare, o non imparerà mai. Ma è un pericoloso errore, oggi in effetti molto diffuso nella cristianità, quello di ritenere che il cuore sia naturalmente portato a pregare. Scambiamo la preghiera con i desideri, le speranze, i sospiri, i lamenti, la gioia; tutte cose queste che il cuore sa esprimere per suo conto. Ma così scambiamo la terra con il cielo, l’uomo con Dio. Pregare non significa semplicemente dare sfogo al proprio cuore, ma significa procedere nel cammino verso Dio e parlare con lui, sia che il nostro cuore sia traboccante oppure vuoto. Ma per trovare questa strada non bastano le risorse umane ed è necessario Gesù Cristo.
I discepoli vogliono pregare, ma non sanno farlo. Può diventare un grande tormento il voler parlare con Dio senza sapere come, 1′esser costretti al mutismo davanti a lui, il rendersi conto che l’eco di ogni nostra invocazione resta confinata all’interno del nostro io, che il cuore e la bocca parlano una lingua stravolta, cui Dio non vuole prestar ascolto. In questa penosa situazione ricorriamo ad uomini che possono aiutarci, che sappiano qualcosa della preghiera. Se uno che sa pregare ci coinvolgesse, ci consentisse di partecipare alla sua preghiera, ne avremmo un aiuto! Certamente qui possono aiutarci molto quei cristiani che hanno già percorso molta strada, ma solo per mezzo di colui che deve aiutare anche loro e al quale essi ci indirizzeranno, se sono autentici maestri di preghiera, cioè per mezzo di Gesù Cristo. Se egli ci coinvolge nella sua preghiera, se ci consente di pregare con lui, se ci fa percorrere in sua compagnia il cammino verso Dio e ci insegna a pregare, allora saremo liberati dal tormento dell’impossibilità di pregare. Ed è questo che Gesù Cristo vuole. Vuol pregare con noi, noi partecipiamo alla sua preghiera e perciò possiamo avere la certezza e la gioia che Dio ci presterà ascolto. È corretta la nostra preghiera se tutta la nostra volontà, tutto il nostro cuore fa tutt’uno con la preghiera di Cristo. Solo in Gesù Cristo possiamo pregare, e con lui saremo esauditi anche noi.
Dunque è necessario che impariamo a pregare. Il bambino impara a parlare in quanto il padre gli parla. Impara la lingua del padre. Allo stesso modo impariamo a parlare a Dio, in quanto Dio ci ha parlato e ci parla. Sulla base del linguaggio del Padre celeste i figli imparano a parlare con lui. Nel ripetere le parole stesse di Dio, noi iniziamo a pregarlo. Non dobbiamo parlare a Dio, né egli vuol ascoltare da noi il linguaggio alterato e corrotto del nostro cuore, ma il linguaggio chiaro e puro che Dio ha rivolto a noi in Gesù Cristo.
Il linguaggio di Dio in Gesù Cristo lo incontriamo nella sacra Scrittura. Se vogliamo pregare nella certezza e nella gioia, dobbiamo porre la parola della Scrittura come solida base della nostra preghiera. Da qui sappiamo che Gesù Cristo, Parola di Dio, ci insegna a pregare. Le parole che vengono da Dio saranno i gradini della scala per giungere a Dio.
Ora nella sacra Scrittura c’è un libro che si distingue da tutti gli altri per il fatto di contenere solo preghiere. È il libro dei salmi. A un primo sguardo è molto sorprendente trovar nella Bibbia un libro di preghiera. Infatti la sacra Scrittura è la Parola di Dio a noi, mentre le preghiere sono parole umane. Come mai entrano nella Bibbia? Non lasciamoci trarre in inganno: la Bibbia è Parola di Dio anche nei salmi. Ma allora le preghiere a Dio sono Parola di Dio? È qualcosa che ci sembra difficilmente comprensibile. Se ci pensiamo, l’unica cosa che possiamo capire è che solo da Gesù Cristo si può imparare a pregare nel modo giusto, che in lui siamo in presenza della Parola del Figlio di Dio, vivente in mezzo agli uomini, che si rivolge al Padre, che vive nell’ eternità. Gesù Cristo ha portato al cospetto di Dio ogni miseria, ogni gioia, ogni gratitudine e ogni speranza degli uomini. Sulle sue labbra la parola umana diventa Parola di Dio, e nel nostro partecipare alla sua preghiera la Parola di Dio si fa a sua volta parola umana. Così tutte le preghiere della Bibbia sono preghiere in cui noi partecipiamo alla preghiera di Gesù Cristo, in cui egli ci coinvolge, portandoci al cospetto di Dio; altrimenti non sono le preghiere giuste, perché possiamo pregare solo in e con Gesù Cristo.
Se partiamo da questo presupposto, se vogliamo leggere e pregare le preghiere della Bibbia, e in particolare i salmi, non dobbiamo cominciare col chiederci che riferimento essi abbiano a noi, ma che riferimento abbiano a Gesù Cristo. Dobbiamo chiederci come comprendere i salmi in quanto Parola di Dio; solo a quel punto possiamo partecipare alla preghiera che in essi è pronunciata. Non ha nessuna importanza che i salmi esprimano proprio il sentimento presente nel nostro cuore. Forse è addirittura necessario pregare opponendoci al nostro cuore, se vogliamo pregare bene. L’importante non è ciò che risponde al nostro volere, ma ciò che Dio vuole sia detto nella nostra invocazione. Se dovessimo contare solo su noi stessi, la nostra preghiera sarebbe spesso soltanto la quarta invocazione del Padre nostro. Ma Dio stabilisce diversamente: non la povertà del nostro cuore, ma la ricchezza della Parola di Dio deve caratterizzare la nostra preghiera.
Se dunque la Bibbia contiene anche un libro di preghiera, questo ci insegna che la Parola di Dio non è solo quella che Dio ci dice, ma anche quella che egli vuol udire da noi, in quanto Parola del Figlio che egli ama. È grazia di grande rilievo il fatto che Dio ci dica come poter parlare e comunicare con lui. Questo ci è consentito in quanto preghiamo nel nome di Gesù Cristo. I salmi ci sono dati perché impariamo a pregare nel nome suo.
Alla richiesta dei discepoli Gesù ha corrisposto insegnando il Padre nostro (Mt 6,9-13; Lc 11,2-43). In esso è contenuta ogni preghiera. Ciò che rientra nelle richieste del Padre nostro è corretto, ciò che non vi rientra non è preghiera. Ogni preghiera della sacra Scrittura è ricapitolata nel Padre nostro, nella sua infinita capacità di comprenderle tutte. Le altre preghiere dunque non vengono rese superflue dal Padre nostro, ma ne esplicitano l’inesauribile ricchezza, così come il Padre nostro ne costituisce il culmine e l’unità. Dice Lutero circa il salterio: «Il salterio si richiama al Padre nostro e il Padre nostro al salterio, in modo tale che si può benissimo interpretare l’uno in base all’ altro e stabilire felicemente la reciproca concordanza». Per cui il Padre nostro è la pietra di paragone che ci permette di riconoscere se preghiamo in nome di Gesù Cristo o a nostro nome. È perciò ben motivato il frequente inserimento del salterio nelle nostre edizioni del Nuovo Testamento. È la preghiera della comunità di Gesù Cristo, rientra nel Padre nostro.

