DELLA SPIRITUALITÀ, OSSIA IL MISTERO DI CRISTO E LA VITA DEL CRISTIANO – PARTE SECONDA

DELLA SPIRITUALITÀ, OSSIA IL MISTERO DI CRISTO E LA VITA DEL CRISTIANO – PARTE SECONDA

DON MASSIMO NARO

LA SPIRITUALITÀ CRISTIANA
 Il processo, che il cristiano affronta per maturare nella santità, è denominato comunemente «vita spirituale» o anche «spiritualità». Si tratta di espressioni che dicono molto di più di ciò che, di primo acchito, sembrerebbero dire. Come la vita del cristiano non è la vita meramente biologica, ma la vita stessa divina, che fa del cristiano un figlio di Dio nella misura in cui lo rende solidale all’unigenito Figlio Cristo Gesù, così pure la vita spirituale non è solo la vita che «interiormente» il cristiano vive per colmare in sé la misura della santità. La vita spirituale coincide solo in parte con la cosiddetta «vita interiore» del cristiano. Vita spirituale significa sì vita interiore, nel senso che costituisce un movimento vitale spesso non manifesto, bensì discretamente agitato nell’intimo del proprio animo, un movimento «interiore» che alimenta anche l’attività «esteriore» del cristiano, un rapporto «privato» e «confidenziale» con Dio, che sostiene e motiva la testimonianza «pubblica» che il credente rende, nella Chiesa e nella società, al suo Cristo.  Tuttavia, la vita spirituale propriamente detta, non si riduce a «vita interiore». La vita spirituale, cioè, è la vita dello Spirito di Dio, che si travasa nel cristiano, per informarne i moti e i desideri dell’animo, ma anche le scelte operative e le azioni quotidiane. La vita spirituale, cioè, non è solo la vita dello spirito del cristiano, ma è anche e soprattutto la vita dello Spirito Santo, che irrompe — mistericamente — nel cuore del cristiano e che lo inserisce — misticamente — nel cuore di Dio.  In questo senso, è chiaro che il vero protagonista della vita spirituale è lo Spirito Santo, e che noi cristiani siamo i deutero-agonisti, i co-attori, della nostra stessa santità. Si tratta di riconoscere a Dio il primato assoluto nella nostra esistenza: da Lui proviene la vita nuova che Cristo ci ha guadagnato con la sua Pasqua, da Lui procede lo Spirito di Vita che ci santifica, è Lui che prende l’iniziativa di chiamarci alla santità. Il cammino di santità è «nostro» solo perché noi accettiamo di compierlo insieme con Dio, ma in realtà è Dio stesso che ci sostiene durante il cammino. Vale per tutti noi l’esperienza di sant’Agostino, il quale racconta nelle sue Confessioni come egli, una volta, sognò di camminare sulla spiaggia, spalla a spalla con Gesù; ma voltatosi indietro per un attimo, si accorse che sulla sabbia erano impresse solo due, e non quattro, orme; si rese allora conto che egli aveva sì camminato, ma sorretto saldamente in braccio dal suo Compagno di viaggio. Anche noi dobbiamo essere fiduciosi nella presenza amica di un compagno di viaggio:«Non vi lascio soli, ma vi mando un Consolatore», ci ha promesso Gesù. E’ lo Spirito del Risorto che ci accompagna nel viaggio di ritorno verso il Padre.  Forse, a questo punto, è il caso di parlare un po’ di più di questo nostro Compagno di viaggio, da sempre presente nella storia della salvezza, nell’avventura dell’antico Israele, nella vicenda terrena di Gesù di Nazareth e nella vita della Chiesa di Cristo.  Dio realizza la storia della salvezza con la potenza del suo santo Spirito. L’economia salvifica è tutta percorsa dalla «dynamis» (forza) di Dio, che è il suo Spirito. Lo Spirito, inoltre, è stato rivelato da Gesù, perché in lui ha agito con potenza e da lui è stato promesso alla Chiesa nascente. La fede della Chiesa nello Spirio Santo, quale «Signore che dà la vita, procede dal Padre, che insieme col Padre e col Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti» (Costantinopoli, a. 381), tale fede trae origine proprio da questo: dal riconoscere in Gesù il Figlio inviato dal Padre, il Dio vivente, che ci salva nel suo Spirito. Lo Spirito Santo