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riesco a leggere solo: L’apostolo Paolo…

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Publié dans:immagini sacre |on 12 avril, 2013 |Pas de commentaires »

EVANGELIZZARE O TESTIMONIARE? IL CASO DI PAOLO NEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI

http://www.consolata.org/missione-oggi/6240-evangelizzare-o-testimoniare-il-caso-di-paolo-negli-atti-degli-apostoli

EVANGELIZZARE O TESTIMONIARE? IL CASO DI PAOLO NEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI

Partendo dalla costatazione che nel libro degli Atti il vocabolario della testimonianza è più esteso di quello dell’evangelizzare, mi chiederò quale è il rapporto tra i due campi semantici, paragonando Pietro e Paolo, per vedere se la testimonianza di Paolo ha lo stesso oggetto, lo stesso status e la stessa funzione per il narratore degli Atti (Nr). Vedendo come egli struttura la testimonianza, cercherò di trarne le conseguenze per noi oggi.

Le componenti della testimonianza

1. Componenti definite da Gesù stesso
Tutti i commentatori ammettono che, negli Atti e in tutte le sue componenti, la testimonianza va definita da Gesù: «Lo Spirito Santo verrà su di voi e riceverete da lui (la) forza per essermi testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea, nella la Samaria e fino all’estremità della terra» (At 1,8). La formula mette in risalto il legame tra Gesù e i testimoni. Il pronome greco «di me» è allo stesso tempo un genitivo di origine — gli apostoli sono testimoni perché costituiti e dichiarati tali da Gesù —, un genitivo soggettivo — perché Gesù è più che mai il loro signore —, e un genitivo oggettivo — perché parleranno di lui. Certo, l’enunciato non dispiega chiaramente il contenuto della testimonianza, ma siccome si tratta di un esordio, tutto rimane ancora conciso e sfocato.
Che Gesù abbia anche fissato l’estensione della testimonianza, At 1,8 lo indica palesemente. Gesù dice che la testimonianza deve estendersi fino ai confini della terra, e così determina e definisce ciò che oggi chiamiamo la missione. Inoltre, il suo contenuto è radicalmente cristologico: la testimonianza (riguardante Gesù) costituisce la finalità della missione, e la sua estensione diventa uguale a quella del Vangelo1.
Oltre a fissare l’oggetto e l’estensione della testimonianza, Gesù stabilisce la condizione senza la quale essa non può essere effettuata, cioè il dono dello Spirito: quanto alla testimonianza, la competenza viene dal ricevere lo Spirito Santo. E che la testimonianza dipenda da questo dono, Pietro stesso lo riconosce e lo ribadisce spesso2. Certo, in At 1,8, il lettore non può ancora sapere perché lo Spirito deve dare forza — e non brillanti doti retoriche — per testimoniare: lo sfondo di violenza e di persecuzione giustificherà man mano la scelta del vocabolo. Solo la forza dello Spirito potrà venire in aiuto alla fragilità di quelli devono essere testimoni di fronte a potenze e autorità contrarie, che non esiteranno a perseguitare, persino a mettere a morte i testimoni di Gesù (At 7).

2. Componenti ben note dai discepoli
Senza accontentarsi di notare che Gesù risorto stesso ha elencato le componenti della testimonianza — seppure di maniera incoativa —, il racconto insiste anche sul fatto che i discepoli hanno ben colto il messaggio del loro Signore. La prima cosa che Pietro chiede ai compagni è di procedere alla sostituzione di Giuda (At 1,15-26). Nel discorso che rivolge loro, egli dice: «Bisogna che tra coloro che furono con noi per tutto il tempo in cui il Signore Gesù è stato nostro capo, incominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di tra noi assunto (in cielo), uno divenga, insieme a noi, testimone della sua risurrezione» (v.21-22). Ovviamente, la condizione previa — e per ciò segnalata anteriormente alla testimonianza — è di essere stato con Gesù fin dall’inizio, di aver visto ciò che ha fatto e sentito ciò che ha detto: non basta quindi essere divenuto suo seguace poco prima della sua Passione o averlo visto risorto, per appartenere al gruppo dei Dodici. Ma questa condizione, espressa in uno stile poco scorrevole, sbocca nel punto decisivo, cioè la necessità di avere dei testimoni della risurrezione di Gesù, per annunziarla. Così va enunciata un altra condizione essenziale della testimonianza riguardante Gesù: la sua pluralità o, più esattamente, il suo carattere collegiale. Dall’essere o camminare insieme si passa al testimoniare insieme. L’uomo scelto per sostituire Giuda non lo è per testimoniare da solo, ma per testimoniare con gli altri della risurrezione del Signore. Pero, la testimonianza non deve essere soltanto plurale o molteplice — come se un più grande numero dovesse essere più affidabile — ma anche convergente, perché viene da un gruppo di compagni.
Il giorno della Pentecoste, lo stesso Pietro ripeta ciò che ha anteriormente detto, cioè che loro sono testimoni della risurrezione di Gesù (At 2,32). Qui, per la prima volta, va chiaramente enunciato da un discepolo il rapporto tra risurrezione, invio dello Spirito e testimonianza: essendo risorto e avendo ricevuto lo Spirito, Gesù lo ha effuso sui apostoli, dando loro la possibilità di testimoniare della sua risurrezione.
Come lo si vede, la conoscenza che Pietro ha delle condizioni e componenti (cioè del processo) della testimonianza indica che lo Spirito ha operato come lo doveva, rendendo competenti e capaci i discepoli finora impauriti. Inoltre, per Pietro in At 2, l’effusione dello Spirito non è solamente ciò che permette di testimoniare; i suoi effetti — profezie, parlare in altre lingue, ecc. — descritti dal narratore nel v.4-12 ed elencati da Pietro nei v.16-20, costituiscono una prova maggiore della risurrezione di Gesù; profetizzando per mezzo dello Spirito ricevuto in abbondanza, gli apostoli testimoniano della vittoria e della signoria di colui che era stato crocifisso. La profezia è più che mai testimonianza.
Ma deve essere sottolineato che Pietro e gli altri non si accontentano di testimoniare: dicendo perché lo fanno, dimostrano di sapere perché lo fanno. In altri termini, nella prima parte del libro degli Atti, la testimonianza include una conoscenza delle sue condizioni, delle sue componenti e della sua finalità; così, il dichiararsi testimoni fa parte del testimoniare.
Quanto all’oggetto del loro testimoniare, è quasi esclusivamente la risurrezione di Gesù, almeno fino al cap. 13:
At 1,22 Pietro: «(occorre che l’uno…) sia con noi testimone della sua risurrezione» At 2,32 Pietro: «Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni» At 3,15 Pietro: «Dio l’ha risvegliato dai morti, noi ne siamo testimoni» At 4,33 il narratore: «con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù».
At 5,32 Pietro: «di questi fatti [la risurrezione] noi siamo testimoni e lo Spirito…»
At 10,41s Pietro: «[Gesù risorto visibile] non a tutto il popolo ma a testimoni prescelti da Dio .. e ci ha ordinato di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio» At 13,31 Paolo: «Egli si fecce vedere per molti giorni a quelli che erano saliti con lui dalla Galilea a Gerusalemme, e questi ora sono i suoi testimoni davanti al popolo.»
Solo in At 10,39 Pietro dichiara che i discepoli sono testimoni «di tutto ciò che Gesù ha fatto nel paese dei Giudei e a Gerusalemme». Ma il contesto spiega bene perché l’apostolo fa questa aggiunta. Infatti, egli si rivolge a un gruppo di pagani; se questi hanno già sentito parlare di Gesù di Nazareth, del suo ministero e della sua morte, non hanno potuto, a differenza delle folle giudaiche che seguivano assiduamente Gesù dappertutto, vedere le sue guarigioni e udire il suo insegnamento. Pietro deve quindi star garante per loro del ministero salvifico di Gesù. La testimonianza suppone quindi un uditorio che non ha avuto contatto diretto con le persone o gli eventi di cui si parla. Se quindi nella prima parte degli Atti la testimonianza si fissa sulla risurrezione di Gesù, è dovuto al fatto che, tramite il loro portavoce Pietro, gli apostoli si rivolgono ai Giudei che avevano incontrato Gesù, lo avevano seguito e conoscevano bene i suoi miracoli: era inutile testimoniare di cose che loro stessi avevano potuto controllare. È quindi normale vedere la testimonianza estendersi al ministero di Gesù per chiunque non lo ha personalmente incontrato. Per forza, con il tempo e lo spazio, la testimonianza apostolica deve anche coprire tutta la vita di Gesù. Vale a dire che tra le righe dei discorsi di Pietro in At 1 e 10, il narratore lucano giustifica la prima parte del suo dittico come traccia scritta della testimonianza apostolica riguardante la vita pubblica di Gesù, traccia necessaria non soltanto per il lettore del suo tempo ma per tutti quelli dei secoli futuri. In breve, se gli apostoli sottolineano il loro essere testimoni della risurrezione, a seconda delle circostanze e dei destinatari ne estendono l’oggetto a tutta la vita di Gesù.
Se, presso i Giudei della Palestina d’allora, gli apostoli testimoniano innanzitutto della risurrezione, il lettore di At 13,16-41 non può non chiedersi perché Paolo non si menziona tra la lista dei testimoni della risurrezione. Dopo aver detto: «egli [Gesù] si fecce vedere per molti giorni a quelli che erano saliti con lui dalla Galilea a Gerusalemme, e questi ora sono i suoi testimoni davanti al popolo», Paolo non aggiunge: «anche io sono testimone della sua risurrezione, perché mi è apparso; l’ho visto e sentito». È o non è testimone della risurrezione di Gesù, e se lo è, perché tace l’incontro di Damasco?

Quali testimoni e quale testimonianza?

