today you will be with me in paradise

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Il san Paolo di Tommaso d’Aquino
Un vaso ricolmo di sapienza
(L’Osservatore Romano 25 giugno 2009)
Presso l’Accademia San Tommaso d’Aquino in Vaticano si è svolto un convegno su san Tommaso lettore di san Paolo. Pubblichiamo la sintesi di una delle relazioni.
di Inos Biffi
Tommaso parte dalla definizione che di Paolo è data negli Atti degli apostoli, dov’è denominato « vaso di elezione » (9, 15), e dallo sviluppo di questa immagine ne disegna – in apertura al suo commento paolino – la figura spirituale.
« Il beato Paolo viene chiamato vaso di elezione, e quale vaso egli fosse risulta da ciò che si dice nel Siracide: « Come un vaso d’oro massiccio, ornato con ogni specie di pietre preziose » (50,9). Fu un vaso d’oro per lo splendore della sua sapienza. Perciò il beato Pietro gli rende testimonianza dicendo: « Come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto secondo la sapienza che gli è stata data »(i Pietro, 3 15) ».
« Egli fu inoltre saldo nella virtù della carità (…). Nella Lettera ai Romani, dice: « Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire ecc. potrà mai separarci dall’amore di Dio » (8, 38) ».
« E di che genere fosse questo vaso risulta da quanto esso elargiva: insegnò i misteri dell’eminentissima divinità che riguardano la sapienza, come appare da 1 Corinzi: « Tra i perfetti parliamo di sapienza »(2,6); elogiò inoltre altamente la carità, in 1 Corinzi, 13; insegnò agli uomini le varie virtù, come risulta da Colossesi, 3, 12: « Rivestitevi dunque come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine »".
Volgendo l’attenzione su quanto Paolo, quale « vaso » di elezione, contenesse, Tommaso premette il rilievo che, come « ci sono vasi di vino, vasi di olio e altri vasi diversi secondo il genere », così ci sono « uomini (…), riempiti divinamente con diverse grazie, come si dice in 1 Corinzi: « A uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro il linguaggio della scienza… »(12,8) ».
Ora, Paolo fu ripieno del liquido prezioso che è « il nome di Cristo, del quale nel Cantico dei Cantici si dice: « Profumo olezzante è il tuo nome »(1, 2) ». Perciò si dice « Egli è il vaso eletto per me affinché porti il mio nome ». E infatti si mostra tutto ripieno di questo nome, come si afferma nell’ Apocalisse: « Inciderò su di lui il mio nome (3,12) ».
E l’Angelico precisa: « Ricevette questo nome nella conoscenza dell’intelletto, secondo quanto si dice in 1 Corinzi: « Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo e questi crocifisso » (2,2). Inoltre ebbe questo nome nei suoi affetti, conformemente a Romani: « Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? » (8,35); e a 1 Corinzi: « Se qualcuno non ama il Signore, sia anatema » (16,22). Si tenne poi stretto a lui in tutto il suo modo di vivere. Per cui in Galati dichiara: « Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » (2,20) ».
Ma Paolo non solo fu personalmente colmo del nome di Cristo, ma fu anche destinato a portare questo nome agli altri. « Era infatti necessario – scrive Tommaso – che il nome fosse portato perché si trovava lontano dagli uomini ». Quel nome « è lontano da noi a causa del peccato », « a causa dell’oscurità dell’intelletto ». Ora « il beato Paolo portò il nome di Cristo anzitutto nel corpo, imitando la sua condotta e la sua passione, secondo Galati « Difatti io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo »(6,17); e poi nella sua bocca, e questo risalta dal fatto che nelle sue lettere nomina spessissimo Gesù Cristo: « Poiché la bocca parla della pienezza del cuore » come si asserisce in Matteo (12, 34) ».
In particolare, Paolo – paragonato dal Dottore Angelico alla colomba che recò all’arca del diluvio il ramoscello d’ulivo, simbolo della misericordia – « recò quel ramoscello alla Chiesa, allorché espresse in molti modi la sua virtù e il suo significato, mostrando la grazia e la misericordia di Cristo. Per cui in 1 Timoteo dice: « Appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità »(1,16) ».
E al riguardo l’Angelico annota: « Come tra le Scritture dell’Antico Testamento nella Chiesa si usano più frequentemente i Salmi di Davide, che dopo il peccato ottenne il perdono, così nel Nuovo Testamento si usano le lettere di Paolo, che ottenne il perdono, perché i peccatori siano innalzati verso la speranza ».