Chi prega nei salmi?
Dei 150 salmi, 73 vengono attribuiti al re David, 12 ad Asaf, il maestro del coro di cui si serviva David, 12 alla famiglia dei figli di Core, cantori leviti al servizio di David, 2 al re Salomone, uno per ciascuno Eman ed Etan, probabilmente maestri di musica all’ epoca di David e di Salomone. Si capisce quindi perché sia soprattutto il nome di David ad esser collegato con il salterio.
Si racconta che David, dopo esser stato consacrato re in segreto, sia stato chiamato dal re Saul, riprovato da Dio e tormentato da uno spirito malvagio, perché gli suonasse l’arpa. «Or quando lo spirito di Dio assaliva Saul, David prendeva l’arpa e si metteva a suonare, e Saul ne aveva sollievo e stava meglio, e lo spirito cattivo si partiva da lui» (1 Sam 16,23). Probabilmente è da qui che ha preso avvio la composizione dei salmi di David. Con la forza dello spirito di Dio, sceso su di lui con la consacrazione regale, egli scaccia con il canto lo spirito del male. Non ci è giunto nessun salmo di epoca precedente alla consacrazione. Soltanto colui che ha ricevuto la vocazione di re messianico, e da cui sarebbe disceso il re promesso, Gesù Cristo, ha pregato nella forma dei salmi, poi inclusi nel canone della sacra Scrittura.
Secondo la testimonianza biblica, David come re consacrato del popolo eletto da Dio è prefigurazione di Gesù Cristo. Ciò che gli accade, è in vista di colui che già in David è presente e che ne discenderà, vale a dire Gesù Cristo; e questo, non a sua insaputa; infatti, «siccome era profeta e sapeva che Dio, con giuramento, gli aveva promesso che uno della sua stirpe doveva sedere sopra il suo trono, egli previde e annunciò la risurrezione di Gesù Cristo» (At 2,30s.). David fu un testimone di Gesù nel suo ministero, nella vita e nelle parole. Il Nuovo Testamento in effetti dice anche di più. Nei salmi di David è il Cristo promesso in persona a parlare (Eb 2,12; 10,5) o, come anche ci viene detto, lo Spirito santo (Eb 3,7). Dunque le medesime parole di David sono pronunciate in lui dal Messia futuro. Le preghiere di David sono dette anche da Cristo, o meglio è Cristo stesso a pregare nel suo precurse David.
Questa breve osservazione sul Nuovo Testamento getta una luce significativa su tutto il salterio. Lo riferisce a Cristo. Dovremo poi soffermarci ancora su come sia da intendere questo nei singoli casi. Per noi è importante il fatto che anche David preghi richiamandosi a Cristo che abita in lui, e non soltanto alle risorse del proprio cuore traboccante. Certamente è lui che prega nei salmi, ma in lui e con lui c’è Cristo. Le stesse ultime parole pronunciate da David ormai vecchio esprimono questo fatto, in forma misteriosa: «Dice David, figlio di lesse, dice l’uomo che è stato innalzato, l’Unto del Dio di Giacobbe, il soave cantore dei salmi d’Israele: lo spirito del Signore ha parlato in me, e la sua parola è sulla mia lingua», a cui poi segue l’ultima profezia sul futuro re della giustizia, Gesù Cristo (2 Sam 23,2ss.).
Torniamo così a quanto abbiamo visto sopra. Certamente, non tutti i salmi sono di David, e non c’è alcun passo del Nuovo Testamento che attribuisca a Cristo la citazione dell’intero salterio. Comunque gli accenni che si sono raccolti bastano per tutto il salterio, che è senz’altro collegato indissolubilmente al nome di David, mentre Gesù in persona riferisce al complesso dei salmi l’annuncio della sua morte e risurrezione, nonché la predicazione dell’ evangelo (Le 24,44ss.).
Come è possibile che la preghiera dei salmi sia pronunciata contemporaneamente da un uomo qualsiasi e da Gesù Cristo? È il Figlio di Dio incarnato, che ha portato nella sua propria carne ogni debolezza umana, a sfogare davanti a Dio il cuore di tutta l’umanità, a prendere il nostro posto e a pregare per noi. Egli ha conosciuto più profondamente di noi il tormento e il dolore, la colpa e la morte. Per questo è la preghiera della natura umana da lui assunta a presentarsi davanti a Dio. È veramente la nostra preghiera, ma egli ci conosce meglio di quanto noi non conosciamo noi stessi, è stato vero uomo a nostro favore, e per questo anche la preghiera è veramente sua preghiera, anzi possiamo farla nostra solo perché è stata la sua.
Chi prega nei salmi? David (Salomone, Asaf ecc.), Cristo, anche noi. Nel dire ‘noi’ si deve intendere anzitutto l’intera comunità, la sola che può applicare nella preghiera l’intera ricchezza del salterio, ma infine anche ciascuno di noi, preso singolarmente, in quanto partecipa al Cristo e alla sua comunità, di cui condivide la preghiera. David, Cristo, la comunità, io stesso: se consideriamo tutto questo insieme, riconosciamo il cammino meraviglioso percorso da Dio per insegnarci a pregare.

Nomi, musica, forma dei versetti
Il titolo ebraico del salterio equivale a ‘Inni’. Nel Sal 72,20 si parla di tutti i salmi precedenti come di «preghiere di David». Le due cose sono sorprendenti, anche se comprensibili. In effetti il salterio non contiene a prima vista né solo inni, né solo preghiere. Nonostante ciò, anche i salmi didattici e i canti di lamentazione in fondo sono inni, perché servono a celebrare la gloria di Dio; gli stessi salmi che non contengono alcuna invocazione a Dio (per es. 1,2, 78) possono esser considerati preghiere, in quanto servono ad immergersi nel pensiero di Dio e nella sua volontà. Il ‘salterio’ è originariamente uno strumento musicale e sta ad indicare solo metaforicamente la raccolta delle preghiere rivolte a Dio nel canto.
I salmi, nella tradizione giunta fino a noi, sono in gran parte musicati per l’uso liturgico. Vi possono entrare voci umane e strumenti di ogni tipo. Di nuovo si deve risalire a David per la prima musica propriamente liturgica. Come un tempo il suono della sua arpa scacciava lo spirito malvagio, così la musica liturgica ha un’efficacia tale, che può esser indicata con lo stesso termine usato per la predicazione profetica (1 Cr 25,2). Molti dei titoli dei salmi, di difficile comprensione, sono istruzioni per il maestro di musica. Lo stesso vale per il termine ‘sela’, che spesso ricorre nel salmo, ed indica presumibilmente una pausa. «Il ‘sela’ indica che bisogna fare silenzio e meditare diligentemente la parola del salmo; essa infatti richiede un’anima quieta e raccolta, che possa comprendere e assimilare ciò che lo Spirito santo le presenta e le ispira» (Lutero).
I salmi erano cantati per lo più a cori alterni. Vi si adattava in modo specifico anche la forma del versetto, per cui le due parti che lo compongono sono così strettamente collegate tra di loro, che esprimono in parole diverse più o meno lo stesso pensiero. È il cosiddetto parallelismo degli emistichi, forma non casuale, ma avente lo scopo di non far interrompere la preghiera e inoltre di favorire la dimensione collettiva di questa. Noi che siamo abituati a pregare in fretta, troviamo che si tratta di ripetizioni inutili, ma in realtà si tratta di una giusta concentrazione e raccoglimento nella preghiera, e al tempo stesso è il segno dell’unità e della coincidenza nella preghiera di molti, anzi di tutti i credenti, pur nella diversità delle parole in cui si esprimono. Per cui la stessa forma del versetto ci esorta a pregare i salmi in comune.

La liturgia e i salmi
In molte chiese, la domenica o addirittura ogni giorno, si leggono o si cantano i salmi a cori alternati. Queste chiese hanno conservato un’immensa ricchezza, poiché solo l’uso quotidiano permette di maturare nella comprensione di quel libro di preghiera che ci viene da Dio. Se lo leggiamo solo occasionalmente, queste preghiere ci risultano di una densità e di una forza insostenibili, per cui subito torniamo a qualcosa di più accessibile. Ma chi ha iniziato a pregare il salterio con serietà e regolarità, ben presto «darà il benservito» alle altre più facili e familiari «preghierine devozionali», dicendo: «qui non c’è il vigore, la forza, l’impeto e il fuoco che trovo nel salterio, tutto sembra freddo ed arido» (Lutero).
Se dunque nelle nostre chiese non si pregano più i salmi, tanto più dobbiamo includere il salterio nelle nostre meditazioni del mattino e della sera, ogni giorno per quanto è possibile dobbiamo leggere e pregare in comune più salmi, in modo da ripassare questo libro più volte nel corso dell’ anno e da entrarvi sempre più in profondità. Non ci è nemmeno lecito farne una scelta secondo i nostri gusti; sarebbe un modo per non rendere onore al libro di preghiera della Bibbia, nella presunzione di sapere meglio di Dio stesso come dobbiamo pregare. Nella chiesa antica non era inconsueto sapere a memoria «tutto David». In una chiesa orientale questa era la condizione indispensabile per il ministero ecclesiastico. Un padre della chiesa, Girolamo, racconta che ai suoi tempi si sentivano cantare i salmi nei campi e nei giardini. Il salterio riempiva la vita della giovane cristianità. Ma più importante ancora di tutto ciò è il fatto che Gesù è morto sulla croce con le parole dei salmi sulle labbra [Mt 27,46 e Mc 15,34 (Sal 22, 2: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»); Lc 23,46 (Sal 31,6: "Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito»)].
Una comunità cristiana perde un tesoro incomparabile se non ricorre al salterio, mentre scopre in sé una forza insospettata, quando lo ritrova.

I diversi gruppi di salmi
Suddividiamo la materia dei salmi nel modo seguente: la creazione, la legge, la storia della salvezza, il messia, la chiesa, la vita, la sofferenza, la colpa, i nemici, la fine. Non sarebbe difficile stabilire un rapporto fra tutte queste sezioni e il Padre nostro, per dimostrare quanto profondamente tutto il salterio sia incluso nella preghiera di Gesù. Ma per non anticipare questo risultato delle nostre riflessioni, ci atteniamo alla classificazione che risulta dai salmi stessi.

La creazione
La Scrittura proclama Dio creatore del cielo e della terra. Molti salmi ci esortano a rendergli onore, lode e grazie. Ma non c’è nessun salmo che parli solo della creazione. È sempre quel Dio che già si è rivelato al suo popolo nella Parola, ad essere riconosciuto come creatore del mondo. Possiamo credere in Dio creatore perché egli ci ha parlato, perché il Nome di Dio ci è stato rivelato. Altrimenti non potremmo conoscerlo. La creazione è un’immagine del potere e della fedeltà di Dio, che ci è stata dimostrata nella rivelazione che Dio ha fatto di sé in Gesù Cristo. Noi invochiamo il creatore che ci si è rivelato come redentore.
Il Salmo 8 celebra il nome di Dio e la sua azione di grazia nei confronti dell’uomo, in quanto coronamento della sua opera, il che non potrebbe essere compreso in base alla sola creazione. Il Salmo 19 non può parlare della meraviglia del corso degli astri senza contemporaneamente passare alla gloria molto maggiore della rivelazione della legge divina, ed è un passaggio brusco, senza mediazione, una tematica nuova, da cui proviene poi l’appello al pentimento. Il Salmo 29 presenta alla nostra ammirazione la tremenda forza di Dio nella tempesta, ma lo scopo del salmo sta nel richiamare la forza, la benedizione e la pace che Dio dona al suo popolo. Il Salmo 104 abbraccia con lo sguardo tutte le opere di Dio e al tempo stesso le giudica un nulla al suo cospetto; solo la sua gloria rimane eterna ed egli annienterà i peccatori.
I salmi della creazione non sono poetiche effusioni liriche, ma un’introduzione alla scoperta e all’adorazione del creatore del mondo, che il popolo di Dio può trovare nella salvezza che sperimenta come grazia. La creazione serve al fedele, e ogni creatura di Dio è buona, se noi l’accogliamo con gratitudine (1 Tm 4,3s.). E noi possiamo ringraziare solo per ciò che è consono alla rivelazione di Dio in Gesù Cristo. È per amore di Gesù Cristo che la creazione, con tutti i suoi doni, esiste. Così noi rendiamo grazie a Dio con, in e per mezzo di Gesù Cristo, a cui apparteniamo, per lo splendore della sua creazione.