1. Paolo testimone accreditato?
Se, in At 13,31-32, Paolo omette di dire che il Risorto gli è apparso nei dintorni di Damasco è dovuto, come lo dicono alcuni, al fatto che egli sa di non avere lo status di apostolo e quindi di non poter testimoniare con una autorità uguale alla loro? Certo no, perché, poco dopo (At 14,4.14), il narratore chiamerà Barnaba e Paolo apostoli.
Certo si potrebbe obiettare che, a differenza degli altri, loro ricevono quel titolo solo una volta, ma una tale obiezione non è rilevante, perché il titolo è collettivo; il narratore non dice mai: «l’apostolo Pietro» o «l’apostolo Giacomo», ecc., ma utilizza sempre il vocabolo apostoli al plurale. Che Paolo non sia mai chiamato apostolo non significa che il narratore non lo consideri tale, ma che focalizzando sul suo ministero a partire da At 16 (Barnaba e Paolo si sono separati in At 15,39-40), non avrà più l’occasione di applicargli un titolo adoperato al plurale.
Pur essendo uno degli apostoli, Paolo non sarebbe un testimone uguale agli altri? La risposta deve ancora essere negativa. Così come Pietro, Paolo è sicuro di essere un testimone accreditato; il narratore lo afferma, Paolo stesso dice pubblicamente che gli è stato notificato da Dio e dichiara di esser stato tale: At 18,5 il narratore: «Paolo si dedicò alla predicazione, testimoniando davanti ai Giudei che Gesù era il Cristo» At 20,21 Paolo agli Anziani di Efeso dice di aver: «scongiurato Giudei e Greci di convertirsi a Dio e di credere nel nostro Signore Gesù» At 20,24 idem : «il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio» At 22,15 Paolo, citando ciò che gli disse Anania: «gli [= Gesù] sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito» At 22,18 Paolo, ripetendo le parole del Risorto: «affrettati ed esci presto da Gerusalemme, perché non accetteranno la tua testimonianza su di me» At 23,11 il narratore: «il Signore gli [= Paolo] disse: ’Coraggio! Come hai testimoniato di ciò che mi concerne a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma’» At 26,16 Paolo citando le parole del Risorto: «ti sono apparso per costituirti servitore e testimone di quelle cose (cioè la visione) in cui mi hai visto» At 26,22 Paolo: «L’aiuto di Dio mi ha assistito fino a questo giorno e ho reso testimonianza agli umili e ai grandi» At 28,23 il narratore: «rendendo la sua testimonianza, egli [Paolo] esponeva loro il Regno di Dio cercando di convincerli riguardo a Gesù, a partire dalla Legge e dei Profeti» Così come gli altri apostoli, Paolo attesta quindi la realtà della risurrezione e della presenza di Gesù alla sua Chiesa. Allora, perché in At 13,31-32 egli non menziona il suo nome tra quelli che hanno incontrato il Risorto?

2.Quando Paolo parla del suo essere testimone?
Ovviamente, nel discorso pronunciato di fronte agli Ebrei di Antiochia di Pisidia, Paolo utilizza il vocabolario dell’annuncio per descrivere il suo ruolo e quello di Barnaba: «Noi vi annunziamo la buona novella …» (v.32). Senza dubbio si tratta di un annuncio evangelico, come lo conferma ampiamente la seconda parte del discorso (v.26-41), che ha tutte le caratteristiche del kerigma primitivo, sottolineando bene che la testimonianza è resa da coloro che «sono saliti con lui [Gesù] dalla Galilea a Gerusalemme». Ovviamente, Paolo non ha seguito Gesù sulle strade della Palestina e non può essere testimone della vita di Gesù come loro. Ma se in seguito il racconto ci dirà che Paolo è vero testimone, perché egli stesso non lo dice durante questo discorso? Possiamo per quanto riguarda la predicazione di Paolo, rilevare nel racconto lucano una vera progressione: (1) poco tempo dopo l’incontro con il Risorto (At 9,20) : annuncio e predicazione segnalate dal narratore, ma senza che il contenuto ne sia offerto al lettore; (2) missione ufficiale (At 13-20) con due discorsi missionari emblematici dei due mondi ai quali si rivolge Paolo, ma senza che Paolo si dichiari testimone: – primo discorso: agli Ebrei di Antiochia (At 13,16-41), – secondo discorso: ai Greci e pagani di Atene (At 17,22-31) (3) prigioniere, accusato, Paolo presenta la sua difesa di fronte a autorità ebree e romane, in diversi discorsi3; egli parla del suo essere testimone di Gesù Cristo in At 22 e 26.
Appaiono chiaramente le scelte del Nr: solo alla fine, quando deve difendersi, Paolo parla di testimonianza: da accusato diventa veramente testimone di Cristo, perché, in fine dei conti, tramite lui, è il Vangelo cioè Cristo stesso che va rigettato e accusato.
Ma il lettore attento non può non vedere la differenza tra il modo in cui Pietro e Paolo si presentano come testimoni. Il primo insiste fortemente sul «noi ne siamo testimoni», mentre il secondo non dice mai: «Io sono testimone», ma si accontenta di riportare ciò che gli ha dichiarato Gesù, tramite Anania o direttamente in visione: «mi è stato detto: ‘sarai testimone’ o ‘mi renderai testimonianza’». Più che all’affidabilità della sua parola, Paolo rinvia a quella che gli ha dato la sua competenza e quindi il dovere di parlare in conseguenza. In breve, il racconto lucano descrive l’evoluzione della testimonianza in Cristo Risorto: dall’attestare la realtà della risurrezione (Pietro), si passa al racconto di un incontro avendo cambiato una vita al punto di esserne il punto di riferimento per eccellenza, per se e per gli altri (Paolo).

Da una testimonianza all’altra

1. Altre dimensioni della testimonianza apostolica
L’episodio di Cornelio (At 10,1 — 11,18) è importante non soltanto perché determina decisamente e definitivamente il futuro della Chiesa — l’ammissione dei pagani avrà conseguenze inaudite, già all’interno del racconto lucano e per il suo snodarsi — ma perché permette agli apostoli di riflettere sulle vie di Dio, e, correlativamente, di rilevare e valutare l’importanza della loro testimonianza.
Ciò che dovrebbe colpire il lettore in quel brano è la ripetizione dei motivi: il narratore non si accontenta di descrivere le visioni di Cornelio (10,3-6) e Pietro (10,9-16), i personaggi del racconto le menzionano anch’essi4. Senza studiare tutti i particolari dell’episodio, andiamo subito al dunque: a Cornelio la voce celeste non notifica nient’altro che di «far venire un certo Simone detto anche Pietro» (10,5). Il messaggio è chiaro: tocca a Pietro e a lui solo parlare di Cristo; la voce, pur essendo celeste non ha voluto sostituirsi all’apostolo, ed è interessante vedere come questo aspetto è narrativamente sottolineato: Cornelio invia subito tre messaggeri (v.7-8), e quando Pietro arriva a casa sua, vede che il centurione lo aspetta da tempo (v.24b), non da solo ma con tutta la famiglia e con molti amici (v.24b. 27); questi sono segni ovvi che per lui e i suoi, la venuta di Pietro ha una importanza decisiva. Se la divinità non ha dunque direttamente rivelato Gesù Cristo a Cornelio ma ha voluto che Pietro lo facesse, è senz’altro per indicare il carattere insostituibile della testimonianza apostolica.
Così la tensione narrativa è orientata verso ciò che Pietro sta per dire. Ora, il lettore, che ha già sentito i lunghi sviluppi kerigmatici dell’apostolo si rallegrerà forse di leggerne uno molto breve, ma deve ammettere che, per i pagani che non hanno mai sentito parlare del Nazareno, questo kerigma è per lo meno conciso; sarebbe stato più che opportuno parlare a lungo della vita di Gesù, delle sue numerose guarigioni, del suo insegnamento, della sua Passione e morte ingiusta, della sua risurrezione e del tempo passato con i discepoli prima di andarsene lassù! Il contrasto tra l’attesa di Cornelio e la performance di Pietro è palese. Si obietterà forse che Luca no vuole indisporre il suo lettore e che si accontenta di riportare per sommi capi ciò che l’apostolo ha detto, a fine di arrivare più presto all’apice della scena, cioè l’effusione dello Spirito. È in parte vero. Ma allo stesso tempo, si deve cogliere la tecnica utilizzata; più che al contenuto del kerigma, senz’altro conosciuto da lui, il lettore deve stare attento al vocabolario della testimonianza che compare massicciamente; una comparsa così densa è unica nel libro degli Atti: v.39 «noi (siamo) testimoni de tutte le cose che egli ha fatte nella regione dei Giudei e a Gerusalemme» v.41 «(Gesù apparve) non a tutto il popolo ma a testimoni, quelli prescelti da Dio» v.42 «(Gesù) ci ha ordinato di proclamare al popolo e di testimoniare che egli è stato designato da Dio come giudice dei vivi e dei morti» v.43 «a lui (Gesù) tutti i profeti rendono questa testimonianza: chiunque crede in lui ottiene la remissione dei peccati per mezzo del suo nome» Tre sono i punti che dovrebbero destare la nostra attenzione: (i) Come già detto sopra, se Pietro dice di essere testimone dell’intero ministero di Gesù (v.39), è perché sta in mezzo a persone che non lo hanno mai visto e che lo conoscono solamente per sentito dire. E ciò significa, l’abbiamo anche indicato, che, secondo Pietro, non possiamo andare al Gesù di Nazareth se non per mezzo del racconto autorevole degli apostoli (condizione necessaria). (ii) La loro testimonianza è anche sufficiente, esclusiva? A dire il vero, Pietro stesso stabilisce una differenza tra la testimonianza riguardante la vita pubblica di Gesù e quella relativa alla sua risurrezione. La prima non è esclusiva; di fatti, se gli apostoli possono (e devono) testimoniare di ciò che hanno visto e udito, non sono stati gli unici a seguire il loro maestro; anche quelli che non appartenevano al loro gruppo possono raccontare gli eventi ai quali hanno partecipato. Ma, per la risurrezione, l’apostolo dichiara esclusiva la loro testimonianza: Gesù apparve «non a tutto il popolo, ma (solo) ai testimoni» accreditati, perché prescelti da Dio stesso (v.41). Per la risurrezione, il riferimento alla testimonianza apostolica è quindi imprescindibile.
Tutt’altra testimonianza che pretenderebbe sostituirla va immediatamente scartata. (iii) A dire il vero, anche riguardo alla risurrezione, la testimonianza apostolica non è esclusiva; Pietro stesso invoca le Scritture profetiche (v.43). Ma il lettore deve rilevare l’ordine nel quale le rispettive testimonianze sono menzionate5: prima gli apostoli, e, solo dopo, le Scritture. Così va stabilita la necessaria complementarità dei due momenti; le Scritture non bastono: senza l’incontro personale con il Risorto, esse rimangono profezie non compiute; ma, senza le profezie, l’annuncio degli Apostoli potrebbe essere ricevuto come quello di uomini stregati, squilibrati o creduli6. Ma c’è di più, l’ordine scelto da Pietro (e dal narratore) veicola una teoria del rapporto tra le due testimonianze: certo, le Scritture sono un testimone da non scartare, ma lo diventano concretamente per mezzo della giusta testimonianza degli Apostoli7. La lettura che loro ne fanno, consente alle Scritture di diventare ciò che devono essere, cioè testimoni del progetto salvifico di Dio per la nostra umanità, progetto annunciato e compiuto in Gesù, suo Figlio. La testimonianza apostolica è quindi essenziale e anteriore (nel senso appena detto8) alle altre forme di testimonianza, perché queste ultime dipendono da essa per essere riconosciute come profezie ordinate a Gesù il Risorto! Altrimenti detto, se l’apostolo non riempie il suo compito, gli altri testimoni non potranno fare altrettanto. La posta in gioco è indiscutibile.
Questi punti chiariti, possiamo tornare al rapporto studiato: in At 10,34-48, la testimonianza di Pietro precede il ‘cadere’ (v.44) dello Spirito su Cornelio e i suoi. Ovviamente, la progressione del testo lascia intendere che l’esito dipende da ciò che deve dire Pietro9: lo Spirito ricevuto è quello di Gesù, quello annunciato dai profeti, ecc. Di fatto, il lettore attento non può non averlo notato, è proprio quando l’apostolo parla della remissione dei peccati (nel nome di Gesù) annunciata dai profeti che lo Spirito di profezia cade sugli ascoltatori! Così va evidenziata la funzione soteriologica della testimonianza.
Se tale è il legame tra testimonianza e dono dello Spirito per il racconto lucano, sorprende tanto più il fatto che Luca non menziona lo Spirito quando Paolo rende testimonianza al Signore (ad es. in At 22 e 26).