Per Tommaso le lettere di Paolo contengono soprattutto un messaggio di misericordia e di speranza, ed è la ragione per la quale la Chiesa le legge spesso. Ma egli aggiunge un’altra ragione ed è che nei Salmi e nelle Lettere paoline « è contenuta quasi l’intera dottrina della teologia – fere tota theologiae continetur doctrina ».
Paolo, inoltre, portò il nome di Cristo « non solo ai presenti, ma anche agli assenti e ai futuri, trasmettendo il senso della Scrittura », esattamente coincidente con il nome di Cristo.
È proprio « in questo ufficio consistente nel portare il nome di Dio » una triplice « eccellenza » di Paolo.
In primo luogo, un’eccellenza quanto alla « grazia dell’elezione ». Paolo è chiamato « vaso di elezione » – in virtù, quindi, di una scelta divina avvenuta « prima della creazione del mondo » (Efesini, 1, 4). In secondo luogo, un’eccellenza quanto « alla fedeltà »: « Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore » (2 Corinzi, 4, 5).
Infine, un’eccellenza singolare nella sua fatica apostolica: lui stesso in 1 Corinzi afferma: « Anzi ho faticato più di tutti loro ». Per questo viene espressamente definito « un vaso di elezione per me ».
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Nel confronto tra fede e ragione
Il genio di san Paolo
di Juan Manuel de Prada
(L’Osservatore Romano 13 novembre 2008)
La commemorazione di questo Anno paolino dovrebbe servirci da stimolo per riflettere su uno dei tratti più distintivi e geniali di san Paolo, l’impulso di universalismo che presto sarebbe divenuto un elemento costitutivo della fede in Gesù Cristo. Un universalismo che, oltre a dare compimento alla missione che Gesù aveva affidato ai suoi discepoli, avrebbe definito l’orientamento innovatore del cristianesimo come religione che incorpora nel suo patrimonio culturale la sapienza pagana. Questa assimilazione culturale trasforma il cristianesimo, fin dai suoi inizi, in una religione diversa da qualsiasi altra: poiché mentre le altre religioni stabiliscono che la loro identità si deve costituire negando l’eredità culturale che le precede, il cristianesimo comprese, grazie al genio paolino, che la vocazione universale della nuova fede esigeva di introdursi nelle strutture culturali, amministrative e giuridiche della sua epoca; non per sincretizzarsi con esse ma per trasformarle radicalmente dal di dentro. E questa illuminazione geniale di san Paolo – che senza dubbio fu illuminazione dello Spirito – deve servire da vigorosa ispirazione per noi cattolici di oggi, spesso tentati di arroccarci contro un mondo ostile.
San Paolo, nato a Tarso di Cilicia, in seno a una famiglia ebrea, fu anche cittadino romano; e questa condizione o status giuridico lo aiutò a comprendere che la vocazione di universalità del cristianesimo si sarebbe realizzata pienamente solo se fosse riuscita a introdursi nelle strutture dell’Impero padrone del mondo. Introdursi per beneficiare della sua vasta eredità culturale; introdursi, anche, per lavare dal di dentro la sua corruzione. Il cristianesimo non sarebbe riuscito a essere quello che in effetti fu se non avesse fatto proprie le lingue di Roma; e se non avesse adottato le sue leggi, per poi umanizzarle, fondando un diritto nuovo, penetrato dalla vertiginosa idea di redenzione personale che apporta il Vangelo. I cristiani avrebbero potuto accontentarsi di rimanere ai margini di Roma, come dei senza patria che celebrano i propri riti nella clandestinità. Addentrandosi nella bocca del lupo, armati solo della fiaccola della fede, rischiarono di perire tra le sue fauci; ma alla fine provocarono un incendio più duraturo dei monumenti di Roma.