La legge
I tre Salmi (1. 19. 119) che hanno come specifico oggetto di ringraziamento, di lode e di richiesta la legge di Dio, vogliono anzitutto presentarci i benefici della legge. Per ‘legge’ si deve intendere per lo più tutta l’azione redentiva di Dio e la prescrizione di una nuova vita nell’ubbidienza. La gioia per la legge, per i comandamenti di Dio, riempie il nostro animo, se Dio per mezzo di Gesù Cristo ha impresso la grande svolta alla nostra vita. La nuova vita teme più di ogni altra cosa la possibilità che Dio nasconda il suo comandamento (Sal 119,19), che un giorno non faccia più riconoscere la sua volontà.

È grazia conoscere i comandi di Dio. Essi ci liberano dai progetti e dai conflitti che vengono dalla nostra iniziativa. Danno sicurezza ai nostri passi e gioia al nostro cammino. Dio dà i comandamenti perché noi li adempiamo e «i suoi comandamenti non sono gravosi» (1 Gv 5,3) per chi ha trovato pienamente in Gesù Cristo la salvezza. Lo stesso Gesù si è sottoposto alla legge e l’ha adempiuta in completa ubbidienza al Padre. La volontà di Dio è la sua gioia, il suo nutrimento. Così egli rende grazie in noi per la grazia della legge e ci dà la gioia nell’adempierla. Nel professare il nostro amore per la legge, confermiamo che essa ci è cara e chiediamo di essere mantenuti irreprensibili in essa. Non lo facciamo contando su noi stessi, ma preghiamo nel nome di Gesù Cristo, che è per noi e in noi.
Forse ci risulterà particolarmente difficile il Salmo 119 per la sua lunghezza e monotonia. Qui può esserci di aiuto il procedere con molta lentezza, tranquillità, pazienza, parola per parola, frase per frase. Allora ci rendiamo conto che le ripetizioni sono solo apparenti, ma che in realtà sono aspetti sempre nuovi di un unico tema, l’amore per la Parola di Dio. Un amore che non può aver fine, così come non possono aver fine le parole che lo confessano. Esse hanno l’intento di accompagnarci per l’intera vita, e nella loro semplicità si adattano alla preghiera del bambino, dell’uomo maturo e del vecchio.

La storia della salvezza
I Salmi 78, 105, 106 ci raccontano la storia del popolo di Dio in terra, la grazia dell’elezione e la fedeltà di Dio, l’infedeltà e l’ingratitudine del suo popolo. Il Salmo 78 non presenta alcuna invocazione di preghiera. Come possiamo pregarlo? Il Salmo 106 ci esortar al ringraziamento, all’ adorazione, alla promessa, alla richiesta, alla confessione dei peccati e all’invocazione di aiuto, di fronte alla storia della salvezza realizzatasi nel passato. Gratitudine per la bontà di Dio, che è valida in eterno per il suo popolo, che noi sperimentiamo alla stessa maniera dei nostri padri; adorazione al cospetto dei miracoli che Dio ha compiuto a nostro beneficio, dalla redenzione del suo popolo dall’Egitto fino al Golgota; promessa di essere fedeli al comandamento di Dio più di quanto lo siamo stati finora; preghiera perché la grazia di Dio ci sostenga, secondo la sua promessa; confessione dei nostri peccati, dell’infedeltà e dell’indegnità nei confronti di così grande misericordia; invocazione perché il popolo di Dio sia definitivamente radunato e si compia la sua redenzione.
Noi preghiamo questi salmi, nel considerare come rivolto a noi tutto ciò che Dio a suo tempo ha compiuto per il suo popolo, nel riconoscere la nostra colpa e la grazia di Dio, nel richiamare le promesse di Dio, in base ai benefici già ricevuti, nel chiedere l’adempimento di queste promesse, nel riconoscere infine in Gesù Cristo, da cui abbiamo ricevuto e riceviamo aiuto, l’adempimento di tutta la storia di Dio con la sua comunità. Per amore di Gesù Cristo rendiamo grazie a Dio, lo preghiamo e lo confessiamo.

Il messia
La storia divina della salvezza si compie con l’invio del messia. Secondo la stessa interpretazione di Gesù, il salterio ha profetizzato questo messia (Le 24,44). I Salmi 22 e 69 sono conosciuti dalla comunità come i salmi della passione di Cristo.
L’inizio del Salmo 22 è stato pregato da Gesù stesso in croce, che in tal modo ne ha fatto con ogni evidenza una sua preghiera. Il versetto 23 è stato posto in bocca a Cristo da Eb 2,12. I versetti 9 e 19 sono dirette profezie della crocifissione di Gesù. Per quanto sia stato David in persona ad aver pregato nella propria sofferenza questo salmo, in quella situazione egli rappresentava il re consacrato da Dio e per tal motivo perseguitato dagli uomini, da cui sarebbe disceso Cristo. In quella circostanza egli era colui che portava in sé Cristo. Cristo ha fatto propria questa preghiera, e solo così essa ha acquistato il suo pieno valore. Da parte nostra, possiamo pregare secondo questo salmo solo nella comunione con Gesù Cristo, nella partecipazione alla sua sofferenza. La nostra preghiera secondo questo salmo non si fonda sulla nostra sofferenza occasionale, personale, ma su quella di Cristo, alla quale anche noi partecipiamo. E noi sentiamo che Gesù prega sempre con noi, e attraverso Gesù anche il re dell’Antico Testamento; nel ripetere questa preghiera, pur senza poterne mai misurare o comprendere tutta la profondità, ci presentiamo davanti al trono di Dio pregando con Cristo.
Nel Salmo 69 di solito il verso 6 crea difficoltà, perché in esso Cristo si lamenta della propria follia e delle proprie colpe davanti a Dio. Certamente qui David ha parlato della sua colpa personale. Cristo però parla della colpa di tutti gli uomini, anche di quella di David e della mia, che egli ha preso e portato su di sé, per cui ora subisce l’ira del Padre. Il vero uomo Gesù Cristo prega in questo salmo e ci include nella sua preghiera.
I Salmi 2 e 110 testimoniano la vittoria di Cristo sui suoi nemici, l’instaurarsi del suo regno, l’adorazione prestatagli dal popolo di Dio. Anche qui la profezia si richiama a David e alla sua regalità. E in David abbiamo la prefigurazione del Cristo futuro. Lutero parla del Salmo 110 come del «vero grande salmo del nostro amato Signore Gesù Cristo».
I Salmi 20, 21, 72 in origine si riferiscono indubbiamente alla regalità terrena di David e Salomone. Il Salmo 20 invoca la vittoria del re messianico sui nemici, l’accettazione del suo sacrificio da parte di Dio; il Salmo 21 ringrazia per la vittoria e l’incoronazione del re; il Salmo 72 prega per la giustizia e l’aiuto da prestare ai poveri, per la pace, per uno stabile dominio, per un’ eterna gloria nel regno. In questi salmi noi preghiamo per la vittoria di Gesù Cristo nel mondo, ringraziamo per la vittoria ottenuta e chiediamo l’instaurazione del regno di giustizia e di pace, in cui è re Gesù Cristo. In questo ambito rientrano anche i Salmi 61,7ss.; 63,12.
Dell’ amore per il re messianico parla il molto discusso Salmo 45, in cui si celebra la sua bellezza, la sua ricchezza, la sua forza. La sposa che si unisce in matrimonio con questo re deve dimenticare il proprio popolo e la casa paterna (v. 11) e rendere omaggio al re. Per lui solo deve adornarsi e con gioia prendere dimora presso di lui. È il canto e la preghiera che celebra l’amore fra Gesù, il re, e la sua comunità, che gli appartiene.

La chiesa
I Salmi 27,42,46,48,63,81,84,87 ecc. cantano Gerusalemme, la città di Dio, le grandi solennità del popolo di Dio, il tempio e la bellezza dei servizi liturgici. È la presenza del Dio della salvezza nella sua comunità, ad esser qui il motivo del nostro ringraziamento, della nostra gioia, del nostro desiderio. Ciò che per gli israeliti era il monte Sion e il tempio, per noi è la chiesa di Dio in tutto il mondo, ogni luogo in cui Dio abita presso la sua comunità nella Parola e nel sacramento. Questa chiesa sussisterà, nonostante i suoi nemici (Sal 46), e la sua prigionia sotto il dominio delle potenze del mondo senza Dio avrà fine (126, 137). Il Dio di misericordia, presente in Cristo alla sua comunità, è il compimento di ogni moto di gratitudine, di gioia e di nostalgia dei salmi. Anche Gesù, in cui abita Dio stesso, ha desiderato la comunione di Dio, in quanto è stato uomo come noi (Lc 2,49), e per questo egli prega con noi per la vicinanza e presenza piena di Dio presso i suoi.
Dio ha promesso di essere presente alla sua comunità nel culto, per cui la comunità tiene il suo culto secondo l’ordine posto da Dio. E Gesù Cristo stesso ha prestato il culto perfetto, in cui ha portato a compimento ogni sacrificio prescritto nel libero e perfettamente puro sacrificio di sé. Cristo ha compiuto in sé il sacrificio di Dio per noi e il nostro sacrificio a Dio. A noi non resta che il sacrificio di lode e di ringraziamento, nella preghiera, nel canto, in una vita secondo i comandamenti di Dio (Sal 15, Sal 50). Così tutta la nostra vita si trasforma in culto, in sacrificio di ringraziamento. A tale sacrificio di ringraziamento Dio non farà mancare il suo assenso e mostrerà la sua salvezza a chi gli si rivolgerà con gratitudine (Sal 50,23 ). Questi salmi hanno il compito di insegnarci la gratitudine a Dio per amore di Cristo e la lode a Dio nella comunità, una lode che sale dal cuore, dalle labbra e dalle mani.

