UNA RILETTURA DEI DIECI COMANDAMENTI – FRÈRE JOHN DI TAIZÉ

http://www.atma-o-jibon.org/italiano8/br_john_comandamenti1.htm

FRÈRE JOHN DI TAIZÉ
VERSO UNA TERRA DI LIBERTÀ
UNA RILETTURA DEI DIECI COMANDAMENTI

(ovviamente sono 10 pagine/studi, metto il primo, nellink trovate anche gli altri, un cenno anche a Paolo)

EDIZIONI MESSAGGERO PADOVA 2005

Corro per la via dei tuoi comandamenti, perché hai dilatato il mio cuore.
(Sal 119,32)

Perché un libro sui dieci comandamenti?
Ogni anno, preparando le introduzioni bibliche per i giovani che partecipano agli incontri internazionali sulla collina di Taizé, cerco un tema per la settimana che possa aiutare i partecipanti a cogliere l’unità all’interno delle diverse parti della Scrittura. Talvolta si tratta di un concetto, per esempio «la santità» oppure «la novità», in altri momenti leggiamo insieme un testo biblico e tentiamo di approfondirlo. Parecchie volte l’esperienza di meditare un passaggio anche già molto conosciuto, come il Padre Nostro o le Beatitudini, si rivela particolarmente utile. Ci sono dei testi di base per la comprensione del messaggio cristiano e il semplice fatto di rileggerli, di entrare direttamente in contatto con questi brani, come se avessero qualcosa di nuovo da dirci, permette un approfondimento della nostra fede. In effetti, quando immaginiamo di conoscere una realtà che abbiamo già visitato e dalla quale pensiamo di non aver più nulla da ricavare, questa realtà, in un certo senso, per noi non esiste più. Essa ha semplicemente preso il suo posto fra le nozioni abituali che arredano il nostro immaginario. Applicata alle verità della fede biblica, la pretesa di comprendere già tutto porta a pesanti malintesi. Per i credenti la Bibbia non è semplicemente una raccolta di parole, di modi di fare e di racconti umani; attraverso queste realtà umane noi entriamo in contatto, in maniera davvero inspiegabile, con il Dio vivente, colui che supera sempre ciò che noi siamo in grado di cogliere. In questo tocchiamo con mano la dinamica più profonda della Bibbia: Dio si serve di ciò che è a nostra disposizione per condurci là dove noi non siamo ancora stati, verso una vita insperata. È ciò che esprime un antico testo della liturgia cristiana, se pure in un contesto leggermente diverso: attraverso ciò che è visibile ai nostri occhi noi siamo scelti e condotti verso l’amore del Dio invisibile («ut per [visibilia] in invisibilium amorem rapiamur», Prefazio della Natività di Cristo).
Questo libro propone una rilettura di quello che, fra i testi biblici ben conosciuti, è certamente il più conosciuto di tutti: i dieci comandamenti. È una proposta che rischia di suscitare delle resistenze anche fra i lettori più attenti perché, per la maggior parte di noi, i dieci comandamenti riportano alla religione della nostra infanzia, alle lezioni di catechismo. Evocano facilmente l’obbedienza cieca, il peccato e il senso di colpa, in sintesi, un approccio moralista o giuridico alle realtà di Dio, che sembra essere agli antipodi della religione positiva d’amore e di responsabilità che identifichiamo con Gesù Cristo. Oppure possono interessarci per ragioni opposte, come un richiamo ai valori «di una volta», per difenderci contro l’ondata di relativismo e di anarchia che minaccia di inghiottirci. Questo per dire che, se seguiamo semplicemente la china delle nostre reazioni spontanee, rischiamo di accettare o di respingere questo testo per ragioni che sono più legate alle nostre idee preconcette che non al suo vero significato nel contesto dell’insieme del messaggio biblico.
