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10 MARZO 2013 – 4A DOMENICA DI QUARESIMA C – PROPOSTA DI LECTIO DIVINA

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10 MARZO 2013  -  4A DOMENICA DI QUARESIMA C – PROPOSTA DI LECTIO DIVINA

LECTIO DIVINA: LC 15,1-3.11-32

Poche pagine del vangelo ci risultano tanto familiari come il racconto che abbiamo appena ascoltato: la parabola del figlio prodigo è stata sempre una delle narrazioni preferite dai cristiani di tutti i tempi. E proprio questo è il problema: la storia può essere tanto conosciuta da non lasciarci mettere in discussione dal suo sorprendente messaggio. Incominciamo col dire che il racconto non è centrato sul comportamento di uno dei due figli; la parabola si centra, piuttosto, sull’atteggiamento che ha il padre in tutta la storia: in essa la cosa più importante non è ciò che hanno fatto o detto i figli, quanto piuttosto ciò che ha fatto e ha detto ad ambedue il padre. Sapremo ciò che ci dice oggi Gesù, se riusciamo ad identificarci con uno dei due figli della sua parabola. E sapendo con quale figlio ci identifichiamo meglio, sapremo meglio ciò che Dio Padre si aspetta da noi.
In quel tempo, 1si avvicinarono a Gesù i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano, tra di loro dicendo:
« Costui riceve i peccatori e mangia con loro ».
11Gesù disse loro questa parabola:
« Un uomo aveva due figli; 12il più giovane disse al padre: ‘Padre, dammi la mia parte di fortuna ». E il padre divise i suoi beni.
13No molti giorni dopo il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose andò in un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, in quella terra vi fu una terribile carestia, ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Domandò lavoro presso un abitante di quel paese, che lo mandò nei campi a guardare i porci. 16Per la fame voleva riempire il suo stomaco con le carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava. 17Rientrando in sé disse: « Quanti servi assunti da mio padre hanno pane in abbondanza e io qui sto morendo di fame. 18Mi alzerò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te 19non sono degno di essere chiamato tuo figlio: trattami come uno dei tuoi servi « .
20Si mise in cammino verso suo padre; quando era ancora lontano, suo padre lo vide e ne ebbe compassione, e, cominciando a correre, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Suo figlio gli disse: ‘Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te non sono più degno di essere chiamato tuo figlio’. 22Il padre disse ai suoi servi: « Portate qui il vestito più bello e, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi 23prendete il vitello grasso, ammazzatelo, facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è vivo era perduto ed è stato ritrovato ». E cominciarono il banchetto.
25Suo figlio maggiore si trovava nei campi. Nel tornare, mentre si avvicinò alla casa, udì la musica e le danze, 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse successo. Il servo rispose: « È tornato tuo fratello e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo ». 28Ma egli si adirò e non voleva entrare, ma suo padre uscì e cercò di convincerlo. 29E lui rispose a suo padre ‘Ecco, io ti servo da molti anni, senza mai aver disobbedito ai tuoi comandi, ma non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici, 20e quando questo tuo figlio che ha mangiato i tuoi beni con le prostitute è tornato, hai ammazzato il vitello ingrassato « . 31Il padre gli disse: « Figlio, tu sei sempre con me, e tutto quello che ho è tuo: 32ma dovevamo rallegrarci, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato’ « .

 1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Con troppa frequenza passa inavvertito il fatto che Gesù ha pronunziato non una, ma tre parabole (Lc 15,3-32), per difendere una sua abitudine, che scandalizzava coloro che si credevano buoni: mangiava spesso con pubblici peccatori (Lc 15,2). Bisogna comprendere, dunque, la parabola del « padre che aveva due figli » (Lc 15,11-32) e le altre due che la precedono (Lc 15,3-7: la pecora perduta; Lc 15,8-10: la moneta perduta), come argomento con il quale Gesù difende il suo insolito comportamento. Mangia con peccatori perché sa che Dio gioisce per la conversione di, almeno, uno di loro (Lc 15,7.10). Il peccatore recuperato da Dio fa sì che Dio recuperi la sua gioia e il desiderio di festa: tale è il potere del peccatore che ritorna al suo Dio.
In concreto, la nostra parabola ha un unico protagonista, un padre (Lc 15,11), e due scene (Lc 15,12-24; 15,25-32), ognuna si centra su uno dei suoi due figli, il minore, il « cattivo » (Lc 15,12-24) e il maggiore, più « buono » (Lc 15,25-32). Ambedue i personaggi sono stati ideati da Gesù per descrivere le due maniere di essere figlio di Dio e potere così mettere a confronto i suoi critici e vedere con il quale dei due si identificano meglio. Inoltre, e soprattutto, Gesù vuole che i suoi uditori riflettano bene sulla reazione del padre alla doppia, e ben diversa, pretesa dei figli. Ciò che è realmente decisivo nella narrazione non è quello che vogliono i figli, ma ciò che il padre fa o dice, ordina o suggerisce, chiede o desidera.
Per ogni figlio – sono due e molto diversi tra loro – c’è un Padre che sa differenziare. Non è lo stesso per ognuno di loro; non li tratta, né è trattato, allo stesso modo. A colui che lo aveva offeso, non gli chiese nulla, si accontentò del fatto che rientrasse a casa, pur sapendo il figlio che non era degno di suo padre né meritevole della casa. A quello che mai lo aveva abbandonato, lo pregò che accettasse come fratello il figlio recuperato. I figli sono provati, però le prove non sono uguali: si adattano ad ogni modo di essere figlio. E nascono dal desiderio del padre di contare sui suoi due figli.
Il figlio minore ha conosciuto il peccato, però non ha mai abbandonato il Padre: allontanatosi da lui il più possibile, non poté bandirlo dal suo cuore; seppe chiedere l’eredità e dilapidarla senza indugio né misura, però non seppe smettere di sentirsi figlio, tanto cattivo da non meritare di esserlo, però sempre figlio. E quando la situazione era più disperata, « entrò in se stesso »… e si ritrovò con il padre. Il ritorno alla casa iniziò tornando al suo cuore: Il padre recuperò il figlio perduto alla porta della casa; il figlio recuperò il padre, prima di tornarlo a vedere, prima di sentire il suo abbraccio e vedersi reinvestito come figlio del signore: lo portava con sé, nel suo cuore. Nel proprio interiore, il figlio che si è smarrito incontra se stesso.
Il figlio maggiore, pur sempre in casa, e lavorando duramente, non si trovava in essa quando il fratello minore ritornò: si è perduto l’incontro – ha saputo dell’arrivo da un servo – e fece di tutto per non partecipare alla festa. Bisogna osservare che ora l’atteggiamento del padre con il figlio maggiore è più insistente, più dialogante, perfino più affettuoso. Non gli toglie la ragione di quanto dice, non nega le sue ragioni, gli dà una nuova ragione, la sua, la paterna: chi è appena arrivato è fratello, qualunque cosa abbia fatto, perché continua ad essere suo figlio. Il padre, e in modo indiretto, gli fa rendere conto che l’obbedienza non va sempre insieme con la fedeltà, che essere servo non è essere figlio: il figlio deve sentirsi padrone, anche se lavora con i servi di suo padre; il figlio è libero di disporre dei beni di suo padre, poiché dispone del padre come dono supremo e base di tutti i beni.
Il figlio maggiore non ha perduto il padre né i suoi beni, né si è allontanato da casa né si è assentato dal lavoro; non ha peccato contro Dio né contro suo padre, ma lo ha servito tutta la vita come salariato. Non ebbe mai un padre, solo un padrone, né casa ma solo un posto di lavoro. Triste destino! Però – e qui sta la sostanza della storia – perché un figlio « buono » non ha potuto o non ha voluto essere un buon fratello, il padre non poté riavere insieme i suoi due figli in casa.
Rubano a Dio il suo bene più prezioso, lo spogliano della sua paternità, i « buoni » figli che non vogliono essere fratelli accoglienti. Non ricevere il fratello caduto, recuperato come fratello, suppone privare Dio di ciò a cui dà più importanza: litigare con il fratello, per quante ragioni si possano avere, è attentare alla paternità di Dio. E non bisogna omettere che questa è la prova del figlio buono, la conversione del figlio « buono » è farsi buon fratello.

