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GIOVANNI PAOLO II. OMELIE SUL BUON PASTORE – DUE OMELIE

http://www.parrocchiabuonpastore.re.it/comunicazione/notizie/2011/20110425%20-%20beatificazione%20gp2/index.htm

GIOVANNI PAOLO II. OMELIE SUL BUON PASTORE

(TRATTO DA: HTTP://LITURGIADOMENICALE.BLOGSPOT.COM/2008/04/GIOVANNI-PAOLO-II-OMELIE-SUL-BUON.HTML)

VISITA ALLA PARROCCHIA ROMANA DI SANT’ANTONIO DA PADOVA

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II 6 MAGGIO 1979

L’odierna Domenica è stata dedicata a questa suprema ed essenziale necessità proprio perché la Liturgia ci presenta la figura di Gesù “Buon Pastore”.
Già l’Antico Testamento parla comunemente di Dio come Pastore di Israele, del popolo dell’alleanza, da lui scelto per realizzare il progetto della salvezza. Il Salmo 22 è un inno meraviglioso al Signore, Pastore delle nostre anime: “Il Signore è il mio Pastore; non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce; mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino… Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me…” (Sal 23,1-3).
I profeti Isaia, Geremia ed Ezechiele ritornano sovente sul tema del popolo “gregge del Signore”: “Ecco il vostro Dio!… Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna…” (Is 40,11) e soprattutto annunciano il Messia come Pastore che pascerà veramente le sue pecore e non le lascerà più sbandare: “Susciterò per loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore…” (Ez 34,23).
Nel Vangelo è familiare questa dolce e commovente figura del pastore, la quale anche se i tempi sono cambiati a causa dell’industrializzazione e dell’urbanesimo, mantiene sempre il suo fascino e la sua efficacia; e tutti ricordiamo la parabola tanto toccante e suggestiva del Buon Pastore che va in cerca della pecorella smarrita (Lc 15,3-7).
Nei primi tempi della Chiesa poi l’iconografia cristiana si servì grandemente e sviluppò questo tema del Buon Pastore la cui immagine appare spesso, dipinta o scolpita, nelle Catacombe, nei sarcofagi, nei battisteri. Tale iconografia, così interessante e devota, ci attesta che, fin dai primi tempi della Chiesa, Gesù “Buon Pastore” colpì e commosse gli animi dei credenti e dei non credenti e fu motivo di conversione, di impegno spirituale e di conforto. Ebbene, Gesù “Buon Pastore” è vivo e vero ancora oggi in mezzo a noi, in mezzo all’umanità intera, e a ciascuno vuol far sentire la sua voce e il suo amore.

1. Che cosa significa essere il Buon Pastore?

Gesù ce lo spiega con chiarezza convincente:
– il pastore conosce le sue pecore e le pecore conoscono lui: come è bello e consonante sapere che Gesù ci conosce uno per uno, che non siamo degli anonimi per lui, che il nostro nome (quel nome che è concordato dall’amore dei genitori e degli amici) lui lo conosce! Non siamo “massa”, “moltitudine”, per Gesù! Siamo “persone” singole con un valore eterno, sia come creature sia come persone redente! lui ci conosce! lui mi conosce, e mi ama e ha dato se stesso per me! (Gal 2,20);
– il pastore nutre le sue pecore e le conduce a pascoli freschi e abbondanti: Gesù è venuto per portare la vita alle anime, e darla in misura sovrabbondante. E la vita delle anime consiste essenzialmente in tre supreme realtà: la verità, la grazia, la gloria. Gesù è la verità, perché è il Verbo incarnato, è la “pietra angolare”, come diceva San Pietro ai capi del popolo e agli anziani, sulla quale solamente è possibile costruire l’edificio familiare, sociale, politico: “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,11-12). Gesù ci dà la “grazia”, ossia la vita divina per mezzo del Battesimo e degli altri Sacramenti. Mediante la “grazia”, diventiamo partecipi della stessa natura trinitaria di Dio! Mistero immenso, ma di indicibile gioia e consolazione!
Gesù infine ci darà la gloria del paradiso, gloria totale ed eterna, dove saremo amati e ameremo, partecipi della stessa felicità di Dio che è Infinito anche nella gioia! “Ciò che saremo non è stato ancora rivelato – commenta San Giovanni –. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,3);
– il pastore difende le sue pecore; non è come il mercenario che quando arriva il lupo fugge, perché non gli importa nulla delle pecore. Purtroppo sappiamo bene che nel mondo ci sono sempre i mercenari che seminano l’odio, la malizia, il dubbio, il turbamento delle idee e dei sensi. Gesù invece, con la luce della sua parola divina e con la forza della sua presenza sacramentale ed ecclesiale, forma la nostra mente, fortifica la volontà, purifica i sentimenti e così difende e salva da tante dolorose e drammatiche esperienze;
– il pastore offre perfino la vita per le pecore: Gesù ha realizzato il progetto dell’amore divino mediante la sua morte in croce! egli si è offerto in croce per redimere l’uomo, ogni singolo uomo, creato dall’amore per l’eternità dell’Amore;
– il pastore infine sente il desiderio di ampliare il suo gregge: Gesù afferma chiaramente la sua ansia universale: “E ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo ovile e un solo pastore” (Gv 10,16). Gesù vuole che tutti gli uomini lo conoscano, lo amino, lo seguano.

2. Gesù ha voluto nella Chiesa il sacerdote come “Buon Pastore”.

La parrocchia è la comunità cristiana, illuminata dall’esempio del Buon Pastore, attorno al proprio parroco e ai sacerdoti collaboratori.
Nella parrocchia il sacerdote continua la missione e il compito di Gesù; e perciò deve “pascere il gregge”, deve insegnare, istruire, dare la grazia, difendere le anime dall’errore e dal male, consolare, aiutare, convertire e soprattutto amare.
Perciò, con tutta l’ansia del mio cuore di Pastore della Chiesa universale vi dico: amate i vostri sacerdoti! Stimateli, ascoltateli, seguiteli! Pregate ogni giorno per loro. Non lasciateli soli né all’altare né nella vita quotidiana!
E non cessate mai di pregare per le vocazioni sacerdotali e per la perseveranza nell’impegno della consacrazione al Signore e alle anime. Ma soprattutto create nelle vostre famiglie un’atmosfera adatta allo sbocciare delle vocazioni. E voi genitori siate generosi nel corrispondere ai disegni di Dio sui vostri figli.

3. Infine, Gesù vuole che ognuno sia “buon pastore”.

Ogni cristiano, in forza del battesimo, è chiamato ad essere lui stesso un “buon pastore” nell’ambiente in cui vive. Voi genitori dovete esercitare le funzioni del Buon Pastore verso i vostri figli e anche voi, figli, dovete essere di edificazione con il vostro amore, la vostra obbedienza e soprattutto con la vostra fede coraggiosa e coerente. Anche le reciproche relazioni tra i coniugi devono essere improntate all’esempio del Buon Pastore, affinché sempre la vita familiare sia a quell’altezza di sentimenti e di ideali voluti dal Creatore, per cui la famiglia è stata definita “chiesa domestica”. Così pure nella scuola, sul lavoro, nei luoghi del gioco e del tempo libero, negli ospedali e dove si soffre, sempre ognuno cerchi di essere “buon pastore” come Gesù. Ma soprattutto siano “buoni pastori” nella società le persone consacrate a Dio: i religiosi, le suore, coloro che appartengono agli Istituti Secolari.Oggi e sempre dobbiamo pregare per tutte le vocazioni religiose, maschili e femminili, perché nella Chiesa questa testimonianza della vita religiosa sia sempre più numerosa, sempre più viva, sempre più intensa e sempre più efficace. Il mondo oggi ha più che mai bisogno di testimoni convinti e totalmente consacrati!
Carissimi fedeli, termino ricordando l’accorata invocazione di Gesù buon Pastore: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate il padrone della messe, affinché mandi molti operai alla sua messe” (Mt 9,37; Lc 10,2).