Di quale potente lega era fabbricato quell’uomo che sconvolse per sempre il corso della storia? Sappiamo che nella formazione culturale di san Paolo si amalgamavano elementi ebraici e ellenistici. Possedeva una esauriente conoscenza della lingua greca, nutrita dalla Scrittura secondo la versione dei Settanta. Si distingueva però anche per una conoscenza affatto superficiale dei miti greci, come pure dei loro filosofi e poeti: basta leggere il suo discorso nell’Areopago di Atene per renderci conto della sua solida cultura classica. E anche, naturalmente, del modus operandi della sua missione evangelizzatrice: san Paolo inizia il suo discorso apportando riflessioni nelle quali pagani e cristiani potevano convergere, fondandosi anche su citazioni di filosofi; lo conclude però con l’annuncio del Giudizio Finale, pietra dello scandalo per i suoi ascoltatori – fra i quali, a quanto sappiamo, si contavano alcuni filosofi epicurei e stoici – che potevano accettare l’immortalità dell’anima, ma non la resurrezione della carne. Quel gruppo di filosofi probabilmente si sciolse prendendo san Paolo per matto; tuttavia, di ritorno a casa, mentre rimuginavano sulle parole che avevano appena ascoltato, forse riuscirono a scoprire che i principi sui quali si fondava il discorso di san Paolo si potevano cogliere attraverso la ragione. E questi principi assimilabili da un pagano che affiorano nel discorso dell’Areopago sono gli stessi che san Paolo incorpora nelle sue epistole: la possibilità di conoscere Dio attraverso la sua Creazione, la presenza di una legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo, la sottomissione alla volontà di Dio come frutto della nostra filiazione divina. Principi sui quali in seguito san Paolo erigeva il suo portentoso edificio cristologico. Mettiamoci nei panni di quei filosofi pagani che ascoltarono san Paolo. Come non sentirsi interpellati da una predicazione che univa, in un modo così misteriosamente soggiogante, principi che la ragione poteva accettare con tesi che esigevano il concorso di una nuova fede? Come non sentirsi interpellato da questo Mistero che rendeva congruente ciò che ascoltavano e ciò che la mera intelligenza non permetteva loro di penetrare? E, nel cercare di approfondire quel Mistero, come non aprirsi agli orizzonti inediti di libertà e di speranza di cui Cristo era portatore?
Così accadde allora; e il genio paolino ci insegna che può continuare ad accadere ora. A un patrizio romano come Filemone non doveva sembrare più strano concedere la libertà al suo schiavo Onesimo, accogliendolo come un « fratello carissimo » nel Signore, di quanto deve sembrare a un uomo del nostro tempo – ad esempio – aborrire l’aborto. Se il genio paolino riuscì a far sì che un patrizio romano rinunciasse al diritto di proprietà su un altro uomo che le leggi gli riconoscevano, perché noi non possiamo far sì che gli uomini della nostra epoca recuperino il concetto di sacralità della vita umana, per quanto le leggi della nostra epoca sembrino averlo dimenticato? Per farlo, dovremo usare parole che risultino intelligibili agli uomini del nostro tempo; e così riusciremo, come a suo tempo riuscì il genio paolino, a minare dal di dentro una cultura che si è allontanata da Dio, senza arroccarci contro di essa.
Dobbiamo tornare a predicare in questa società neopagana che Dio si è fatto uomo; non per innalzarsi su un trono, ma per partecipare ai limiti umani, per provare le stesse sofferenze degli uomini, per accompagnarli nel loro cammino terreno. E, facendosi uomo, Dio ha fatto sì che la vita umana, ogni vita umana, divenisse sacra. San Paolo riuscì a farsi capire dagli uomini del suo tempo; e così trasformò in realtà la missione insostituibile che noi cristiani abbiamo nel mondo, descritta con parole sublimi nella Lettera a Diogneto: « Come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani (…) L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo (…) Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare ».
Arroccarsi contro il mondo equivale ad abbandonare il posto che Dio ci ha assegnato. Il genio paolino ci insegna che possiamo continuare a essere l’anima del mondo, senza rinunciare ai nostri principi e senza rinnegare la nostra essenza.
http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=151
LA BELLEZZA DEL RACCONTARE DIO
sintesi della relazione di Brunetto Salvarani
Verbania Pallanza, 31 marzo 2001
Il tema della bellezza è stato affrontato nel corso in modo serio, andando oltre la superficie, cercando di rispondere alla domanda di quale bellezza salverà il mondo. In questa prospettiva parlerò della bellezza del raccontare, del narrare in un primo momento, per poi passare in un secondo momento al tema sempre più attuale della presenza dell’altro nelle nostre città e nelle nostre chiese e sulla necessità di creare occasioni delle persone appartenenti alle varie culture possano incontrarsi. Qui sta la vera bellezza.
la bellezza del raccontare
Il racconto è la modalità espressiva più tipica della bibbia. Raramente si trovano argomentazioni, dimostrazioni, asserzioni dogmatiche. Si trovano invece poesie, simboli, miti, racconti.