 2. MEDITARE: applicare quello che dice il testo alla vita
Per comprendere la parabola di Gesù bisogna tener presente la circostanza che l’ha motivata, il rimprovero fariseo al suo comportamento: Gesù giustifica la sua familiarità con i peccatori alludendo al comportamento di Dio nella figura del padre che aveva due figli. Il figlio prodigo non smise mai di essere figlio, anche se un giorno lascia la casa paterna e sperpera i beni della sua famiglia; perfino dopo il suo peccato si sentì figlio, pur sentendosi indegno. E’ ciò che gli salvò la vita e lo salvò dal peccato. I figlio che mai abbandonò la casa, sempre si era sentito servo di suo padre: viveva in casa senza libertà e con sforzo; la sua fedeltà gli costava, poiché non era obbedienza di figlio, bensì di servo; prima e dopo non conoscerà la festa familiare. La cosa drammatica sarà che il padre smise di essere padre di due figli, perché il « buono » non accettò di vedere suo fratello in colui che ritornava, perché non ha potuto ammettere che suo padre fosse più buono con colui che si era comportato male. A osservare bene, la parabola non tratta di figli che avevano un padre, ma di un padre che aveva due figli. E non è il figlio minore il prodigo, ma il padre, ammesso che sia stato il figlio ad aver dilapidato la sua parte, a dividere per primo l’eredità e a usare dopo ciò che restava, quando il figlio tornò a casa; è vero che il minore lasciò la casa e il padre con la parte della sua eredità per dilapidarla e vivere disordinatamente, però fu il padre ad addolorarsi più per il figlio perduto che per la perdita dei suoi beni. Il protagonista del racconto non è stato, allora, il figlio malnato ma piuttosto il padre disposto sempre a riconoscere come figlio suo colui che con ragione non poteva aspirare ad altro che ad essere considerato solo servo. Chi non voleva appartenere alla casa perché ha voluto abbandonarla, non riuscì ad allontanarsi dal cuore del padre, per quanto lontano se ne fosse andato; è stato il padre che ha continuato ad aver nostalgia del figlio, che si era allontanato dalla sua famiglia, andando a vivere in terra straniera; è stato il padre che, sentendone la mancanza, lo manteneva vivo e presente nel suo cuore e nella sua casa. Avremmo dovuto esser passati, forse, da un’esperienza di abbandono simile per misurare meglio quale è potuta essere la pena e la tristezza in cui viveva il padre mentre suo figlio era lontano e viveva male. Nemmeno il fratello maggiore ha avuto un atteggiamento molto lucido. Non si è allontanato mai da casa, è vero, però non si è sentito mai libero in essa; si è mantenuto sempre sottomesso a suo padre, però con obbedienza di servo. Cresciuto come figlio non smise mai di essere servo di suo padre. Senza abbandonare il padre, mai si considerò suo erede né seppe celebrare una festa con i suoi amici; non si è permesso di chiedere qualcosa, non perché non lo desiderasse, ma perché gli mancò la fiducia. E quando il figlio di suo padre ritornò a casa, non seppe accettarlo come proprio fratello né volle festeggiare il suo ritorno. Non gli mancavano ragioni, ma gli mancò comprensione verso suo padre. Tanta permanenza insieme al padre non gli fece imparare ad essere fratello; tanto tempo aveva convissuto con suo padre ma non riuscì a vederlo che come il suo signore: la sottomissione non portò la fraternità, l’obbedienza non lo trasformò in figlio. E poiché non comprese le ragioni di suo padre, rimase senza festa, senza fratello e senza casa. E’ tragico rendersi conto come una vita di fedeltà a Dio può condurre a perderlo per sempre: non basta fare ciò che vuole nostro Padre, bisogna volere anche ciò che ci dice; dargli piena obbedienza è compito di servi; per essere figli, l’obbedienza deve essere cordiale e interna.
La parabola è solo ombra della realtà: il padre buono non è altro che figura di ciò che Dio vuole essere per noi. Con quanta frequenza abbiamo sentito la tentazione di lasciare Dio in casa e cercare arie e luoghi di maggiori libertà, dove poter essere noi stessi senza dover essere riconosciuti come figli di Dio, dove spendere ciò che avevamo ricevuto come se lo avessimo guadagnato noi. E con quanta frequenza abbiamo acconsentito a questa volontà di libertà, a questo desiderio di smettere all’improvviso di essere figli in casa propria; con la stessa frequenza abbiamo ottenuto unicamente di essere servi in casa altrui. Però non è pessimista il racconto di Gesù, come non possono portarci all’abbandono i nostri abbandoni. Se ci riconosciamo nel « cammino di andata » che ha fatto il figlio, possiamo riconoscerci anche nel suo « cammino di ritorno » e trovarci, come lui, con un Padre disposto a vederci e commuoversi, correre verso di noi e abbracciarci. E perfino baciarci, senza dovergli dire prima alcuna parola di pentimento. La storia del figlio minore può essere la nostra storia: se torniamo a Dio, recuperiamo il Padre che tanto ci manca. Non dimentichiamo che il figlio, lontano da casa, dovette conoscere gioie che devastano e tristezze che alimentano nostalgie, godere piaceri ma sentirsi nel bisogno; tornò a ricordare il padre che aveva abbandonato solo quando sentì lo stomaco vuoto, quando terminò il suo denaro, quando non ebbe amici con i quali sperperare la sua fortuna. Fu nell’esperienza di solitudine, di mancanza di affetti umani, e di fame, di mancanza di cibo, che tornò a pensare a suo Padre e al cibo dei suoi servi. Coloro che sono soddisfatti di sé, coloro che hanno successo, coloro che si aggiustano bene per conto loro, coloro che credono di non peccare solamente perché dispongono a piacere dei propri beni, difficilmente intraprendono il cammino di ritorno. Perché invidiarli, se hanno perduto la casa, il padre, la famiglia propria e la festa comune? Se avvertiamo qualche bisogno, se ci sentiamo bisognosi di qualcosa di importante, tutto ciò può essere l’occasione per ritornare dal Padre buono che ci aspetta tutti. Dietro il nostro peccato, dietro i nostri errori, dietro le nostre povertà, c’è sempre un Dio che ci aspetta, un Dio che non terrà conto di ciò che abbiamo fatto se ritorniamo. Convertiamoci al nostro Dio, torniamo a scoprirlo come Padre, proviamoci e vedremo com’è buono il Signore. Se tutti abbiamo un Padre che ci aspetta alla fine del cammino, perché dubitare tanto di tornare a casa? Se alla fine c’è la nostra casa, perché tardare tanto nel lasciare quelle altrui? Se alla meta è già preparato il banchetto di benvenuto, perché patire ancora la fame?
E un’ultima osservazione: se qualcuno conosciuto, che si era allontanato, ritorna con nostro Padre e con noi, a casa, riceviamolo come figlio recuperato e come fratello da recuperare. Condividiamo con lui la casa e il Padre, senza invidia né rancore. Alla fin fine, il nostro Dio per essere Padre nostro ha bisogno di figli, siano questi più o meno buoni come noi stessi. E noi abbiamo bisogno di fratelli buoni per formare una famiglia con Dio: nessuno è migliore perché non è mai andato via da casa, bensì se si è sempre considerato figlio, anche se indegno; se la nostra pretesa fedeltà a Dio non ci avvicina ai suoi figli meno fedeli, non riusciremo a sentirci altro che servi nella nostra famiglia. Perché Dio sia nostro Padre, i suoi figli, anche se non sono tanto buoni come noi, devono essere nostri fratelli. Per vedere cosa ci chiede oggi Dio Padre, vediamo che tipo di figli siamo, verificando che tipo di fratelli cerchiamo di essere.

King David plays the Harp before the Ark of the Covenant

King David plays the Harp before the Ark of the Covenant  dans immagini sacre king-david-and-the-ark-of-the-covenant-640x247

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Publié dans:immagini sacre |on 7 mars, 2013 |Pas de commentaires »

L’INTERMINABILE PATER NOSTER (PAOLO VI)

http://www.fmboschetto.it/religione/interminabile_Pater_Noster.htm

L’INTERMINABILE PATER NOSTER (PAOLO VI)