Un primo passo per superare questo dilemma potrebbe consistere nella consapevolezza che non conosciamo i dieci comandamenti così bene come invece crediamo. Innanzitutto, quando apriamo la Bibbia, notiamo subito che la versione che abbiamo imparato da bambini non corrisponde esattamente alle parole che vi troviamo. E forse saremo poi molto sorpresi nello scoprire che non c’è solo una versione dei dieci comandamenti; esistono, infatti, due versioni, situate in due differenti libri della Bibbia: al capitolo 20 del libro dell’Esodo e al capitolo 5 del libro del Deuteronomio. Sebbene queste due versioni siano identiche nei contenuti essenziali, fra di loro è possibile trovare alcune divergenze, talvolta piccole, talvolta meno piccole. La stessa cosa vale, del resto, per gli altri due testi chiave che abbiamo citato poco sopra: nei Vangeli di san Matteo e di san Luca troviamo due versioni distinte del Padre Nostro e delle Beatitudini. Se in un primo momento questo fatto può sembrare una difficoltà, riflettendo meglio possiamo cogliere le prospettive liberatrici che invece ci apre. Testimoniando l’impossibilità di un’interpretazione letterale, parola per parola, della verità biblica – noi non conosciamo con esattezza le parole di Gesù (le sue ipsissima verba) e neppure quelle della rivelazione di Dio sul Sinai – queste differenze ci permettono di avvicinare la verità che le parole indicano senza poterla circoscrivere perfettamente. Nel linguaggio di san Paolo, siamo invitati a seguire non la lettera ma lo spirito, perché la lettera uccide ma lo Spirito dà vita (2Cor 3,6). Lo spirito, per intenderci, non è la fantasia umana ma lo Spirito Santo di Dio che traspare attraverso le scritture ispirate, che è presente nella comunità dei credenti e che sostiene il loro tentativo di comprendere la fede che hanno ricevuto cogliendone l’attualità del momento presente.
In secondo luogo, l’espressione «i dieci comandamenti» non s’incontra in nessuna parte delle Scritture. Troviamo semplicemente, in qualche passaggio, questo modo di dire:
Il Signore disse a Mosè: «Scrivi queste parole, perché sulla base di queste parole io ho stabilito un’alleanza con te e con Israele». Mosè rimase con il Signore quaranta giorni e quaranta notti senza mangiar pane e senza bere acqua. li Signore scrisse sulle tavole le parole dell’alleanza, le dieci parole (Es 34,27-28; vedi anche Dt 4,13;10,4).
A dispetto di certe traduzioni, il testo ebraico dice ‘asheret ha-debarim, «le dieci parole». Si tratta, naturalmente, di dieci enunciati, di frasi complete, non solo di dieci parole scritte su una pagina. Nella versione greca della Bibbia, questa costruzione è tradotta con ta deka rhémata oppure hoi deka logoi, da cui l’espressione «il decalogo», usata sovente come termine tecnico per i dieci comandamenti. In questo libro utilizzeremo, generalmente, l’espressione «le Dieci Parole». Questa sfumatura non è senza importanza: se la parola di Dio ha un carattere «performativo», nel senso che porta alla realizzazione di ciò che essa enuncia, una parola non è, tuttavia, la stessa cosa di un comandamento e, lo sappiamo molto bene, un’identificazione immediata della fede con la morale non aiuta affatto i nostri contemporanei a cogliere la vera identità del Dio biblico e la sua relazione con l’universo che ha creato.