Il narrare è forse l’eco della risata di Dio sulla terra, l’eco di quel ritornello ripetuto sette volte in Genesi 1 (Dio vide che tutto era bello e buono « tov »). La prima parola di Dio sul mondo riguarda la sua bontà e bellezza.
La narrazione ha una funzione terapeutica, come per quel nonno storpio, discepolo di Baal Schem, che racconta con tale passione del maestro, da guarire.
Il parlare di Dio è poi un parlare creativo. Non sono parole vuote che si perdono nel vento ma si traducono in un avvenimento.
Il primo credo ebraico, Deut 26,5-9, non è tipo dogmatico, argomentativo, ma è un credo narrativo (« mio padre era un arameo errante, vi stette come un forestiero, con poca gente e vi diventò una nazione grande forte e numerosa. Gli egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri. E il Signore ascoltò la nostra voce… »).
C’è qui la storia palpitante di un popolo.
Nell’autocoscienza ebraica è fortissima la dimensione dell’essere stati forestieri.
Il cuore di questo piccolo credo è la memoria di un uomo, Giacobbe, che ha combattuto contro Dio, ed anche la memoria della sofferenza.
Ciò che crea legame all’interno di una comunità non è tanto il credere in un dogma, ma avere una memoria collettiva.
La storia di Israele è una storia di una comunità che racconta (salmo 78,3-4). Così pura la storia delle prime comunità cristiane e così dovrebbe essere ancora oggi. Purtroppo oggi c’è la difficoltà di comunicare tra generazioni diverse, di raccontare la propria fede alle generazioni successive.
Il ricordo (ziqqaron), non è il ricordo oggettivo, ma il memoriale che fa entrare in un avvenimento passato. È questo un elemento che collega strettamente ebraismo e cristianesimo: come il seder pasquale ebraico in cui si fa memoria del passato di schiavitù e di liberazione così è l’eucaristia cristiana in cui si aggiunge il ricordo dell’ultima cena. Anche l’eucaristia è essenzialmente un racconto, non solo nella liturgia della parola ma anche in quella eucaristica.
Il racconto nella bibbia coinvolge anche il creato « I cieli narrano la gloria di Dio… » (salmo 19,1-2). Non solo il pio ebreo o la comunità sono orientati a raccontare, ma la creazione tutta. Sta a noi ascoltare e interpretare queste storie.
Oggi c’è un ritorno al raccontare. Nella chiesa cattolica hanno prevalso nettamente le ragioni del dogma, contro quelle, ritenute poco valide, del racconto.
La teologia narrativa è tornata sulla scena proprio nel secolo in cui si è arrivati al punto più basso della comunicazione. Come dice Benjamin « È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile: la capacità di scambiare esperienze ».
Due sono le figure che esprimono bene questa situazione. La figura del reduce, del reduce dal fronte bellico, che non racconta a nessuno ciò che ha vissuto, perché ritiene che sia talmente orribile da temere di non essere creduto.
L’altra figura è quella di Ireneo Funes (Borges), che ha una memoria infallibile e mostruosa, ricordando tutto. Ma proprio il ricordare tutto senza poter selezionare porta alla paralisi. Ha miliardi di ricordi, ma non la memoria, la capacità di cogliere ciò che è importante per noi.
Sia il reduce che Ireneo indicano l’incapacità di riandare alle antiche voci di salvezza.
Adorno si chiede se fosse ancora possibile scrivere dopo Auschwitz.
Oggi la ripresa del narrare è avvenuta grazie al pensiero teologico, alla teologia narrativa. L’esigenza di tornare a narrare le storie di Dio, le storie della bibbia, ritraducendole nella cultura di oggi. Oggi c’è un bisogno irrefrenabile di tornare ai grandi racconti, ai grandi miti, che possano attrarre i grandi e non solo i piccoli (Natale Terrin).
Il rischio è di intercettare male questo bisogno, come nel caso della New Age (De Mello, Coelho…)
l’irruzione dell’altro
È in atto un profondo cambiamento, « l’irruzione dell’altro », che è avvenuto silenziosamente e che ha spaventato e sta spaventando molti, con una spaccatura all’interno della chiesa.