Un giorno di Luglio del 1991, durante un pellegrinaggio personale presso il convento di clausura del Sacro Monte di Varese, mi è corso l’occhio su un cartello che pubblicizzava una biografia di Paolo VI in vendita presso il santuario, scritta da Padre Carlo Cremona. Il Suo nome non mi era ignoto, giacché avevo già avuto modo di leggere la sua precedente opera « Agostino d’Ippona – Pensieri », regalatami da un amico. Mentre acquistavo questo volume, il rivenditore mi ha informato del fatto che l’Autore era presente proprio in quei giorni al Sacro Monte, e di colpo mi è balenata l’idea di incontrarlo e di farmi fare una dedica sul libro. Ho chiesto di Lui nella sagrestia del Santuario, e padre Cremona è venuto da me in modo così sollecito e disponibile da lasciarmi stupefatto. È un tipo pratico, che sa andare subito al cuore delle cose, come mi ha dimostrato in una breve conversazione, e sono sicuro che quasi tutti lo troverebbero simpatico dopo aver scambiato quattro chiacchiere con lui. La successiva lettura del libro mi ha fatto poi scoprire che, com’è nell’anima napoletana, egli non ha affatto dimenticato l’aspetto poetico della vita e della storia, quello che « noi del Nord » tendiamo troppo spesso a trascurare. Ora che anche padre Cremona ci ha lasciati, ho pensato di pubblicare la recensione di « Paolo VI », ed. Rusconi, una delle bellissime biografie scritte da padre Cremona, per ricordare degnamente tanto lui quanto il grande Papa Paolo VI, nel XXV anniversario della sua morte terrena.
Bellissima, ho detto. Dirò di più: tre volte bellissima.
Bellissima la vita di questo piccolo grande uomo che ha deciso di cambiare il suo nome in quello dell’Apostolo delle Genti (cfr.pag.205: « Paolo VI volle ispirarsi proprio a Paolo di Tarso ») per essere come lui missionario di Cristo, utilizzando tutti i mezzi che la moderna tecnologia gli metteva a disposizione.
Bellissima l’idea di volerci parlare di un uomo il cui nome quasi tutti conoscevano ma la cui opera ben pochi capivano ed apprezzavano: un uomo dallo strano destino, comune a quasi tutti i benefattori dell’umanità, cioè di essere incompresi in vita, ed ancora mal compresi dopo la morte. La biografia di Padre Cremona è come un riflettore, un flash che di colpo getta una vampata di luce su un quadro appeso in una stanza buia, ed il cui pregio nessuno riusciva ad apprezzare perché l’incuria e la superficialità degli uomini lo avevano ritenuto indegno del museo della Storia.
Bellissimo, infine, il modo in cui quest’idea è sviluppata e portata a compimento, cesellando un vero monumento al grande Papa con uno stile originalissimo, fatto di frasi concise ed eloquenti, scevro da artifici letterari, ma denso di flashback e di anticipazioni: stile, questo, che io trovo adattissimo ad esprimere lo snodarsi ed il riannodarsi dei fili con cui la Provvidenza ha intessuto la vita del grande Papa. Cremona stesso, a pag.241, afferma: « Tre passi avanti e uno indietro, così da liberare il racconto dal rigore cronologico »!
I confronti sono sempre antipatici, tuttavia mi sembra istruttivo comparare questa con la biografia di un altro pontefice: quella di Giovanni XXIII, scritta da Nazareno Fabbretti (ed. Mursia). Questa è scritta in modo semplice, direi narrativo, come una bella storia edificante raccontata per mostrare un esempio di bontà e di umiltà, e si distende in un periodare ampio e tranquillo: in accordo, dunque, con la figura angelica del Papa Buono, da tutti amato ed apprezzato in vita ed in morte. Cremona ha saputo invece rendere il complesso mondo interiore di Montini, e ha trasformato quella che poteva essere una semplice biografia, o peggio un’opera banalmente apologetica sullo stile di tanta agiografia dei secoli passati, in una completa analisi filosofica e teologica di tutto un secolo, con le sue ansie e i suoi terrori, visto e vissuto da un uomo che fu definito « Amletico » e « Paolo mesto » solo perché preferiva vedere, tacere e soffrire in silenzio, « meditando tutte queste cose nel proprio cuore ».
Un’opera dotta, dunque, ma non abbastanza per non essere compresa da tutti i lettori: l’autore ha imparato perfettamente da Paolo VI, che sapeva dire cose profondissime con parole semplici. Ecco, per esempio, come riesce a sintetizzare mirabilmente l’intero operato di Montini: « Paolo VI ha elaborato principi morali validi per l’uomo integrale; ha squadrato pietre angolari e le ha collocate solidamente sul fondale di acque invadenti, che reggessero i piloni di un ponte nuovo, sul quale camminerà sicura l’umanità verso il futuro, verso la Civiltà dell’amore. » (pag. 16). Se fossi nei panni di coloro che decidono i titoli dei temi d’italiano dell’esame di maturità, assegnerei un commento di questa frase. C’è dentro tutto un pontificato. Anzi, c’è dentro tutto un secolo. Montini ha formato, nella FUCI, i più grandi spiriti dell’Italia del secondo dopoguerra (un nome per tutti: Aldo Moro). Dalla Segreteria di Stato Vaticana ha vissuto in prima linea gli anni più spaventevoli delle dittature, del conflitto mondiale, della guerra fredda. A Milano ha conosciuto i problemi della nostra civiltà massificata ed esibizionista. E di tutto questo ha fatto tesoro, una volta divenuto primate della Terra.
Tre passi avanti e uno indietro, dicevo sopra. Non è solo un giudizio sullo stile, ma anche sull’intelligenza con cui viene trattato il pontificato di Montini nell’alternarsi di chiaroscuri: la mera analisi storiografica, tanto sbandierata da pedanti professori di storia, è sacrificata alla storia dello Spirito. Lo snodarsi dei fatti belli e brutti, dal Concilio alla delusione per la mancata presenza al Congresso Eucaristico Internazionale di Filadelfia del 1976, dalla « Populorum Progressio » al divieto da parte di Gomulka di visitare la Polonia, dalla fantastica « notte della Luna » fino, ahimè, al caso Moro, tutto questo rincorrersi di giorni, mesi ed anni diventa in queste pagine mirabile poesia. E ciò non solo per i chiasmi, le allitterazioni, le geniali allegorie che Cremona adopera da maestro, come là dove dice che « la Chiesa bisogna servirla, non servirsene » (pag.131) o dove commenta: « Prima i fioretti, ora le spine! » (pag.257). Sgorga poesia là dove Cremona sa trovare una risposta alle domande che potrebbero sorgere spontanee dalla mente del lettore, ma non architettandole nel Suo cervello, dando l’impressione di voler stupire chi è culturalmente sprovveduto: le trova nella storia stessa, letta non con gli occhi del freddo matematico, ma attraverso lo specchio della Fede e dell’Amore.
La dimostrazione più lampante di questo fatto è costituita dagli stessi titoli dei capitoli, pressoché pirandelliani nella loro concisione lapidaria: « UNA GRANDE BARCA… » da’, da solo, l’idea delle due barche: quella, piccola e raccolta, della famiglia Montini, che « s’accosta » – bellissima immagine, questa, a pag.25 – a quella, enorme e millenaria, di Pietro; e il paragone continua a pag.231 col titolo « LA FATICA DEL PATERFAMILIAS ». Insuperabile: papà Giorgio, guida spirituale della famiglia Montini, che insegna a Giovan Battista ad essere guida spirituale di quell’immensa famiglia che è la Chiesa di Cristo….
La storia si fa dunque poesia. La poesia si fa vita. E il culmine della vita di Montini è la morte. Quest’evento temuto ed inevitabile, che rende triste e taciturno chiunque ne senta parlare, diviene nelle pagine del nostro libro poco più di un passaggio, una « Pasqua », se vogliamo tornare all’origine etimologica della parola più santa del cristianesimo. Un lutto, per Montini, diventa una festa. Erasmo da Rotterdam, nell’ »Elogio della Follia », ricorda come i predicatori medioevali ricorressero ai giri più tortuosi ed alle più astute ciarlatanerie per spiegare etimologie, date, coincidenze numeriche; l’autore, senza alcun cavillo, ha convinto i suoi lettori del fatto che non è pura coincidenza se Paolo VI morì il giorno in cui la Chiesa celebra la Trasfigurazione di Cristo. Ce lo ha fatto capire scrivendo: « Uomini come Montini muoiono unicamente perché cessano di vivere fisicamente su questa terra ove Dio ha stabilito che anche la vita spirituale sia legata alla vita fisica. In realtà la loro dipartita è ancor meno che se avessero dovuto abbandonare un luogo per trasferirsi in altro lontano. COME LA VITA, QUAGGIÙ, È MORTALE, COSÌ LA MORTE È VITALE. » (pag.272). Edouard Schurè, commentando la figura e l’opera di Cristo, dice: « [La risurrezione] rivoluzionò completamente l’animo degli Apostoli. Per essi…il cielo si è aperto; l’Aldilà è entrato nell’Aldiqua; l’aurora dell’immortalità ha toccato la loro fronte e avvolto la loro anima in un fuoco inestinguibile ». Nel racconto di padre Cremona non pare esservi soluzione di continuità tra la vita terrena e la vita eterna di Montini. Lo dimostra il titolo stesso del 24mo capitolo: « L’INTERMINABILE PATER NOSTER ». Recitando le parole che Cristo stesso ci ha insegnato, passava così, senza neppure accorgersene, dal buio del nostro mondo finito alla luce infinita che non conoscerà mai più tramonto.
Ottima, sebbene già sfruttata, l’idea di incominciare il libro con la morte di Montini. L’estrema tranquillità della morte di papa Paolo VI avrebbe potuto sconsigliare un simile incipit; così, invece, il cerchio viene chiuso: vita e morte non sono due opposti hegeliani, due realtà inconciliabili: l’una trova la sua ragione nell’altra. Ed è così che dovrebbe essere per tutti noi: grazie dunque a Cremona per avercelo rammentato! E grazie per averci additato come modello di vita l’autografo di Montini riprodotto sul retro del volume, che recita testualmente:

« Dio – senz’amore non si conosce – senza preghiera non si ama ».

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Publié dans:PAPA PAOLO VI |on 7 mars, 2013 |Pas de commentaires »

LA CHIESA ORTODOSSA SULLE ORME DI SAN PAOLO APOSTOLO

http://www.ortodossia.it/LA%20CHIESA%20ORTODOSSA%20SULLE%20ORME%20DI%20S.htm

LA CHIESA ORTODOSSA SULLE ORME DI SAN PAOLO APOSTOLO

(Pensieri di un Metropolita Ortodosso)

1. Introduzione
Ringrazio particolarmente per l’invito fraterno a partecipare a questo Convegno, importante dal punto di vista ecumenico, pastorale e sociale.
Ogni Convegno, di conseguenza anche questo, il nostro, costituisce una riflessione sulla responsabilità per il percorso della testimonianza cristiana e del suo ruolo nel mondo di oggi, angosciato e travagliato, bisognoso di modelli e soluzioni per i propri gravi problemi.
Sono lieto e mi congratulo con il Professore Farrugia e con il Prof. Busattil della Fondazione di Malta, per l’invito che tocca anche la Chiesa dell’Oriente, la Chiesa di Costantinopoli, il Patriarcato Ecumenico, in quanto la mia umile persona, è Metropolita della Chiesa di Costantinopoli.
Il gentile pensiero degli organizzatori di invitare anche la Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia e Malta del Patriarcato Ecumenico, nella persona del suo Metropolita in questo significativo incontro è per essa un sostegno morale ed un riconoscimento di un prestigio particolare per continuare la sua peculiare missione: testimoniare e trasmettere la sua ricchissima Spiritualità, fare conoscere ai suoi fedeli la sua fede, il suo culto e la sua Tradizione; costruire Ponti di amore e di pace, di rispetto e fratellanza, di unità e di speranza, indispensabile per la sincera collaborazione, per rafforzare il “Dialogo della Carità” che è la base del “Dialogo Teologico”, per pregare ed affrontare la volontà di Dio: “Che tutti siano una cosa sola”; creare, cosi, un popolo di Dio cosciente; preparare la coscienza per la realizzazione dell’unità, in quanto l’unità sarà dono di Dio; ma (anche) si realizzerà quando l’ideale diventerà coscienza del popolo, cioè vita con preghiera quotidiana, con interessamento morale ed ardente desiderio per il cambiamento della mentalità e del cuore, affinchè l’uomo possa comprendere la sua responsabilità di fronte a Dio ed al suo prossimo.