I testi che prenderemo in considerazione sembrano testimoniare una tradizione antica, custodita negli scritti di base del popolo di Israele, secondo la quale la relazione di questo popolo con Dio passava attraverso la comunicazione di dieci frasi scritte su tavole di pietra. Perché dieci e non sette, per esempio, o anche dodici, due numeri biblici particolarmente significativi? La risposta rimane nascosta nella nebbia della storia. Può darsi che all’ origine si trattasse di un semplice procedimento mnemotecnico basato sul numero delle dita delle due mani. li vero problema posto da questa tradizione non è però il numero assoluto delle parole, ma piuttosto la maniera attraverso la quale il numero dieci corrisponde al testo ricevuto. Partendo da Esodo 20 o da Deuteronomio 5, non è facile ricavare dieci differenti enunciati. La prova di ciò sta nel fatto che, nel corso dei secoli, ci sono stati almeno tre modi di dividere il testo: un primo, che risale a sant’Agostino, è seguito dalla Chiesa cattolica e luterana; un secondo sistema, più antico, è utilizzato dai cristiani riformati e ortodossi; un terzo, infine, s’incontra nella tradizione del popolo ebreo. Quello che è il «quinto comandamento» per gli uni è invece il quarto per gli altri, e via di seguito. In breve, nonostante, per tutti, le Dieci Parole siano identificate con il testo ricevuto sul Sinai come prologo alla Legge di Mosè, questa identificazione resta problematica, almeno se noi prendiamo alla lettera il numero dieci. La difficoltà nel trovare dieci parole è un’indicazione supplementare al fatto che il testo originale sarebbe stato revisionato e accresciuto nel corso della sua storia. Le cose non sono così chiare come una lettura ingenua del brano potrebbe far credere. Uno spazio non trascurabile resta aperto all’ interpretazione.
Inoltre, una seconda opinione complica ancora di più il nostro passaggio al testo. Incontriamo spesso l’affermazione, anche in alcuni scritti di riferimento, che i dieci comandamenti sono una specie di «legge naturale» valida per tutti gli esseri umani di ogni tempo e in ogni luogo, un fondamento universale della morale, chiaro a tutti gli uomini di buona volontà, indipendentemente dalla loro fede in un dio particolare o in una rivelazione specifica. Bisogna ammettere che una parte del testo sembra corrispondere a questa descrizione. L’ingiunzione di non uccidere i propri simili o di non rubare i loro beni, per esempio, è alla base di ogni esistenza in società. Tuttavia, un approfondimento della struttura del passo nel suo insieme mette in luce che al cuore delle Dieci Parole si trova l’invito a osservare il sabato. È il centro del testo, oltre che la parte più lunga. È dunque evidente che questa Parola è un puro atto di rivelazione: non solo essa non è comprensibile al di fuori di Israele, ma anche per il popolo di Dio, non avrebbe mai potuto essere dedotta a partire da una verità più generale riguardante la divinità, a dispetto dei tentativi fatti a posteriori in questa senso. La Parola sul sabato ci conduce piuttosto nella direzione opposta: attraverso di essa incontriamo un Dio «particolare» che è la sorgente della vita di Israele e che non potrebbe mai essere desunto da categorie religiose o morali più globali. In fin dei conti, le Dieci Parole sono comprensibili unicamente nel contesto di una rivelazione che è un tutt’uno con una storia particolare: quella raccontata nella Bibbia. Ciò che è universale in esse è accessibile solo attraverso questa storia. Il loro significato più autentico non è al di fuori del tempo o della storia. A differenza di un insegnamento filosofico, l’universalità delle Dieci Parole non può essere raggiunta attraverso un processo di astrazione, staccandole dal contesto storico nel quale sono nate. È in questo contesto che noi incominciamo la scoperta del loro significato.

Io sono il Signore, tuo Dio,
che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto,
dalla condizione di schiavitù.
(Es 20,2; Dt 5,6)

Ecco la prima della Dieci Parole secondo la tradizione ebraica. E, forse con nostro grande stupore, scopriamo che non si tratta di un comandamento. Questo dovrebbe aiutarci a superare l’impressione, purtroppo ancora molto diffusa fra i cristiani, che la religione ebraica sia una religione legalista che predica un’obbedienza cieca, mentre noi cristiani gustiamo la libertà dello Spirito. In realtà, lungi dal voler affermare ciò che serve per meritare l’approvazione di Dio, la prima Parola ci rivela semplicemente l’identità di Dio e quanto egli ha fatto per i suoi. Per usare una distinzione cristiana più tardiva, essa non rientra nella categoria della «legge» bensì in quella del «vangelo».