UDIENZA GENERALE DI GIOVANNI PAOLO II

Mercoledì, 16 maggio 1979

1. Desidero oggi ritornare ancora una volta sulla figura del Buon Pastore. Questa figura, come abbiamo detto una settimana fa, è profondamente collocata nella liturgia del periodo pasquale. Ed è così perché profondamente si è impressa nella coscienza della Chiesa, in particolare nella Chiesa delle prime generazioni cristiane. Lo testimoniano, fra l’altro, le effigi del Buon Pastore che provengono da quel periodo storico. Evidentemente questa figura è una singolare sintesi del mistero di Cristo e, in pari tempo, della sua missione sempre in atto. “Il buon pastore offre la vita per le pecore” (Gv 10,11).
Per noi che costantemente partecipiamo all’Eucaristia, che otteniamo la remissione dei peccati nel sacramento della Riconciliazione; per noi che risentiamo l’incessante sollecitudine di Cristo per l’uomo, per la salvezza delle anime, per la dignità della persona umana, per la rettitudine e la limpidezza delle vie terrestri della vita umana, la figura del Buon Pastore è così eloquente come lo era per i primi cristiani, che nei dipinti della catacombe, raffiguranti Cristo come Buon Pastore, esprimevano la stessa fede, lo stesso amore e la stessa gratitudine. E li esprimevano nei periodi di persecuzione, quando, per la confessione di Cristo, erano minacciati di morte; quando erano costretti a cercare i cimiteri sotterranei per pregarvi insieme e per partecipare ai Santi Misteri. Le catacombe di Roma e delle altre città dell’antico Impero non cessano di essere un’eloquente testimonianza del diritto dell’uomo a professare la fede in Cristo e a confessarlo pubblicamente. Esse non cessano di essere anche la testimonianza di quella potenza spirituale che sgorga dal Buon Pastore. Egli si è dimostrato più potente dell’antico Impero e il segreto di questa forza è la verità e l’amore, di cui l’uomo ha sempre la stessa fame e di cui non e mai sazio.
2. “Io sono il buon pastore – dice Gesù –, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre” (Gv 10,14-15). Quanto meravigliosa è questa conoscenza! Quale conoscenza! Essa giunge fino all’eterna Verità e all’Amore, il cui nome è il “Padre”! Proprio da questa sorgente proviene quella particolare conoscenza, che fa nascere la pura fiducia. La conoscenza reciproca: “Io conosco… ed esse conoscono”.
Non è questa una conoscenza astratta, una certezza puramente intellettuale, che si esprime nella frase “so tutto di te”. Anzi una tale conoscenza suscita la paura, induce piuttosto a chiudersi: “non toccare i miei segreti, lasciami in pace”. “Malheur à la connaissance… qui ne tourne point à aimer!” (“Guai alla conoscenza… che non volge ad amare!”: Bossuet, De la connaissance de Dieu et de soi-même, “Œuvres complètes”, Bar-le-Duc 1870, Guérin, p. 86). Cristo invece dice: “Conosco le mie”, e lo dice della conoscenza liberatrice che suscita la fiducia. Poiché, sebbene l’uomo difenda l’accesso ai suoi segreti; sebbene voglia conservarli per se stesso, tuttavia ha ancora più grande bisogno, “ha fame e sete” di Qualcuno, davanti al quale potrebbe aprire se stesso, al quale potrebbe manifestare e rivelare se stesso. L’uomo è persona, e alla “natura” della persona appartiene, allo stesso tempo, il bisogno del segreto e il bisogno di rivelare se stessa. Tutti e due questi bisogni sono strettamente uniti l’uno all’altro. L’uno si spiega attraverso l’altro. Tutti e due insieme indicano invece il bisogno di Qualcuno, davanti al Quale l’uomo potrebbe rivelarsi.
Certo, ma ancora di più: ha bisogno di Qualcuno, che potrebbe aiutare l’uomo ad entrare nel suo proprio mistero. Quel “Qualcuno” deve tuttavia conquistare la fiducia assoluta, deve, rivelando se stesso, confermare di essere degno di tale fiducia. Deve confermare e rivelare che è Signore e, insieme, Servo del mistero interiore dell’uomo.
Proprio così ha rivelato se stesso Cristo. Le sue parole: “Conosco le mie…” e “le mie… conoscono me” trovano una definitiva conferma nelle parole che seguono: “Offro la mia vita per le pecore” (cf.Gv 10,11.15). Ecco il profilo interiore del Buon Pastore.
3. Durante la storia della Chiesa e del cristianesimo non sono mancati mai gli uomini che hanno seguito Cristo-Buon Pastore. Certamente non mancano neppure oggi. La liturgia più di una volta si riferisce a questa allegoria per presentarci le figure di alcuni santi, quando nel calendario liturgico giunge il giorno della loro festa. L’ultimo mercoledì abbiamo ricordato San Stanislao, Patrono della Polonia, di cui celebriamo, quest’anno, il nono centenario. Nella festa di questo Vescovo-Martire rileggiamo il Vangelo del Buon Pastore.
Oggi vorrei riferirmi ad un altro personaggio, dato che quest’anno ricorre anche il 250° anniversario della sua canonizzazione. Si tratta della figura di San Giovanni Nepomuceno. In questa occasione, su richiesta del Cardinale Tomasek, Arcivescovo di Praga, gli ho indirizzato personalmente una lettera speciale per la Chiesa in Cecoslovacchia.
Ecco alcune frasi di questa lettera: “La figura grandiosa di San Giovanni ha esempi e doni per tutti. La storia ce lo presenta prima come dedito allo studio ed alla preparazione al sacerdozio: consapevole com’era che, secondo l’espressione di San Paolo, sarebbe stato trasformato in un altro Cristo, egli incarna in sé sia l’ideale del conoscitore dei Misteri di Dio, teso come fu alla perfezione delle virtù; sia del Parroco, che santifica i suoi fedeli con l’esempio della sua vita e con lo zelo delle anime; sia del Vicario Generale, scrupoloso esecutore dei suoi doveri nello spirito dell’ubbidienza ecclesiale.
In quest’ufficio egli trovò il suo martirio, per la difesa dei diritti e della legittima libertà della Chiesa di fronte ai voleri del Re Venceslao IV. Questi partecipò personalmente alla sua tortura, poi lo fece gettare dal ponte nel fiume Moldava.
Qualche decennio dopo la morte dell’uomo di Dio, si diffuse la voce che il Re l’avesse fatto uccidere per non aver voluto violare il segreto della confessione. E così il martire della libertà ecclesiastica fu venerato anche come testimone del sigillo sacramentale.
Poiché egli fu sacerdote, sembra naturale che per primi i sacerdoti debbano bere alla sua fontana, debbano rivestirsi delle sue virtù ed essere degli eccellenti pastori. Il buon pastore conosce le sue pecore, le loro esigenze, le loro necessità. Le aiuta a districarsi dal peccato, a vincere gli ostacoli e le difficoltà che incontrano. A differenza del mercenario, egli va in cerca di esse, le aiuta a portare il loro peso e sa sempre incoraggiarle. Medica le loro ferite e le cura con la grazia, soprattutto attraverso il sacramento della Riconciliazione.
Infatti, il Papa, il Vescovo e il Sacerdote non vivono per se stessi ma per i fedeli, così come i genitori vivono per i figli e come Cristo si diede al servizio dei suoi Apostoli: “Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mt 20,28).
4. Cristo Signore nella sua allegoria del Buon Pastore pronuncia ancora queste parole: “E ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore” (Gv 10,16).
Si può facilmente indovinare che Gesù Cristo, parlando direttamente ai figli d’Israele, denotava la necessità della diffusione del Vangelo e della Chiesa e, grazie a ciò, l’estensione della sollecitudine del Buon Pastore oltre i limiti del Popolo dell’antica alleanza.
Sappiamo che questo processo ha incominciato a realizzarsi già nei tempi apostolici; che costantemente si è realizzato più tardi e continua a realizzarsi. Abbiamo la coscienza dell’universale portata del mistero della redenzione e anche dell’universale portata della missione della Chiesa.
Perciò, terminando questa nostra odierna meditazione sul Buon Pastore, preghiamo con ardore particolare per tutte quelle “altre pecore” che Cristo deve ancora condurre all’unità dell’ovile (cf.Gv 10,16). Forse sono coloro che non conoscono ancora il Vangelo. O forse coloro che, per qualsiasi motivo, l’hanno abbandonato; anzi, forse, anche coloro che sono diventati i suoi accaniti avversari, i persecutori.
Che Cristo prenda sulle sue spalle e stringa a sé coloro che da soli non sono capaci di ritornare.
Il Buon Pastore offre la vita per le pecore. Per tutte.