Dopo la morte di Dio si parla di rivincita di Dio. Dopo la secolarizzazione, l’eclissi del sacro, il fatto che si sia spenta la spinta propulsiva delle grandi religioni, data l’attuale crisi dello stato sociale, degli stati assistenziali, che rispondevano a una serie di bisogni, si chiede la soluzione alla parola forte e autorevole della bibbia, dei testi sacri. Si propone (fondamentalismi) una risposta forte a questa crisi sociale grazie alla religione. Succede nell’islam, in buona parte dell’ebraismo israeliano, nel mondo cattolico e protestante, e anche nell’induismo.
C’è poi il bisogno una spiritualità ridotta a tecniche, che faccia poco i conti con l’etica, che non impegni troppo in profondità, che trae la propria ispirazione da un insieme di elementi presi dalle diverse tradizioni religiose sia occidentali che orientali, in un cocktail appetibile, anche se confuso ed eterogeneo (new e next age).
Anche questo tipo di bisogni andrebbe non demonizzato ma intercettato, dato che probabilmente un certo cristianesimo, giocato spesso in termini sociali, ha trascurato ambiti più personali, come quello della malattia e della guarigione, della morte, dell’al di là. Espressione di questo bisogno di spiritualità è il fenomeno in netta crescita anche in Italia del pentecostalismo, che tende a dare minore importanza alla dimensione dogmatica in favore del carattere mistico ed entusiastico, della partecipazione anche corporea (danza, ritmo…).
Ma tutti questi fenomeni esprimono un autentico bisogno di Dio, la rivincita di Dio, oppure il bisogno del tutto umano del sacro, del religioso?
Tutti questi fenomeni hanno favorito la crescita nel nostro paese di un pluralismo religioso, di un mosaico della fede, che pur presente nel passato (la comunità ebraica più antica e i valdesi) oggi è più visibile e reclama un’idea di laicità che riconosca il valore delle minoranze, viste piuttosto come ricchezza che non come fonte di problemi.
La ricerca anche faticosa di occasioni di incontro passa anche attraverso il lavoro sulla identità narrativa. Dialogare non significa necessariamente risolvere un problema: invece di argomentare o dimostrare si può anche raccontare o ascoltare la storia di un altro.
Deve essere data la possibilità ai molti del nostro paese che vogliono raccontare la propria storia di poterlo fare, moltiplicando le occasioni per entrare in contatto con gli autoctoni, per cui il nostro racconto si incroci con il loro racconto. È quanto è avvenuto con l’ondata migratoria dal meridione. L’incontrarsi giorno dopo giorno nelle scuole, nelle fabbriche ha consentito di vivere un’esperienza di socializzazione integrante.
Proprio la riscoperta della dimensione narrativa del cristianesimo, della teologia narrativa ha reso più facile l’incontro con l’ebraismo, che si è sempre maggiormente autocompreso attraverso la narrazione che non attraverso la riflessione dogmatica. L’argomentazione dogmatica tende a chiudere mentre la narrazione apre all’incontro del reciproco ascolto.
http://www.sestogiorno.it/liturgia/liturgia_03marzo2013.html
TERZA DOMENICA QUARESIMA – 03 MARZO 2013
Preghiamo. Padre Santo e misericordioso, che mai abbandoni i tuoi figli e riveli ad essi il tuo Nome, infrangi la durezza della mente e del cuore perchè sappiamo accogliere con semplicità i tuoi insegnamenti e portiamo frutti di vera e continua conversione. Per Gesù Cristo nostro Signore. AMEN
DAL LIBRO DELL’ÈSODO 3,1-8.13-15 In quei giorni, mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio. Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele». Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io Sono mi ha mandato a voi”». Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione». SALMO 102 IL SIGNORE HA PIETÀ DEL SUO Benedici il Signore, anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome. Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tutti i suoi benefici. Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia. Il Signore compie cose giuste, difende i diritti di tutti gli oppressi. Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie, le sue opere ai figli d’Israele. Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Perché quanto il cielo è alto sulla terra, così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono. DALLA PRIMA LETTERA DI SAN PAOLO APOSTOLO AI CORÌNZI 10,1-6.10-12 Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto. Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono. Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere. DAL VANGELO SECONDO LUCA 13,1-9 In quel tempo si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».
IL LEGNO E I FRUTTI
Don Augusto Fontana.