appartiene dunque alla confessione della fede in Cristo e con essa rende conto della verità e dell’efficacia della rivelazione e del dono della salvezza cristiana. Tutta la storia della salvezza testimonia l’opera salvifica dello Spirito. Lo Spirito di Dio, per l’A.T., è la potenza personale di Jahvé, la forza comunionale che stabilisce la relazione fra Dio e le sue creature: escludendo una parentela ontica, anzi proprio in forza di una radicale alterità, lo Spirito consente l’incontro tra Dio e l’uomo, attuato attraverso una serie di interventi storici progressivi, volti ad un futuro universale di salvezza. Nell’esperienza dell’antico Israele, che sperimenta le meraviglie di salvezza, la «ruah Adonai» (Spirito del Signore) assume un  triplice compito: cosmologico, antropologico e teologico. Cosmologico: la ruah è il respiro di Dio, il vento divino che spira dolcemente o che sibila impetuosamente su tutte le creature e che le mantiene in vita, perché segno della presenza e della potenza del Creatore. Antropologico: il respiro di Dio è la condizione di vita dell’uomo, in un certo senso è la vita stessa. Quando muore, l’uomo perde la ruah («Se ritrai il tuo respiro, muoiono e ritornano nella polvere; mandi il tuo alito, vengono creati e rinnovi la faccia della terra – Sal 104,29»). Teologico: nell’A.T. c’è un senso del termine ruah qualitativamente superiore agli altri: essa (la ruah) non è solo il principio della vita biologica, ma anche il principio della comunione e dell’amicizia con Dio: lo Spirito crea un cuore nuovo (Ez) ed è una forza che trasforma gli uomini e li conferma nell’alleanza e nella vocazione di servitori e collaboratori di Dio.  Nel N.T. lo Spirito è svelato quale prerogativa dell’Uomo Nuovo, che è Cristo. Nei sinottici la storia di Gesù è interpretata tutta in senso pneumatologico: Gesù è un carismatico, non nel senso che è un «invasato» dello Spirito come gli antichi veggenti, ma nel senso che in lui dimora la potenza di Dio, che lo fa parlare con autorità ed agire con potenza; lo Spiriro Santo è la «regola» della vita di Gesù: Egli è presente al momento dell’incarnazione, al momento del battesimo al Giordano, sulla croce, nel sepolcro scoperchiato per lasciare ascendere al Padre il Risorto, nella pentecoste. In tal senso, già san Basilio Magno, nel IV sec., definì lo Spirito come «il compagno di viaggio» del Cristo (De Spiritu Sancto). Negli Atti degli Apostoli, la Chiesa è il tempo dello Spirito di Gesù: lo Spirito fa ripetere i gesti di Gesù, fa annunciare la parola di Gesù, rende presente Gesù nella frazione del pane, garantisce la comunione in Cristo e tra i fratelli. In Paolo la pneumatologia assume un chiaro tenore soteriologico: lo Spirito diventa prerogativa degli uomini nuovi, cioè di coloro che, consepolti e risorti con Cristo Uomo Nuovo, sono tempio dello Spirito e figli di Dio. In Gv lo Spirito è il Paraclito (l’avvocato, colui che intercede a favore dei discepoli, il consolatore); ed è lo Spirito di Verità, che, pur rimanendo — come scrive Balthasar — «lo Sconociuto al di là del Verbo», guida alla verità tutta intera, la verità che salva e libera dal peccato. Insomma, nella linea dell’A.T., lo Spirito secondo il N.T. agisce nella storia, concentrandosi nella singolare persona del Cristo: Cristo è il salvatore, e lo Spirito è lo Spirito del Salvatore. In quanto nell’evento di Cristo si ha la massima concentrazione dell’opera dello Spirito, attraverso Cristo si attua pure la massima dilatazione pneumatica: lo Spirito si diffonde su ogni «carne» e nella Chiesa e attraverso la Chiesa anticipa e prepara la rigenerazione universale, cosmica e umana. Avviene, così, la prosecuzione storico-salvifica dell’evento di Cristo nell’evento dello Spirito, come ha affermato il Vat. II: «Il Signore Gesù, « che il Padre santificò e inviò nel mondo – Gv 10,36″, rese partecipe dell’unzione dello Spirito, con la quale è unto, tutto il suo Corpo mistico» (OPT 1,2). Il senso