SPUNTI DI OMELIA PER LA MESSA DOMENICALE DI DON MARCO CECCARELLI –

http://www.donmarcoceccarelli.it/pdf/omelie/pasqua_c/pasqua_iv.pdf

SPUNTI DI OMELIA PER LA MESSA DOMENICALE DI DON MARCO CECCARELLI –

IV Pasqua “C” – 21 Aprile 2013

I Lettura: At 13,14.43-52
II Lettura: Ap 7,9.14-17
Vangelo: Gv 10,27-30

Testi di riferimento: Sal 23,1-5; 80,1; 81,11-12; 95,7; Sap 3,1; Is 25,8; 49,9-10; 53,6-7; Ger 3,15;
13,17; Mi 5,3; Zc 10,2; Mt 26,31; Mc 6,34; Lc 22,28-30; Gv 4,14; 7,37-38; 17,11-12; Rm 8,35-39;
1Pt 1,18-19; 2,25; Ap 2,26-28; 12,5.11; 21,6; 22,1-2.17

1. PRIMA LETTURA. Descrive la prima esperienza missionaria di Paolo. Dopo aver perseguitato i cristiani, adesso Paolo si trova ad «annunziare la fede che un tempo voleva distruggere» (Gal 1,23). E facendo ciò si trova, allo stesso tempo, dalla parte dei perseguitati. Come Pietro e gli altri apostoli anche Paolo, benché provenisse da una esperienza diversa, subisce la stessa sorte. La persecuzione è parte costitutiva dell’annuncio del Vangelo (Mt 10,16ss.). Non è tanto questo o quel cristiano ad attirarsi l’ostilità, ma il messaggio che lui incarna; e tale messaggio è Cristo stesso. Il mondo nei cristiani odia Cristo (Gv 15,18-21). E come Cristo ha incarnato la figura del Servo del Signore che ha portato la luce alle nazioni (Is 42,6; 49,6), così ora la Chiesa (At 13,47). Per questo, nonostante il rifiuto, «i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo», perché non c’è gioia più grande per un cristiano che assomigliare a Cristo. E perché tutto l’odio del mondo non può separarlo dall’unione con Cristo: «Nessuno vi potrà togliere la vostra gioia» (Gv 16,23).

2. IL PASTORE. La quarta domenica di pasqua è dedicata alla tematica del pastore; una tematica, appunto, fortemente pasquale. Il popolo d’Israele infatti ha fatto l’esperienza di un Dio che si è fatto loro pastore nell’Esodo, quando li ha condotti attraverso il deserto alla terra promessa, nutrendoli anche dove non c’era cibo né acqua. Il compito di Jahvè-pastore è quello di “fare strada”, di andare avanti al popolo per introdurlo nel riposo della terra, dove Israele avrà abbondanza di tutto. Si segue il pastore quando si ascolta la sua voce, quando si obbedisce a lui e ci si lascia portare per le vie che lui percorre. L’obbedienza alla voce del pastore è espressione di reciproca appartenenza; le pecore sono del pastore, e costui è realmente il loro pastore, nella misura che lo ascoltano e lo seguono. Questo è il senso di Sal 95,7: «Lui è il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo e il gregge della sua mano, oggi, se ascoltate la sua voce». Ciò che Jahvè era per Israele Cristo lo è per i cristiani. Lui è il pastore che ci introduce nella comunione con Dio e che ci sfama con il vero cibo celeste. Seguendo lui, ascoltando la sua voce, possiamo entrare nel riposo eterno. Lui conosce le sue pecore
ed esse lo ascoltano, di modo che fra lui e loro esiste una mutua appartenenza.

3. SECONDA LETTURA: l’agnello è il pastore.
- In questo brano si parla del nuovo e definitivo esodo, del cammino verso la terra promessa della comunione con Dio, dopo la pasqua realizzata da Cristo. Lui è l’agnello pasquale, è colui che si è acquistato con il suo sangue un popolo di redenti da ogni nazione (Ap 5,9). Chi è stato riscattato dal sangue dell’Agnello è uscito dall’Egitto – dalla “grande tribolazione” (Ap 7,14; cfr. Dt 4,20; 1Re 8,51) – ed ora appartiene a Dio (vesti bianche) e Lo serve giorno e notte, cioè in forma ininterrotta. Come Dio aveva fatto nel deserto per Israele, l’agnello pasce il popolo dei redenti (e lo fa in modo che ogni loro desiderio di sazietà è completamente soddisfatto) e li protegge dal calore del sole. La meta finale è la comunione celeste con Dio, è lo stare presso il trono di Dio (Ap 7,15). Ma tale comunione i redenti già la vivono durante il loro pellegrinare, durante il loro cammino alla sequela dell’Agnello. - Cristo ha “fatto strada” (odegeo: v. 17) come un “agnello” immolato che però è vivo (Ap 5,6). Egli ha mostrato che il cammino verso Dio, verso le fonti di acqua viva, verso la salvezza, passa dalla croce. Ma passando dalla croce egli ha aperto la strada attraverso la morte. Da questo momento, seguendo l’agnello pasquale, la morte si può attraversare. Egli si è fatto Pasqua, cioè agnello immolato (1Cor 5,7), dato in pasto alla morte per annientare la morte. Percorrendo questa strada che lui ci ha aperto possiamo anche noi fare Pasqua. Così oggi il Pastore in realtà è un agnello, ed è seguendo questo agnello che si può imparare ad essere pastori. Questo agnello ha dato il suo sangue (Ap 5,6; 1Pt 1,19) perché le sue pecore possano ricevere la vita eterna (Gv 10,28).