2. La testimonianza di Paolo
Abbiamo infatti visto che il libro degli Atti include Paolo tra gli apostoli e i veri testimoni della risurrezione di Gesù. Ma allora perché non va detto che la sua testimonianza è provocata e ispirata dallo Spirito? Paolo non avrebbe ricevuto lo Spirito? Ma il racconto indica bene che, a questo riguardo, quel testimone non ha niente da invidiare agli altri apostoli. Egli ha ricevuto lo Spirito Santo e, sin dall’inizio, sa di averlo ricevuto; di più il suo ministero porta frutti spirituali: Ac 9,17 Anania imponendo le mani a Paolo: «mi ha mandato a te il Signore Gesù, che ti è apparso sulla via, perché … tu sia colmo di Spirito Santo» Ac 13,2 il narratore: «lo Spirito Santo disse (alla comunità riunita): ‘Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati’» Ac 13,4 il narratore: «essi [Paolo e Barnaba] inviati dallo Spirito Santo…» Ac 13,9 il narratore: «allora Saulo, detto ancora Paolo, pieno di Spirito Santo…» Ac 19,6 il narratore: «non appena Paolo ebbe imposto loro le mani, scese su di loro lo Spirito Santo e parlavano in lingue e profetavano» Ac 20,22-23 Paolo agli anziani di Efeso: «avvinto dallo Spirito vado a Gerusalemme… Lo Spirito Santo mi lo attesta: catena e tribolazioni mi aspettano» Questi sono testi indiscutibili. Se Paolo ha pienamente ricevuto lo Spirito, se la sua
testimonianza è autentica, e se, d’altra parte, nel libro degli Atti, testimonianza e Spirito sono indissociabili, perché non si dice che lo Spirito accompagna la sua testimonianza?
Come l’ho già rilevato, che lo Spirito Santo non sia menzionato tra At 21,11 e 28,2510, non significa che non aiuti Paolo ormai prigioniero a testimoniare bene del suo Signore. Per interpretare correttamente il fenomeno, bisogna piuttosto tenere presenti le tecniche lucane. Ora, la prima risposta, senz’altro insufficiente e poco convincente, consisterebbe a dire che i discorsi di At 22-26 non sono kerigmatici, cioè non hanno per funzione di presentare la Passione, la morte e la risurrezione di Gesù per suscitare una risposta di fede e una condotta etica corrispondente. Se, dunque, Spirito e kerigma vanno insieme, l’assenza di un elemento spiegherebbe quella dell’altro. Può darsi, ma il discorso di Stefano in At 7 non ha la forma di un kerigma e la sua finalità non è di suscitare la fede degli ascoltatori; eppure il narratore segnala che il diacono si esprime «pieno di Spirito Santo» (7,55), e Paolo stesso, in At 22, conferma che il discorso del diacono è stato una testimonianza vera e definitiva, perché compiuta con la morte: «quando si versava il sangue di Stefano, tuo testimone, anch’io ero presente». La forma non kerigmatica dei discorsi di Paolo in At 22-26 non basta a spiegare perché i vocaboli Vangelo/evangelizzare non vi compaiono.
È invece istruttivo vedere come il racconto prepara il lettore a non vedere più menzionato lo Spirito Santo durante la Passione di Paolo. Infatti, in At 20 e 21, Paolo dice che lo Spirito l’ha avvertito delle sue tribolazioni (20,23); in altre parole, il narratore ci fa capire che, come Gesù11, così Paolo annunzia la sua Passione; ma è chiaro, e la synkrisis lo esige, Paolo la vivrà come il suo Signore, nell’insicurezza, la precarietà e la povertà; lo Spirito di profezia si manifesta proprio prima della Passione, una ultima volta in At 21,11, per indicare che egli non si manifesterà più con la forza per mezzo della quale era finora riconosciuto: l’apostolo sta per essere avvinto, circondato, minacciato, così come il suo Signore. Lo Spirito non si manifesta più con fenomeni straordinari, pur proteggendo efficacemente Paolo attraverso le sue vicende.
Il lettore non si stupirà quindi di sentire l’apostolo, in At 22 e 26 riportare le parole con le quali il Risorto si presenta a lui: «sono Gesù (il Nazareno) che perseguiti»12; quando perseguitava i discepoli, Paolo perseguitava in realtà Gesù stesso, e adesso, perseguitando Paolo, i giudei ai quali si rivolge fanno lo stesso: per la bocca di Paolo è Gesù stesso, perseguitato, che è riconoscibile! Paolo testimonia veramente del suo Signore perché vive la stessa Passione: egli testimonia del Risorto nel patire; anzi, il suo patire è quello del Risorto. La testimonianza raggiunge così il suo apice perché è vissuta, non soltanto enunciata.

3. La testimonianza di Paolo e la nostra
In At 22 e 26, la descrizione che Paolo fa del Risorto è breve, così come le parole stesse di Gesù che d’altronde si accontenta di citare. Non dice niente sulla vita di Gesù, niente su ciò che gli è stato rivelato del mistero del Figlio di Dio. L’apostolo insiste piuttosto sulla trasformazione provocata da questo incontro. Tutta la sua vita ne è stata radicalmente cambiata. Per lui, testimoniare significa quindi raccontare l’itinerario di una conversione, di un amore ricevuto e proclamato. La vita di Paolo è diventata testimonianza, perché raccontandola egli rivela allo stesso tempo il perdono e l’amore del suo Signore: annunciarlo significa allora raccontare ciò che gli è successo, il cammino suo, ecc.
Così il narratore degli Atti fa capire al suo lettore il tipo di testimonianza richiesto da lui, lettore, che, come Paolo, non ha conosciuto Gesù sulle strade di Galilea e Giudea. Certo, la nostra testimonianza non si sostituisce a quella degli apostoli, ma la loro, pur rimanendo un punto di riferimento necessario, può avere la forza dimostrativa e attiva solo se i credenti di tutti i tempi possono testimoniare del loro incontro personale con Cristo e di ciò che quell’incontro ha cambiato nella loro vita.

Conclusione
Il narratore del libro degli Atti espone dunque una originale teoria sulla testimonianza. Spero di aver mostrato, seguendolo e mettendo in rilievo le sue tecniche, che egli ci indica il cammino che porta ogni credente a testimoniare e, allo stesso tempo, il cammino che ogni testimonianza fa fare, quando nell’estrema precarietà e nelle le catene il discepolo sperimenta la gioia della vera libertà.
1 Uno studio del rapporto tra i campi lessicali del Vangelo e della testimonianza negli Atti è qui escluso. Certo, se tutti e due i campi hanno come oggetto Cristo, insistono nondimeno su aspetti diversi: il Vangelo designa il contenuto dell’annuncio, e la testimonianza connota piuttosto l’impegno degli araldi (la loro convinzione, fino alla morte, ecc.) nonché la loro veracità (e quindi la validità dell’annuncio). D’altronde, se si considera lo snodarsi del racconto, è possibile dire che il testimoniare è più esteso dell’evangelizzare): infatti, il vocabolario del Vangelo scompare dopo At 20,24 (o 21,8), mentre quello della testimonianza va fino alla fine del libro (cf.At 28,23). Questa differenza viene senz’altro dal fatto che, per il racconto, la missione di evangelizzazione effettuata da Paolo finisce (ufficialmente) in At 20. Con il suo arresto nel Tempio inizia, come lo vedremo, un altro modello di testimonianza, determinato dalla situazione di prigioniero e dal tipo di discorsi (difese nei tribunali, ecc.) che essa implica.