è chela storia della salvezza dopo la dipartita di Gesù consiste in una partecipazione storico-salvifica all’unzione di Gesù stesso, così che qualcosa di lui continua nella storia, cioè la pienezza del suo Spirito. Questa «tradizione» (nel senso di «trasmissione») dello Spirito nella storia avviene nella e per mezzo della Chiesa fondata da Cristo, di cui lo Spirito del Risorto è come l’anima. L’opera dello Spirito nella storia della salvezza, nella Chiesa e tramite la Chiesa Mistica Persona, secondo la suggestiva definizione del teologo H. Mühlen, si può dunque descrivere con la formula: «una Persona in molte persone». In tal senso la Chiesa è il mistero dello Spirito Santo che «vive» in Cristo e nei cristiani. E il cristiano, a sua volta, è l’uomo «spirituale»: l’uomo «nato dallo Spirito» (cf. Gv 3) e che vive «secondo lo Spirito» (cf. Gal 5,13 ss.). L’uomo «spirituale», reso solidale al Cristo dallo Spirito Santo, è una «nuova creatura» (cf. 2 Cor 5), uomo nuovo rispetto all’uomo vecchio, l’antico Adamo, che ormai, a causa del peccato, è fatiscente e votato alla distruzione.  Da quanto detto sin qui, risulta chiaro che è proprio lo Spirito Santo che realizza, nella Chiesa e in ciascun cristiano, la santità. La santità, in tale prospettiva «pneumatica», si caratterizza come vita dello Spirito in noi: è lo Spirito Santo che garantisce la presenza in noi della vita agapica trinitaria, colui che fa dell’uomo il tempio santo di Dio. E, allo stesso tempo, lasantità si caratterizza pure come vita nello Spirito: non solamente il cuore del credente diventa tabernacolo della vita pneumatica, ma la stessa vita pneumatica diventa l’ambiente vitale e l’atmosfera in cui il credente matura la santità. Ce lo insegna san Paolo nelle sue lettere ai Galati e ai Romani: «Lo Spirito grida in noi: Abbà, Padre» (Gal 4,6); «noi gridiamo nello Spirito: Abbà, Padre» (Rm 8,15).
 UNA MISTICA DELL’AZIONE E PER L’AZIONE
 Per concludere la nostra riflessione, passiamo a considerare in che senso si può parlare di «una mistica dell’azione e per l’azione». Avendo già chiarito che la vita cristiana è, in un certo senso, vita «mistica», — in quanto vuol dire «vivere nel mistero di Cristo», in comunione col Crocifisso-Risorto, nel vincolo dello Spirito Santo –, possiamo affermare che essa (la vita cristiana) può e deve coincidere con la nostra esperienza quotidiana, sino ad assimilarla tutta in sé. Esistono due ambiti — in cui contemplazione ed azione si accompagnano vicendevolmente — che mostrano molto chiaramente la portata «mistica» della vita cristiana; si tratta della liturgia e della preghiera, che in realtà, spesso, si incontrano l’una con l’altra sino a identificarsi.  La liturgia costituisce il tempo e lo spazio teologici in cui il mistero di Cristo si ripresenzializza in seno alla comunità ecclesiale riunita in assemblea. E’, dunque, un momento della vita cristiana che potremmo dire «mistico» per eccellenza. Già i Padri della Chiesa definivano le azioni liturgiche, specialmente le celebrazioni dei sacramenti, come dei «misteri», i sacri misteri di Cristo, che rendono presente per i cristiani d’ogni epoca, al di là dei limiti spazio-temporali, la Pasqua del Cristo. Il Vat. II ha ricordato, ai nostri giorni, questa importante verità. Secondo il n. 2 della Sacrosanctum Concilium, «la liturgia [...] contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo», che è come dire che la liturgia rende possibile, realizza e manifesta il pieno inserimento del cristiano (e dei cristiani che costituiscono la comunità) nel mistero della salvezza di Cristo. La stessa SC, al n. 10, afferma ancora che «la liturgia è il culmine verso cui tende tutta l’azione della Chiesa e, al contempo, la fonte da cui promana tutta la sua energia».  «Tutta l’azione» della Chiesa (e quindi dei cristiani) è espressione che racchiude in sé tutti quei «livelli», o quelle «modalità», della vita cristiana di cui oggi abbiamo parlato. Nella celebrazione liturgica, specialmente nella celebrazione eucaristica, ogni impegno apostolico, ogni sforzo ascetico, ogni contemplazione, confluiscono e si inverano, diventando autentiche dimensioni del vivere alla sequela di Cristo, come figli del Padre e tempio dello Spirito. Nella liturgia il cristiano diventa «mistico», in quanto nell’azione liturgica avviene il più intimo legame tra Dio e gli uomini, la loro comunione. Come ci ha assicurato Gesù stesso: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me, ed io in lui» (Gv 6,56). E’ ancora la SC n. 10 che afferma: «La liturgia spinge i fedeli, nutriti dei « sacramenti pasquali », a vivere « in perfetta unione »; prega affinché « esprimano nella vita quanto hanno ricevuto mediante la fede »; [...]. Dalla liturgia, dunque, — continua la SC — e particolarmente dall’eucarestia, deriva in noi, come da sorgente, la Grazia, e si ottiene con la massima efficacia la santificazione degli uomini nel Cristo e la glorificazione di Dio [...]» (n. 10).  La preghiera, a sua volta, è anch’essa un momento privilegiato, in cui il cristiano si incontra faccia a faccia con Dio. Bisogna però constatare, insieme a Giuseppe Lazzati (che ha scritto bellissime pagine sulla preghiera del cristiano), «che purtroppo i cristiani non pregano; [...]. E naturalmente questo ha come conseguenza che diventa difficilissimo per il cristiano cogliere quell’aspetto contemplativo della vita, che ha una [sua speciale] potenza per trasformare il senso della vita, [...che da Dio ci viene offerta in dono]. Allora che cos’è pregare? [...] Pregare è avere coscienza dell’essere creatura, e creatura in stato di redenzione, che non riesce ad essere se stessa se non attraverso la forza, l’aiuto, l’alimentazione, il respiro che le è dato precisamente da questo approfondire il rapporto con Dio, penetrandolo sempre più attraverso quelle che sono le vie che permettono questa penetrazione. E la prima via è la via della Parola, [...]. Pregare è prima ascoltare [e meditare la Parola]; per poi dire. Per poi dire e dire in molti modi [nell'adorazione silenziosa, oppure nella lode gioiosa, oppure ancora nel ringraziamento, nell'umile e nascosta richiesta di perdono, nell'impetrazione]».  «Ecco perché — osservava Lazzati — la contemplazione per l’uomo normale (non per quello che ha la possibilità di ritirarsi per unicamente dedicarsi a questo [ossia il «monaco»]), per l’uomo normale che vive tutti gli impegni della propria giornata, tutti i doveri, gli affari della propria vita quotidiana, nella situazione normale [e feriale] della vita familiare e sociale, diventa la preghiera», ossigeno divino nei nostri polmoni. La preghiera, in questa prospettiva, può diventare uno strumento potente ed efficace per acquisire e maturare un vissuto autenticamente «mistico»: per mezzo della preghiera costante e silenziosa ci si può ritagliare un pezzo di «deserto» (inteso, in senso biblico, come «luogo» in cui si incontra Dio) nel bel centro della città, ossia della nostra attività quotidiana. A questo proposito Carlo Carretto consigliava di «crearsi un piccolo luogo tranquillo nella propria casa, nel proprio giardino, nella propria soffitta, per trovarvi Dio nel silenzio e nella preghiera». Ma, con la preghiera quotidiana, fatta di silenziose parole rivolte a Dio nel cuore e nella mente, e impastata delle varie nostre azioni giornaliere, dei nostri impegni di lavoro, del nostro ascoltare e dialogare, delle nostre relazioni personali, persino del nostro semplice leggere il giornale, con una tale preghiera — che pulsa vita e fa pulsare la nostra vita — si può e si deve, oserei dire, trasformare la «città», ossia la nostra esistenza privata, comunitaria e pubblica, in un pezzo di «deserto», ove incontrare il Signore che ci parla e ci viene a visitare.  