4. IL VANGELO.
- Il brano odierno di Vangelo continua in qualche modo la tematica della domenica scorsa. Lì Cristo ha ordinato a Pietro di pascere le sue pecore; poi gli ha detto “seguimi”. In effetti il pastore va avanti, “fa strada”. Però Pietro, in quanto pastore, deve seguire Cristo: 1) perché in realtà il vero pastore è Gesù; 2) perché solo se si segue Cristo, se si è parte del suo gregge, se ci si lascia pascere da lui, si può imparare a pascere gli altri. - «Nessuno le rapirà dalla mia mano» (Gv 10,28). Il rapporto fra Cristo-pastore e il discepolopecora non consiste semplicemente in una sequela esteriore, in un adempimento formale di questo o
quel precetto. Si tratta invece di un’unione che si instaura fra i due, una comunione così profonda da diventare pressoché inviolabile. L’unione con Cristo non è un’armatura che protegge dalle problematiche della vita quotidiana. Non esenta dalle sofferenze, dalle croci, dalle tribolazioni. Non ci dispensa neppure dalla morte. Ma ci dà la garanzia che niente ci può separare da Cristo. Al contrario di chi si affida a dei mercenari che non hanno a cuore le pecore (Gv 10,12), chi appartiene a Cristo non vai mai perduto perché nulla può rapirlo dalle sue mani, nemmeno la morte. Perché le sue mani sono quelle del Padre che è più grande di tutti (Gv 10,29). Se appartengo a lui nessun potere al mondo mi strapperà via, perché lui è più forte di ogni potere: «Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? … Né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,35-39). Così l’unione con Cristo è l’unica cosa che mi devo preoccupare di custodire. Tutto il resto comunque lo perderò. Ma se sono in lui, se sono nelle sue mani, nulla e nessuno mi potrà veramente danneggiare; di nulla e di nessuno mi devo veramente preoccupare (Mt 10,28): «Anche se cammino in una valle oscura non temerò alcun male, perché tu sei con me» (Sal 23,4). La vita eterna che Cristo ci dona ci permette di «non perire in eterno» (Gv 10,28).

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 20 avril, 2013 |Pas de commentaires »

I am the living bread which came down from heaven , today’s Gospel

I am the living bread which came down from heaven , today's Gospel dans immagini sacre

http://sognandoemmaus.ilcannocchiale.it/?id_blogdoc=1914938

Publié dans:immagini sacre |on 18 avril, 2013 |Pas de commentaires »

GESÙ REDENTORE : SALVEZZA E SOFFERENZA

http://www.qumran2.net/materiale/anteprima.php?id=28735&anchor=documento_2&ritorna=%2Findice.php%3Fparole%3D%26%2334%3Bsan+paolo%26%2334%3B%26&width=1024&height=676

GESÙ REDENTORE : SALVEZZA E SOFFERENZA

(da Qumran.net, sezione catechesi bibliche, temi paolini)

*“Che diremo dunque in proposito?Se Dio è per noi chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato a tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica .Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi?
Chi ci separerà dunque dall’amore di Dio? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame la nudità, il pericolo la spada?….
Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli,ne principiati né presente , né avvenire, né potenze, né altezze né profondità, né alcun’ altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio , in Cristo Gesù, nostro Signore.” ( Rm.8,21-39)

*“Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta da uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il Regno del Padre ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia.” (G.S. 1)1
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Molti potevano essere i passi per aiutarci a riflettere sulla tematica della Redenzione e sul significato della sofferenza umana nella storia dopo il Cristo. Ho scelto questo brano di Paolo e il punto 1 della G.S come sintesi teologica. La teologia infatti è invitata a riflettere sulle questioni con un cammino ben preciso: partire dalla S. Scrittura, passare dai padri Apostolici, poi i padri della Chiesa, S, Tommaso per finire con la riflessione storica dei concili ecumenici.
“ In realtà solo nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo , era figura di quello del futuro e cioè di Cristo Signore . Cristo che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore2, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione”3
1In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
2Egli era, in principio, presso Dio:3tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste…..
14E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi.
Queste parole del prologo del Vangelo di Giovanni , che sono un po’ la sintesi teologica del IV Vangelo ci richiamano in maniera forte questa idea: Dio quando ha creato il mondo aveva innanzi a sé l’immagine del figlio, in lui tutto è stato creato è Lui il tipo, la figura dell’UOMO. Padre Laurentin ed altri esegeti con lui facendosi forza anche della tradizione dei Padri latini interpretano già nel primo versetto del Prologo la figura del Cristo incarnato.
Questo non è una novità , gia la teologia paolina lo afferma chiaramente , soprattutto negli inni cristologici di Ef 1,3-14 4 e Ef 1,3-14 . Il primo forse più chiaramente svela il piano d’amore di Dio che ci ha fatto e pensato sempre come figli nel Figlio, il secondo forse sottolinea più l’aspetto di partecipazione alla Redenzione. Nel prologo di GV, il versetto 3 in greco dice “panta” , cioè tutto ciò che riguarda la salvezza; si potrebbe dire meglio che senza di Lui non avviene neppure una cosa all’interno del mistero della Salvezza,5 che tutto è stato pensato da Dio per comunicare all’uomo il suo amore di Padre .
Si può dire che la teologia e la riflessione della Chiesa a partire dal Vaticano II riscopre l’idea biblica di un solo piano: quello d’amore che Dio ha pensato per l’uomo superando, o cercando di superare la divisione tra naturale e sopranaturale che la riflessione umana aveva fatto dividendo l’azione di Dio Creatore e di Dio Redentore in maniera troppo incisiva e schematica.
K. Rahner a tal proposito scrive:”l’uomo può fare esperienza su se stesso solo nell’ambito dell’amorosa volontà sopranaturale di Dio, non può presentare la natura in uno ‘stato chimicamente puro ’separata dal suo esistenziale sopranaturale.” 6
Dio scrive la storia della Salvezza nel divenire del tempo e dello spazio, nella esperienza di relazione con ognuno, all’interno di un progetto d’amore chiamato Gesù Cristo. : 4In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, 5predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, 6secondo il beneplacito della sua volontà. ( Ef. 1, 4-6)
Chi ci separerà dunque dall’amore di Dio? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame la nudità, il pericolo la spada?…. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati
Questo versetto del brano iniziale che abbiano letto ci aiuta a legare il tema della sofferenza umana al tema della Salvezza. Noi tutti avremmo voluto che Dio ci salvasse riportandoci alla idealità descritta in Genesi del paradiso terrestre, ma non è così l’Apocalisse ci dice che in Paradiso avremo Cieli nuovi e terre nuove7 dove godere appieno di questa relazione con Dio, che ha scelto di camminare nella storia come Uomo grazie ad un sì di una ragazza di nome Miriam , circa 2000 anni fa a Nazareth di Galilea .
Per terminare la ns riflesione sulla sofferenza nella ns storia della salvezza ci facciamo aiutare brevemente dal brano dei Discepoli di Emmaus: possiamo vedere come l’evangelista metta in questi due tutti i sentimenti di sconfitta e delusione che sono nella vita di ogni uomo per la sofferenza, per le sconfitte , gli ideali non raggiunti, per l’idea di Dio che ci eravamo fatti: potente, salvatore, Messia anche politico; sottolinea l’atteggiamento di Gesù che si avvicina a loro, fa finta di non saper nulla di quanto successo, da fine psicologo li fa parlare gli fa tirar fuori le angosce e poi senza infierire, benché dica sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! [26]Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». [27]E cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.
Questo riflettere sulla Parola, meditare sulla scrittura voce di Dio che mi parla nella mia storia, come ben sappiamo costa fatica. Si potrebbe dire col Maraldi la fatica della Fede 8:  » la fede se è calata nella storia costa fatica …. La fatica di credere in Dio stando sulla terra, dentro le situazioni in cui ci si trova gettati. E’ la fatica di meditare la Parola di Dio per cercare di capire cosa voglia il Signore nella concretezza dell’oggi ». E’ La fatica di vedere l’opera di Dio nella storia in corso d’opera, di avere gli occhi delle fede e non rimanere impantanati nelle situazioni, dalle più vicine, ( malattie, lutti, disgrazie), alle più globali ( carestie, terremoti, pandemie , guerre); non è facile e spesso tutti noi diciamo ‘ma Dio dov’è?’.
Ad ogni Natale facciamo memoria di questo Dio che si fa uomo, che per salvare il mondo ha sempre rifiutato la gente che voleva farlo re dopo i miracoli , non ha mai accettato di fare Dio ,ma ha voluto fare l’uomo e ha chiamato Pietro, Zaccheo, Giairo , da ognuno ha voluto fermarsi a casa sua , ha chiesto ospitalità, ha chiesto di fare Casa con lui . Comunione,….. è un Dio che si fa vicino, non ci dà ricette o ci risolve il problema , ma cammina affianco, si fa ultimo con gli ultimi, povero coi poveri, fratello di ogni uomo. Sembra retorica o poesia , ma è la realtà, è Dio che ci accompagna nella Vita perché possiamo essere ognuno la pienezza di noi stessi ( o meglio rispondere ognuno alla sua Vocazione).
Rileggendo mi vengono spontanee queste domande: So ascoltare i fratelli in difficoltà? So partire dai loro drammi e dalle loro angosce per aiutarli ? cammino loro affianco con tenerezza, con una presenza ‘gentile’e accorta ?
Li consolo con la stessa consolazione con cui sono stato consolato da Dio?!.9
San Paolo in Cor, 1,24 dice: “ Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo Corpo che è la Chiesa”….Perciò sono lieto delle sofferenza che sopporto per voi”.
GP II commentando questo brano al punto 1 della ‘Salvifici doloris’ dice che l’Apostolo comunica la propria scoperta e ne gioisce a motivo di coloro che essa può aiutare – così come aiutò lui – a penetrare il senso salvifico della sofferenza. Il Papa nella conclusione della sua lettera rifacendosi a GS 2210 , che abbiamo letto all’inizio di questa ns riflessione, dice che se Cristo svela interamente l’uomo all’uomo, queste parole che “ si riferiscono a tutto ciò che riguarda il mistero dell’uomo, allora certamente si riferiscono in modo particolarissimo all’umana sofferenza”.
Dio assumendo su di sé l’intera natura umana ne ha assunto tutte le peculiarità storiche, tra cui la sofferenza oltre che la gioia. Sicuramente questo è un mistero che fa parte del più grande mistero dell’Incarnazione, Passione Morte e Resurrezione di Gesù: Dio ci ama tanto che accoglie le ns offerte ‘ spirituali’ ( perché fatte attraverso lo Spirito Santo ) come compartecipazione alla sua opera salvifica. La Prima lettera di Pietro ci ricorda che Cristo ci ha fatto partecipi del suo sacerdozio regale: «ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato…»(1 Pt.2,9).