2 Vedere ad esempio At 2,32-33; 5,32.

3 At 22,1-21; 24,10-21; 26,2-23
4 Visione di Cornelio descritta dal narratore (10,3-6) visione di Pietro descritta dal narratore (10,9-16); visione di Cornelio riferita dagli inviati di Cornelio (10,22); visione di Cornelio presentata da Cornelio stesso (10,30-32); visione di Pietro narrata da Pietro stesso (11,5-10); visione di Cornelio presentata da Pietro (11,13-14).
5 Questo non è casuale, come lo si può verificare a partire da At 2,32-36 (la testimonianza apostolica precede il ricorso alle Scritture), 13,31-39 (id.).
6 Sul rapporto tra esperienza e coerenza, mi permetto di rinviare al mio saggio, L’arte di raccontare Gesù Cristo. La scrittura narrativa del vangelo di Luca, Queriniana. Brescia 1991, 151-169.
7 Che questa teoria non sia ancora presente nelle formule kerigmatiche antichissime, brani come 1 Cor 15,3-5 lo confermano.
8 Cioè come testimonianza, perché cronologicamente le Scritture sono ovviamente di molto anteriori agli eventi descritti nel libro degli Atti.
9 Cornelio dice all’apostolo che tutti sono pronti «ad ascoltare tutte le cose ordinate a te dal Signore» (v.33). Ma il Signore non ha dettato niente a Pietro, il quale non deve recitare un discorso ‘premasticato’. L’opinione
(sbagliata) di Cornelio ha per funzione di sottolineare l’importanza della testimonianza di Pietro: non è lui ad
aver deciso di parlare, ma è il Signore stesso che richiede, per la bocca di Cornelio (cioè di chi ne ha bisogno) la sua testimonianza riguardante Gesù.

10 In At 23,8.9 il vocabolo pneuma non designa lo Spirito Santo.
11 Lc 9,22; 9,43-45; 18,31-34.
12 At 22,8 e 6,15 (‘il nazareno’ manca in 26,15).

PAPA FRANCESCO: « L’INTERPRETAZIONE DELLA BIBBIA NON È UN SFORZO INDIVIDUALE, MA INSERITA NELLA TRADIZIONE »

http://www.zenit.org/it/articles/l-interpretazione-della-bibbia-non-e-un-sforzo-individuale-ma-inserita-nella-tradizione

« L’INTERPRETAZIONE DELLA BIBBIA NON È UN SFORZO INDIVIDUALE, MA INSERITA NELLA TRADIZIONE »

PAPA FRANCESCO RICEVE IN UDIENZA I MEMBRI DELLA PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA CON IL PRESIDENTE MONS. GERHARD LUDWIG MÜLLER

CITTA’ DEL VATICANO, 12 APRILE 2013 (ZENIT.ORG)

Alle ore 12 di oggi, nella Sala dei Papi del Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Francesco riceve in Udienza i Membri della Pontificia Commissione Biblica con il Presidente S.E. Mons. Gerhard Ludwig Müller, al termine dell’Assemblea plenaria sul tema « Ispirazione e verità della Bibbia ». Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa rivolge ai presenti nel corso dell’incontro:

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Eminenza,
Venerato Fratello,
cari Membri della Pontificia Commissione Biblica,

sono lieto di accogliervi al termine della vostra annuale Assemblea plenaria. Ringrazio il Presidente, Arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, per l’indirizzo di saluto e la concisa esposizione del tema che è stato oggetto di attenta riflessione nel corso dei vostri lavori. Vi siete radunati nuovamente per approfondire un argomento molto importante: l’ispirazione e la verità della Bibbia. Si tratta di un tema che riguarda non soltanto il singolo credente, ma la Chiesa intera, poiché la vita e la missione della Chiesa si fondano sulla Parola di Dio, la quale è anima della teologia e, insieme, ispiratrice di tutta l’esistenza cristiana.
Come sappiamo, le Sacre Scritture sono la testimonianza in forma scritta della Parola divina, il memoriale canonico che attesta l’evento della Rivelazione. La Parola di Dio, dunque, precede ed eccede la Bibbia. E’ per questo che la nostra fede non ha al centro soltanto un libro, ma una storia di salvezza e soprattutto una Persona, Gesù Cristo, Parola di Dio fatta carne.
Proprio perché l’orizzonte della Parola divina abbraccia e si estende oltre la Scrittura, per comprenderla adeguatamente è necessaria la costante presenza dello Spirito Santo che «guida a tutta la verità» (Gv 16,13). Occorre collocarsi nella corrente della grande Tradizione che, sotto l’assistenza dello Spirito Santo e la guida del Magistero, ha riconosciuto gli scritti canonici come Parola rivolta da Dio al suo popolo e non ha mai cessato di meditarli e di scoprirne le inesauribili ricchezze.
Il Concilio Vaticano II lo ha ribadito con grande chiarezza nella Costituzione dogmatica Dei Verbum: «Tutto quanto concerne il modo di interpretare la Scrittura è sottoposto in ultima istanza al giudizio della Chiesa, la quale adempie il divino mandato e ministero di conservare e interpretare la parola di Dio» (n. 12).
Come ci ricorda ancora la menzionata Costituzione conciliare, esiste un’inscindibile unità tra Sacra Scrittura e Tradizione, poiché entrambe provengono da una stessa fonte: «La sacra Tradizione e la Sacra Scrittura sono strettamente congiunte e comunicanti tra loro. Ambedue infatti, scaturendo dalla stessa divina sorgente, formano, in un certo qual modo, una cosa sola e tendono allo stesso fine. Infatti, la Sacra Scrittura è Parola di Dio in quanto è messa per iscritto sotto l’ispirazione dello Spirito Santo; invece la sacra Tradizione trasmette integralmente la Parola di Dio, affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli Apostoli, ai loro successori, affinché questi, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano. In questo modo la Chiesa attinge la sua certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Sacra Scrittura. Perciò l’una e l’altra devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e di riverenza» (ibid., 9).
Ne consegue pertanto che l’esegeta dev’essere attento a percepire la Parola di Dio presente nei testi biblici collocandoli all’interno della stessa fede della Chiesa. L’interpretazione delle Sacre Scritture non può essere soltanto uno sforzo scientifico individuale, ma dev’essere sempre confrontata, inserita e autenticata dalla tradizione vivente della Chiesa. Questa norma è decisiva per precisare il corretto e reciproco rapporto tra l’esegesi e il Magistero della Chiesa. I testi ispirati da Dio sono stati affidati alla Comunità dei credenti, alla Chiesa di Cristo, per alimentare la fede e guidare la vita di carità.
Il rispetto di questa natura profonda delle Scritture condiziona la stessa validità e l’efficacia dell’ermeneutica biblica. Ciò comporta l’insufficienza di ogni interpretazione soggettiva o semplicemente limitata ad un’analisi incapace di accogliere in sé quel senso globale che nel corso dei secoli ha costituito la Tradizione dell’intero Popolo di Dio, che «in credendo falli nequit» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost dogm. Lumen gentium, 12).
Cari Fratelli, desidero concludere il mio intervento formulando a tutti voi i miei ringraziamenti e incoraggiandovi nel vostro prezioso lavoro. Il Signore Gesù Cristo, Verbo di Dio incarnato e divino Maestro che ha aperto la mente e il cuore dei suoi discepoli all’intelligenza delle Scritture (cfr Lc 24,45), guidi e sostenga sempre la vostra attività.
La Vergine Maria, modello di docilità e obbedienza alla Parola di Dio, vi insegni ad accogliere pienamente la ricchezza inesauribile della Sacra Scrittura non soltanto attraverso la ricerca intellettuale, ma nella preghiera e in tutta la vostra vita di credenti, soprattutto in quest’Anno della fede, affinché il vostro lavoro contribuisca a far risplendere la luce della Sacra Scrittura nel cuore dei fedeli. E augurandovi un fruttuoso proseguimento delle vostre attività, invoco su di voi la luce dello Spirito Santo e imparto a tutti voi la mia Benedizione.

Santi Pietro e Paolo

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L’ AMORE DI DIO SI SPINGE ALLA CONVERSIONE – 2008 INAUGURAZIONE DELL’ANNO PAOLINO

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L’ AMORE DI DIO SI SPINGE ALLA CONVERSIONE -   2008  INAUGURAZIONE DELL’ANNO PAOLINO

(da qumran.net, materiale pastorale, non capisco chi è l’autore…)

Mi auguro che l’intuizione del Pontefice Benedetto XVI di inaugurare lo scorso 28 giugno 2008 un Anno da dedicare all’Apostolo delle Genti san Paolo, possa costituire per tutti, nella Chiesa un’occasione di riflessione seria e attenta su argomenti formativi che esulino dalle consuetudini della devozione a volte vacua e meschina che non di rado si trasforma in devozionismo sterile, anche considerando la grande importanza che questo illustre personaggio della prima cristianità assume per la nostra fede e per il nostro spirito di devozione anche al nostro Santo Padre Fondatore, vorrei che mi concedeste la vostra attenzione su una riflessione intorno all’insegnamento dell’Apostolo, ai suoi moniti, alla sua figura, queste messe in relazione diretta con il carisma della penitenza e la conversione interiore
I riferimenti per creare un serio e certo accostamento fra il pensiero di Paolo, la teologia penitenziale, ma la prima pedagogia paolina che a questo proposito mi viene in mente la si desume in un piccolo ma molto significativo passo della Lettera ai Romani: “La benignità di Dio ci spinge alla conversione” (Rm 2, 4)
Un riferimento molto eloquente, che racchiude tutto il pensiero di questo grande apostolo intorno alla penitenza; egli infatti in questo contesto esorta al ravvedimento dalle cattive azioni, alla fuga dai giudizi illeciti e dai preconcetti, sprona al buon esempio e alla pratica della sincerità cristiana non senza però sottolineare che la motivazione fondamentale per cui valga la pena assumere un serio atteggiamento di coerenza risiede innanzitutto nell’amore di Dio: è stato Lui per primo a chiamare l’Apostolo alla comunione con sè, non già attraverso la minaccia o la costrizione, la punizione o la coazione esteriore della sua onnipotenza, ma manifestando semplicemente la sua benevolenza nei confronti dell’uomo ed è appunto nell’amore e in forza dell’amore che Dio chiama tutti a conversione. Nella pericope è eloquente la dicotomia fra l’agire dell’uomo che procede lontano dall’amore di Dio e l’intervento divino che supera la presunzione e l’indifferenza dell’uomo: Dio cerca il bene dell’uomo, esprime senza riserve la sua benevolenza e imprime la vita umana con le prerogative del suo amore, ma allo stesso tempo sottolinea che anche dall’uomo si richiede la consapevolezza che non tutto quello che egli fa è approvato da Dio, ma che l’amore deve spingerci piuttosto a cambiare vita. Dio ci chiama a sé perché ci ama e l’amore di Dio fonda la gratuità del Suo intervento nei nostri confronti perché noi possiamo cambiare e orientarci in vista di Lui. Nessun cambiamento della persona e delle intenzioni soggettive, nessun fenomeno di conversione è possibile se non in conseguenza del palesamento diretto dell’amore di Dio.