La vita
Molti di coloro che cercano di essere cristiani con serietà sono sorpresi dalla frequenza con cui s’incontra, nella preghiera dei salmi, la richiesta della vita e della felicità. Dalla contemplazione della croce di Cristo, certi fanno derivare la poco sana convinzione che la vita e le benedizioni terrene e sensibili di Dio siano per se stesse un bene ambiguo, e comunque da non richiedere. Di conseguenza parlano delle corrispondenti preghiere del salterio come di un grado preliminare, imperfetto della spiritualità dell’ Antico Testamento, che il Nuovo Testamento avrebbe superato, ma in tal modo vogliono essere più pii di Dio stesso.
La richiesta del pane quotidiano comprende tutto il campo delle necessità della vita fisica, allo stesso modo in cui la richiesta di vita, di salute, di prove visibili del favore divino fa parte necessariamente della preghiera rivolta a Dio che ha creato e che conserva questa vita. La vita fisica non va disprezzata, anzi, Dio ci ha donato la sua comunione in Gesù Cristo, perché possiamo vivere al suo cospetto in questa vita, e poi di conseguenza anche nell’ altra. Per questo ci dà le preghiere terrene, in modo che riusciamo a conoscerlo, a lodarlo e ad amarlo quanto più possibile. Dio vuole che i pii abbiano prosperità in terra (Sal 37) 13. Questa volontà non viene messa fuori causa nemmeno dalla croce di Gesù Cristo, anzi se mai viene confermata, e proprio laddove gli uomini, nella sequela di Gesù, devono farsi carico di molte privazioni, ad essi succederà come ai discepoli, che alla domanda di Gesù: «Vi è mancato forse qualche cosa?» rispondono: «Niente!» (Le 22,35). Ciò presuppone quanto dice il salmo: «Meglio è il poco di cui gode il giusto che l’abbondanza di molti empi» (Sal 37,16).
In effetti non dobbiamo avere scrupoli di coscienza a pregare con il salterio per ottenere vita, salute, pace, beni terreni, purché con il salmo riconosciamo in tutto questo i segni della comunione di grazia che Dio ci concede e teniamo ben fermo che la benevolenza di Dio è preferibile alla vita (Sal 63,4; 73,25s.).
Il Salmo 103 ci insegna tutta la ricchezza dei doni di Dio, dalla conservazione della vita fino alla remissione dei peccati, e ce ne fa comprendere il carattere unitario, per cui dobbiamo presentare a Dio lodi e grazie (cfr. anche Sal 65). Per amore di Cristo, il creatore ci dà e ci conserva la vita. Così pure vuol disporci ad ottenere in ultimo la vita eterna, facendoci perdere, con la morte, tutti i beni terreni. Solo per amore di Gesù Cristo e per suo comando possiamo chiedere nella preghiera i beni terreni e anche farlo con fiducia. E se riceviamo ciò di cui abbiamo bisogno, non cesseremo di ringraziarne di cuore Dio, così benevolo nei nostri confronti per amore di Gesù Cristo.

La sofferenza
Dove si trovano parole di tristezza più lamentosa e più straziante di quelle dei salmi di lamentazione? È come se si leggesse nel cuore di tutti i santi, quando si sentono in preda alla morte, anzi, all’inferno. Lì si vede l’oscurità che ci invade, quando ci sentiamo sotto lo sguardo adirato di Dio (Lutero).
Il salterio ci dà molti insegnamenti sul giusto modo di presentarci a Dio nelle molte specie di sofferenze che il mondo ci procura. Gravi malattie e profondo abbandono da parte di Dio e degli uomini, minacce, persecuzioni, prigionia e ogni tipo di miseria che possa esserci in terra, tutto questo è ben noto ai salmi (13, 31, 35, 41, 44, 54, 55, 56,61, 74, 79, 86, 88, 102, 105 ecc.). Non si nega la sofferenza, non la si camuffa con espressioni devote, anzi i salmi la riconoscono come dura prova per la fede, anzi talvolta non vedono alcuna prospettiva al di là della sofferenza (Sal 88), e tutti se ne lamentano con Dio. Nessun uomo può pregare i salmi di lamentazione sulla base della propria esperienza; in essi viene esposta la miseria dell’intera comunità in tutti i tempi, e il solo ad averla provata integralmente è Gesù Cristo. Poiché essa accade per volontà di Dio, anzi, poiché Dio solo la conosce integralmente e più di quanto noi la conosciamo, per questo è solo Dio che può portarci aiuto, ma è vero anche che per questo tutte le richieste devono sempre insistentemente rivolgersi a Dio.
Nei salmi non c’è una troppo rapida resa alla sofferenza. Si passa sempre attraverso un combattimento, si vive la paura, il dubbio. Si mette in discussione la giustizia di Dio, che fa soffrire i pii e salvaguarda gli empi, e addirittura si mette in discussione la bontà e la grazia del volere divino (Sal 44,35). Il suo agire è troppo incomprensibile, ma anche nella più profonda disperazione, Dio resta il solo a cui ci si rivolge. Non si aspetta aiuto dagli uomini, né si perde di vista nell’ autocommiserazione l’origine e il fine di ogni miseria, cioè Dio. Chi soffre, combatte contro Dio in difesa di Dio. Al Dio adirato si rinfacciano moltissime volte le sue promesse, la sua precedente benevolenza, la gloria del suo nome tra gli uomini.
Se sono colpevole, perché Dio non perdona? Se sono innocente, perché non pone fine ai tormenti, dimostrando la mia innocenza davanti ai miei nemici? (Sal 38, 79, 44). A tutte queste domande non c’è una risposta sul piano teorico, come del resto neppure nel Nuovo Testamento. L’unica risposta reale è Gesù Cristo. E questa risposta è già nei salmi. Anzi è la risposta che tutti i salmi hanno in sé, in quanto in essi ogni miseria e ogni tentazione viene presentata a Dio, nell’invocare: non ce la facciamo più a sopportare, dacci sollievo e prendi tutto su di te, tu solo puoi aver ragione della sofferenza. Questo è lo scopo di tutti i salmi di lamentazione. Essi invocano colui che si è fatto carico di ogni nostra malattia e infermità, Gesù Cristo, lo predicano come unico aiuto nella sofferenza, poiché in lui Dio ci è vicino.
Nei salmi di lamentazione si tratta della piena comunione con Dio, che è giustizia e amore. Ma Gesù Cristo non è solo lo scopo della nostra preghiera, bensì egli è anche personalmente presente nel nostro pregare. Avendo sopportato ogni nostra miseria16, l’ha portata davanti a Dio, per amor nostro ha pregato in nome di Dio: «Non quello che io voglio, ma quello che vuoi tu». Per amor nostro sulla croce ha gridato:. «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Ora sappiamo che non c’è più sofferenza sulla terra, in cui Cristo non sia presso di noi, nella condivisione del dolore, nella preghiera, lui, l’unico che ci può portare aiuto.
Su questa base nascono i grandi salmi di fiducia. Una fiducia in Dio senza Cristo è vuota e priva di certezza, anzi non è altro che una nuova forma di fiducia in se stessi. Ma chi sa che in Gesù Cristo Dio stesso partecipa alla nostra sofferenza, può dire con grande fiducia: «Tu sei con me, la tua verga e il tuo bastone mi rassicurano» (Sal 23, 37, 63, 73, 91, 121).