Trascrivo, a consolazione e vergogna, alcune parti del Documento Conciliare « GIOIA E SPERANZA »(GAUDIUM ET SPES): «E’ dovere permanente della Chiesa scrutare i segni dei tempi ed interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo nonchè le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole spesso drammatica. L’umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all’intero universo. Possiamo così parlare di una vera trasformazione sociale e culturale che ha i suoi riflessi anche sulla vita religiosa.E come accade in ogni crisi di crescita, questa trasformazione reca con sè non lievi difficoltà. Così mentre l’uomo estende la sua potenza, non sempre riesce però a porla a suo servizio. Si sforza di penetrare nel più intimo del suo animo, ma spesso appare più incerto di se stesso. Scopre più chiaramente le leggi della vita sociale, ma resta poi esitante sulla direzione da imprimervi. Mai il genere umano ebbe a disposizione tante ricchezze, possibilità e potenze economiche e tuttavia una gran parte degli uomini è ancora tormentata dalla fame e dalla miseria e intere moltitudini sono ancora analfabete. Mai come oggi gli uomini hanno avuto un senso così acuto della libertà e intanto si affermano nuove forme di di schiavitù sociale e psichica. E mentre il mondo avverte così lucidamente la sua unità e la mutua interdipendenza dei singoli in una necessaria solidarietà, viene poi violentemente spinto in direzioni opposte a causa di forze tra loro contrastanti; infatti permangono ancora gravi contrasti politici, sociali, economici, razziali e ideologici, nè è venuto meno il pericolo di una guerra totale capace di annientare ogni cosa. Aumenta lo scambio di idee, ma le stesse parole con cui si esprimono i più importanti concetti umani, assumono, nelle diverse ideologie, significati assai diversi. Con ogni sforzo si vuol costruire un ordine terreno più perfetto, senza che cammini, di pari passo, il progresso spirituale. Immersi in così contrastanti condizioni, molti nostri contemporanei non sono in grado di identificare realmente i valori perenni e di armonizzarli con quelli che man mano scoprono. Per questo sentono il peso della inquietudine, tormentati tra la speranza e angoscia, mentre si interrogano sull’attuale andamento del mondo. Il quale sfida l’uomo, anzi lo costringe a darsi una risposta (n.4). Il popolo di Dio, mosso dalla fede, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni a cui prende parte insieme agli altri, quali siano i veri segni della presenza e del disegno di Dio. La fede infatti tutto rischiara di una luce nuova e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell’uomo e perciò guida verso soluzioni pienamente umane (n.11).
Al termine potremmo solo aggiungere l’invito che oggi Gesù ci rivolge, dopo aver meditato con i discepoli alcuni fatti tragici accaduti in quei giorni: <Se non vi convertirete, perirete tutti>.
L’uomo davanti al cespuglio di Dio (Esodo 3,1-15).
Martin Buber nel suo libro I racconti dei chassidim riferisce un aneddoto: «Ad un rabbi si presentò un discepolo e gli chiese: »Prima esistevano uomini che hanno visto Dio faccia a faccia. Perchè oggi non ne esistono più? ». E il rabbi rispose: »Perchè oggi nessuno sa chinarsi così profondamente »».
Dov’è andato Dio? Si puo ancora incontrare Dio? Crediamo in <un> Dio oppure in <quel> Dio che la Storia del popolo ebraico e Gesù ci hanno fatto conoscere? Dal momento in cui pronuncio la frase <io credo> faccio una scelta che fa appello a tutta la realtà del mio essere non solo interiore, ma anche economico e sociale. Qualcuno pensa che si possa perdere la fede come si perde un portafoglio, ma può capitare qualcosa di più grave ed è quando la fede non scuote più le nostre scelte. Lo scrittore Giorges Bernanos diceva : »La fede non c’è più non solo quando la si perde, ma anche quando essa non dà più forma alla vita ».
Stava pascolando. Mosè è un latitante fuggiasco a causa di un omicidio compiuto. Non c’è nulla che faccia prevedere il suo ruolo di leader religioso. Vaga nel deserto non per incontrare Dio, ma per trovare pascolo per i suoi animali. Anche gli apostoli stavano aggiustando le reti e pare che il loro mestiere non rendesse facile la pratica e la frequenza della Sinagoga.