I – BREVE PROFILO DI PAOLO

Nella vita dell’Apostolo Paolo, che è possibile avere delineata nell’intero libro degli Atti degli Apostoli, si nota improvvisa ma determinante e fulminea, una radicale trasformazione di pensieri, convinzioni, intenti e azioni che scaturisce nient’altro che dall’amore di Dio che radicalmente trasforma il cuore temerario di un perfido apostolo del Giudaismo per orientare la sua stessa intraprendenza nella difesa convinta e attenta del cristianesimo. Il libro lucano degli Atti vede Paolo in un primo momento approvare la lapidazione di Stefano ed esternare tutta la sua foga contro le comunità cristiane che sono da lui visitate perché i suoi membri ne vengano trascinati fuori per essere messi in prigione (At 7, 58; 8, 1 – 3); lo zelante persecutore nonché futuro apostolo non manca di mostrare fondata e convinta efferatezza e spietatezza, mosso dallo zelo esplosivo che lo conduce ad ostracizzare e a reprimere con ogni mezzo qualsiasi cosa si opponga alla religione Giudaica, essendo questa probabilmente l’unica motivazione fontale e fondante della sua vita e del suo ministero. La deliberazione per il Giudaismo la cui tendenza religiosa e culturale scaturisce dallo stessa sua famiglia che in lui lo ha incusso sin dalla prima infanzia, lo conduce alla battaglia contro il cristianesimo con ogni mezzo e senza esclusione di colpi e ad una instancabile ed estenuante opera anticristiana per la quale sarà sempre visto con orrore e paura dai discepoli del Signore Gesù Cristo anche dopo l’avvenuta conversione.
Come osserva Rinaldo Fabris, Paolo rivendica la sua origine e appartenenza ebraica, come quando afferma di essere stato “circonciso all’ottavo giorno” secondo quelle che erano le prescrizioni della Legge del Levitico e si definisce della stirpe di Israele e della tribù di Beniamino (Rm 11, 1). Del resto la sua origine familiare lo aveva condotto ad abbracciare il Giudaismo sin dalla sua nascita, avvenuta a Tarso probabilmente intorno agli anni 5 – 10 d.C.
Gettando uno sguardo sulla sua situazione familiare, possiamo affermare che Paolo è nato a Tarso, una città florida e fiorente dell’Asia Minore, corrispondente all’attuale Turchia sud orientale; era di famiglia ebraica ma il padre, forse per un accordo o una convenzione, aveva acquistato la cittadinanza romana sia per lui che per tutta la famiglia. Nel libro degli Atti Luica dimostrerà che questa cittadinanza Paolo la aveva sin dalla nascita e che gli permetterà di appellarsi all’Imperatore e di non subire maltrattamenti (At 16, 37 – 39; 22, 25 – 29; 25, 10 – 12). Nella prima fanciullezza viene istruito sulla lingua greca, soprattutto per la lettura della Bibbia, ma la formazione sua propria era sempre stata quella del Giudaismo e della formazione ebraica, che approfondirà successivamente a Gerusalemme come allievo di Gamaliele (At 22, 3). Secondo alcuni studiosi moderni Paolo sarebbe stato sposato e poi separato dalla consorte e in seguito non avrebbe più avuto interesse a contrarre nuovo matrimonio, ma altri lo vedono celibe, specialmente nella lettura della 1 Corinzi cap. 7, dove esalta la situazione di vita singolare e celibataria in vista del Vangelo. Proprio a Gerusalemme, dove viene iniziato anche al mestiere di fabbricatore di tende che intraprenderà sempre come attività per il suo sostentamento personale nonostante i diritti che il Vangelo gli concede, si forma alla rigidità della Legge Mosaica e allo zelo rabbinico per la Scrittura ebraica secondo la scuola dei farisei, che lo porterà ad essere estremo sostenitore del giudaismo fino alla persecuzione e all’aborrimento di tutto quello che giudaico non era, specialmente della nuova fede cristiana.
Egli stesso si definirà successivamente “quanto a zelo persecutore della Chiesa” (Fil 3, 6), “Neanche degno di essere chiamato apostolo per aver perseguitato la Chiesa di Dio ( 1Cor 15, 9) e nel ricordare i tempi della sua avversione contro la comunità cristiana proverà grande emozione mista a commozione e gioia nella considerazione del primato della grazia che lo ha poi plasmato come apostolo zelantissimo. Sarà sempre cosciente del prima e del poi del suo rapporto con Cristo: “Ero prima un persecutore e un violento”(1 Tm 1, 13), perché animato dallo zelo per la tutela della sua religione ebraica e per la sua diffusione, per la quale affermerà di aver addirittura superato nel giudaismo i suoi correligionari accanito com’era nel sostenere le tradizioni dei Padri (Gal 1, 13 – 14).
Nei capitoli 22 e 26 del libro degli Atti, narrando i particolari della sua conversione a Cristo sulla via di Damasco, Paolo tratteggia con estrema limpidezza le tristezze del suo passato da avversario della Chiesa nascente in nome di una dottrina da sempre ritenuta valida e indiscutibile e per la quale era convinto che ci si dovesse battere a tutti i costi:
“Ed egli continuò: « Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città, formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi. 4 Io perseguitai a morte questa nuova dottrina, arrestando e gettando in prigione uomini e donne, 5 come può darmi testimonianza il sommo sacerdote e tutto il collegio degli anziani. Da loro ricevetti lettere per i nostri fratelli di Damasco e partii allo scopo di condurre anche quelli di là come prigionieri a Gerusalemme, per essere puniti.” (At 22, 3 – 5)
“La mia vita fin dalla mia giovinezza, vissuta tra il mio popolo e a Gerusalemme, la conoscono tutti i Giudei; 5 essi sanno pure da tempo, se vogliono renderne testimonianza, che, come fariseo, sono vissuto nella setta più rigida della nostra religione. 6 Ed ora mi trovo sotto processo a causa della speranza nella promessa fatta da Dio ai nostri padri, 7 e che le nostre dodici tribù sperano di vedere compiuta, servendo Dio notte e giorno con perseveranza. Di questa speranza, o re, sono ora incolpato dai Giudei! 8 Perché è considerato inconcepibile fra di voi che Dio risusciti i morti? 9 Anch`io credevo un tempo mio dovere di lavorare attivamente contro il nome di Gesù il Nazareno, 10 come in realtà feci a Gerusalemme; molti dei fedeli li rinchiusi in prigione con l`autorizzazione avuta dai sommi sacerdoti e, quando venivano condannati a morte, anch`io ho votato contro di loro. 11 In tutte le sinagoghe cercavo di costringerli con le torture a bestemmiare e, infuriando all`eccesso contro di loro, davo loro la caccia fin nelle città straniere.” (At 26, 4 – 11)

Ma come lui stesso aggiunge sempre dopo aver descritto la sua posizione di persecutore e di violento, il protagonismo della gratuità della grazia di Dio lo ha chiamato a radicale mutazione della sua persona e dei suoi intenti in vista di Cristo.
E’ stato infatti l’intervento diretto della grazia straordinaria dello stesso Cristo che ha determinato il radicale cambiamento di Paolo da persecutore a difensore della Chiesa, attraverso quella famosa apparizione del Signore Gesù Cristo che viene a visitarlo sulla via di Damasco (At 9. 1 – 19), della quale egli si riterrà talmente indegno da identificarsi ad un “aborto”.
Oltre che di conversione, questo episodio, ripetuto per ben tre volte nel libro degli Atti ( At 9, 1 – 19; 22, 6 – 16 ; 26, 12 – 18) racconta anche e soprattutto di vocazione: egli stesso anzi, si qualificherà “Servo di Gesù Cristo, apostolo per vocazione, prescelto per annunciare il vangelo di Dio” (Rm 1,1) o anche “per volontà di Dio” (1 Cor 1,1), soprattutto quando dovrà difendersi dalle accuse di non essere meritorio del suo ministero. Che si tratti più di vocazione che di conversione è parere anche di alcuni critici, anche perché in Paolo non cambierà sostanzialmente lo zelo per la Parola di Dio, ma questo verrà orientato in modo differente (convertirsi vuol dire infatti trasformare radicalmente se stessi) tuttavia il radicale cambiamento avvenuto nella persona dell’apostolo, i ripetuti riferimenti alla “metanoia” e il protagonismo di Dio nella sua vicenda ci autorizzano a parlare anche di conversione.
Paolo viene infatti quasi “catturato” (Fil 3. 12) dallo stesso Cristo che da lui era perseguitato e a che adesso sfrutterà il suo stesso zelo operativo a vantaggio dei suoi discepoli. Il Signore che lui riconosce in quella circostanza come tale mentre gli domanda “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti”, lo chiama ad instaurare con lui una nuova relazione di vita, un nuovo rapporto che sarà non più di tensione e di ostilità ma di fiducia e di reciproca stima.