La colpa
Più raramente di quanto non ci si aspetti ricorre nel salterio la preghiera per la remissione dei peccati. La maggior parte dei salmi presuppone la completa certezza della remissione dei peccati. Ciò può sorprenderci, ma anche nel Nuovo Testamento le cose non stanno in modo diverso. Si impoverisce e si compromette la preghiera cristiana, riportandola esclusivamente all’invocazione che i peccati siano rimessi. Per amore di Gesù Cristo è possibile lasciarsi alle spalle con fiducia il peccato.
Tuttavia nel salterio non manca in assoluto la preghiera di penitenza. I cosiddetti sette salmi penitenziali (6,32,38,51, 102, 130, 143), ma non solo essi (Sal 14, 15,25,31,39,40,41 ecc.), ci danno tutta la profondità della confessione di peccato davanti a Dio, ci aiutano a confessare la nostra colpa, indirizzano tutta la nostra fiducia alla grazia della remissione divina, e giustamente Lutero li ha chiamati i «salmi paolini». Per lo più si hanno circostanze specifiche che inducono a tale preghiera, o una grave colpa (Sal 32, 51), o una sofferenza inattesa, che spinge alla penitenza (Sal 38, 102). Comunque si ripone tutta la speranza nella libera remissione che Dio ci ha offerto e promesso nella sua Parola incarnata in Gesù Cristo, per l’eternità.
Pregare questi salmi non offrirà difficoltà di nessun tipo al cristiano. Ma potrebbe sorgere la domanda sulla possibilità che anche Cristo possa pregare con noi secondo lo spirito di questi salmi. Come può chiedere remissione un innocente? In nessun altro modo, se non come l’innocente che porta i peccati di tutto il mondo e che è stato reso peccato per noi (2 Cor 5,21). Gesù prega per la remissione del peccato, non a causa di un suo peccato, ma a causa del nostro peccato di cui egli si è fatto carico, per il quale soffre. Egli si mette senza riserve dalla nostra parte, vuol essere un uomo come noi al cospetto di Dio. E quindi egli prega con noi anche la più umana delle preghiere, mostrandosi proprio in questo vero Figlio di Dio.
Per un cristiano evangelico risulta spesso particolarmente sorprendente e sconcertante il fatto che nel salterio si parli non solo della colpa, ma in uguale misura anche dell’innocenza dell’uomo religioso (cfr. Sal 5, 7, 9, 16, 17,26,35,41,44,59,66,68,69,73, 86 ecc.). Qui sembra emergere un resto della cosiddetta giustificazione per mezzo delle opere, che si attribuisce all’Antico Testamento, e che si ritiene non abbia più niente a che fare con i cristiani. Ma una considerazione del genere resta del tutto alla superficie, ed ignora tutto della profondità della Parola di Dio. È certo che si possa parlare della propria innocenza con l’intento di autogiustificarsi, ma forse non sappiamo che anche la più umile confessione del peccato può essere mossa dallo stesso intento? Si può esser lontani da Dio sia nel parlare della propria colpa che della propria innocenza.
Ma la questione non è di conoscere i possibili motivi che stanno dietro ad una preghiera, bensì se il suo contenuto sia giusto o no. E qui è chiaro che il cristiano veramente credente non deve parlare solo della sua colpa, ma ha qualcosa di altrettanto importante da dire circa la sua innocenza e giustizia. Rientra nella fede di un cristiano il riconoscimento di esser divenuto, per la grazia di Dio e per il merito di Gesù Cristo, integralmente giusto e innocente agli occhi di Dio, per cui «non c’è più nulla da condannare in coloro che sono in Gesù Cristo» (Rm 8,1). E nella preghiera del cristiano rientra anche la partecipazione a questa innocenza e giustizia, a cui deve attenersi, richiamandosi alla Parola di Dio e ringraziando. Per cui non solo ci è consentito, ma ci è fatto obbligo addirittura, se prendiamo sul serio l’azione di Dio in noi, di pregare con grande umiltà e sicurezza nel modo seguente: «Integro sono stato dinanzi a lui e mi sono guardato dalla mia iniquità» (Sal 18,24), «Tu hai visitato il mio cuore, niente di male hai trovato» (Sal 17 ,3 )21. Con tali preghiere ci troviamo nel cuore del Nuovo Testamento, nella comunione con la croce di Gesù Cristo.
Particolarmente forte è l’affermazione di innocenza nei salmi che trattano dell’ oppressione ad opera di nemici senza Dio. Qui prevale la preoccupazione per il diritto della causa di Dio, che naturalmente dà ragione a chi la sostiene. Se siamo perseguitati per la causa di Dio, egli ci dà ragione nei confronti del suo nemico. Accanto all’innocenza oggettiva, che certo non può mai restare solo tale, visto che la causa della grazia di Dio ci riguarda sempre anche personalmente, ci può essere in alcuni di questi salmi anche una confessione di colpa soggettiva (Sal 41,5; 69,6), a sua volta solo un segno del fatto che realmente solo la causa di Dio mi sta a cuore. Posso addirittura chiedere nello stesso momento: «Giudicami, o Dio, difendi la mia causa da gente senza pietà» (Sal 43,1).
È senz’ altro contrario alla Bibbia e fuorviante l’idea che non sia possibile la sofferenza innocente, cioè finché siamo immuni da colpa. Non è questo il modo di vedere né dell’Antico, né del Nuovo Testamento. Se siamo perseguitati per la causa di Dio, soffriamo innocentemente, il che significa appunto che soffriamo con Dio stesso; la nostra reale vicinanza a Dio e quindi la nostra innocenza risulterà proprio dal fatto che chiediamo la remissione dei peccati.
Ma non siamo innocenti solo al cospetto dei nemici di Dio, bensì anche davanti a Dio stesso; infatti ora egli ci vede legati alla sua causa, in cui egli stesso ci ha coinvolto, e ci rimette i nostri peccati. Così tutti i salmi che proclamano l’innocenza confluiscono nel canto: «Il sangue e la giustizia di Cristo sono il mio ornamento e la mia veste d’onore; così mi presenterò a Dio quando andrò in cielo».

I nemici
Nessuna parte del salterio ci procura oggi imbarazzo maggiore di quella costituita dai cosiddetti salmi di vendetta23. È spaventosa la frequenza di questi pensieri in tutto il salterio (5,7,9, 10, 13, 16, 21, 23, 28, 31, 35, 36, 40, 41, 44, 52, 54, 55, 58, 59, 68, 69, 70, 71, 137 ecc.). Qui si direbbe che siano condannati al fallimento tutti i tentativi di far nostre queste preghiere, e veramente pare che ci si trovi di fronte a un grado inferiore di religiosità, come esso viene chiamato, rispetto al Nuovo Testamento. Cristo in croce ha pregato per i suoi nemici e ci ha insegnato a fare altrettanto. Come possiamo ancora con i salmi invocare vendetta sui nemici? Dunque il problema è se i salmi di vendetta possano essere intesi come Parola di Dio per noi e come preghiera di Gesù Cristo. Possiamo da cristiani pregare questi salmi? Si noti ancora che non si tratta dei possibili motivi, per noi insondabili, ma del contenuto della preghiera.
I nemici di cui qui si parla sono nemici della causa di Dio, che ci assalgono per questo motivo. Non si tratta dunque mai di una contesa personale. Mai colui che prega nei salmi vuole eseguire la vendetta con le sue mani, ma l’affida a Dio solo (cfr. Rm 12,19). Quindi deve liberarsi da qualsiasi idea di vendetta personale, da qualsiasi brama di vendicarsi, altrimenti la vendetta non sarebbe veramente rimessa a Dio. Ma solo chi è personalmente innocente nei confronti del nemico può affidare a Dio la vendetta. La preghiera per la vendetta di Dio è la preghiera per la piena applicazione della sua giustizia nel giudicare i peccati. Questo giudizio deve compiersi, se Dio è fedele alla sua Parola, e deve applicarsi a chiunque; io stesso con il mio peccato devo sottostarvi. Non ho alcun diritto a impedirlo. Deve compiersi per volontà di Dio, ed è stato compiuto, sia pure non per la via più consueta.
La vendetta di Dio non ha infatti colpito i peccatori, ma l’unico innocente, che ha preso il posto dei peccatori, il Figlio di Dio. Gesù Cristo ha portato il peso della vendetta di Dio, di cui il salmo chiede l’esecuzione. Egli ha placato l’ira di Dio per il peccato e così ha pregato nell’ ora del giudizio divino: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno». Solo lui poteva pregare così, in quanto ha preso su di sé l’ira di Dio. Qui si è posto fine ad ogni idea sbagliata dell’ amore di Dio, come se esso non prendesse sul serio il peccato. Dio odia e giudica i suoi nemici nell’unico giusto, e questi chiede remissione per i nemici di Dio. Solo nella croce di Gesù Cristo è possibile trovare l’amore di Dio.
Così il salmo di vendetta ci porta alla croce di Gesù e all’amore di Dio che perdona ai nemici. Non posso con le mie forze perdonare il nemico di Dio, può farlo solo il Cristo crocifisso, e io lo posso attraverso di lui. In tal modo l’esecuzione della vendetta si trasforma in grazia per tutti gli uomini in Gesù Cristo.
Certamente è cosa molto diversa, se ci si trova a pregare il salmo nel tempo della promessa o nel tempo del compimento, ma è una differenza che vale per tutti i salmi. Prego secondo i salmi di vendetta essendo certo che questa sarà eseguita in modo miracoloso, rimetto la vendetta nelle mani di Dio e gli chiedo di applicare la sua giustizia a tutti i suoi nemici, sapendo che Dio è rimasto fedele a se stesso e si è fatto giustizia nel giudizio dell’ira pronunciato sulla croce, e che quest’ira è divenuta grazia e gioia per noi. Gesù Cristo in persona chiede l’esecuzione della vendetta di Dio sul suo corpo, e così ogni giorno mi richiama al peso e alla grazia della sua croce per me e per tutti i nemici di Dio.
Anche oggi posso credere all’ amore di Dio e perdonare ai nemici solo passando per la croce di Cristo, per l’esecuzione della vendetta di Dio. La croce di Gesù Cristo è per tutti. Chi vi si oppone, chi altera la parola della croce di Cristo, deve subire direttamente la vendetta di Dio, deve sopportare la maledizione di Dio sulla terra o nell’aldilà. E il Nuovo Testamento parla con la massima chiarezza di questa maledizione che colpisce chi odia Cristo, in questo non distinguendosi dall’Antico, parla però anche della gioia della comunità nel giorno del giudizio finale (Gal 1,8s.; 1 Co; 16,22; Ap 18; 19; 20, Il). In tal modo Gesù crocifisso ci insegna ad applicare nel giusto modo i salmi di vendetta alla preghiera.