D’altronde, la Bibbia nel suo insieme, non è un manuale di istruzioni su ciò che gli esseri umani devono fare. Essa ha come punto di partenza questo mistero che è al centro dell’ esistenza e che noi chiamiamo Dio. L’identità e l’attività divina vengono sempre prima di ogni altra cosa. Da parte loro, gli esseri umani non possono assolutamente fare nulla per meritare l’attenzione e le premure di Dio nei loro riguardi. Molti comprendono questa verità a partire dalla sua enunciazione nelle pagine del Nuovo Testamento. È san Giovanni che la esprime nella maniera più concentrata:
In questo sta 1′amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio per il perdono dei nostri peccati [...]. Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo (1Gv 4,10.19).

A SUA VOLTA, SAN PAOLO DICE LA STESSA COSA IN ALTRE PAROLE:
Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi (Rm 5,6-8).

Dio ci ama per primo, ancora prima che noi possiamo o vogliamo fare qualsiasi cosa per meritare o guadagnare il suo amore. La nostra attività non può essere che una conseguenza, cioè una risposta al dono del tutto gratuito di Dio. Se questo è il cuore del Vangelo cristiano, è bene però rendersi conto che una logica identica governa l’avvenimento costitutivo del popolo d’Israele: l’uscita dall’Egitto. Proprio all’inizio delle Dieci Parole, Dio si definisce come colui che viene a liberare l’umanità sofferente dai legami che la rendono schiava.
Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele» (Es 3,7 -8a).
E per evitare ogni ambiguità, un passaggio del libro del Deuteronomio spiega chiaramente che Israele non ha fatto assolutamente nulla per determinare in anticipo le azioni della bontà divina. Era un gesto di pura gratuità, un’espressione incondizionata della generosità e della fedeltà di Dio.
Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra. Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli – , ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, il Signore vi ha fatti uscire con mano potente e vi ha riscattati liberandovi dalla condizione servile, dalla mano del faraone, re di Egitto (Dt 7,6-8).
Ogni riferimento ai comandamenti divini e ad obblighi umani non può dunque venire che in un secondo tempo, come risposta umana alle scelte iniziali e libere di Dio. Un altro testo chiave del libro del Deuteronomio esprime questa medesima logica mentre cerca di spiegare in che modo la confessione di fede del popolo si trasmette da una generazione alla seguente:
Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: «Che significano queste istruzioni, queste leggi e queste norme che il Signore nostro Dio vi ha date?». Tu risponderai a tuo figlio: «Eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente. Il Signore operò sotto i nostri occhi segni e prodigi grandi e terribili contro l’Egitto, contro il faraone e contro tutta la sua casa. Ci fece uscire di là per condurci nel paese che aveva giurato ai nostri padri di darci. Allora il Signore ci ordinò di mettere in pratica tutte queste leggi, temendo il Signore nostro Dio così da essere sempre felici ed essere conservati in vita, come appunto siamo oggi. La giustizia consisterà per noi nel mettere in pratica tutti questi comandi, davanti al Signore Dio nostro, come ci ha ordinato» (Dt 6,20-25).
In questo brano, come nelle Dieci Parole, la risposta del padre alla domanda del figlio inizia con il racconto delle azioni di Dio, la liberazione dalla schiavitù e il dono di una patria. I comportamenti umani vengono dopo, al seguito dell’iniziativa divina. Ma il testo aggiunge una precisazione importante: noi seguiamo i comandamenti per ottenere vita e felicità nella terra donata da Dio. Poiché gli esseri umani non sono degli automi, non basta che Dio doni loro la vita e la libertà attraverso un gesto o una decisione unilaterale. Affinché questo dono possa diventare reale, i beneficiari devono renderlo presente negli avvenimenti concreti della loro esistenza. li dono deve diventare un percorso di vita.