Vorrei finire, pertanto, con queste parole della lettera agli Ebrei:
5Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice:Tu non hai voluto né sacrificio né offerta,un corpo invece mi hai preparato.6 Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato.7Allora ho detto: «Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro –per fare, o Dio, la tua volontà».( Ebrei 10,5)

L’obbedienza 25/4/88
La vita
prende
trascina
trasforma
lasciarsi vivere
è il segreto
gioia, dolore
sofferenza, paura
viviamola
coi nostri sentimenti,
attivamente
accettando
ogni momento,
la storicità
della vita.
E ciò
che nascerà
sarà nostro
storico
vitale.
Lasciamoci vivere
questo è il segreto.

AVVENGONO ANCORA CONVERSIONI COME QUELLA DI SAN PAOLO?

http://www.aleteia.org/it/religione/q&a/avvengono-ancora-conversioni-come-quella-di-san-paolo-112041

AVVENGONO ANCORA CONVERSIONI COME QUELLA DI SAN PAOLO?

CONVERSIONI COME QUELLA DELL’APOSTOLO DELLE GENTI SULLA “VIA DI DAMASCO” ACCADONO ANCORA OGGI…

 16 APR 2013

1. San Paolo è stato “folgorato” da un’apparizione di Cristo sulla “via di Damasco”. Questa esperienza mistica ha trasformato uno dei persecutori più accaniti dei cristiani in un ardente e infaticabile apostolo di Cristo. Negli Atti degli Apostoli, quinto libro del Nuovo Testamento, l’episodio della conversione di Paolo viene riportato tre volte, soprattutto al capitolo 9: “Saulo frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati. E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo…” (Atti 9, 1s).?? Saulo-Paolo era un ebreo istruito, cittadino romano. Aveva studiato a Gerusalemme e aveva ascoltato alcuni predicatori parlare di un uomo chiamato Gesù, crocifisso dai romani qualche anno prima. Siamo verso l’anno 34 della nostra era, nel pieno della persecuzione della Chiesa primitiva. Saulo ottenne dal Sinedrio (il tribunale ebraico con sede nel Tempio) la missione di perseguitare i cristiani della Siria. Si trovava sulla via che portava a Damasco, dove avrebbe avuto luogo la sua “caduta”.
“E cadendo a terra udì una voce che gli diceva: ‘Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?’. Rispose: ‘Chi sei, o Signore?’. E la voce: ‘Io sono Gesù, che tu perseguiti! Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare’” (Atti, 4s). Saulo si rialzò, ma uscì da questo incontro momentaneamente cieco. Tre giorni dopo, a Damasco, venne curato da un discepolo, Anania, si convertì al cristianesimo e si fece battezzare. “Và, perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele”, aveva detto il Signore ad Anania in una visione per vincere la sua reticenza a battezzare il grande persecutore.
E questo è ciò che Paolo fece da quel momento in poi, con uno zelo maggiore di quello con cui prima aveva perseguitato, suscitando adesione o rifiuto, mettendo in pericolo la propria vita. “Nelle sinagoghe proclamava Gesù Figlio di Dio. E tutti quelli che lo ascoltavano si meravigliavano e dicevano: ‘Ma costui non è quel tale che a Gerusalemme infieriva contro quelli che invocano questo nome ed era venuto qua precisamente per condurli in catene dai sommi sacerdoti?’” (Atti 9, 20s). La “via di Damasco” non è certamente il cammino più abituale verso Dio, ma questo tipo di esperienze non è così raro. Anche al giorno d’oggi molte persone che dicevano di non credere o credevano molto poco possono testimoniare esperienze mistiche improvvise che le hanno trasformate profondamente.
2. Le grazie della conversione improvvisa possono presentarsi in tutte le situazioni e in ogni stato di vita. Claudel nel 1886, André Frossard nel 1935 o Bruno Cornacchiola nel 1947 ne sono esempi famosi. André Frossard (1915-1995), appartenente a un contesto socio-culturale molto distante dalla fede cattolica (suo padre fu uno dei fondatori storici del Partito comunista francese), varcò l’ingresso della cappella delle Figlie dell’Adorazione di Parigi e si convertì in un istante, a causa non di una visione, ma di uno sguardo nuovo sul mondo e su di sé… Scrisse allora una testimonianza rimasta celebre: “Dio esiste, io l’ho incontrato”.§La conversione di Paul Claudel (1868-1995) alla fine del XIX secolo ha avuto luogo dietro uno dei pilastri di Notre Dame di Parigi, un giorno di Natale, ma il futuro diplomatico e poeta non provava allora alcuna ostilità nei confronti del cattolicesimo; in qualche modo, si era preparato – umanamente – a una tale conversione.
Del tutto imprevedibile è stata invece la conversione di Bruno Cornacchiola (1913-2001), un protestante estremista che odiava davvero la Chiesa e il papa (che aveva anche progettato di uccidere), che vide la Vergine nei pressi dell’abbazia trappista delle Tre Fontane a Roma. Era l’aprile 1947. Bruno era a passeggio con i suoi figli. Mentre cercava di scrivere un duro articolo contro la Vergine Maria, i bambini si allontanarono, e li ritrovò all’ingresso di una grotta con le mani giunte, pallidi e in estasi, con lo sguardo rivolto all’interno della cavità. “Bella Signora… Bella Signora”, dicevano. Bruno, prima irritato e poi preoccupato, finì per entrare nella grotta, e inginocchiatosi disse a sua volta: “Bella Signora, bella Signora”. Davanti a lui si profilò la figura di una donna giovane, avvolta nello splendore di una luce dorata. Affascinato da ciò che vedeva, cadde anch’egli in estasi. La Vergine, contrariamente a ciò che aveva fatto con i bambini, si mise a parlare con lui, dicendogli dolcemente: “Tu mi perseguiti, ora basta! Entra nell’Ovile [...] Si preghi assai e si reciti il rosario quotidiano per la conversione dei peccatori, degli increduli e per l’unità dei cristiani”.
?“In questa grotta mi è apparsa la Madre divina… Ella mi invita con amore a rientrare nella Chiesa cattolica, apostolica e romana”, incise Bruno sulla roccia della grotta quello stesso giorno. Bruno ebbe altre apparizioni, una delle quali l’anno successivo in presenza di un sacerdote. Da quel momento la sua conversione fu irrefrenabile, e tra mille vicissitudini si recò a Roma a chiedere perdono a papa Pio XII per averlo voluto uccidere. Circa trent’anni dopo, nel 1978, incontrò Giovanni Paolo II, che gli disse: “Tu hai visto la madre di Dio, ora devi essere santo!”.