2. San Paolo e la sua predicazione
Entriamo nel nostro importantissimo tema: “La Chiesa Ortodossa sulle orme di san Paolo apostolo”. Per iniziare dobbiamo sottolineare che san Paolo è per eccellenza il maestro e la guida spirituale, morale e sociale dei santi Padri Greci, i quali hanno conservato nella Chiesa Ortodossa inalterata la dottrina degli Apostoli e dei Concili Ecumenici.
Approfondiamo in alcuni rilevanti temi teologici, pastorali e sociali, che san Paolo sottolinea prioritamente, dando risposte che influenzano i Padri dell’Oriente, e di conseguenza la Chiesa Ortodossa Orientale, che segue la dottrina e le orme di san Paolo.
Secondo san Paolo, Dio non è lontano dall’uomo, al contrario lo ha conosciuto lui stesso ed è stato da lui illuminato e liberato dai limiti del giudaismo, quando ha visto ed ha incontrato la luce della salvezza; ha sentito il mistero, ha compresso il divino intervento, perciò, accompagnato dalla vigilanza e disponibilità a predicare Cristo, è riuscito, lontano dalle passioni della pigrizia e dalla superbia, a trasformare, coll’assistenza della grazia di Dio, il mondo già colpito e travagliato da grandi problemi morali, spirituali e sociali, cambiandone il suo percorso.
È verità indiscutibile che il Vangelo di Cristo, predicato da san Paolo, ha percorso e toccato tutto l’impero Romano. La sua, era una predica di amore, di pace e di unità, nonchè di giustizia, di libertà e di uguaglianza. La sua predicazione ha dato conforto, riposo e solievo spirituale ad ogni uomo stanco e disperato, che si è redento dai suoi peccati, provocando così una rivoluzione interiore, pacifica e salvifica.
San Paolo è l’apostolo della spiritualità greca, è il predicatore della fede in Cristo, che si è affaticato grandemente affinché il seme della fede si diffondesse in tutto il mondo, è il convertitore delle nazioni alla fede in Cristo.
Così, la predicazione di san Paolo (????? t?? ?a????) è chiara, pura, precisa, è ????? di salvezza; è lo stesso “?????” di Cristo che è la predicazione della verità, della vita, della pace e dell’unità. La sostanza di tutto ciò conferma con chiarezza san Paolo, quando dice: “ieri ed oggi lo stesso e nei secoli”.
È diacronico, immutabile nei secoli, acquista oggi un particolare significato, di fronte a questi tremendi tempi di crisi spirituale, morale e sociale, la conoscenza di Cristo che è per la Chiesa Ortodossa il punto di partenza di un percorso di redenzione e di una nuova brillante civiltà, ove la sua base, il suo centro ed il fine unico è la fede cristiana. Da qui si comprende l’importanza della predicazione di san Paolo per la salvezza del fedele Ortodosso che è in sostanza “? ?????”, cioè la predicazione di Cristo che con chiarezza mette in evidenza: “noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio” .
In quella epoca, in cui si è rivelato “il mistero del Vangelo, taciuto per secoli eterni” , l’umanità era sotto l’Impero Romano ed aveva come lingua comune quella greca. San Paolo nelle sue predicazioni ha proclamato il “????? di Cristo” e sulle sue orme il popolo si è nutrito e trasformato, diventando popolo fedele di Dio, che è l’Alfa e l’Omega, “? ?? ?a? ? ?? ?a? ? ????µe???”.
Solo il Pantocratore può fermare la distruzione e può rendere possibile la salvezza di tutti coloro che parteciperanno ed ascolteranno la Parola del Signore, espressa da San Paolo.
Scrive ai Galati: “Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in noi” .
L’apostolo Paolo vive la sua relazione con Cristo sostanzialmente e realmente, anzi con parole vivissime e persuasive:
“Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” .
Anche la lettera ai Filippesi proclama questa verità in modo straordinario: “Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno”; ho “il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo” .
Ma, pure, il messaggio: “Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo” dichiara la sua assoluta interiore identificazione con Cristo che presuppone non la sua superiorità, ma sottolinea la sua indegnità e la sua minimizzazione: “Io infatti sono l’ultimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio”.
La verità incontestabile che lui professa è la grandezza della grazia di Dio, che, malgrado noi fossimo “ancora peccatori e Cristo è morto per noi” , e ci ha fatto diventare “concittadini dei santi e familiari di Dio” , nominandoci altressi “eredi di Dio e coeredi di Cristo” .
Questa spiritualità di san Paolo costituisce per la Chiesa Ortodossa Orientale un modello ed una norma riguardo i grandi e profondi temi, dal punto di vista spirituale, morale e sociale, dei suoi membri per la loro esistenza, per la loro relazione e comunione secondo la sua parola “cercando di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati quella della vostra vocazione” .
La dottrina della Chiesa Ortodossa Orientale è basata sulle Orme di San Paolo che promuove la lotta per rendere i suoi membri uniti nello stesso Spirito ed i quali, “s??a?????ta?” lottando per la fede di Cristo e costituiscono il corpo della Chiesa stessa, così come si canta durante la liturgia della Pentecoste, che lo Spirito Santo “costituisce tutta l’istituzione della Chiesa” quale Suo donatore.

3. La Cristologia di san Paolo e l’Ortodossia
San Paolo non ha scritto un trattato di Cristologia, però nelle sue lettere, che costituiscono i più antichi testi catechetici e pastorali della Chiesa, c’è la dottrina che ha riasuto ed ha consegnato: “Vi rendo noto, fratelli, il Vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi; e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l’ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano! Vi ho trasmesso, dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo la scrittura … fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno … che apparve a Cefa e quindi ai Dodici … e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Cristo” .
La Cristologia di san Paolo sulla persona di Cristo, e sul Vangelo, è stata consegnata alla Chiesa ed è diventata un vero tesoro. L’Agiorita san Filoteo (dopo Metropolita di Iraklias e Patriarca di Costantinopoli) espone la Cristologia Ortodossa sulla base dei relativi versi di san Paolo . Dunque osserva: “l’enipostatos e l’immutata immagine del Padre e di sapienza, “la predica (?????) viva ed efficace” e il figlio omoousios di Dio … perfetto lui stesso nella divinità e perfetto nell’umanità, doppio per la natura, unico per l’ipostasi. È lo stesso unico Cristo unigenito e omoousios figlio di Dio … e omoousios figlio della santa Vergine…”
I monaci del Monte Athos vivono in modo particolare questa cristologia, perché loro, guardando nelle profondità del mare desideran trovare la preziosa perla, secondo tutto quello che proclama Abba Isacco: si spogliano dai loro vestiti, cioè, dalle loro passioni, dalle loro cattive abitudini e le loro dipendenze mondane e si gettano nel mare, per trovare la perla, Cristo, il loro Salvatore.
È attuale ricordare il detto di san Gregorio il Teologo, che riferisce che i santi Padri interpretano la teologia in modo particolare e specifico, imitando i pescatori e negando ogni teoria aristotelica .
Fede e pietà cristocentrica, ma contemporaneamente Triadocentrica, come scrive l’Archimandrita Kapsanis Georgios .
Sua Eminenza il Metropolita di Montenegro Amfilochio, che ha studiato profondamente san Gregorio Palamas, osserva: “… L’incarnazione del Verbo di Dio ha dimostrato l’esistenza delle persone della Santissima Trinità …”. .
La preghiera dei Padri Agioriti con la supplica “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbia pietà di me il peccatore”, ripetuta da loro quotidianamente, è conforme al messaggio di san Paolo. “pregate continuamente”, parole divine di preghiera con le quali gli Agioriti sono aiutati per avere come centro della loro vita Cristo e che Lui soltanto può abitare per sempre nella loro anima, per avere “cuore –intelletto di Cristo” , come san Paolo.