In Es 34,28, le Dieci Parole vengono anche definite come le parole dell’alleanza. In effetti, il concetto biblico dell’ Alleanza offre il contesto più accessibile per una comprensione generale della legge di Dio e delle Dieci Parole in particolare. Nelle Scritture ebraiche, questo testo è legato a un avvenimento su di una montagna santa (il Sinai nel libro dell’Esodo, l’Oreb nel Deuteronomio) poco tempo dopo la partenza dall’Egitto. Su questa montagna, il Signore rivelò la sua identità come Dio che libera un’accozzaglia di persone, da tempo in schiavitù, per offrirle un’ alleanza che farà di loro un popolo. Nel mondo dell’antico Medio-Oriente, la parola berit viene tradotta spesso con «alleanza» ma ha, di fatto, più significati differenti fra loro. Viene spesso utilizzata per definire un accordo o un patto fra due parti. C’erano diversi tipi di alleanze, ma quella che serve da analogia per i rapporti fra il Signore e Israele sembra essere l’alleanza fra un re o una nazione potente con un suddito più debole. li re prometteva di garantire l’identità e la sicurezza dello stato suo cliente e domandava in cambio di comportarsi in maniera consona rispetto alla protezione offerta. li patto era reciproco, ma gli interlocutori non erano su un piano di uguaglianza. Questo modello ebbe il merito di dare forma alla relazione fra Israele e il suo Dio, ma allo stesso tempo bisogna riconoscere che una tale relazione in continuo divenire è unica nel suo genere e possiede degli aspetti che non rientrano nella logica di un accordo umano, qualunque esso sia.
Quando i superstiti dall’Egitto arrivano al Sinai, ricevono attraverso la mediazione di Mosè questo messaggio di Dio:
Mosè salì verso Dio e il Signore lo chiamò dal monte, dicendo: «Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti: Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Es 19,3-6a).
Ancora una volta è Dio che prende l’iniziativa. È lui che, avendo liberato coloro che lo ascoltano, li ha condotti verso di lui. Allo stesso tempo, questo Dio è un Dio che parla, non è un burattinaio di marionette che muove i fili, ma un comunicatore che cerca una relazione di reciprocità. Se tutto inizia con un’ azione di Dio, tutto non può che finire nello stesso modo. Coloro che sono stati liberati hanno adesso la possibilità di entrare coscientemente e liberamente in una relazione. Dio li invita ad ascoltare (questo è il senso essenziale di «obbedire») le sue parole e ad accettare l’accordo che propone loro. In questo modo, questa folla eterogenea che era da tempo in schiavitù diventerà un popolo, il popolo stesso di Dio.
Sarebbe però un errore intendere questa offerta come un privilegio, come se Dio avesse scelto una parte dell’umanità scartando tutto il resto. Il testo dice chiaramente che tutta la terra è di Dio. Di conseguenza, ogni scelta particolare non può essere compresa se non nel quadro di questo «tutto» che è la preoccupazione maggiore di Dio. Una chiave che permette di risolvere questo apparente paradosso fra una preoccupazione universale e una scelta particolare si trova nell’ espressione un regno di sacerdoti, una nazione santa. Nel mondo antico, i sacerdoti erano dei mediatori fra la divinità e l’umanità. Se dunque Israele riceve l’appello ad essere una nazione sacerdotale, è questa una maniera per dire che esso serve da mezzo o da strumento al Dio vivente per entrare nel concreto della storia umana. Per dire la stessa cosa in un altro modo, l’Alleanza rende Israele un segno visibile della presenza divina nel mondo, un «roveto ardente» che attira gli altri verso un incontro con la Sorgente di tutto ciò che esiste. Scegliendo un popolo, Dio evita di essere relegato in un cielo lontano e inaccessibile. L’universo si rivela come luogo sacramentale, aperto all’ eterno; l’avventura dell’Incarnazione è già in qualche modo cominciata.
Secondo la logica dell’ Alleanza, Israele è un regno di sacerdoti per due ragioni, distinte fra loro ma, allo stesso tempo, intimamente legate. In primo luogo a causa della scelta, della chiamata divina. Senza quest’intervento preliminare di Dio, nulla è possibile in questo ambito. L’iniziativa non potrebbe mai venire dagli esseri umani. Questi non possiedono in loro stessi la capacità di trasmettere agli altri qualcosa di Dio, sarebbe una pretesa eccessiva da parte loro. Non esiste alcun esercizio, formazione o riflessione che possano permetterlo. Non mi sento «scelto» o «chiamato» a causa di qualche cosa che avrei compiuto io; mi rendo semplicemente conto che il Dio vivente è entrato nella mia esistenza.