3. Queste conversioni riguardano anche ebrei che spesso, a causa di rivelazioni particolari, continuano ad esserlo ma riconoscono in Gesù il Salvatore atteso da Israele, venendo chiamati “ebrei messianici”. Al giorno d’oggi in Israele ci sono ebrei che mantengono la propria identità ebraica ma riconoscono Gesù Cristo come il Messia di Israele (vengono chiamati “ebrei messianici”). La loro conversione giunge spesso in modo carismatico, per apparizioni, rivelazioni o visioni private, a immagine di quanto è accaduto in passato a molte personalità ebraiche di spicco: ?Israel Zoller (1881-1956), ad esempio, era ebreo di nascita, di origine polacca, gran rabbino di Trieste e poi di Roma durante la II Guerra Mondiale, docente di esegesi biblica all’Università di Padova. Cristo gli apparve all’improvviso nell’ottobre 1944, quando si trovava all’interno della grande sinagoga romana, il giorno dello Yom Kippur. Israel si convertì al cattolicesimo a 65 anni e prese il nome di Eugenio Pio come omaggio a papa Pio XII per la sua opera a favore degli ebrei di Roma durante il conflitto.
Un altro convertito, Alphonse Ratisbonne (1814-1884), un giovane ebreo della metà del XIX secolo, ebbe una visione della Vergine Maria entrando in una chiesa di Roma. La Vergine gli si presentò con le mani aperte e tese, facendogli segno di inginocchiarsi. “La Vergine sembrava dirmi: va bene! Non mi parlò, ma io compresi tutto”, scrisse in seguito. Subito dopo, il giovane decise di convertirsi al cattolicesimo, aggiungendo il nome di Maria al proprio. Entrò nella Compagnia di Gesù nel giugno 1842 e ricevette l’ordinazione sacerdotale nel 1848. In seguito si stabilì in Palestina, dove consacrò la propria vita al catecumenato dei convertiti di origine ebraica.
L’americano di origine ebraica Roy Schoeman, nato nel 1951 in una famiglia fuggita dalla Germania nazista, rappresenta un altro caso di conversione improvvisa. Lo spiega nel suo libro “Le salut vient des juifs” [“La salvezza viene dagli ebrei”, ndt]: “Durante una lunga camminata nella natura ricevetti la grazia più eccezionale della mia vita (…). Mi trovai coscientemente e materialmente in presenza di Dio. Vidi davanti a me la mia vita fino a quel giorno, tutto ciò che mi rendeva felice e ciò che mi intristiva. Capii in un istante che l’obiettivo della mia vita era amare e servire il mio Signore e mio Dio”. E aggiunge: “Il nome di quel Dio che mi si rivelò, senso e obiettivo della mia vita, non lo concepivo come il Dio dell’Antico Testamento che era nella mia immaginazione fin dall’infanzia. Chiesi di conoscere il suo nome, per sapere quale religione mi avrebbe permesso di servirlo e adorarlo”.
Roy Schoeman chiese al Signore di fargli conoscere il suo nome, ma a una condizione: che non fosse Cristo e non dovesse diventare cristiano. Un anno dopo, però, ricevette in sogno “la seconda grazia più grande” della sua vita: lui che diceva di non sapere molto del cristianesimo e di non provare una speciale simpatia per questo si risvegliò “perdutamente innamorato della beata Vergine Maria” e senza desiderare “altro che diventare totalmente cristiano”. Per saperne di più, si può ascoltare la lettura di un frammento del suo libro “Le Miel du rocher, seize témoignages d’accomplissement de la foi d’Israël dans le Christ” [“Il miele della roccia, sedici testimonianze di compimento della fede di Israele in Cristo”, n.d.t.], pubblicato dalle edizioni François-Xavier de Guibert nel 2008 (diffuso dalla “Radio Vaticana”).
4. Tali conversioni si verificano anche tra i musulmani, che tuttavia si vedono spesso costretti a mantenere un atteggiamento discreto. Joseph Fadelle è l’autore della toccante opera “Le prix à payer” [“Il prezzo da pagare”, n.d.t.]. Iracheno convertito dall’islam al cristianesimo, si è rifugiato in Francia e deve nascondersi per evitare che venga eseguita la fatwa pronunciata contro di lui. Il suo vero nome è Mohammed al-Sayyid al-Moussaou, ed è nato in una delle famiglie più importanti dell’aristocrazia sciita dell’Iraq, discendente dall’imam Ali, cugino del Profeta.
Nel 1987, durante il servizio militare, incontrò Massoud, un cristiano con il quale discusse di cristianesimo e islam. In seguito, ha spiegato, una notte fece un sogno destabilizzante: un uomo vestito di bianco, dall’altra riva di un torrente, gli tendeva la mano e gli diceva: “Io sono il pane di vita”. Turbato, aprì la Bibbia di Massoud e, estremamente colpito da ciò che lesse, la “divorò” e si convertì. Con sua moglie, anche lei convertita, si inserì con difficoltà nella Chiesa dell’Iraq, e dopo essere stato arrestato, picchiato, frustato e torturato dalla propria famiglia dovette fuggire a seguito di un tentativo di omicidio da parte di suo fratello.
Un altro caso di conversione imprevedibile è quello dell’egiziana Nahed Mahmoud Metwalli, che perseguitava i cristiani e le cristiane dall’alto del suo incarico di vicedirettrice dell’istituzione principale di insegnamento per bambine del Cairo (4.000 allieve), nel quartiere di Zeitoun, non lontano dalla basilica costruita dopo le apparizioni mariane del 1968-69.
“Le perseguitavo con forza e le trattavo con estrema severità”, ha confessato in un messaggio indirizzato dal suo esilio in Olanda a tutti i musulmani dell’Egitto, dove viene rispettato il diritto alla libertà di coscienza. “Credevo che fosse mio dovere agire in quel modo. Fino al giorno in cui ho incontrato il Signore Gesù. Mi si è rivelato e gli ho donato la mia vita, a causa dell’immensità della sua tenerezza e del suo amore. Ho abbandonato il mio Paese, la mia famiglia e tutto a causa di Cristo e della testimonianza nel suo nome”, ha aggiunto.
È stata una nuova segretaria, cristiana, ad aprirle gli occhi grazie al suo comportamento esemplare. Un giorno, mentre stava parlando con lei nel suo ufficio, ironizzando sull’immagine di Maria che portava su una medaglietta, le due donne hanno visto apparire davanti a loro la Vergine, vestita di azzurro con un velo, una visione alla quale è seguita, un altro giorno, una visione di Cristo stesso, che ha detto a Nahed: “Resta in pace, avrai una missione che ti verrà rivelata al momento opportuno”.
Nahed ci mise un po’ a comprendere ciò che aveva visto, ma la sua conversione era già iniziata e il suo comportamento di persecutrice cambiò totalmente, fino alla completa conversione, sigillata dal Battesimo, il 30 novembre 1988. La persecutrice divenne allora oggetto di persecuzione nel suo Paese, subendo vari tentativi di sequestro e finendo per rifugiarsi in Europa, dove si è consacrata all’evangelizzazione, attualmente nei Paesi Bassi.