4. L’Ecumenicità di san Paolo e la Chiesa Ortodossa
La Chiesa Ortodossa promuove in modo straordinario lo spirito di amore, di libertà e di ecumenicità, che “ha lasciato a noi questo divino iniziatore di Cristo”, per mezzo di molti suoi scritti e delle dure lotte spirituali, risolte alla cura e alla preghiera incessante “affinché si formi Cristo in noi”. .
San Giovanni Crisostomo, il padre dell’amore e del dialogo, era commosso dalla prostrazione che tutta la vita di san Paolo dimostrava sul suo viso la (sinergia) cooperazione tra Dio e l’uomo, la sua immensa ammirazione per la sua missione apostolica; certamente, ha abbandonato tutto per Cristo, ha sofferto, è stato carcerato; è diventato bastione di Cristo fino alla sua morte nella Città Eterna.
Questi preziosi e chiari messaggi sono stati trasmessi nel seno dell’Oriente Ortodosso e questa spiritualità costituisce il duraturo orientamento per vivere in Cristo, come ritorno al vero centro, al Cristo Dio e Uomo.
Infatti, quando Dio ha considerato il tempo conveniente per rivelare a Paolo il suo Figlio Unigenito con la meta di portare al mondo pagano il gioioso messaggio della salvezza; lui “distinto” , (?f???sµ????), segnalato per l’opera della missione alle nazioni; Theofilaktos di Bulgaria riferisce: “è stato distinto non dal punto di vista di diseredazione, ma dal punto di vista pronostico per la sua dignità”.
I Padri dell’Oriente Ortodosso ammettono la missione ecumenica di Paolo, anzi Theofilaktos di Bulgaria rivela: “Mi ha rivelato il Figlio, non soltanto per vedere lui, ma per portare lui anche agli altri. Non soltanto il credere, ma anche l’ordinare, da Dio ha l’esistenza. Come, dunque, dite che io sono stato istituito dagli uomini? Non soltanto, semplicemente, annunziare Cristo, ma “alle nazioni” .
Tutto questo è allineato con la corrispondente missione che il nostro Signore risorto ha affidato ai suoi discepoli, come meravigliosamente descrive l’evangelista Luca: “Ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi della terra”. .
Sappiamo benissimo che, quando Saulo, sulla via di Damasco ha visto la rivelazione di Dio, l’ordine era che egli divenisse servitore e testimone di Cristo per quello che ha visto e che il nostro Signore ha mostrato a lui: “per questo ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando ad aprire loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio e ottengano la remissione dei peccati e l’eredità in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me” .
Degna di menzione è anche la sua allocuzione al re Agrippa, la quale conferma la missione ecumenica di Paolo. “Pertanto, o re Agrippa, io non ho disobbedito alla visione celeste; ma prima a quelli di Damasco, poi a quelli di Gerusalemme e in tutta la regione della Giudea e in fine ai pagani, predicavo di convertirsi e di rivolgersi a Dio comportandosi in maniera degna della conversione” .
Anche su questo punto della missione ecumenica di san Paolo, la Chiesa Ortodossa guarda non soltanto al materiale d’Archivio per una discussione accademica e ricerca poco utile, ma alla sostanza del risultato a cui la Chiesa deve giungere nel corso della sua missione ecumenica nel mondo. Ecco la linea direttiva verso la quale deve camminare la Chiesa, avendo come base e fondamenta la missione ecumenica di Paolo. In questo modo si spiegano la viva potenza e l’illuminata linea della Chiesa, che dialoga con tutto il mondo, tanto con le Chiese Cristiane, quanto con i non Cristiani e con ogni uomo di buona volontà.
Colgo, pertanto, l’occasione per sottolineare un termine, noto oggi a tutti, la globalizzazione. Di solito con esso intendiamo il movimento libero dei prodotti in tutto il mondo, come anche la possibilità degli uomini di recarsi dall’una all’altra città, in qualunque parte che si trovino, basta che abbiamo la possibilità economica; ancora essa significa il rapido movimento degli uomini dall’una città all’altra, la veloce diffusione delle informazioni tramite internet ecc.
La globalizzazione, da una parte, è positiva, utile; dall’altra è negativa, distruttiva. Alcuni sono a favore di essa ed altri sono contro. La maggioranza guarda alla globalizzazione come antidoto alle diverse forme di nazionalismo, razzismo; come antidoto alla xenofobia ecc. Come tutti i principi portati all’accesso diventano degeneranti e nocivi all’umanità intera.
La globalizzazione (?a???sµ??p???s??) deve distinguere dalla Pancosmiotita, che è collegata coll’ordine del Cristo Risorto ai suoi discepoli “Andate e ammaestrate tutte le nazioni”; ovviamente, discutere su questa realtà, dal punto di vista teologico, richiede l’attenta lettura di tutto il pensiero paolino.
Sarebbe più opportuno sostituire il termine Pancosmiotita con il termine più ampio che è Ecumenicità.
Vediamo, dunque, che con l’Ecumenicità Evangelica l’uomo e la sua morale, spirituale e sociale esistenza, si trova al suo centro, contrariamente a quanto scaturito dal termine negativo e soggettivo della ?a???sµ??p???s?? – Globalizzazione nella quale l’uomo si mette a margine, soffre, si annienta con un duro metodo, con diverse modalità e scopi, che usa per servire, per fare guadagnare alcuni; ma il peggiore distrugge popoli e civiltà, sfiducia la libertà, anzi abolisce i principi del diritto e della morale.
Sua Santità il Patriarca Ecumenico Bartolomeo, parlando a Davos, in Svizzera, si è riferito particolarmente alla priorità della persona umana contro la ricchezza, che caratterizza la globalizzazione come “segno promettendo molto a pochi e poco a molti” per sottolineare che “la Chiesa Ortodossa vive e coltiva l’ideale dell’Ecumenicità spirituale (Icumenicotita), che è una evoluzione della Pancosmiotita, perché proclama che tutti gli uomini, di ogni tribù e lingua e di ogni civiltà, devono essere collegati con i legami dell’amore, della fratellanza e della cooperazione”.