II – DAMASCO E LA CENTRALITA’ DI CRISTO

L’incontro damasceno segna la svolta radicale della vita di Paolo e delle sue posizioni, al punto che quello che prima era per lui detestabile adesso è oggetto dei suoi interessi e del suo zelo operativo mentre quello che prima era determinate e irrinunciabile diventa invece deprezzabile, addirittura al rango di “spazzatura” per lasciare spazio al primato di Gesù Cristo che lo ha appena “afferrato”; il verbo greco di cui Fil 3, 12 è “katalambano”, che vuol dire “catturare”, “conquistare” alla stregua di qualcosa che si acquista non senza difficoltà o che si strappa con la forza esprime il protagonismo dello stesso Gesù che ha voluto intervenire radicalmente nella persona di quest’uomo per poterla trasformare secondo piani del tutto differenti e infatti Paolo non mancherà di preconizzare la centralità del mistero di Cristo come primo artefice della sua radicale trasformazione ed è in primo luogo la cristologia staurocentrica, incentrata sulla croce, quella che l’apostolo affermerà essere la rampa di lancio di tutto il suo pensiero rinnovato, anche se di fatto la croce non sussiste mai se non in vista della resurrezione perché il Cristo morto è pur sempre quello risorto che non muore più; del resto “se Cristo non è risorto è vana la nostra predicazione, vana è la nostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati” (1 Cor 15, 17).
In forza di questa missione, egli rivendicherà per se stesso l’appellativo di apostolo, motiverà le sue scelte e si mostrerà “dimentico del passato e proteso verso il futuro” (Fil 3, 13)
Ma quel che conta sottolineare è come lui riscontri che Dio in Cristo abbia manifestato la suo potenza predilettiva e come lui debba molto a quell’incontro con il Risorto.
Infatti nella lettera ai Galati afferma espressamente “Vi dichiaro dunque, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo. Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei connazionali e coetanei, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando colui che mi scelse fin dal senso di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunciassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo,senza andare a Gesrusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi tornai a Damasco. “(Gal 1, 11 – 17)
Si tratta di uno dei passi più significativi nella descrizione della vocazione di Paolo nel quale si intravede la libera iniziativa di Dio che manifesta al nuovo apostolo il suo Figlio; espressioni quali “mi scelse”, “mi chiamò” e si compiacque” riferite a Cristo medesimo rafforzano il valore della gratuità della chiamata a una nuova dimensione di vita glielo rivela prima di tutto perché ne faccia egli stesso esperienza e poi perché si disponga a recarne l’annuncio a tutte le genti. Prima la familiarità con Cristo per volere di Dio, poi la missione caratterizzano questa svolta apostolica in Paolo.
La meraviglia di questo avvenimento sulla via di Damasco, infatti, è che Cristo gli si presenta come un amico che conosce bene le sue qualità, la sua tempra, il dinamismo e la tenacia che lo hanno sempre caratterizzato e che costituiscono in lui un grande patrimonio personale da sfruttare al meglio verso altre direzioni, e pertanto non esita prima di tutto a proporglisi personalmente per poi immediatamente mostrargli nel dialogo e nella mutua confidenza tutta la sua stima e la fiducia nelle sue possibilità. In verità Luca nel libro degli Atti degli Apostoli riporta un particolare ben preciso, ossia che Paolo “cade per terra” quando si trova alla presenza improvvisa di Gesù”; atto questo che è proprio della piccolezza dell’uomo di fronte alla grandezza di Dio: il cadere a terra nella Scrittura indica infatti la reazione umana di fronte alla manifestazione di Dio che era propria per esempio in Daniele (capp. 8 e 10) e anche nell’episodio Giovanneo della cattura e dell’arresto di Gesù (“Indietreggiarono e caddero a terra” Gv 18, 6). Altri elementi teofanici propri dell’Antico Testamento si riscontrano anche nel fulgore e nella luce che acceca, e pertanto Paolo rileva in Cristo la grandezza di Dio che lo sta chiamando e riconosce immediatamente che il Signore che poco prima aveva ignominiosamente perseguitato era il Dio della gloria incommensurabile rispetto all’uomo; ciò nondimeno riscontra che Gesù si identifica immediatamente con i suoi discepoli perseguitati e questo gli fa avere un concetto estensivo e significativo del Signore e contemporaneamente anche della Chiesa da lui fondata che sussiste nella persona dei battezzati e redenti.
. In più, nelle parole e nelle indicazioni pratiche di Gesù percepisce di essere oggetto di fiducia e per ciò stesso si convince del suo amore e quando arriva a Damasco, di fronte ad Anania, riapre gli occhi, non soltanto quelli fisici, alla comprensione della vanità della sua vita precedente, alla considerazione dell’inutilità di quanto stava prima operando contro i discepoli di Cristo e alla necessità di una radicale trasformazione in senso opposto della sua vita.
Come si notava poc’anzi, Luca non si limita al solo capitolo 9 del libro degli Atti per parlare dell’incontro fra Paolo e Cristo, ma riporta l’episodio anche al cap 22, 1 – 21 e 26, 12 – 19. Vale la pena stendere un raffronto fra le tre versioni:

Atti 9, 1 – 9:

Saulo frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote 2 e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati. 3 E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all`improvviso lo avvolse una luce dal cielo 4 e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: « Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? ». 5 Rispose: « Chi sei, o Signore? ». E la voce: « Io sono Gesù, che tu perseguiti! 6 Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare ». 7 Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la voce ma non vedendo nessuno. 8 Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco, 9 dove rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda.

Atti 22, 6 – 21

Mentre ero in viaggio e mi avvicinavo a Damasco, verso mezzogiorno, all`improvviso una gran luce dal cielo rifulse attorno a me; 7 caddi a terra e sentii una voce che mi diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? 8 Risposi: Chi sei, o Signore? Mi disse: Io sono Gesù il Nazareno, che tu perseguiti. 9 Quelli che erano con me videro la luce, ma non udirono colui che mi parlava. 10 Io dissi allora: Che devo fare, Signore? E il Signore mi disse: Alzati e prosegui verso Damasco; là sarai informato di tutto ciò che è stabilito che tu faccia. 11 E poiché non ci vedevo più, a causa del fulgore di quella luce, guidato per mano dai miei compagni, giunsi a Damasco. 12 Un certo Anania, un devoto osservante della legge e in buona reputazione presso tutti i Giudei colà residenti, 13 venne da me, mi si accostò e disse: Saulo, fratello, torna a vedere! E in quell`istante io guardai verso di lui e riebbi la vista. 14 Egli soggiunse: Il Dio dei nostri padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua stessa bocca, 15 perché gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito. 16 E ora perché aspetti? Alzati, ricevi il battesimo e lavati dai tuoi peccati, invocando il suo nome. 17 Dopo il mio ritorno a Gerusalemme, mentre pregavo nel tempio, fui rapito in estasi 18 e vidi Lui che mi diceva: Affrettati ed esci presto da Gerusalemme, perché non accetteranno la tua testimonianza su di me. 19 E io dissi: Signore, essi sanno che facevo imprigionare e percuotere nella sinagoga quelli che credevano in te; 20 quando si versava il sangue di Stefano, tuo testimone, anch`io ero presente e approvavo e custodivo i vestiti di quelli che lo uccidevano. 21 Allora mi disse: Và, perché io ti manderò lontano, tra i pagani ».

Atti 26, 12 – 19

…in tali circostanze, mentre stavo andando a Damasco con autorizzazione e pieni poteri da parte dei sommi sacerdoti, verso mezzogiorno 13 vidi sulla strada, o re, una luce dal cielo, più splendente del sole, che avvolse me e i miei compagni di viaggio. 14 Tutti cademmo a terra e io udii dal cielo una voce che mi diceva in ebraico: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Duro è per te ricalcitrare contro il pungolo. 15 E io dissi: Chi sei, o Signore? E il Signore rispose: Io sono Gesù, che tu perseguiti. 16 Su, alzati e rimettiti in piedi; ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora. 17 Per questo ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando 18 ad aprir loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio e ottengano la remissione dei peccati.

Come afferma anche Bruno Maggioni, le differenze di racconto nei testi di Luca (anche il Vangelo) non sono casuali, ma tendono ad avallare un concetto determinato; in questo caso Luca intende sottolineare che il primato della grazia di Cristo e la familiarità con lo stesso Signore sono alla base di tutta la vita e del pensiero di colui che successivamente verrà definito l’apostolo dei pagani: al capitolo 26 infatti, a differenza che nel cap 9, sembra che sia lo stesso Cristo ad impostare la missione di Paolo d’ora in avanti, perché determina egli stesso quanto lui dovrà operare e lo fa categoricamente e in modo diretto e tassativo, quasi ricordando la chiamata a cui sono soggetti tanti profeti dell’Antico Testamento: “Su, alzati e rimettiti in piedi, ti sono apparso per costituirti ministro di quelle cose per le quali ti sono apparso e ti apparirò ancora. Ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando ad aprire loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di Satana a Dio.” (vv 16 – 18).
Che un Giudeo radicale possa diventare apostolo presso i pagani non deve attribuirsi ad opera umana e pertanto non può che corrispondere ad un dono della chiamata di Dio che Paolo sia diventato poi apostolo dei Gentili per uno specifico progetto cristiano, pertanto Luca sottolinea che solo in forza del cambiamento operato da Cristo Paolo è potuto diventare quello che è diventato e che la grazia è un dono gratuito da accogliere e verso il quale mostrarsi riconoscenti: la salvezza viene da Dio e solo Cristo redime e salva.
Come afferma qualcuno, la trasformazione di Paolo avviene tuttavia in senso teologico e non già in senso morale. Paolo infatti, sia pure nella forma differente, continuerà a manifestare lo stesso zelo per il Signore non muterà lo spirito di dedizione e di attenzione con cui è sempre stato solito adempiere ogni lavoro; manterrà inalterata la sua veemenza, puntualità e prontezza nell’agire, confermando le prerogative dello zelo e dell’intraprendenza che lo hanno sempre caratterizzato come persona e anche il suo carattere, che parecchi studiosi descrivono come impulsivo, focoso e a volte anche irascibile e intrattabile (vedi la lite con Barnaba nello stesso libro degli Atti) resterà invariato. Ma in virtù della nuova dimensione amicale instaurata con Cristo, nella misura in cui prima orientava tutte queste caratteristiche in senso persecutorio contro la Chiesa, adesso si muoverà concitatamente in difesa della comunità cristiana e alla propagazione della salvezza voluta da Dio nello stesso Cristo. Nella misura in cui anteriormente si mostrava accanito nel difendere le tradizioni dei suoi padri superando anche i migliori fra i Giudei (Gal 1, 13 – 14) così adesso primeggerà su tutti nella propagazione del messaggio di salvezza di Cristo di cui egli stesso è stato il primo destinatario.
Una conversione insomma molto commovente e sentita che scaturisce da un processo vocazionale che attesta alla chiamata personale da parte del Signore e questa avviene sempre in forza dell’amore che Dio ha nei nostri riguardi come appunto ha mostrato nei confronti dell’Apostolo; sicchè la conversione di Paolo scaturisce in definitiva dall’amore di Dio e produce nel suo cuore le reazioni dell’amore riconoscente da parte dello stesso Paolo nei confronti di Dio. L’amore di Dio in Cristo ha avuto il sopravvento sulla malvagità e ha determinato un radicale cambiamento di vita e adesso diventa motivo di corrispondenza nella concretezza dell’amore di riconoscenza.
Come scrive Vanhoye, “La vocazione non è basata sulla nostra dignità previa: occorre piuttosto dire che la vocazione ci conferisce la nostra dignità. Dio, cioè, si è degnato per puro amore di mettersi in rapporto personale con noi e reciprocamente di metterci in relazione personale con lui.”; e infatti lo stesso Paolo riconoscerà sempre che la sua chiamata è stata espressione di un atto di gratuità divina che si giustifica solo con l’amore altrettanto gratuito e immediato che Dio ha nei confronti dell’uomo e d è pertanto l’amore di Dio il primo protagonista della vicenda della nostra storia personale nella quale nulla avviene per caso, ma è anche possibile un ribaltamento radicale della situazione, una grande svolta epocale che caratterizzi per sempre la nostra vita come per l’Apostolo ha voluto determinare il dinamismo della fede e dell’amore proprio dove esso era orientato verso l’odio e l’intolleranza. Per questo l’apostolo medesimo si definisce tale “per vocazione prescelto per annunziare il vangelo di Dio” (Rm 1, 1) e la chiamata di Dio è per lui ingiungibile dalla caratteristica missione dell’apostolo, essendo questa fondata sulla vocazione e il dato rilevante è che tale chiamata si fonda nient’altro che sull’amore di Dio, come egli stesso afferma: chiamato per Grazia (Gal 1, 1 e ss).