Ciò detto, bisogna aggiungere subito che questa scelta o chiamata di Dio non annulla affatto l’attività umana e nemmeno la rende inutile, le permette piuttosto di spiccare pienamente il volo. Israele è chiamato ad ascoltare e custodire le parole di Dio, in altre parole a vivere in maniera tale che la sua esistenza sia effettivamente un segno dell’identità e della presenza divina. Di conseguenza, l’Alleanza implica necessariamente un invito rivolto a coloro che sono chiamati ad utilizzare la loro intelligenza e le loro energie per fare scelte in armonia con la loro identità più profonda, quella di essere il popolo di Dio. È questo contesto che ci permette un’esatta comprensione della dimensione di «comandamento» contenuta in ogni relazione con Dio. Il comandamento è necessario non perché siamo di fronte a un Dio tiranno, geloso dell’autonomia umana, ma per una ragione del tutto opposta – proprio perché Dio prende sul serio la libertà umana. Dio non può fare in modo che noi diveniamo «automaticamente» segni della sua presenza, può solamente fare appello alla nostra capacità di comprendere la relazione che ci offre e dunque agire in modo consono a questo invito.
La stessa cosa può essere detta partendo dalla concezione di libertà. Il prologo delle Dieci Parole ci presenta un Dio che è essenzialmente un liberatore, che chiama gli esseri umani a uscire dalla condizione di schiavitù, rendendo così possibile un’ esistenza nella libertà. Ma cosa significa, esattamente, essere liberi? Come Israele ha ben presto scoperto, non è sufficiente abbandonare la «casa della schiavitù» per gustare senza ostacoli i vantaggi di una vita libera. Una riflessione sul vero significato della libertà ci conduce al cuore del messaggio delle Dieci Parole come anche della Legge divina nel suo insieme.
Prendiamo come punto di partenza l’idea di libertà come è abitualmente intesa ai nostri giorni, per poi vedere cosa c’è di specifico nella visuale biblica. Per molti dei nostri contemporanei, essere liberi significa fare ciò che si vuole, quando lo si vuole. La libertà è dunque essenzialmente radicata nel sé, un sé che non ha altra regola che non se stesso e che si erge in senso assoluto di fronte a tutte le altre realtà dell’universo. Poiché, in questo modo di vedere, tutto ciò che è al di fuori di me – gli altri, le necessità materiali, gli impegni – rappresenta una limitazione alla mia libertà, ne consegue che avrei la libertà perfetta soltanto se io stesso inglobassi in me tutto l’universo, se fossi «Dio» o, più esattamente, un dio inteso come un essere del tutto centrato su se stesso, il Sé ultimo. La rivelazione biblica, da parte sua, ci offre tutt’altra visione della libertà. Per la Bibbia, la libertà non è una realtà fondata su di un sé autonomo, essa è un dono nato da un incontro con il Dio vivente e vero che mi chiama a lasciare la condizione di schiavitù. E questo implica la scoperta della mia identità in quanto uno in mezzo agli altri, come componente di un popolo. La libertà biblica non è individualista; essa scaturisce da una vita condivisa. In una parola, in questo modo di vedere, l’altrui (sia l’Altro che noi chiamiamo Dio, sia gli altri esseri umani), lungi dall’essere un ostacolo alla libertà, la rende di fatto possibile. La libertà è la conseguenza di un certo tipo di relazione.
Il Dio della Bibbia fa uscire gli esseri umani dalla condizione di schiavitù per farli entrare in una terra di libertà. Ma la terra di libertà non è semplicemente un’ altra parte del nostro pianeta, per esempio la Palestina rispetto all’Egitto, o il Nuovo Mondo rispetto all’Europa. Secondo la nostra maniera di vivere – e la Bibbia ne è un eloquente testimone – proprio in mezzo alla Terra Promessa noi siamo capacissimi di ricadere in un’ esistenza da schiavi. Piuttosto che essere una semplice realtà geografica, la terra della libertà è dunque definita dalle parole che Dio invia al popolo, parole che indicano la relazione permanente tra le due parti, le parole dell’alleanza. Poiché è questa relazione che garantisce la libertà del popolo, le Dieci Parole tracciano il perimetro di uno spazio di libertà. O, per rendere l’immagine più dinamica, sono le pietre miliari di un cammino che porta alla pienezza della libertà e della felicità. Esse indicano i parametri che rendono possibile una vita pienamente umana.