La fine
La speranza dei cristiani è rivolta al ritorno di Gesù e alla risurrezione dei morti. Nel salterio non c’è una formulazione letterale di questa speranza. Ciò che dopo la risurrezione di Gesù si è sviluppato per la chiesa in una lunga successione di eventi di storia della salvezza, in rapporto con la fine di tutte le cose, nella prospettiva dell’ Antico Testamento risulta ancora come un tutto indivisibile. Oggetto della preghiera nei salmi è la vita in comunione con il Dio della rivelazione, la vittoria finale di Dio nel mondo e l’instaurarsi del regno messianico.
Qui in sostanza non c’è differenza dal Nuovo Testamento. In effetti i salmi invocano la comunione con Dio nella vita terrena; sanno però che essa non si realizza in terra, ma differisce molto da questo ordine di realtà, anzi addirittura si oppone ad esso (Sal 17 ,14s.; 6,3425). Per cui la vita in comunione con Dio è sempre posta al di là della morte. È vero che questa è considerata sempre l’irrevocabile, amara fine per il corpo e l’anima. È il salario del peccato, e il richiamarla è doloroso (Sal 39 e 90). Ma al di là della morte c’è Dio, che è eterno (Sal 90 e 102). Perciò non sarà la morte, ma la vita nella forza di Dio a trionfare (Sal 16,9ss.; 56,14; 49,16; 73,24; 118,15ss.). Troviamo questa vita nella risurrezione di Gesù Cristo, e l’invochiamo per il presente e per l’eternità.
I salmi della vittoria finale di Dio e del suo messia (Sal 2.96.97. 98.110.148-150) ci guidano nella lode, nel ringraziamento e nella richiesta della fine di tutte le cose, allorché tutto il mondo renderà onore a Dio, e la comunità dei redenti regnerà con Dio in eterno, mentre le potenze del maligno finiranno e Dio solo avrà potere.
Abbiamo intrapreso questo breve percorso del salterio, nella speranza di imparare a pregare meglio alcuni salmi. Non sarebbe difficile riportare al Padre nostro tutti i salmi citati. Ci sarebbe ben poco da mutare nella successione dei paragrafi che abbiamo seguito. Ma l’unica cosa importante è il ricominciare di nuovo con fedeltà e amore a pregare i salmi, in nome del nostro Signore Gesù Cristo.
«Il nostro diletto Signore, che ci ha dato e ci ha insegnato a pregare secondo il salterio e il Padre nostro, ci dia anche lo spirito della preghiera e della grazia, cosicché sentiamo il gusto della preghiera, ci manteniamo in essa rigorosamente fedeli e perseveranti; infatti è per noi una necessità, e Dio ce l’ha comandato e questo si attende da noi. A lui sia lode, onore e grazie. Amen» (Lutero).

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DIETRICH BONHOEFFER TEOLOGO PROTESTANTE, MARTIRE DEL NAZISMO – 9 APRILE 1945 IN CAMPO DI CONCENTRAMENTO

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DIETRICH BONHOEFFER TEOLOGO PROTESTANTE, MARTIRE DEL NAZISMO – 9 APRILE 1945 IN CAMPO DI CONCENTRAMENTO

CHIESE DELLA RIFORMA

BRESLAU, GERMANIA (OGGI WROCLAW, POLONIA), 4 FEBBRAIO 1906 – FLOSSENBURG, 9 APRILE 1945

Il contesto storico del suo tempo; la Germania nazista
Nella Germania nazista, non tutti i tedeschi furono partecipi dell’ideologia militaristica, razzista, egemone, scaturita dalla mente contorta di Adolf Hitler (1889-1945), che provocò nella prima metà del secolo XX, milioni di morti, distruzioni immense, innumerevoli feriti, invalidi, dispersi, profughi, perseguitati e sconvolgimenti politici epocali in tutto il mondo.
Tutto ciò ebbe il suo epilogo nella Seconda Guerra Mondiale (1939-1945), ma già dal 1920, anno della fondazione del nazionalsocialismo da parte di Hitler, in Germania si andò diffondendo l’ideologia della pretesa superiorità razziale del popolo tedesco e della conseguente rigida discriminazione verso gli altri popoli, in particolare gli Ebrei, che furono oggetto di spietate persecuzioni.
Nel campo economico e sociale, il nazionalsocialismo respingeva le dottrine liberiste e quelle marxiste, contrapponendo ad esse una visione rigidamente corporativa e attuando una politica di stretto controllo dell’attività economica.
In politica estera, l’ideologia nazista tese i suoi sforzi alla preparazione della rivincita della sconfitta subita dalla Germania, nella Prima Guerra Mondiale, proclamando apertamente la necessità per il popolo tedesco, di strappare alle altre nazioni lo spazio vitale necessario.
Tutto questo, a partire dal 1933 quando Hitler prese il potere, portò ad una vasta militarizzazione dello Stato, instaurò un clima di repressione dei dissidenti, istituendo un regime totalitario basato sull’identificazione tra Partito e Stato; poi ad invasioni di Stati confinanti, occupazioni militari, rastrellamenti e deportazioni di ebrei, dissidenti, prigionieri, zingari, malati di mente, nei famigerati campi di concentramento, vergogna di una civilissima nazione, che tanto aveva dato in arte, letteratura, scienze, filosofia, all’Europa e al mondo fino allora.
Ma non tutti i tedeschi condividevano le politiche naziste, alcuni vincendo la paura della famigerata Gestapo (polizia segreta), furono in aperta contrapposizione e molti pagarono con il carcere, le torture, i lavori forzati, la vita stessa, la loro libertà di espressione e l’anelito di indipendenza dal rigido regime.

I tentativi per fermare Hitler e le conseguenze
Nell’ottica di fermare in qualche modo, la deriva della Germania, trascinata in una disastrosa guerra contro decine di Nazioni del mondo, alcuni ufficiali delle Forze Armate, appoggiati da dissidenti, organizzarono un primo attentato a Hitler, il 13 marzo 1943 a Monaco, che ebbe un esito negativo; molto più vasta fu la congiura organizzata nell’estate dell’anno successivo.
Il 20 luglio 1944, il colonnello von Stauffenberg collocò una bomba nel quartiere generale del Führer (‘tana del lupo’) a Rastenburg, nella Prussia Orientale, ma Hitler, ferito solo leggermente, riuscì rapidamente a schiacciare i rivoltosi che, credendolo morto, si erano scoperti senza tuttavia organizzare un’azione efficace a Berlino.
I feldmarescialli Kluge e Rommel, implicati indirettamente nel complotto, si uccisero; il generale Beck, il colonnello Stauffenberg, il maresciallo von Witzleben, il generale von Stülpnagel, l’ammiraglio Canaris, più direttamente coinvolti, vennero giustiziati.
Con loro furono arrestati, migliaia di oppositori del regime e giustiziati in un susseguirsi di fucilazioni ed impiccagioni; affogando in un lago di sangue, l’anelito di libertà dalla tremenda dittatura nazista, comunque arrivata al capolinea nell’anno successivo.

Il teologo Dietrich Bonhoeffer
Fra queste persone di varia estrazione sociale e di pensiero, vi fu il teologo e pastore protestante Dietrich Bonhoeffer, uno dei maggiori e più aperti oppositori dell’ideologia nazista, che per questo era già detenuto dal 5 aprile 1943.
Dietrich era nato il 4 febbraio 1906 a Breslau, una città della Slesia, allora in Germania, ma dopo la II Guerra Mondiale ritornò ad essere parte della Polonia con il nome di Wroclaw, dopo quattro secoli di dominio austriaco, prussiano e nazista.
Il padre Karl era un professore di Neurologia e Psichiatria, la madre Paula cristiana fervente, era dedita all’educazione dei suoi otto figli, quattro maschi e quattro femmine.
Quando Dietrich aveva sei anni, la famiglia Bonhoeffer si trasferì a Berlino di dove era originaria; i suoi genitori frequentavano la Chiesa Luterana, ma con un’impostazione sostanzialmente laica e positivista; il giovane Dietrich invece, si avvicinava sempre più alla religione, decidendo di dedicarsi agli studi teologici.
Aveva 16 anni quando la mattina del 21 giugno 1921, era a scuola nel ginnasio del quartiere residenziale di Grunewald e udì gli spari che a poca distanza dall’istituto, uccisero Walter Rathenau, ministro degli Esteri, davanti alla porta di casa. E da allora, Dietrich molto turbato, cominciò a domandarsi quale futuro poteva avere una Germania, che assassinava i suoi figli migliori.
La sua vocazione allo stato religioso, fu accolta in casa con una certa sorpresa, considerandola una scelta curiosa, perché lo studio della teologia, era una cosa che non portava da nessuna parte.
Durante i suoi studi all’Università, prima di Tubinga e poi di Berlino, maturò convinzioni politiche; l’incontro con il pacifista francese Jean Lasserre, eliminò quell’amarezza contro i trattati di Versailles, che avvelenava l’opinione pubblica tedesca e che porterà poi all’appoggio popolare alla politica rivendicativa di Adolf Hitler.