5. L’uomo e la donna nella Chiesa Ortodossa secondo san Paolo
I complicati versetti sul matrimonio e il celibato, scritti da San Paolo si sono comprensibili a san Giovanni Crisostomo, la cui esperienza e spiritualità diventano stabile linea e tradizione nella Chiesa Ortodossa Orientale, nella quale si ascoltano e si commentano con chiarezza e precisione le interpretazioni dei grandi ermeneuti dell’Oriente, come Teodoreto di Ciro , Giovanni Damasceno , Ecumenio Trikis , Teofilatto di Bulgaria ed Eutimio Zigabinos .
San Paolo ha posto le fondamenta teologiche e in modo meraviglioso ha composto ed ha approfondito l’importantissimo capitolo uomo e donna, attribuendo il giusto valore e soprattutto dimostrando il suo ruolo e la sua contestualizzazione nella società di ieri e di oggi.
È di grande significato il suo capitolo sull’esistenza umana, anzi è la vera colonna spirituale e morale sulla quale si basano la vita e la tradizione Ortodossa, non distingue l’uomo dalla donna riguardo alla loro salvezza.
La donna, insegna la dottrina della Chiesa Ortodossa, è stata creata a immagine di Dio, che è “essere indipendente ed esistenza libera … nella sua perfezione … La sua posizione nel percorso del genere umano si ristabilisce nella persona della sempre Vergine Maria”, “… Dio mandò il suo figlio, nato da donna, nato sotto la legge per riscattare coloro che erano sotto la legge; perché ricevessero l’adozione a figli”. .
L’apostolo Paolo annunzia l’uguaglianza fra l’uomo e donna: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”. infatti: “Quando venne la pienezza del tempo”. Maria ha partorito il Figlio e Verbo di Dio, il nostro Salvatore Gesù Cristo.
Simbolizza la donna come sposa di Cristo, il quale vince il male e la sua sposa è glorificata. Questa donna è la Chiesa, la nuova Eva, che vivifica il corpo di Cristo, e l’unione fra l’uomo e la donna verrà definita: “Grande Mistero” (Sacramento), e la metterà in relazione con l’unione fra Cristo e la Chiesa.
Ricordiamo la prima donna Cristiana su terreno Europeo Lidia, nella città di Filippi. Evodia e Sintica , Prisca , Damaris in Atene , le quattro figlie di Filippo , come anche Mariam, Trifena, Trifossa, Persida, la madre di Rufo, Giulia , particolarmente Febe; già citata nella Sua la lettera: “Vi raccomando Febe, nostra sorella, diaconessa della Chiesa di Cristo; ricevetela nel Signore, come si conviene ai credenti e assistetela in qualunque cosa abbia bisogno; anch’essa, infatti, ha protetto molti, e anche me stesso. “Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù;…”. .
Tra le donne è riferita anche la discepola di Paolo Tecla, in Iconio, (festa 24 settembre), la quale è onorata “come protomartire e campione tra le donne”, “la quale ha illuminato con la parola di Dio”, e “ha annunziato, in diverse città, il nostro Signore Gesù Cristo ed ha attirato molti verso la fede in Cristo”.
La Chiesa Ortodossa, con la sua tradizione rileva la verità di san Gregorio il Teologo: “un creatore per l’uomo e la donna, una terra per ambedue, una immagine, una legge, una resurrezione”.
6. Il monachesimo secondo San Paolo e la sua influenza sulla Chiesa Ortodossa.
Diversi momenti della vita religiosa e sociale dell’uomo rivestono particolare importanza per la chiesa Ortodossa. In particolare per la sua vita spirituale e morale San Paolo ne rileva altri punti con particolare profondità, influenzando decisamente in tal modo i Santi Padri del mondo orientale, che lo hanno costantemente come bussola e modello di riferimento anche quando parlano del monachesimo.
Concretamente secondo San Paolo, come già riferito, “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna, poiché tutti siete uno in Cristo Gesù” . Sant’Atanasio il Grande, indirizzandosi alla vergine Sinklitikì, consigliandole serietà e forma morale, afferma: “Rigetta il proprio pensiero di donna, prendi coraggio e diventa forte, poiché nel regno dei cieli non c’è né maschio né femmina, ma tutte le donne che hanno compiaciuto Dio saranno annoverate nell’ordine degli uomini” . San Basilio chiama il monachesimo “theian strateian”, vale a dire “esercito divino”. Dice, allora: “la parola non riguarda solo gli uomini, perché anche la femmina, accanto a Cristo, con la sua forza d’animo si piò annoverare nell’esercito. Il servizio divino è effettuato con ambedue, uomini e donne” .
Pure, l’allontanamento del monaco dal mondo comincia con San Paolo che lo fa allontanare dai suoi parenti, dai suoi amici, dalle circostanze mondane e dalle precedenti abitudini.
Il monaco, secondo San Paolo, non ha città e patria, guarda verso l’invisibile e la patria celeste, è soldato del buon esercito, testimone di messaggi vitali, base e meta del monachesimo.
Esso è stato indicato dal nostro Salvatore Gesù Cristo, nato dalla Santissima Semprevergine Madre di Dio, ha vissuto nella verginità, la castità (purezza), il digiuno, la preghiera, la povertà e l’umiltà.
Gli Apostoli vivono l’ideale del monachesimo e l’insegnamento di San Paolo fu alla base di tutti i principi e delle regole della vita monastica, concretizzatesi durante l’epoca di Basilio Magno, il vero organizzatore del monachesimo della Chiesa Ortodossa Orientale.
San Basilio nel suo famoso libro “oroi kata platos kai kat’ epitomin” come anche nei suoi Discorsi Ascetici, afferma che il monachesimo si presenta come vita d’immensa importanza per conquistare il regno dei Cieli e la salvezza. Per questo i suoi canoni (regole) sono considerati autentici ed autorevoli, di grande valore e prestigio sociale per il valore del monachesimo. Allo stesso criterio di valutazione si giunge per quanto ottiene i Concili Ecumenici, i quali hanno confermato (approvato) i suoi canoni sul monachesimo.
7. La comunione nell’attività missionaria di San Paolo e la Chiesa.
San Paolo combatte una grande battaglia per conservare l’unità dei cristiani, ma anche la comunione tra loro. Essa si manifesta con ciò che egli stesso dice ai Filippesi “rendete piena la mia gioia con l’unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti” .
D’altra parte la città di Filippi riveste una particolare importanza per l’Europa in quanto è stata la prima città a ricevere il messaggio della salvezza.
L’opera che compiono i Filippesi con San Paolo, “dal primo giorno fino ad oggi, non è né di loro, né di lui”. Senza dubbio, l’ha cominciato un altro che lo condurrà all’integrazione escatologica, fino al giorno del suo ritorno.
I Filippesi, in comunione con San Paolo sono in comunione anche con Cristo, che compie la salvezza dell’uomo. Grazie a San Paolo abbiamo conquistato la nostra comunione. Suo risultato è quello di rendere i Filippesi partecipi della grazia di San Paolo, perchè egli è partecipe della grazia di Dio: “Ringrazio il mio Dio ogni volta che io mi ricordo di voi, pregando sempre con gioia per voi in ogni mia preghiera a motivo della vostra cooperazione alla diffusione del Vangelo dal primo giorno fino al presente e sono persuaso che colui che ha iniziato in voi questa opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù. E’ giusto, del resto, che io pensi questo di tutti voi, perché vi porto nel cuore, voi che siete tutti partecipi della grazia che mi è stata concessa, sia nelle catene, sia nella difesa e nel consolidamento del Vangelo. Infatti dio mi è testimone del profondo affetto che ho per tutti voi nell’amore di cristo Gesù. E perciò prego che la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento, perché possiate distinguere sempre il meglio ed essere integri ed irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi di quei frutti di giustizia che si ottengono per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio” .
Parole, queste, che dimostrano il profondo senso di comunione e di unità tra San Paolo ed i Filippesi, esprimendosi con frasi di tenerezza. Perciò grida con sicurezza: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” .
E questa comunione e unità con Cristo daranno a San Paolo la forza e l’esultanza per gridare, pieno di gioia e coraggio: “Dio mi è testimone”.
L’unità ontologica si manifesta nella Chiesa quando i fedeli e il clero sono uniti con Cristo costituendo un corpo indivisibile, indissolubile, unito dal legame dell’amore reciproco con il riferimento a Cristo. E’ indiscutibile che l’apostolo affronti le grandi difficoltà ed i problemi, come anche la divisione e le separazioni con umiltà e comprensione, ma anche con vera gioia, perché alla fine in un modo o nell’altro si deve annunziare Cristo, salvatore dell’umanità: “purchè in ogni maniera, per ipocrisia o per sincerità, Cristo venga annunziato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene” .
Ancora sottolineiamo: l’unità della fede e l’amore reciproco conducono all’attività dei fedeli il cui cuore ed anima sono miei, caratteristica principale della comunità cristiana. L’umiltà di Cristo, come si esprime nell’inno cristologico, è il modello per i cristiani e l’unità. E’ lo stesso Cristo che, “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò sé stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte in croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome: Perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” .
Oggi esiste una grande realtà: l’unità dell’Europa. Questa verità rende più possibile la necessità dell’unità della cristianità divisa.
Il dialogo è il più prezioso mezzo per arrivare all’unità. Esso riveste il carattere di priorità ed i Santi Padri teologi del mondo ortodosso orientale lo hanno esercitato con sincerità e fraternità, sperando nella pace e nella prosperità. Essi l’hanno accettato, credendo nella sua forza spirituale, morale e sociale. Così come hanno fatto Crisostomo, Basilio, Gregorio, salvando così la cristianità e la sua spiritualità teologica e culturale dalle eresie e dagli scismi di quell’epoca, influenzati, senza dubbio, dal profondo messaggio dottrinale di San Paolo.
8. San Paolo e la sua eredità per l’Europa.
La predicazione di San Paolo riguardo al desiderio di Cristo per l’unità dei discepoli, come anche di coloro che hanno creduto alla sua parola ed, in generale, di coloro che costituiscono la Chiesa, è curata da lui stesso con amore, dedizione e speranza.
La sua dottrina ed i suoi messaggi sono, in verità, per le Chiese e le confessioni cristiane di oggi, ma anche per ogni uomo di buona volontà per il quale Gesù Cristo è nato, è stato crocifisso ed è resuscitato, una preziosissima regola di vita.
Le lettere di San Paolo ai Romani, ai Corinzi, ai Filippesi, ai Tessalonicesi, costituiscono testi importantissimi anche per l’Europa. Sono testi di cultura che hanno sviluppato la civiltà e creato in genere le basi per una vita sociale migliore in tutti gli aspetti spirituali e morali.
Le sue lettere sono state riconosciute come preziose testimonianze non solo sotto l’aspetto letterario, ma anche contenutistico, e costituiscono un esempio di verità e di luce indirizzato non solo alla comunità religiosa, ma anche alla società e rappresentano un modello di evangelizzazione per la trasmissione del messaggio dell’amore e della pace, dell’unità e della speranza.
La lettera ai Tessalonicesi costituisce un modello di fede. I cristiani della città sono esempi di fede, di amore e di speranza.
Oggi l’Europa ha bisogno di questa eredità, perché soltanto così la sua confusione, la sua ansia, la sua indifferenza e la sua secolarizzazione saranno sconfitte, e sarà superata la crisi che devasta il mondo intero. L’Europa deve accogliere la parola del Vangelo con tutto il cuore e l’anima.
Dall’isola paolina, Malta, inviamo quel messaggio che è stato ascoltato 20 secoli fa; il messaggio dell’Apostolo Paolo il cui forte sentimento di fede, il cui zelo, la cui disposizione, il cui sacrificio e martirio sono grandi spinte ed occasioni per accogliere la parola di Dio: “Infatti, la parola del Signore rieccheggia per mezzo vostro non soltanto in Macedonia e nell’Acaia, ma la fama della vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, di modo che non abbiamo più bisogno di parlarne”
Ai tempi dei Padri Cappadoci, anche in questo punto San Paolo ha influenzato il mondo orientale, perché sua particolare caratteristica è quella di presentare non tanto una buona comunità ecclesiastica, ma, qualcosa di più, un modello per quanti credono. “Chi, infatti, se non proprio voi, potrebbe essere la nostra speranza, la nostra gioia e la corona di cui ci possiamo vantare davanti al Signore nostro Gesù, nel momento della sua venuta; siete voi la nostra gloria e la nostra gioia” .
9. L’influenza di San Paolo sulla civiltà europea.
San Paolo commuove l’Oriente ortodosso come anche il mondo occidentale per le affermazioni sulla libertà e l’ecumenicità. Il grande pericolo contro la verità e la sapienza di Dio proveniva dalla non comprensione da parte dei capi spirituali e politici.
Lui stesso ha affrontato durante i suoi primi anni questa realtà. La lettera ai Corinzi è testimone di questa situazione.
L’idea del progresso, come anche la storicità dell’uomo, sono due concetti fondamentali introdotti ed affermati grazie al Cristianesimo.
Per i Greci, la natura è il valore, e di conseguenza la scienza è visibile e salvifica.
San Paolo con le sue lettere: (liberazione dalla schiavitù degli elementi del mondo per mezzo di Cristo . Sappiamo molto bene che tutte queste potenze ed autorità note a San Paolo, sono state intese come divinità da parte di alcune correnti gnostiche: “i corpi di questo secolo” .
L’uomo vive sottomesso alla materia, schiavo degli elementi. L’uomo è incapace di trovare sostegno e protezione in sé stesso.
L’influenza di Paolo sulla civiltà europea si è realizzata in modo diretto ed immediato.
L’adorazione di Cristo è creatura non di Paolo, ma della Chiesa di Gerusalemme.
Il misticismo cristiano di Paolo, collegato con Cristo, costituisce il cuore della Cristianità Europea.
Paolo ha potuto realizzare, per la prima volta, una realtà in maniera ammirevole, cioè ha collegato la spiritualità con il modello di Gesù Cristo: un avvenimento storico, di importanza universale, anzi, per la storia dell’Europa un avvenimento unico.
Paolo non era un moralista, non ha creato un sistema di morale. Certamente, tutti i problemi morali della sua epoca, come anche tutti gli argomenti affrontati, non corrispondono pienamente ai nostri, o alle necessità di oggi.
La libertà secondo San Paolo (Pauleia eleutheria) è raggiunta con la liberazione dalla schiavitù ai diversi elementi del mondo. Si crea con l’Apostolo Paolo una nuova situazione, che è veramente un dono divino: l’adozione divina. Però questa libertà non esiste senza l’amore e la comunione con gli altri uomini, con il prossimo: “Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati alla libertà. Perché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità, siate al servizio gli uni degli altri” . La libertà ha come obiettivo la carità, l’amore verso l’uomo che è “icona di Dio”.
La libertà è un bene prezioso che per il quale l’Europa lotta.  Domina l’uomo o domina la tecnologia? Secondo San Paolo la nostra libertà in Cristo dipende dalla carità, dall’amore tra di noi.
L’uomo deve abbandonare il proprio IO, abbandonare la sua avidità, svuotare sé stesso, diventare povero per arricchirsi; soltanto così, seguendo l’Apostolo missionario, l’Apostolo dell’amore e del dialogo, l’Apostolo della pace e della libertà, l’Europa diventerà una potenza utilissima non solo per le nazioni europee, ma anche per le altre nazioni non europee. L’Europa libera insegnerà la libertà con la carità, che dona la vera prosperità e il benessere giusto e duraturo.
D’altra parte gli insegnamenti riguardanti il rispetto del “corpo”, delle sue funzioni, dei suoi organi, costituiscono un faro di indirizzo per l’Europa di oggi, perché vengono in modo meraviglioso manifestati la libertà, l’amore e l’unità che costituiscono forza, prosperità, pace e speranza.
Conclusione: l’Apostolo delle Genti Paolo è l’Apostolo della Chiesa Ortodossa.
La sua influenza è una verità incontestabile.
I Padri dell’Oriente Ortodosso trovano in San Paolo la vera dottrina, e, grazie ad essa, salvano diverse situazioni pericolose dal punto di vista ecclesiastico, spirituale, morale e culturale.
Il monachesimo è forza indispensabile e propulsiva per l’unità e la diffusione del Vangelo, però deve essere libero, senza complessi e senza dubbi, ma solo ed unicamente rivolto alla protezione della Chiesa con amore, pace e speranza.
Il monachesimo è una garanzia ed una sicurezza per la Chiesa e la società civile, inquanto la sua Spiritualità è fonte di vita e di ricchezza culturale e cultuale per la cristianità intera e per ogni uomo di buona volontà.
E solo, seguendo le orme di San Paolo, diventiamo veri fratelli, collaboratori necessari per realizzare la volontà di Dio: “che tutti siano una cosa sola”.
Sua Eminenza Reverendissima
Il Metropolita d’Italia ed Esarca per l’Europa Meridionale
GENNADIOS ZERVOS