Il Monte Oreb diventa il luogo classico dell’incontro tra Dio e Israele. La storia di Israele è caratterizzata da determinati luoghi in cui Iahwè si è manifestato; non si tratta mai di luoghi in cui Jahwè dimora, ma di località di apparizioni ed incontri. Sembra che Dio preferisca non essere imprigionato in religiose galere, ma voglia essere dove è la gente, incontrandola più sul fango e sulla sabbia che sui lucidi lastricati dei santuari. Poi verrà la istituzionalizzazione delle religioni e Lui si adatterà ai Tabernacoli che sono più un bisogno nostro che Suo. <Mosè!>….<Eccomi>. Davanti alla situazione di oppressione del popolo, Dio inizialmente sembra dire « Ci penso io! ». Più avanti sembra ripensarci e dice a Mosè: »Voglio mandarti da Faraone. Avanti! Tocca a te! ». Dio ha bisogno degli uomini. La conversione di Mosè ha significato il passare dalla condizione di fuggiasco e di ribelle a quella di servo della liberazione della sua gente. Prima ha vissuto comodamente nel consumismo del palazzo del faraone, come suo portaborse e lacchè; poi si ritira a vita privata a farsi i fatti propri lontano dalle sofferenze del popolo che erano solo un ricordo o, al massimo, un fatto di cronaca da leggere sui tazebao scolpiti sulla pietra o sulla TV in bianco e nero di allora. La sua conversione segna il ritorno alla solidarietà col popolo che soffre. E mentre compirà un’opera politica di leader, compirà anche una evangelizzazione, annunciando per sempre il NOME DI JAHWE’. Colui che un giorno è stato toccato dal fuoco di Dio non può far altro che « andare ». Mosè si accosta per curiosità, ma il contatto di Dio lo brucia. Ogni esperienza autentica di Dio non si risolve in godimento estatico. Lo abbiamo visto anche domenica scorsa sul Tabor. Dio si rivela non per soddisfare la nostra curiosità o per fornirci informazioni gratuite, bensì per informarci di ciò che attende da noi. Mosè si toglie le scarpe per riconoscere il diritto di Qualcuno di chiedere un servizio. Mosè va per vedere e si ritrova qualcosa da fare; si mette in ginocchio per ritrovarsi in piedi[1]. Si toglie i sandali per adorare, ma poi se li rimetterà per camminare col suo popolo.
Ho osservato, ho udito, conosco, sono sceso per liberare. Sono i verbi di Dio, messi in successione, per sottolineare l’iniziativa di Dio che parte da un interessamento partecipato e termina con una « incarnazione » (“sono sceso”). Gesù costituirà l’atto terminale di questa successione di verbi di Dio (« si fece carne e pose la sua tenda fra noi »). A questo forte protagonismo di Dio, si intreccia la missione collaboratrice di Mosè che, come tutti i profeti, sente lo scarto tra il compito affidatogli e il limite personale (“Chi sono io?”). A questo dubbio, Dio pone il sigillo del suo nuovo nome (“Io sarò con te”).
Dio davanti al cespuglio dell’uomo (Luca 13,1-9). Nella prima Lettura ci è stato presentato l’uomo Mosè davanti al « cespuglio » di Dio, stupito e pazientemente in attesa per raccogliere i frutti del fuoco della Rivelazione e della missione. Ora, nel Vangelo, le parti si invertono; é Dio che si pone davanti ai cespugli un po’ secchi degli uomini per cercarne i frutti: « Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò». I fichi e l’uva avevano, per gli ebrei, un forte significato simbolico evocativo perchè erano i primi frutti che avevano incontrato quando si installarono nella Terra Promessa. Il fico, nell’insegnamento rabbinico, simboleggia, per la sua dolcezza, la Parola di Dio, la Torah. E’ una pianta che si usava piantare nei vigneti e diventava il simbolo della legge di Dio piantata nella vigna-Israele. La vigna, infatti, fu presa dai profeti come il simbolo del popolo piantato dal Signore non come pianta ornamentale da appartamento, ma come albero da frutta. Dio viene incontro all’uomo e cerca il frutto dell’amicizia. Fin dalla prima sera della creazione, Egli ama passeggiare con l’uomo (Genesi 3,8) e lo cerca <Adamo dove sei?> . Ma Dio pare sfortunato. La sterilità del nostro legno secco sarà vinta dal legno della croce da cui pende il frutto dolce che è Gesù.
Noi restiamo questo fico che succhia e si appropria dei doni della terra, gonfiandosi di foglie senza far frutti; non solo non produciamo frutti, ma impoveriamo e rendiamo improduttiva la terra. Ora veniamo « lasciati (perdonati) » per <un anno>, che è questo periodo della nostra vita, per permetterci di innestarci come tralci sulla vite che è Cristo (Giov.15).