Docente universitario; la sua formazione religiosa e politica
Influenzato in modo significativo dalla teologia dialettica e dal pensiero del teologo protestante svizzero Karl Barth (1886-1968), Dietrich Bonhoeffer si laureò nel 1930 con una tesi sulla Chiesa, dal titolo “Sanctorum communio”, diventando pastore luterano e ottenendo a soli 24 anni, l’abilitazione per la docenza universitaria.
Dal 1931 al 1933, insegnò teologia all’Università di Berlino, coinvolgendo gli studenti con il suo approccio innovativo e impegnato, teso a sensibilizzare le coscienze, sulla situazione politica della Germania di allora.
La sua attenzione era concentrata sulla Chiesa, intesa come concreta comunità di uomini, che, in quanto tale, ha il dovere di calarsi nella realtà e combatterne le distorsioni, per realizzare una società giusta, lontana dalla violenza.
In quegli anni Dietrich, maturò la sua forte opposizione al nazismo; a contatto con Gerhard Leibholz di origine ebrea e marito della sua gemella Sabine (la coppia nel 1933, lascerà la Germania a seguito delle leggi razziali), prese coscienza del grande peccato costituito dall’antisemitismo e si opporrà in seguito pubblicamente alla “clausola ariana”, contenuta negli statuti della Chiesa Protestante, imposti dal regime nazista; tutto ciò porterà la sua discesa in campo in prima persona, per denunciare la deriva del potere politico in Germania.
Il suo itinerario di studioso, insegnante, pastore, fu interrotto solo dai viaggi fatti in Italia e a New York; ma nel 1933 in Germania, avvenne la svolta radicale dell’avvento al potere di Adolf Hitler e Dietrich Bonhoeffer fece subito e chiaramente la sua scelta, schierandosi con la cosiddetta “Chiesa confessante”, cioè quella parte della comunità evangelica, che aveva imboccato la via della resistenza al regime nazionalsocialista, organizzando per essa seminari e corsi di studio, stabilendo contatti anche all’estero, affinché fosse sostenuta la resistenza tedesca.
Per questo la sua voce fu progressivamente spenta, in particolare nel 1933, quando partecipò ad una trasmissione radiofonica, definendo pubblicamente Hitler “un seduttore”, provocando così l’interruzione del programma; l’interferenza del regime diventò sempre più capillare ed invasiva e gli fu proibito man mano di insegnare, di predicare, di scrivere.

Riparato all’estero
Trovatosi nell’impossibilità di portare avanti il suo programma d’insegnamento, Bonhoeffer, lasciò, nell’ottobre 1933, la Germania, scegliendo di fare il pastore a Londra, per svegliare le coscienze nei confronti del rischio nazista; ma le sue amicizie con gli ebrei, l’impegno nelle file dell’opposizione, il discorso sulla pace tenuto nell’isola danese di Fanø, attirarono su di lui l’attenzione del regime.
E quando dopo un paio d’anni tornò in patria, fu costretto ad abbandonarla di nuovo, dopo una parentesi come direttore di un Seminario protestante, chiuso come illegale; poiché sulla sua testa pendevano diversi provvedimenti di polizia, che gl’impedivano la libertà di azione e mettevano in pericolo la sua incolumità.
Riparato negli Stati Uniti, come “docente ospite” nell’estate del 1939, vi restò però solo due settimane; la sua coerenza morale e l’amore per il suo popolo, gl’impedivano di stare a guardare, mentre il suo Paese precipitava nell’orrore e nell’imminente guerra, guidato da un criminale che bisognava cercare di bloccare ad ogni costo.

Aderente al gruppo di resistenza antinazista; arrestato dalla Gestapo
Uomo audace e profondamente religioso, era convinto della necessità per la Chiesa e i suoi esponenti, di risvegliare la coscienza critica degli uomini e di diffondere la Parola di Dio anche, e soprattutto, nei momenti storici più difficili; una volta rientrato in Germania, si unì per questo al gruppo di Resistenza sorto attorno all’ammiraglio Wilhelm Canaris (1887-1945), impegnato a cercare una via d’uscita che evitasse il disastro totale.
Ma il 5 aprile 1943, Dietrich Bonhoeffer fu arrestato dalla Gestapo; iniziava così il suo calvario in varie prigioni del Reich; nelle carceri di Tegel e Berlino, scrisse le celebri lettere e appunti, raccolte poi nel vol. “Resistenza e resa” (pubblicato nel 1951), esempio di lucida coerenza in principi come libertà, patria, democrazia, pace, dialogo, ascolto dell’altro.
In quelle pagine, ora dolci ora drammatiche, pronte a scavare nel mistero di Dio e dell’uomo, espressione ardente di una vita con Dio e per Dio, con gli uomini e per gli uomini, si delineavano alcune tesi del suo pensiero, che avevano avuto una vasta trattazione già in altri suoi scritti precedenti, come “Agire ed essere” (1931), “Sequela” (1937), “La vita comune” (1939) ed “Etica” (1949, opera postuma).

Il percorso interiore nella sofferenza
Le lettere, maturate negli anni di carcere, rappresentano l’opera più conosciuta di Bonhoeffer, documento frammentario, ma interessantissimo di una vicenda umana esemplare.
Bonhoeffer credeva nei valori della comunità, come necessaria risposta religiosa all’esistenza, come luogo del rispetto reciproco e in quelli dell’interiorità, che nessuna tirannia avrebbe potuto violare.
Quattro mesi prima dell’arresto, nel gennaio 1943, Dietrich si era fidanzato con la diciottenne Maria von Wedemeyer, da lui teneramente amata, ma che non poté mai sposare, perché il resto della sua vita lo trascorse in carceri e campi di concentramento.
Nel Natale 1943, il teologo Bonhoeffer così pregava: “È buio dentro di me, ma presso di te c’è luce; sono solo, ma tu non mi abbandoni, sono impaurito, ma presso di te c’è aiuto; sono inquieto, ma presso di te c’è pace; in me c’è amarezza, ma presso di te c’è pazienza, non comprendo le tue vie, ma tu conosci la mia vita”.

Il martirio
Dopo un breve passaggio nel campo di concentramento di Buchenwald, fu trasferito nel lager di Flossenbürg presso Monaco; là dopo un processo sommario, fu condannato a morte e impiccato il 9 aprile 1945, a 49 anni, insieme all’ammiraglio Canaris, per espresso ordine di Hitler.
In quei mesi che precedettero il crollo finale del nazismo, e che seguivano il fallito attentato ad Hitler del 20 luglio 1944, anche altri suoi familiari furono uccisi, quali dissidenti del regime: suo fratello Klaus Bonhoeffer avvocato, i mariti delle due sorelle Christine e Ursula, Hans von Dohnanyi e Rudiger Schleicher, con loro Ernst von Harnack, parente e frequentatore del circolo musicale, dove il gruppo clandestinamente congiurava.

La sua teologia
Il noto biblista Gianfranco Ravasi, in un suo articolo su Famiglia Cristiana, così sintetizza il pensiero di Bonhoeffer: “Egli esaltava la necessità dell’impegno del cristiano nelle “realtà penultime”, cioè in quelle della storia e dell’azione sociale e politica, per poter accedere alle “realtà ultime” della fede e della pienezza di vita in Dio. Egli sentiva fortemente l’importanza di un confronto col mondo diventato “adulto” e secolare, e questo dialogo doveva avvenire attraverso un cristianesimo “non religioso”, cioè ripensato in una nuova forma, non più sacrale. Queste ed altre tesi, alcune di forte impronta mistica, altre di tonalità esistenziale, contenevano reazioni e fremiti legati alla sua esperienza e al contesto di quel tempo e sono poi state sottoposte a critica”.
Il pensiero del teologo Bonhoeffer, è stato fra l’altro citato per un confronto sugli scritti di Mario Pomilio (1921-1990); trent’anni prima, Dietrich Bonhoeffer inaugurava la teologia della “morte di Dio” e al tempo stesso una nuova sofferta ed esistenziale cristologia: “Cristo è per l’uomo la ricerca del Dio assente”; in confronto il libro di Pomilio “Il Quinto Evangelo” (1975), si tiene ben lontano dalla rapinosa vertigine dell’intuizione di Bonhoeffer.
Il suo Dio, non è assente ma nascosto e la storia umana è un susseguirsi di balenanti sue apparizioni e rivelazioni, di segni misteriosi, di tracce certe anche se spesso indecifrabili della sua presenza, che consentono di ricostruire l’itinerario che conduce a Lui.
Rimane indubbia, però, la fede pura di Bonhoeffer e la sua testimonianza integra, e con questa fede egli si avviò al martirio. Scrisse di lui più tardi uno dei medici del lager: “Mi ha scosso nel profondo… Nei quasi 50 anni di pratica medica, non ho mai visto morire allo stesso modo, un uomo consacrato al Signore”.
In una sua lettera dal carcere, Bonhoeffer scrisse: “Quando si è rinunciato del tutto a fare qualcosa di se stessi: un santo, un peccatore convertito o un uomo di Chiesa, un giusto o un ingiusto, un malato o un sano, allora ci si getta interamente nelle braccia di Dio, allora si prendono finalmente sul serio non le proprie, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nei Getsemani e, io penso, questa è fede; e così diventiamo uomini, diventiamo cristiani”.

Il ricordo di Dietrich Bonhoeffer
Dietrich Bonhoeffer, viene considerato uno dei dieci “testimoni” delle cristianità del secolo scorso. A questo titolo, dal 1998, la sua statua è stata collocata in una nicchia della facciata dell’abbazia di Westminster, in Inghilterra; tiene in mano una Bibbia, ed è in compagnia, fra gli altri, di Martin Luther King, del vescovo Oscar Romero, di san Massimiliano Kolbe, in un ecumenismo del martirio, più eloquente di qualsiasi solenne dichiarazione.
È ricordato il 9 aprile, giorno della sua morte, nel calendario “Il libro dei Testimoni”, che la Comunità di Bose ha dedicato al martirologio ecumenico.