III – LA BENIGNITA’ DI DIO

Paolo quindi parla per esperienza personale quando afferma che “la benignità di Dio ci sprona alla conversione” (Rm 2, 4) perché riferisce nel suo insegnamento di essere stato chiamato alla conversione nient’altro che dall’amore di Dio nei suoi riguardi e che qualsiasi iniziativa di conversione divina è sempre un grande atto di amore e de benevolenza da parte dello stesso Signore che cerca l’uomo in tutti i meandri della propria perdizione; Dio mostra la sua volontà di riconciliazione con noi soprattutto attraverso la concretezza del suo amore e della sua bontà e proprio il benvolere di Dio ci è di sprone alla comunione con Lui. Anche nel nostro carisma di Minimi apportatori della “maggior penitenza” noi siamo coscienti di essere stati chiamati da Dio perché in realtà innanzitutto egli ci ha amati e ci ha considerati preziosi e insostituibili ai suoi occhi, donandoci un posto privilegiato nella salvezza e nello stesso itinerario della nostra storia.
L’esperienza stessa ci insegna che il recupero di tante persone dallo stato di depravazione morale voluto dalla droga, dal sesso, dalla violenza si è reso possibile soprattutto grazia alla vicinanza e alla bontà che è stata rivolta nei confronti di queste persone e che moltissimi bambini abbandonati si distolgono dalla strada e dal brigantaggio solamente quando avvertono che noi li amiamo e usiamo comprensione e pazienza nei loro riguardi, perché si sentono così spronati e incoraggiati a sfruttare al meglio le proprie risorse e le immancabili potenzialità; ebbene è appunto il solo amore di Dio che ci muove alla conversione imprimendo in modo convincente nella nostra vita e perseverare nell’errore nonostante la manifestazione dell’amore divino comporta rischi solo per noi stessi.
Di fronte all’amore riconciliante di Dio occorre che le nostre reazioni siano di corrispondenza e di gratitudine. Paolo nelle sue lettere non esorta né insegna mai ad amare Dio, ma i continui riferimenti alla resa di grazie e le esortazioni al sentimento di riconoscenza sottendono che l’amore verso il Signore era da lui costantemente vissuto e che amare Dio è la prima delle prerogative che si richiede a chi da questo amore è stato raggiunto.
L’amore di Dio infatti è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato (Rm 5, 5) e vuole che assuma la sua consistenza nella concretezza dell’amore verso gli altri, qualificandosi come amore di effettiva serietà nell’umiltà, nella pazienza, nel rendimento di grazie, nella benignità, nella cura di se stessi, nell’autocontrollo e nella sopportazione (1 Cor 13); l’esercizio dell’amore è la prima ed irrinunciabile prassi di riconoscenza verso Dio e ancora una volta ci troviamo a casa nostra con gli insegnamenti di Paolo perché il carisma dei Minimi cos’altro propone se non la fiducia iniziale nell’amore di Dio che ci ama Lui per primo, la convinzione di questo amore che può provenirci nient’altro che dal Lui e concretizzatosi nella morte di croce del suo Figlio che è il prezzo del nostro riscatto? A che altro può incentivarci se non alla corrispondenza grata a Dio che da parte nostra viene amato al di sopra di ogni cosa e a che altro ci sprona se non alla condivisione dell’amore di Dio nella concretezza degli atti di amore verso gli altri?
Sempre San Paolo infatti invita a gareggiare nello stimarci a vicenda, a fuggire il turpiloquio, la menzogna, la cattiveria e la maldicenza per essere “benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato voi in Cristo (Ef 4, 29 – 32) ad avere un giusto concetto di noi stessi che non ci esalti al di sopra degli altri, e a vincere il male facendo il bene,. Ricordando che l’amore non ha mai fatto male a nessuno. La carità che è effettivo frutto della conversione vuole infatti la concretezza delle opere e toglie lo spazio ad ogni retorica e tentennamento: “La carità non abbia finzioni: fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene;
amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. Non siate pigri nello zelo; siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore. Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità. Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi. Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. Se possibile, per quanto questo dipende da voi, vivete in pace con tutti.” (Rm 12, 9-18). La carità trova nell’Apostolo la sua immediata concretizzazione in opere di carità fraterna edificanti, come la raccolta delle collette a sostegno delle altre chiese (1 Cor 16) ma in ogni caso sottende l’umiltà e la sottomissione presupponendo la fede sulla quale poggia la speranza; l’amore paolino ha inoltre le caratteristiche della schiettezza e della sincerità nella mutua accettazione e nella solidarietà vicendevole che provengono solo da Colui che ci ha scelti per la causa del Regno.

IV – “LASCIATEVI RICONCILIARE CON DIO
.
Chiamato a conversione dall’amore di Dio, riconoscente al Signore per averlo radicalmente.
trasformato in vista della causa del Vangelo, Paolo si rende apostolo egli stesso della riconciliazione con Dio e su questo non esita a supplicare i suoi discepoli: “Dio… ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”. (2 Cor 5, 18 – 20) e in questo il monito paolino è davvero concreto e non necessita di ulteriori spiegazioni: se Dio intende realizzare con noi la riconciliazione, ci si chiede la docilità esplicita a lasciarci amare da Lui in tal senso, ad accettare che Lui ci chiami a conversione e cambi radicalmente la nostra vita, e quello che è più convincente e categorico di questo monito è il fatto che Dio ha voluto darci dei ministri nella riconciliazione nella persona degli apostoli, ivi compreso lo stesso Paolo che della riconciliazione si fa ministro in prima persona per favorire tutti in tal senso verso Dio. Nella stessa lettera (vv 14 – 15) Paolo descrive che l’amore di Cristo ci avvolge tutti interamente e in prima persona perché Egli è morto per i nostri peccati e l’amore di Dio nei nostri confronti è prioritario, spontaneo e gratuito: Dio ci ama nonostante la nostra freddezza e indifferenza. L’apostolo esprime e rafforza il primato della gratuità divina affermando che “tutto questo viene da Dio”(v, 14 panta) e che anche l’iniziativa della riconciliazione è un dono di grazia che si realizza per mezzo del ministero degli apostoli ,a che tuttavia comporta la corrispondenza umana a che si lasci lo spazio a Dio affinchè ci riconcili a sé, si proceda cioè con sottomessa umiltà a lasciarci tutti riconciliare da Dio.
Paolo aggiunge che la possibilità della riconciliazione avviene “per mezzo di Cristo” e in modo particolare nell’atto in cui Dio ha lascito che il suo Figlio morisse sulla croce per pagare il prezzo del nostro riscatto; lo stesso prezzo che altrove Paolo, parlando di redenzione (apolittrosis) fa riferimento al riscatto litrov che si è costretti a pagare per riottenere una determinata cosa. Il litron di Dio per la nostra salvezza è il sangue di Cristo che lui ha volontariamente effuso per i nostri peccati affinchè fossimo salvi. Ecco perché occorre che noi consideriamo l’amore gratuito di Dio che comporti la conversione e il radicale cambiamento della nostra vita, perché lo stesso dono che Dio ha concesso a Paolo anche noi lo abbiamo già ricevuto e si aspetta solo la nostra adesione libera e consapevole in una rettitudine di vita.
Sicchè noi abbiamo l’ulteriore grazia divina dei ministri istituiti appositamente per il ministero della riconciliazione nella persona dei sacerdoti dispensatori della grazia sacramentale del perdono, nei quali è possibile riscontrare come nella concretezza di un linguaggio umano e immediato Dio si renda a nostra disposizione per comunicarci la certezza e l’efficacia del suo amore: nella confessione sacramentale, alla quale occorrerebbe sempre accostarci con fiducia e apertura di spirito, non possiamo non cogliere il dono del Signore che vuole rendersi compartecipe del nostro peccato per potercene liberare non prima di aver orientato la meglio il nostro potenziale, guidando i nostri pensieri e orientando i nostri atti, sollecitando il nostro cammino verso la perfezione evangelica e la santità, confortandoci nelle nostre angustie e donandoci nuovo slancio nelle insicurezze e nelle perplessità; e la presenza di un soggetto umano scelto indegnamente da Dio come ministro, rende tutto più semplice perché traduce in termini immediati e lineari la realizzazione di questa premura da parte di Dio. Il sacerdote è ministro dell’amore di Dio che perdona e riconcilia, uno strumento della grazia di cui Dio potrebbe fare a meno ma del quale si serve perché noi acquistiamo sempre più familiarità con la grazia del perdono di Dio ricorrendo ad un espediente accessibile nell’immediato giacchè si tratta di un soggetto umano nostro pari, peccatore come noi, anch’egli chiamato personalmente a corrispondere al dono della grazia ma intanto a disposizione di tutti per essere di questa grazia divina il dispensatore e come ravvisa l’Apostolo egli non funge altro che da ambasciatore, ossia emissario della divina predilezione riconciliante che verte a favore dell’uomo.
In questo Anno dedicato a Paolo siamo chiamati ad incrementare la nostra intraprendenza nella penitenza evangelica che il Santo Fondatore ci ha lascito in eredità come carisma, poiché nella figura dell’Apostolo Paolo siamo ulteriormente spronati a riscoprire il fascino e la convenienza della ricerca delle “cose di lassù, che sono lontane da quelle della terra. La storia della vocazione dell’apostolo alla conversione è molto avvincente e gli insegnamenti dell’apostolo non possono che attirare la nostra attenzione e favorire la speditezza nel cammino della conversione che viviamo noi stessi e che comunichiamo agli altri.
Non possiamo non riscoprire i contenuti dell’eredità spirituale del messaggio di Paolo soprattutto in questa contestualità epocale che sembra procedere in senso opposto alle aspettative del sentire religioso; in questi ultimi tempi infatti l’ostruzionismo alla religione e le animosità contro la fede vanno sempre più incrementandosi e l’avversione verso la Chiesa e il Magistero del papa sembra costituire al momento una moda alla quale tutti sono attirati.
Se la società giunge alla realizzazione e attuazione di simili fenomeni, ciò delinea la triste realtà di una mancata coerenza nella nostra scelta cristiana come pure la nostra efficacia nella comunicazione dell’amore di Dio nel mondo. E’ pertanto la qualità della nostra vita che deve costituire la vera reazione a simili atteggiamenti di stupida avversione verso la Chiesa; sono le opere degne di penitenza dell’amore, del perdono, della riconciliazione fra di noi e con gli altri che devono costituire una vera replica controbattente a tali insinuazioni di antireligiosità vacua e meschina, ragion per cui riscontriamo che proprio ai nostri giorni il carisma minimo della conversione venga chiamato in causa ulteriormente e che le urgenze della testimonianza si rendono sempre più improcrastinabili.
Il monito di Paolo è quello a considerare innanzitutto che Dio ci ama come nessuno mai potrebbe con la grandezza della sua gratuità per cui la sua grazia ci è sufficiente; ma ci sprona anche a che siffatto amore divino ci esorti alla conversione e ci indirizzi al meglio verso il primato dello stesso Signore nella nostra vita e di conseguenza al bene che siamo tenuti a concretare nei confronti del prossimo. L’amore di Dio non è mai limitativo né va considerato alla stregua di un tesoro da custodirsi gelosamente fra le mani, ma fonda un entusiasmo speciale per il quale ci sentiamo in dovere di prodigarci verso gli altri e riguarda pertanto un amore che ci spinge a conversione.