Sante Pepetua e Felicita

Sante Pepetua e Felicita dans immagini sacre

http://www.santiebeati.it/immagini/?mode=view&album=22950&pic=22950A.JPG&dispsize=Original&start=0

Publié dans:immagini sacre |on 6 mars, 2013 |Pas de commentaires »

7 MARZO: PERPETUA E FELICITA (mf)

 http://www.cassiciaco.it/navigazione/africa/martiri/perpetua.html

7 MARZO: PERPETUA E FELICITA (mf)

Vittime della persecuzione dell’imperatore Settimio Severo, Perpetua, Felicita e i loro compagni erano probabilmente originari di Thuburbo Minus, antica città dell’Africa proconsolare, l’attuale Tebourba, in Tunisia. Essi subirono il martirio a Cartagine, nell’anfiteatro, il 7 marzo del 203. Insieme con san Cipriano, le sante Perpetua e Felicita rientrano nel numero dei martiri africani più illustri, tanto nell’Africa stessa quanto, più in generale, in Occidente. Qualche anno dopo, Tertulliano ricordava la martire Perpetua (Sull’anima, 55, 4).
In Africa, più tardi, gli Atti del suo martirio (che ci sono pervenuti nella forma di una grande Passione del III secolo e di Atti più brevi, composti probabilmente nel corso del IV secolo) godevano di una tale fortuna che sant’Agostino, facendo allusione alla sorte di Dinocrate, il fratello di Perpetua, pensava di dover mettere in guardia i fedeli africani: «La storia di Dinocrate, il fratello di santa Perpetua, non fa parte delle Scritture canoniche» (Natura e origine dell’anima, I, X, 12). Il vescovo di Ippona fa riferimento alla passione delle due martiri nei Sermoni (280-282) che pronuncia in occasione della loro festa, celebrata a Cartagine il 7 marzo, durante la Quaresima. Sappiamo da Vittore di Vita (Storia della persecuzione vandala, I, 9) che la Basilica Maiorum custodiva, con altri, i corpi delle sante Perpetua e Felicita: un’iscrizione di epoca bizantina che menziona Perpetua e Felicita è stata ritrovata a Cartagine nella grande basilica funeraria di Mcidfa, che si pensa perciò di poter identificare con la Basilica Maiorum.
Pure a Cartagine, si possono ancora leggere i nomi delle due sante e dei loro compagni in alcuni mosaici in forma di medaglioni, provenienti da monastero di Santo Stefano, e probabilmente anche in un affresco del battistero sotterraneo di Saida. Se, fuorché a Cartagine, non si trova traccia del culto reso in Africa alle due sante, esso è però passato molto presto in Italia e in Spagna: l’anniversario del loro martirio, alla data del 7 marzo, è ricordato nella Depositio martyrum, calendario romano del IV secolo. La visione di Perpetua è rappresentata su un sarcofago di Bureba (nella regione di Burgos) della metà del IV secolo, e le due sante fanno parte del corteo trionfale dei martiri in Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna e nella basilica di Parenzo, del IV secolo. Infine, i nomi di tutti i membri del gruppo raccolto intorno a Perpetua e Felicita compaiono nel Martirologio geronimiano, nel giorno della loro festa. La prigionia delle sante Perpetua e Felicita e dei loro compagni, i preliminari del martirio e il martirio stesso sono narrati in una Passione che è spesso considerata l’archetipo delle Passioni di martiri cristiani. Da questa Passione propriamente detta si devono distinguere degli Atti più brevi, che sono stati redatti successivarnente, prima della fine del IV secolo, giacché sembrano essere stati conosciuti da sant’Agostino: quest’ultimo, infatti, riprende o commenta certi giochi di parole (in particolare sui nomi delle due martiri: «felicità perpetua») che compaiono nel testo breve ma non nella Passione. Bisogna segnalare anche altre differenze, più importanti: per esempio si trova negli Atti un lungo interrogatorio dei prigionieri ad opera del magistrato romano, interrogatorio al quale la Passione dedica appena un cenno, assegnando per di più a magistrato un nome diverso da quello che leggiamo negli Atti.
Il testo di questi ultimi presenta alcune corruzioni e interpolazioni, ma su una base che pare autentica e che pertanto può essere stata una fonte indipendente e parallela rispetto alla grande versione conservata. Questa redazione breve doveva verosimilmente servire nella lettura liturgica, per la quale era necessaria una maggiore concisione.