Autore: Antonio Borrelli

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Fra Angelico, The Annunciation, 1450 (Convento di San Marco, Florence)

Fra Angelico, The Annunciation, 1450 (Convento di San Marco, Florence) dans immagini sacre fra-angelico-the-annunciation

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25 MARZO (2013: 8 aprile): ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE

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25 MARZO (2013:  8 aprile): ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE                                     

Festa del Signore, l’Annunciazione inaugura l’evento in cui il figlio di Dio si fa carne per consumare il suo sacrificio redentivo in obbedienza al Padre e per essere il primo dei risorti.
La festa dell’Annunciazione del Signore ha un suo significato originale.
E’ in stretto rapporto con la festa di Natale.
E’ prima di tutto e sostanzialmente un avvenimento e come tale deve essere privilegiato su altre celebrazioni.
 La visita del Signore al suo popolo era stata pronunciata con insistenza; non v’era dubbio sulla sua venuta.
Restava un mistero il modo con cui il Signore sarebbe apparso. Qui si è manifestata la novità.
Non è passato fra gli uomini, ma si è fermato; non si è rivolto agli uomini dall’esterno, si è fatto umanità ed ha assunto tutto dall’interno.
Un Dio di uomini, che parla ed agisce nel cuore stesso dell’esperienza umana. Pur restando il tutt’altro, Dio si è fatto uomo e va perciò cercato nella realtà degli uomini.
La storia della salvezza è dominata e caratterizza da una scelta sconvolgente di Dio: l’incarnazione, per questo la solennità liturgica dell’Annunciazione del Signore è la chiave di lettura e di comprensione di tutto quello che viene dopo.
Maria è grande perché è stata associata, come nessun altro, al mistero del Dio delle misericordie e invitata alla gioia messianica come vera figlia di Sion, è oggetto del favore di Dio perché l’ha scelta da sempre ad essere madre del Verbo.
Il suo stesso essere è messo ‘in relazione con’ qualcun altro; essa è con tutta se stessa la ‘madre di Gesù’. Può diventare madre perché ‘ha trovato grazia presso Dio’. Nel delineare il volto interiore della Madonna, Dio non può fare altro che rivelare se stesso e il suo piano di grazia.
La grandezza della persona umana, assunta nel piano di Dio, sorpassa di gran lunga ogni nostra prospettiva. C’è una persona che è stata scelta e preparata per essere tabernacolo escatologico del Dio presente fra gli uomini, posta costantemente sotto l’ombra dell’Altissimo. Essa è stata chiamata alla collaborazione più alta, con tutto il suo essere. Il Verbo si è fatto carne quando ella, spinta dalla luce e dalla forza dello Spirito, si è offerta con piena disponibilità alla parola e al disegno di Dio.
Bisogna tenere sempre presente che i doni e le chiamate di Dio sono da sempre e per sempre ed è proprio della inesauribile mediazione di Cristo, suscitare altre mediazioni subordinate. Maria non oscura o diminuisce l’unica mediazione di Cristo, ma ne mostra l’efficacia.
Si può infine sottolineare un aspetto di viva attualità.
L’irruzione di Dio sulla Vergine ha tutte le caratteristiche della chiamata profetica.
Dio sradica, nel corso della storia, persone e famiglie dalla loro esistenza ordinaria per farle protagoniste della storia della salvezza. Non c’è per costoro altra sicurezza che la parola di Dio, non c’è altro appoggio che quello della sua fedeltà.
L’avvenire è tutto carico di mistero; domanda una costante risposta di fede.
Maria non ha potuto prevedere quello che conteneva il mistero dell’annunciazione; si è trovata nelle condizioni di ragazza-madre; non ha compreso certi atteggiamenti e parole del Figlio; anch’essa ha avanzato nel cammino della fede ed ha conservato fedelmente la sua unione con il Figlio fino alla morte.
L’annunciazione e gli anni che l’hanno seguita sono stati l’esodo della figlia di Sion, l’esperienza della povertà senza progetti, la chiamata a vivere la radicalità di Dio, la famiglia di Nazareth non è ‘sacra’ perché immersa in una luce ed atmosfera ultraterrena, ma perché è autentica profezia. L’Annunciazione del Signore è quindi « festa congiunta di Cristo e della Vergine » come indicato nella Marialis cultus.
(Tratto dal Nuovo dizionario di Mariologia, Ed. Paoline 1986)
L’annuncio a Maria è anzitutto annuncio di Gesù: « Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù », la Sua grandezza sta nell’essere al servizio del mistero che viene così rivelato.
Il modo con cui Maria viene interpellata, il dialogo con l’angelo e la sua risposta, la situano, e a un titolo eccezionale, tra coloro che Dio chiama ad una missione specifica nell’ambito della storia della salvezza.
Maria apprende dall’angelo che ella ha « il favore di Dio », favore che è segno contemporaneamente di una qualità personale e di una scelta divina in vista di una missione.
La seconda parte del saluto contiene un tono precisamente vocazionale « il Signore è con te ». E’ così che Dio assicura la sua presenza a quelli che sceglie in vista di una missione speciale, promettendo loro di agire con essi a favore del suo popolo.
Maria è ‘turbata’ e chiede al messaggero di illuminarla sul ‘come’ della sua missione. La replica dell’angelo « Non temere, Maria » è la preparazione immediata dell’annuncio d’una missione: Maria partorirà un figlio e sarà lei ad imporgli il nome.
Si tratta di una vocazione ad una maternità tutta intera sotto il segno dello Spirito Santo e sarà la manifestazione della presenza attiva di Dio nel suo popolo.
La risposta di Maria significa la sua accettazione libera e totale della vocazione che le è stata rivelata.
(Tratto dal Piccolo dizionario mariano)

Dall’omelia di Giovanni Paolo II nella Basilica dell’Annunciazione di Nazareth
Nazareth, 25 marzo 2000)
«…Il disegno divino è rivelato gradualmente nell’Antico Testamento, in particolare nelle parole del profeta Isaia, che abbiamo appena ascoltato: « Pertanto il Signore stesso vi darà un segno.
Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele » (7, 14).
Emmanuele: Dio con noi. Con queste parole viene preannunciato l’evento unico che si sarebbe compiuto a Nazareth nella pienezza dei tempi, ed è questo evento che celebriamo oggi con gioia e felicità intense.
Il nostro pellegrinaggio giubilare è stato un viaggio nello spirito, iniziato sulle orme di Abramo, « nostro padre nella fede » (Canone Romano; cfr Rm 4, 11-12). Questo viaggio ci ha condotti oggi a Nazareth, dove incontriamo Maria, la più autentica figlia di Abramo.
È Maria, più di chiunque altro, che può insegnarci cosa significa vivere la fede di «nostro padre». Maria è in molti modi chiaramente diversa da Abramo; ma in maniera più profonda « l’amico di Dio » (cfr Is 41, 8) e la giovane donna di Nazareth sono molto simili. Entrambi ricevono una meravigliosa promessa da Dio. Abramo sarebbe diventato padre di un figlio, dal quale sarebbe nata una grande nazione. Maria sarebbe divenuta Madre di un Figlio che sarebbe stato il Messia, l’Unto del Signore. Dice Gabriele « Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce … il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre … e il suo regno non avrà fine » (Lc 1, 31-33). Sia per Abramo sia per Maria la promessa giunge del tutto inaspettata. Dio cambia il corso quotidiano della loro vita, sconvolgendone i ritmi consolidati e le normali aspettative. Sia ad Abramo sia a Maria la promessa appare impossibile. La moglie di Abramo, Sara, era sterile e Maria non è ancora sposata: « Come è possibile? », chiede all’angelo. « Non conosco uomo » (Lc 1, 34). Come ad Abramo, anche a Maria viene chiesto di rispondere «sì» a qualcosa che non è mai accaduto prima. Sara è la prima delle donne sterili della Bibbia che a concepire per potenza di Dio, proprio come Elisabetta sarà l’ultima. Gabriele parla di Elisabetta per rassicurare Maria: « Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio » (Lc 1, 36). Come Abramo, anche Maria deve camminare al buio, affidandosi a Colui che l’ha chiamata. Tuttavia, anche la sua domanda « come è possibile? » suggerisce che Maria è pronta a rispondere « sì », nonostante le paure e le incertezze. Maria non chiede se la promessa sia realizzabile, ma solo come si realizzerà. Non sorprende, pertanto, che infine pronunci il suo fiat: « Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto » (Lc 1, 38). Con queste parole Maria si dimostra vera figlia di Abramo e diviene la Madre di Cristo e Madre di tutti i credenti. Per penetrare ancora più profondamente questo mistero, ritorniamo al momento del viaggio di Abramo quando ricevette la promessa. Fu quando accolse nella propria casa tre ospiti misteriosi (cfr Gn 18, 1-15) offrendo loro l’adorazione dovuta a Dio: tres vidit et unum adoravit. Quell’incontro misterioso prefigura l’Annunciazione, quando Maria viene potentemente trascinata nella comunione con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Attraverso il fiat pronunciato da Maria a Nazareth, l’Incarnazione è diventata il meraviglioso compimento dell’incontro di Abramo con Dio. Seguendo le orme di Abramo, quindi, siamo giunti a Nazareth per cantare le lodi della donna « che reca nel mondo la luce ». A Nazareth, dove Gesù ha iniziato il suo ministero pubblico, chiedo a Maria di aiutare la Chiesa ovunque a predicare la « buona novella » ai poveri, proprio come ha fatto Lui (cfr Lc 4, 18). In questo « anno di grazia del Signore », chiedo a Lei di insegnarci la via dell’umile e gioiosa obbedienza al Vangelo nel servizio dei nostri fratelli e delle nostre sorelle, senza preferenze e senza pregiudizi. « O Madre del Verbo Incarnato, non disprezzare la mia preghiera, ma benigna ascoltami ed esaudiscimi. Amen »»

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