the passage of the Red Sea

the passage of the Red Sea dans immagini sacre
http://www.eifelpunkt.de/Christoph_Marz/Kirche_Wiebelskirchen/Die_Ausmalungen_der_Kirche/die_ausmalungen_der_kirche.html

Publié dans:immagini sacre |on 17 avril, 2013 |Pas de commentaires »

UNA RILETTURA DEI DIECI COMANDAMENTI – FRÈRE JOHN DI TAIZÉ

http://www.atma-o-jibon.org/italiano8/br_john_comandamenti1.htm

FRÈRE JOHN DI TAIZÉ
VERSO UNA TERRA DI LIBERTÀ
UNA RILETTURA DEI DIECI COMANDAMENTI

(ovviamente sono 10 pagine/studi, metto il primo, nellink trovate anche gli altri, un cenno anche a Paolo)

EDIZIONI MESSAGGERO PADOVA 2005

Corro per la via dei tuoi comandamenti, perché hai dilatato il mio cuore.
(Sal 119,32)

Perché un libro sui dieci comandamenti?
Ogni anno, preparando le introduzioni bibliche per i giovani che partecipano agli incontri internazionali sulla collina di Taizé, cerco un tema per la settimana che possa aiutare i partecipanti a cogliere l’unità all’interno delle diverse parti della Scrittura. Talvolta si tratta di un concetto, per esempio «la santità» oppure «la novità», in altri momenti leggiamo insieme un testo biblico e tentiamo di approfondirlo. Parecchie volte l’esperienza di meditare un passaggio anche già molto conosciuto, come il Padre Nostro o le Beatitudini, si rivela particolarmente utile. Ci sono dei testi di base per la comprensione del messaggio cristiano e il semplice fatto di rileggerli, di entrare direttamente in contatto con questi brani, come se avessero qualcosa di nuovo da dirci, permette un approfondimento della nostra fede. In effetti, quando immaginiamo di conoscere una realtà che abbiamo già visitato e dalla quale pensiamo di non aver più nulla da ricavare, questa realtà, in un certo senso, per noi non esiste più. Essa ha semplicemente preso il suo posto fra le nozioni abituali che arredano il nostro immaginario. Applicata alle verità della fede biblica, la pretesa di comprendere già tutto porta a pesanti malintesi. Per i credenti la Bibbia non è semplicemente una raccolta di parole, di modi di fare e di racconti umani; attraverso queste realtà umane noi entriamo in contatto, in maniera davvero inspiegabile, con il Dio vivente, colui che supera sempre ciò che noi siamo in grado di cogliere. In questo tocchiamo con mano la dinamica più profonda della Bibbia: Dio si serve di ciò che è a nostra disposizione per condurci là dove noi non siamo ancora stati, verso una vita insperata. È ciò che esprime un antico testo della liturgia cristiana, se pure in un contesto leggermente diverso: attraverso ciò che è visibile ai nostri occhi noi siamo scelti e condotti verso l’amore del Dio invisibile («ut per [visibilia] in invisibilium amorem rapiamur», Prefazio della Natività di Cristo).
Questo libro propone una rilettura di quello che, fra i testi biblici ben conosciuti, è certamente il più conosciuto di tutti: i dieci comandamenti. È una proposta che rischia di suscitare delle resistenze anche fra i lettori più attenti perché, per la maggior parte di noi, i dieci comandamenti riportano alla religione della nostra infanzia, alle lezioni di catechismo. Evocano facilmente l’obbedienza cieca, il peccato e il senso di colpa, in sintesi, un approccio moralista o giuridico alle realtà di Dio, che sembra essere agli antipodi della religione positiva d’amore e di responsabilità che identifichiamo con Gesù Cristo. Oppure possono interessarci per ragioni opposte, come un richiamo ai valori «di una volta», per difenderci contro l’ondata di relativismo e di anarchia che minaccia di inghiottirci. Questo per dire che, se seguiamo semplicemente la china delle nostre reazioni spontanee, rischiamo di accettare o di respingere questo testo per ragioni che sono più legate alle nostre idee preconcette che non al suo vero significato nel contesto dell’insieme del messaggio biblico.
Un primo passo per superare questo dilemma potrebbe consistere nella consapevolezza che non conosciamo i dieci comandamenti così bene come invece crediamo. Innanzitutto, quando apriamo la Bibbia, notiamo subito che la versione che abbiamo imparato da bambini non corrisponde esattamente alle parole che vi troviamo. E forse saremo poi molto sorpresi nello scoprire che non c’è solo una versione dei dieci comandamenti; esistono, infatti, due versioni, situate in due differenti libri della Bibbia: al capitolo 20 del libro dell’Esodo e al capitolo 5 del libro del Deuteronomio. Sebbene queste due versioni siano identiche nei contenuti essenziali, fra di loro è possibile trovare alcune divergenze, talvolta piccole, talvolta meno piccole. La stessa cosa vale, del resto, per gli altri due testi chiave che abbiamo citato poco sopra: nei Vangeli di san Matteo e di san Luca troviamo due versioni distinte del Padre Nostro e delle Beatitudini. Se in un primo momento questo fatto può sembrare una difficoltà, riflettendo meglio possiamo cogliere le prospettive liberatrici che invece ci apre. Testimoniando l’impossibilità di un’interpretazione letterale, parola per parola, della verità biblica – noi non conosciamo con esattezza le parole di Gesù (le sue ipsissima verba) e neppure quelle della rivelazione di Dio sul Sinai – queste differenze ci permettono di avvicinare la verità che le parole indicano senza poterla circoscrivere perfettamente. Nel linguaggio di san Paolo, siamo invitati a seguire non la lettera ma lo spirito, perché la lettera uccide ma lo Spirito dà vita (2Cor 3,6). Lo spirito, per intenderci, non è la fantasia umana ma lo Spirito Santo di Dio che traspare attraverso le scritture ispirate, che è presente nella comunità dei credenti e che sostiene il loro tentativo di comprendere la fede che hanno ricevuto cogliendone l’attualità del momento presente.
In secondo luogo, l’espressione «i dieci comandamenti» non s’incontra in nessuna parte delle Scritture. Troviamo semplicemente, in qualche passaggio, questo modo di dire:
Il Signore disse a Mosè: «Scrivi queste parole, perché sulla base di queste parole io ho stabilito un’alleanza con te e con Israele». Mosè rimase con il Signore quaranta giorni e quaranta notti senza mangiar pane e senza bere acqua. li Signore scrisse sulle tavole le parole dell’alleanza, le dieci parole (Es 34,27-28; vedi anche Dt 4,13;10,4).
A dispetto di certe traduzioni, il testo ebraico dice ‘asheret ha-debarim, «le dieci parole». Si tratta, naturalmente, di dieci enunciati, di frasi complete, non solo di dieci parole scritte su una pagina. Nella versione greca della Bibbia, questa costruzione è tradotta con ta deka rhémata oppure hoi deka logoi, da cui l’espressione «il decalogo», usata sovente come termine tecnico per i dieci comandamenti. In questo libro utilizzeremo, generalmente, l’espressione «le Dieci Parole». Questa sfumatura non è senza importanza: se la parola di Dio ha un carattere «performativo», nel senso che porta alla realizzazione di ciò che essa enuncia, una parola non è, tuttavia, la stessa cosa di un comandamento e, lo sappiamo molto bene, un’identificazione immediata della fede con la morale non aiuta affatto i nostri contemporanei a cogliere la vera identità del Dio biblico e la sua relazione con l’universo che ha creato.
I testi che prenderemo in considerazione sembrano testimoniare una tradizione antica, custodita negli scritti di base del popolo di Israele, secondo la quale la relazione di questo popolo con Dio passava attraverso la comunicazione di dieci frasi scritte su tavole di pietra. Perché dieci e non sette, per esempio, o anche dodici, due numeri biblici particolarmente significativi? La risposta rimane nascosta nella nebbia della storia. Può darsi che all’ origine si trattasse di un semplice procedimento mnemotecnico basato sul numero delle dita delle due mani. li vero problema posto da questa tradizione non è però il numero assoluto delle parole, ma piuttosto la maniera attraverso la quale il numero dieci corrisponde al testo ricevuto. Partendo da Esodo 20 o da Deuteronomio 5, non è facile ricavare dieci differenti enunciati. La prova di ciò sta nel fatto che, nel corso dei secoli, ci sono stati almeno tre modi di dividere il testo: un primo, che risale a sant’Agostino, è seguito dalla Chiesa cattolica e luterana; un secondo sistema, più antico, è utilizzato dai cristiani riformati e ortodossi; un terzo, infine, s’incontra nella tradizione del popolo ebreo. Quello che è il «quinto comandamento» per gli uni è invece il quarto per gli altri, e via di seguito. In breve, nonostante, per tutti, le Dieci Parole siano identificate con il testo ricevuto sul Sinai come prologo alla Legge di Mosè, questa identificazione resta problematica, almeno se noi prendiamo alla lettera il numero dieci. La difficoltà nel trovare dieci parole è un’indicazione supplementare al fatto che il testo originale sarebbe stato revisionato e accresciuto nel corso della sua storia. Le cose non sono così chiare come una lettura ingenua del brano potrebbe far credere. Uno spazio non trascurabile resta aperto all’ interpretazione.
Inoltre, una seconda opinione complica ancora di più il nostro passaggio al testo. Incontriamo spesso l’affermazione, anche in alcuni scritti di riferimento, che i dieci comandamenti sono una specie di «legge naturale» valida per tutti gli esseri umani di ogni tempo e in ogni luogo, un fondamento universale della morale, chiaro a tutti gli uomini di buona volontà, indipendentemente dalla loro fede in un dio particolare o in una rivelazione specifica. Bisogna ammettere che una parte del testo sembra corrispondere a questa descrizione. L’ingiunzione di non uccidere i propri simili o di non rubare i loro beni, per esempio, è alla base di ogni esistenza in società. Tuttavia, un approfondimento della struttura del passo nel suo insieme mette in luce che al cuore delle Dieci Parole si trova l’invito a osservare il sabato. È il centro del testo, oltre che la parte più lunga. È dunque evidente che questa Parola è un puro atto di rivelazione: non solo essa non è comprensibile al di fuori di Israele, ma anche per il popolo di Dio, non avrebbe mai potuto essere dedotta a partire da una verità più generale riguardante la divinità, a dispetto dei tentativi fatti a posteriori in questa senso. La Parola sul sabato ci conduce piuttosto nella direzione opposta: attraverso di essa incontriamo un Dio «particolare» che è la sorgente della vita di Israele e che non potrebbe mai essere desunto da categorie religiose o morali più globali. In fin dei conti, le Dieci Parole sono comprensibili unicamente nel contesto di una rivelazione che è un tutt’uno con una storia particolare: quella raccontata nella Bibbia. Ciò che è universale in esse è accessibile solo attraverso questa storia. Il loro significato più autentico non è al di fuori del tempo o della storia. A differenza di un insegnamento filosofico, l’universalità delle Dieci Parole non può essere raggiunta attraverso un processo di astrazione, staccandole dal contesto storico nel quale sono nate. È in questo contesto che noi incominciamo la scoperta del loro significato.