In tal modo, la nostra esperienza quotidiana viene assimilata tutta nella nostra «vita cristiana», acquista senso e motivazione: noi la offriamo al Cristo, e il Cristo se la assume per presentarla al Padre. E’ a questo livello che la santità diventa Vita: la Vita dello Spirito di Dio in noi; e la vita nostra vissuta in comunione allo Spirito di Dio. Vita dello Spirito e nello Spirito, che assimila in sé tutta la nostra esistenza, rendendola il «luogo» dove Dio si incontra con noi, e noi con Dio: questa è la santità.  Ma attenzione: la santità intesa come «salvezza che viene donata dall’Alto», non è mai una santità che indulge al miracolismo e al quietismo; non è una santità dissociata dall’impegno personale e comunitario di tipo apostolico e caritativo, e — persino — etico e sociale.Mons. A.A. Intreccialagli, che fu vescovo santo della mia diocesi di Caltanissetta dal 1907 al 1921, in una lettera ad una sua discepola spirituale, scrisse che bisogna «vivere la vita di Maria senza lasciare quella di Marta». Evocare le figure delle due sorelle di Betania amiche di Gesù è un bel modo per descrivere come, nella vita del cristiano, spiritualità «incarnazionista» e spiritualità «escatologica», attività apostolica e contemplazione vanno insieme, fino a coincidere. Voglio dire che, a mio parere, la contemplazione e l’azione, nella vita del cristiano, non hanno lo stesso rapporto che per gli umanisti discepoli di Cicerone hanno l’otium e il negotium, ossia il periodo di quiete totale (l’otium) in cui si riacquistano le energie fisiche e mentali per affrontare, poi, meglio gli affari pratici della vita (il negotium). La spiritualità cristiana, almeno per noi credenti, non prevede semplicemente che la contemplazione faccia da sostegno all’azione apostolica e alle attività quotidiane; ma prevede piuttosto che, nella docilità all’opera dello Spirito dentro di noi e in mezzo a noi, la nostra stessa attività quotidiana diventi l’«occasione» d’incontro comunionale con Dio, dandoci l’opportunità di diventare dei veri «mistici», mistici che accolgano con gratitudine i doni che gratuitamente lo Spirito di Dio elargisce e che li lascino fruttificare come Dio vuole.  Per noi tutto ciò vuol dire non solo essere «contemplativi nell’azione», come spesso si dice, ma anche essere «apostoli nella contemplazione». Nel momento in cui vi ritirerete alla scuola dello Spirito, infatti, non avrete abbandonato il ruolo che esercitate nella comunità parrocchiale o in seno alla società civile, poiché ascoltare la voce di Dio è anche, oggi più che mai, ascoltare quello che ci dicono i fratelli (anche i più «piccoli»!) e ravvisare, nelle loro parole di richiesta e di protesta, ciò che Dio vuole per tutti noi. Se essere «contemplativi nell’azione» significa agire sempre nella consapevolezza di stare immersi nel «mistero»; essere «attivi nella contemplazione» vuol dire portare dentro il «mistero» i problemi, le ansie, le soddisfazioni, i fallimenti, i progetti, le attività della nostra giornata, facendo di tutto ciò una continua preghiera a Dio. Se ci poniamo alla completa disposizione verso il «mistero», ci accorgiamo che contemplazione e azione sono due dimensioni dello stesso «mistero» che si lascia cogliere da noi e che opera in noi e in mezzo a noi; due dimensioni coestensive che finiscono per costituire un’unica dimensione: la dimensione «misterica» in cui il cristiano viene reso solidale al suo Cristo. In tal senso, nella vita del cristiano, il contemplare non può essere disgiunto dall’operare. Per noi ciò significa disporci, nella docilità all’ispirazione dello Spirito di Dio, all’ascolto dei fratelli, per discernerne e interpretarne i disagi e le aspirazioni più intime; significa scegliere prudentemente i momenti più opportuni per bussare alla porta della loro esistenza; significa percorrere insieme con la gente comune la strada della vita, ma con la sollecitudine a fermarci per soccorrere chi si stanca o si infortuna e per invitare a camminare con letizia, mentre, già noi stessi, procediamo con passo di danza.

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