Publié dans:ANNO PAOLINO |on 11 avril, 2013 |Pas de commentaires »

OMELIA: « IGNORARE LA BIBBIA È IGNORARE CRISTO! » (GENNAIO 2013)

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OMELIA: « IGNORARE LA BIBBIA È IGNORARE CRISTO! » (GENNAIO 2013)

Il Vangelo è davvero quello che scriveva san Paolo: “E’ potenza e sapienza di Dio”. Leggere la Parola di Dio vuol dire far penetrare in noi la forza di Gesù per cui anche noi possiamo dire: OGGI ci realizza questa Parola nella mia povera vita con l’aiuto e la forza dello Spirito Santo!

Letture:

Neemia 8, 2-10
1 Coriniti 12, 12-31
Luca 1, 1-4; 4, 14-21

          L’argomento di questa settimana è di fondamentale importanza per la vita di ogni credente, ma specialmente per la tua e la mia: ci vogliamo quindi mettere di buona volontà per far nascere o crescere nel nostro cuore un amore grande alla Parola di Dio. Iniziamo con una semplice constatazione: quando a Messa il lettore termina il brano, dice: “Parola di Dio” e tutti rispondono: “Rendiamo grazie a Dio!”. Si tratta dunque di un qualcosa di grande e di bello, per il quale si sente il bisogno di ringraziare.
  Il brano della prima lettura (il libro di Neemia) parla della promulgazione della legge fatta da Esdra, sacerdote e scriba, verso l’anno 444 a. C. e ci permette di cogliere lo svolgersi di una liturgia della parola:
C’è un popolo riunito che eleva una lode a Dio
Dall’alto della tribuna i lettori aprono il libro della Legge in presenza del popolo, ne leggono brani distinti e li spiegano nell’omelia
I presenti piangono, segno che la lettura aveva contestato la loro vita e li aveva mossi a conversione
Esdra ridona alla festività la sua indole gioiosa e caritativa
          Il brano di Vangelo (sono le prime righe!) inizia con una solenne dichiarazione di serietà da parte di Luca: lui ha fatto ricerche accurate su ogni cosa, per cui quello che scriverà avrà la caratteristica della solidità. Era questa una consuetudine letteraria del suo tempo e del suo ambiente, che è quello ellenistico: leggiamo introduzioni simili in Polibio, Tucidide, Erodoto… Il Vangelo esce quindi dalla cerchia giudeo-cristiana e si propone al mondo antico e alla cultura occidentale.
          Da notare il riferimento esplicito ai testimoni oculari (gli Apostoli e altri Discepoli della prima ora), definiti “ministri della Parola”!
          Dopo questa breve introduzione (4 versetti), si passa al vero Ministro della Parola, Gesù, che nella sinagoga di Nazaret, cittadina della Galilea dove era cresciuto,  pronuncia la sua prima predica. Il tono è solenne: “si alzò a leggere… prese il rotolo del profeta Isaia…lo aprì… lo lesse.. lo arrotolò, lo consegnò all’inserviente e sedette…”
          “OGGI si è realizzata questa pagina che avete ascoltato con i vostri orecchi” e la pagina era quella del capitolo 61 di Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato ad annunziare ai poveri un lieto messaggio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore”.
          Con l’arrivo di Gesù quella Parola diventa reale, vera, si concretizza e i fatti e i detti della sua vita ne  renderanno ragione. Lascio a te richiamare alla mente quali fatti (i miracoli… i gesti di bontà, di misericordia, di accoglienza) e quali parole faranno di Gesù il realizzatore nell’oggi della profezia di Isaia.
          Siccome il tema centrale della liturgia di questa domenica è la PAROLA DI DIO, vorrei spendere qualche riga nel rispondere ad una domanda che molti mi rivolgono: “Io vorrei leggere la Parola dii Dio (PD), ma non so come fare, da dove cominciare, …”  Ecco un tentativo di risposta.

COME PREGARE CON LA PAROLA DI DIO:
A.  Invocare lo Spirito Santo: chiedi per te la luce e la capacità di comprendere quanto stai per leggere. “Spirito Santo, donami l’intelligenza per comprendere le parole di Gesù; illumina il mio cuore perché la Parola tocchi la mia vita e abbia la forza di seguirla…”
B.  Chiedere perdono perché non ci sia l’ostacolo del peccato: si tratta di un’interferenza che impedisce la ricezione del messaggio. Il saper chiedere con umiltà perdono per “riavere il vestito bianco” è già un frutto prezioso della PD
C. Scegliere il brano: può essere la lettura della domenica, oppure un Vangelo che leggo di seguito, un brano scelto a caso… Soprattutto all’inizio consiglierei di ritmare la scelta sulla liturgia domenicale o su un Vangelo letto di seguito. Scelto il brano, lo leggo più volte e mi sforzo di
-   Comprendere il testo: possono esserci parole, espressioni che non capisco… segno la difficoltà e poi mi posso rivolgere ad una persona competente o ricorrere ad un libro che commenti il brano in questione. Più il testo è compreso nella sua verità oggettiva, più sarà ricca la riflessione-preghiera che ne nascerà.
È il momento dell’ascolto: il Signore vuole rivolgere proprio a me un suo messaggio. Lo leggo come se fosse la prima volta per accoglierlo con semplicità.
-   Interiorizzare il testo: nel leggere e rileggere il brano, ti accorgi che ci sono delle parole, delle espressioni che più di altre parlano alla tua situazione di vita e attirano la tua attenzione. Fermati su quelle e domandati: “Cosa mi vuol dire Gesù con questa frase? Quali stimoli offre alla mia crescita umana e cristiana?” E’ il momento della piena penetrazione del testo e bisogna sapersi fermare, vincendo la fretta e la superficialità

A volte ci sono brevi preghiere nel testo: ripetile a lungo e falle diventare preghiera per te e per quelli che conosci

-   Signore, insegnaci a pregare
-   Gesù, Signore, abbi pietà di me
-   Signore, accresci la nostra fede
     D. Ringraziare per il dono ricevuto: Dio ti ha fatto un grande regalo e vuole che la sua Parola diventi “luce sul tuo cammino”.  Ringrazia e chiedi la forza di essere fedele!

Per aiutarti ti offro ancora un paio di idee sulla Parola di Dio:
          Il libro che hai tra mano non è un libro, ma una Persona: è il cuore pulsante di Gesù che palpita tra le tue mani. Quando vai a ricevere l’Eucaristia hai tra le mani il pane consacrato, Gesù vivo e vero che si fa pane per la tua vita e la tua gioia.
          In questi anni ho visto tanti giovani cambiare la loro vita, fare scelte coraggiose, ma soprattutto li ho visti contenti! Il punto di partenza? La Preghiera con la PD.  Il Vangelo è davvero quello che scriveva san Paolo: “E’ potenza e sapienza di Dio”. Leggere la PD vuol dire far penetrare in noi la forza di Gesù per cui anche noi possiamo dire: OGGI ci realizza questa Parola nella mia povera vita con l’aiuto e la forza dello Spirito Santo!
          Conclusione: non credere che tutto questo si concluda in un paio di settimane. Ci vuole tempo e costanza, ma dentro la tua fedeltà Dio realizzerà la sua grande Fedeltà, per la gioia tua e di tanti altri. Non aspettare a iniziare: inizia subito! OGGI stesso!

(Teologo Borèl) Gennaio 2013 – autore: Don Gianni

St. Stanislaus, Bishop and Martyr

St. Stanislaus, Bishop and Martyr dans immagini sacre 26700A[1]

http://www.katieking.it/santi.asp?ID=140

Publié dans:immagini sacre |on 10 avril, 2013 |Pas de commentaires »
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