Il fatto di guardare le Dieci Parole come i parametri di uno spazio di libertà ci aiuta a comprendere perché quasi tutte sono formulate in maniera negativa. Esse ci dicono essenzialmente ciò che non bisogna fare – e ciò, talvolta è stato utilizzato per minimizzare la loro importanza. In effetti si oppone volentieri la cosiddetta «morale negativa» dell’ Antico Testamento, fondata sulla condanna, e la chiamata positiva all’amore caratteristica del Vangelo di Gesù Cristo. Qui è però essenziale ricordarsi che la «negatività» delle Dieci Parole è piuttosto un’ espressione del loro significato in quanto pietre miliari che delimitano uno spazio. Esse non cercano di definire l’insieme della vita, ma piuttosto di definire i parametri che rendono possibile la libertà. Sta a noi utilizzare la nostra libertà, cioè, concretamente, la nostra intelligenza e la nostra volontà, per creare, all’interno dello spazio che si è aperto, una vita che valga la pena essere vissuta. I comandamenti ci informano quando noi stiamo per oltrepassare i limiti e dunque quando non siamo più nello spazio della libertà; essi ci danno anche delle indicazioni indirette, ci dicono in cosa consisterebbe una vita pienamente umana. Ma in quanto formulazioni sono incompleti, e ciò intenzionalmente. Per loro stessa natura, essi lasciano aperto uno spazio per la nostra libertà e per l’attività dello Spirito di Dio.
Non è sicuramente un caso che noi troviamo una logica identica in un altro dei passi fondamentali delle Scritture ebraiche, la storia della prima coppia raccontata al capitolo 2 del libro della Genesi.
Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’ albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti» (Gn 2,15-17).
Qui, lo spazio di libertà è descritto come un bel giardino che gli esseri umani sono chiamati a coltivare. In questo giardino, essi sono liberi di mangiare di tutti gli alberi. Dio non intende per nulla frenare la loro attività e le loro scelte. Al contrario, Dio li incoraggia a usare la loro libertà, perché è proprio questo che li rende umani. Tuttavia, non saremmo nel mondo del reale se queste parole di liberazione non fossero completate da un «comandamento negativo» che protegge la libertà così concessa. C’è un albero di cui essi non possono mangiare il frutto, perché così facendo abbandonerebbero lo spazio di libertà, con la conseguenza, poco dopo concretamente indicata, dell’esclusione dal paradiso (Gn 3,23-24). Se noi proviamo a chiederci perché bisogna che esista un albero proibito, in altre parole perché lo spazio di libertà non è senza confini e bisogna che esso si scontri con un limite, la risposta è che questo limite rappresenta l’Altro, le relazioni che sono essenziali per l’esercizio della libertà nel mondo reale. Senza il limite rappresentato dal «frutto proibito», saremmo rinchiusi per sempre in un universo auto-referenziale, prigionieri incoscienti del nostro io. Ancora una volta, il comandamento negativo testimonia che la libertà non è egocentrica, ma che la pienezza della vita fa sbocciare una rete di relazioni. Le Dieci Parole non hanno altro fine se non quello di porre l’essere umano in questa rete di relazioni che rende possibile la vera vita e la vera felicità.
Nel linguaggio della Scrittura, «mangiare dell’ albero della conoscenza del bene e del male» (cfr. Gn 2,17) significa pretendere di essere noi stessi i soli e unici arbitri del nostro comportamento. Lungi dall’essere un divieto riguardo a questo e quel contenuto preciso, le parole di Dio ad Adamo esprimono, per così dire, il comandamento allo stato puro, l’invito a prendere in considerazione la presenza dell’ Altro, a riconoscere che io non sono la Sorgente. In questo senso, l! albero della conoscenza del bene e del male è la faccia «negativa» della Sorgente, l’ombra dell’ albero della vita (cfr. Gn 2,9).

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