Nomi, volti e mani si cercano nel fogliame quotidiano. Per rielaborare la meditazione biblica non posso non pescare a piene mani, e con nostalgia, nel cuore e nella parola di Mons. Tonino Bello[2]:
«Qualcuno ha scritto che la meraviglia è la base dell’adorazione. Anzi, l’empietà più grande non è tanto la bestemmia o il sacrilegio, la profanazione di un tempio o la dissacrazione di un calice, ma la mancanza di stupore. Oggi c’è crisi di estasi. E’ in calo il fattore sorpresa. Non ci si esalta per nulla. C’è in giro un insopportabile ristagno di cose già viste, di esperienze già fatte, di sensazioni sottoposte a ripetuti collaudi. Siamo appiattiti dagli standard, omologati dagli schemi, prigionieri della ripetizione modulare. La fantasia agonizza. Occorrerebbe riutilizzare il Salmo, nel quale si densifica il rapimento estatico di chi contempla la gloria di Dio: «O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra» (Sal 8, 1). Se avessimo gli occhi dei bambini, dovremmo essere capaci di leggere questa scritta su tutta la curva del cielo, da oriente a occidente. Incoraggiare l’attitudine allo stupore. Non disdegnare, come cedimento alla serietà organica del pensiero, il tentativo di indicare nella bellezza la strada privilegiata attraverso cui Dio si rivela. Il mare in tempesta o il firmamento nelle notti d’agosto, il colore dei fiori che spuntano sui crepacci o l’incantesimo delle vette innevate, lo struggimento degli alberi che si torcono nella bufera o lo splendore degli occhi di una donna, non hanno smesso di proclamare su tutta la grandezza della terra il nome di Dio. Senza stupore è difficile l’incontro con Dio. Senza rapimenti estatici è impossibile parlargli. Al massimo, con Dio ci potrà essere rapporto mercantile, basato sulle contrattazioni della domanda e dell’offerta: soprattutto nei momenti della paura o dello smacco. Ma non incontro personale, né abbandono di fiducia, e tanto meno, ebbrezza d’amore.
«Non ti dimenticherò mai… Ho scritto il tuo nome sul palmo della mia mano» (Is 49,15-16). Sapere che, questa frase di Isaia, Dio la ripete a te, a me, a tutti, fin da quando siamo stati concepiti nel grembo materno, non può non alzare la soglia del rapporto personale con lui. Lui che, come dice il profeta Baruc, «chiama le stelle per nome, ed esse gli rispondono « eccomi » brillando di gioia!» (Baruc 3,34-35). Lui che non deposita negli archivi i nostri volti, ma li sottrae all’usura delle stagioni illuminandoli con la luce dei suoi occhi. Lui che non seppellisce i nostri nomi nel parco delle rimembranze, ma li evoca a uno a uno dalla massa indistinta delle nebulose e, pronunciandoli, con la passione struggente dell’innamorato, li incide sulle rocce dei colli eterni.
E ho provato a pensare se ci possa mai essere qualche angolo del mondo sottratto, per così dire, all’invadenza del Nome di Dio. Ma non mi è riuscito di trovarlo. La gloria del Signore JHWH straripa da tutte le parti. Non ci sono zolle di terra che non si lascino inumidire dalla sua rugiada. Neppure gli spazi dove si imbastardiscono le trame più inique sono impermeabili all’azione di Dio. Lì, nei santuari dove la gente si raccoglie in cerca di pace; ma anche oltre la siepe del giardino comunale disseminato di siringhe. Nelle celle del monastero di clausura impregnate di preghiera, ma anche giù nei sotterranei delle metropoli dove si sfrenano ogni giorno le orge della dissolutezza. La verità è che la terra non è oggetto di spartizione tra l’impero del bene e l’impero del male. A Dio non appartengono solo le aree del sacro. Egli riempie d’olio tutte le lampade della vita, fa ardere i roghi della storia, accende le fiammelle della cronaca, illumina i crepuscoli delle nostre stagioni spirituali. E Dio non si macera nel timore che l’uomo un giorno o l’altro debba trafugargli i brevetti delle sue invenzioni. Non considera l’uomo come suo rivale, ma come partner che collabora con lui nel cantiere sempre aperto della creazione, Come socio, cioè, di pari dignità, nella sua cooperativa di lavoro».
[1] Da A.Pronzato PAROLA DI DIO anno C, Ed.Gribaudi pag. 76.
[2] T.Bello, Non c’è fedeltà senza rischio, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2000.