Io sono il Signore, tuo Dio,
che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto,
dalla condizione di schiavitù.
(Es 20,2; Dt 5,6)

Ecco la prima della Dieci Parole secondo la tradizione ebraica. E, forse con nostro grande stupore, scopriamo che non si tratta di un comandamento. Questo dovrebbe aiutarci a superare l’impressione, purtroppo ancora molto diffusa fra i cristiani, che la religione ebraica sia una religione legalista che predica un’obbedienza cieca, mentre noi cristiani gustiamo la libertà dello Spirito. In realtà, lungi dal voler affermare ciò che serve per meritare l’approvazione di Dio, la prima Parola ci rivela semplicemente l’identità di Dio e quanto egli ha fatto per i suoi. Per usare una distinzione cristiana più tardiva, essa non rientra nella categoria della «legge» bensì in quella del «vangelo».
D’altronde, la Bibbia nel suo insieme, non è un manuale di istruzioni su ciò che gli esseri umani devono fare. Essa ha come punto di partenza questo mistero che è al centro dell’ esistenza e che noi chiamiamo Dio. L’identità e l’attività divina vengono sempre prima di ogni altra cosa. Da parte loro, gli esseri umani non possono assolutamente fare nulla per meritare l’attenzione e le premure di Dio nei loro riguardi. Molti comprendono questa verità a partire dalla sua enunciazione nelle pagine del Nuovo Testamento. È san Giovanni che la esprime nella maniera più concentrata:
In questo sta 1′amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio per il perdono dei nostri peccati [...]. Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo (1Gv 4,10.19).

A SUA VOLTA, SAN PAOLO DICE LA STESSA COSA IN ALTRE PAROLE:
Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi (Rm 5,6-8).

Dio ci ama per primo, ancora prima che noi possiamo o vogliamo fare qualsiasi cosa per meritare o guadagnare il suo amore. La nostra attività non può essere che una conseguenza, cioè una risposta al dono del tutto gratuito di Dio. Se questo è il cuore del Vangelo cristiano, è bene però rendersi conto che una logica identica governa l’avvenimento costitutivo del popolo d’Israele: l’uscita dall’Egitto. Proprio all’inizio delle Dieci Parole, Dio si definisce come colui che viene a liberare l’umanità sofferente dai legami che la rendono schiava.
Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele» (Es 3,7 -8a).
E per evitare ogni ambiguità, un passaggio del libro del Deuteronomio spiega chiaramente che Israele non ha fatto assolutamente nulla per determinare in anticipo le azioni della bontà divina. Era un gesto di pura gratuità, un’espressione incondizionata della generosità e della fedeltà di Dio.
Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra. Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli – , ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, il Signore vi ha fatti uscire con mano potente e vi ha riscattati liberandovi dalla condizione servile, dalla mano del faraone, re di Egitto (Dt 7,6-8).
Ogni riferimento ai comandamenti divini e ad obblighi umani non può dunque venire che in un secondo tempo, come risposta umana alle scelte iniziali e libere di Dio. Un altro testo chiave del libro del Deuteronomio esprime questa medesima logica mentre cerca di spiegare in che modo la confessione di fede del popolo si trasmette da una generazione alla seguente:
Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: «Che significano queste istruzioni, queste leggi e queste norme che il Signore nostro Dio vi ha date?». Tu risponderai a tuo figlio: «Eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente. Il Signore operò sotto i nostri occhi segni e