La composizione della Passione di Perpetua e Felicita
La Passione propriamente detta è un documento composito, elaborato probabilmente poco dopo il martirio, dunque nei primi anni del III secolo. All’interno del testo si possono distinguere quattro parti. Anzitutto, una prefazione di stile a un tempo oratorio e «pneumatico», della quale è stato spesso sottolineato il carattere «montanista» e «illuminista», seguita da un breve capitolo in cui il redattore anonimo presenta i cinque catecumeni arrestati, per dare subito dopo la parola a Perpetua, riproducendo ciò che ella avrebbe secondo lui, scritto «di sua mano». Questa seconda parte (il racconto di Perpetua) narra ciò che avvenne dopo l’imprigionamento, gli sforzi di suo padre per allontanarla dalla fede, e soprattutto le quattro visioni che ella ebbe in carcere. Il racconto si interrompe la vigilia dei giochi nell’anfiteatro e si conclude con le seguenti parole: «Questo è ciò che ho fatto fino alla vigilia dei giochi; quanto a ciò che accadrà durante i giochi stessi, se qualcuno vorrà, lo scriva».
Dopo una frase di transizione inserita dal redattore, troviamo in terzo luogo un breve racconto del catechista Saturo, che rivela una visione del paradiso ch’egli ha avuto in prigione; il redattore afferma esplicitamente che questo racconto è stato scritto da Saturo stesso.
La quarta e ultima parte della Passione narra infine i giochi nell’anfiteatro, in cui i cinque martiri furono messi a morte, e il testo si conclude con una breve benedizione dei beati. Almeno in apparenza, il redattore anonimo dei primi due capitoli e delle frasi di collegamento è anche l’autore dell’ultima parte. Testi di cosi grande ricchezza pongono almeno tre problemi:
1. Dal momento che alla versione in lingua latina conosciuta fin dal XVII secolo si è aggiunta una versione greca scoperta alla fine del secolo scorso, si tratta ora di sapere quale sia la versione originaria del testo nella sua totalità ovvero dell’una o dell’altra delle sue parti.
2. Chi è il redattore anonimo della Passione ? Può essere identificato con uno scrittore a noi noto di quell’epoca ?
3. I racconti dei martiri (in particolare le visioni di Perpetua e di Saturo) sono autentici, oppure si tratta di finzione letteraria ?
La lingua originale della Passione
La prima questione, quella della lingua, è stata molto dibattuta e non è possibile entrare qui nei particolari di una discussione specialistica, nella quale tutte le tesi e soluzioni possibili sono state esposte e confutate una dopo l’altra: si è persino giunti a proporre l’ipotesi che le due versioni, greca e latina, fossero traduzioni di un originale punico!
Tuttavia, fin dal Duchesne, i sostenitori della tesi di una versione originale in latino non hanno avuto troppa difficoltà a individuare, nelle diverse parti del testo – e in particolare in quelle dovute al redattore anonimo e a Perpetua -, molti passi nei quali, a termini tecnici o istituzionali, o a giochi di parole (per esempio l’acclamazione salvum lotum, «salvato, lavato», che il pubblico rivolge a Saturo coperto di sangue per il morso del leopardo), che appaiono naturali e appropriati nel testo latino, corrispondono nella versione greca degli equivalenti approssimativi, come se un traduttore greco avesse frainteso il latino o piuttosto trovato difficoltà nel tradurlo. Si osservano inoltre nel testo greco dei doppioni o delle glosse, come se un traduttore avesse esitato fra due traduzioni e avesse infine conservato l’una e l’altra.
Questi argomenti, e altri ancora, hanno determinato in una larga maggioranza di studiosi (in particolare P. Franchi de’ Cavalieri e H. Leclercq), la convinzione che il latino fosse la lingua originale della Passione nel suo complesso. Ma la discussione non è chiusa, e un solo esempio sarà sufficiente a far intravedere le difficoltà che essa presenta. Nella visione di Saturo, i martiri incontrano in paradiso il loro vescovo Ottato e un prete, Aspasio; il testo latino dice che Perpetua conversò con loro in greco: et coepit Perpetua graece rum illis loqui. Secondo P. Monceaux, ciò significava che ella parlava ordinariamente quella lingua, e rendeva verosimile che avesse redatto in greco la sua relazione autografa. Il Duchesne, tuttavia, faceva osservare che questa indicazione della lingua allora usata da Perpetua si trova anche nel testo greco, il che sarebbe strano se la versione greca fosse la versione originale. È stata di recente proposta una terza interpretazione di questo medesimo particolare: nella sua visione Saturo si raffigurava la conversazione di Perpetua con i due preti in greco perché egli stesso era di lingua greca, e sottolineava il fatto che Perpetua si esprimesse in greco nel sogno perché la lingua ordinaria di questa era il latino ! Riprendendo la questione nel suo complesso, l’autore di questa spiegazione chiamava la metrica in appoggio agli strumenti filologici già impiegati per esaminare le due versioni in maniera comparativa, e pronunciava il suo verdetto: mentre il redattore anonimo e Perpetua avevano scritto le loro parti in latino, soltanto Saturo aveva scritto o dettato in greco il racconto della sua visione, che fu molto presto tradotto in latino; successivamente si tradussero in greco le due parti latine della Passione, per giungere finalmente al testo bilingue che noi possediamo.
Si può aggiungere, per concludere il discorso sul problema linguistico, che le tesi e i commenti qui sopra ricordati non esauriscono una cosi complessa questione: chi legge la versione latina vi nota molte parole greche, che non sono certo del tutto inattese in questa prosa «spontanea», riflesso a un tempo di una metropoli come Cartagine, cosmopolita ,e di un ambiente cristiano fortemente ellenizzato, ma il cui esatto valore ci lascia talora perplessi. È il caso, per esempio, di quella parola greca latinizzata, tegnon, «figlia mia», di cui si serve il pastore quando dà il benvenuto a Perpetua.
L’autore della Passione
Il fatto che gli studiosi siano generalmente d’accordo sull’impiego del latino come lingua originale della Passione, per lo meno per quanto riguarda le parti dovute al redattore anonimo, conferisce una incontestabile pertinenza alla seconda questione, concernente l’identità di questo redattore. Si è da molto tempo pensato a Tertulliano: è possibile, in realtà, che questi abbia conosciuto i martiri, e sia stato addirittura testimone oculare della loro passione, della quale egli parla almeno una volta (Sull’anima, 55, 4). Si sa inoltre che Tertulliano si volse molto presto al montanismo, al cui rigorismo aderì proprio in quei primi anni del III secolo, all’epoca del martirio e dell’elaborazione della Passione.
Ora, si è creduto di poter individuare nel prologo e nella conclusione della Passio Perpetuae delle formule e degli elementi lessicali che presenterebbero indiscutibili tendenze montaniste, in particolare nell’esaltazione del martirio e nel riconoscimento del valore delle «visioni nuove» al pari di quello delle profezie.
Sarebbe dunque Tertulliano che, senza modificare i racconti di Perpetua e di Saturo, li avrebbe prolungati con una parte narrativa e avrebbe inserito il tutto fra un prologo e un epilogo. L’attribuzione a Tertulliano, tuttavia, se è ancora accettata da H. Oelehaye, per lo meno per quanto concerne la prefazione e la conclusione, è stata il più delle volte confutata dagli specialisti di Tertulliano. Già P. Monceaux dubitava della validità di questa attribuzione, che è poi stata chiaramente respinta da R. Braun, la cui analisi non lascia sussistere nessuna delle ragioni filologiche – e in particolare delle concordanze di pensiero e degli accostamenti lessicologici – che sono in genere addotte in favore dell’attribuzione a Tertulliano: di quest’ultimo non si ritrova nella Passione neppure l’impronta così peculiare della sua arte sapiente e dello stile a un tempo denso, nervoso e affannoso. Se non ci si vuole rassegnare a ignorare il nome del redattore, la congettura più verosimile, secondo R. Braun, consisterebbe nel proporre quello del diacono Pomponio, che è più volte menzionato da Perpetua e che ha avuto per lei un’importanza considerevole: nella sua ultima visione, infatti, ella lo presenta come il suo maestro e come colui che l’ha avviata alla gloria del martirio.
L’autenticità dei racconti di Perpetua e di Saturo
In tutta la letteratura agiografica, non ci sono molti testi ricchi di tanta freschezza e spontaneità quanta ne mostrano le parti narrative della Passione di Perpetua e Felicita. Pertanto la questione dell’autenticità dell’opera non si è mai posta per i primi editori, e se il demone dell’ipercritica ha talora tentato qualche commentatore, come Ed. Schwartz, si è in genere riconosciuto nella Passione un documento storico di prim’ordine, una testimonianza straordinariamente viva del vigore e del clima spirituale della giovane Chiesa africana tra il II e il III secolo. Citiamo un eccellente conoscitore dell’opera, H. Delehaye: «In tutte le sue parti, il racconto è particolarmente avvincente. L’assenza di ricercatezza, la vivacità delle impressioni, la chiarezza dell’esposizione, il calore del sentimento, tutto vi contribuisce ad affascinare il lettore, e non c’è bisogno di altra prova per dimostrare il valore e la sincerità di un testimone».
La testimonianza è anzitutto autobiografica. Il racconto di Perpetua è un diario dal carcere nel quale, in uno stile semplice, senza alcun artificio retorico, la giovane donna parla dapprima delle sue difficoltà e delle sue angosce. Difficoltà morali e familiari, in primo luogo: la tortura iniziale subita da Perpetua è la separazione radicale da tutti i suoi mentre ella è ancora catecumena – separazione della quale, per di più, suo padre la considera colpevole -, e più ancora forse la collera che, in un primo tempo, nutre contro di lei il padre, rimasto l’unico pagano della famiglia «Allora mio padre, infuriato per questa parola, si gettò su di me per cavarmi gli occhi», prima di assumere un atteggiamento supplichevole e accorato che non è per Perpetua la minore prova morale «Mi diceva queste parole, che venivano davvero dal suo affetto di padre, baciandomi le mani e gettandosi ai miei piedi, e tra le lacrime non mi chiamava più figlia, ma padrona».
E poiché il padre, in un ultimo tentativo di salvarla contro la sua volontà, era salito sul palco dove il procuratore la interrogava, ella ebbe il dolore di vederlo espulso brutalmente e percosso con una verga «Provai dolore per ciò che era capitato a mio padre come se io stessa fossi stata percossa: tale fu il dolore che provai per la sua infelice vecchiaia». La vita dei martiri nella prigione è ricordata e descritta in modo veramente efficace. Poco dopo l’arresto, i catecumeni, ben presto battezzati, sono chiusi in carcere a Cartagine, in una segreta buia e oppressa da un calore soffocante (in quell’estate dell’anno 202 la cui canicola è resa ancor più pesante dall’ammassarsi dei prigionieri), sorvegliata da carcerieri che estorcono ai martiri i loro pochi denari. Fortunatamente, due diaconi di Cartagine, Terzio e Pomponio, si adoperano per alleviare un poco la loro sorte. Perpetua, dal canto suo, è «torturata dall’inquietudine» per il suo bambino, che deperisce e che ella allatta come può; ella lo affida alla propria famiglia, poi ottiene il permesso di tenerlo con sé in prigione, e ciò la rasserena immediatamente: «Fui liberata dalla mia pena e dall’inquietudine per il bambino, e di colpo il carcere divenne per me una dimora principesca, tanto che preferivo trovarmi là che in qualsiasi altro luogo».
Le visioni di Perpetua
Fin da quel momento, Perpetua si trova in una disposizione d’animo propizia alle visioni. Uno dei suoi fratelli, anch’egli cristiano, intuì questa ricettività spirituale, tanto che fu all’origine della prima apparizione: «Allora mio fratello mi disse: « Sorella venerata, grandi sono ormai i tuoi meriti, tanto che puoi chiedere la grazia di una visione e che ti sia rivelato se tu sia destinata al martirio o alla liberazione» . Per desiderio del fratello, dunque, Perpetua prega e riceve quella che, delle sue quattro visioni, è la più luminosa, la più ricca di immagini e simboli che si sono nutriti della più antica tradizione dell’iconografia cristiana e l ‘hanno alimentata a loro volta. Se infatti non c’è motivo, come abbiamo visto, di considerare questi testi come una finzione di cui sarebbe autore il redattore anonimo della Passione, ciò non toglie che essi siano pervasi da tutta una cultura biblica assimilata attraverso la lettura liturgica e la lettura personale. I
n tale cultura trovava posto la letteratura apocalittica, e al suo interno il libro del Pastore di Erma, anteriore di qualche decennio al martirio delle sante cartaginesi. Non molto apprezzato da Tertulliano, che da montanista qual era lo giudicava «lassista», lui stesso però ci dice che quest’opera era allora letta negli ambienti cristiani della capitale africana.
Il carisrna concesso a Perpetua pochi giorni prima della sua passione ha attinto più o meno coscientemente a questo sostrato, del quale si vedono impiegati gli archetipi immaginari: la scala che tocca con la sommità il cielo e ai piedi della quale è in agguato un dragone «di straordinaria grandezza», la figura del Buon Pastore. Ma la visione della giovane cartaginese aggiunge dei particolari al referente in questione e lo arricchisce: i montanti della scala sono irti di strumenti di ferro taglienti che accrescono le difficoltà e il pericolo dell’ascesa; il Buon Pastore amministra la comunione a Perpetua in un modo molto singolare, nella forma di un boccone di formaggio (o di latte cagliato) la cui dolcezza, nella bocca della giovane, sopravvive alla visione: probabilmente a torto si è creduto talora di potere scoprire un elemento (montanista in questo sacramento, vedendovi un rapporto con gli artotyrites di cui parla sant’Epifanio, una setta imparentata per le sue origini al montanismo, che aveva istituito una pseudo-eucarestia con pane e formaggio (in greco: artos tyròs), ma molto più tardi, nella seconda metà del IV secolo, e in Asia Minore.
Di carattere completamente differente sono la seconda e la terza visione di Perpetua, che costituiscono in realtà una duplice visione concernente suo fratello Dinocrate e che presentano un tono molto personale, tanto che qualcuno si è arrischiato a darne un ‘interpretazione psicanalitica. Una notte, il giovane fratello morto all’età di 7 anni per un cancro al viso appare a Perpetua con la ferita aperta, pallido e assetato, vicino a una vasca colma d’acqua, il cui bordo è però troppo alto perché il fanciullo possa bervi. Perpetua prega giorno e notte con lacrime e gemiti perché gli sia concessa la salvezza. Pochi giorni dopo, un’altra visione le mostra, nel medesimo luogo, Dinocrate in buona salute, con la ferita cicatrizzata, risollevato (Passione: refrigerans); il bordo della vasca si era abbassato e il fanciullo, pieno di gioia, vi attingeva senza posa, giocando come fanno molti suoi coetanei: «Allora compresi, aggiunge Perpetua, che era stato liberato dalla pena». Il significato allegorico di questi due sogni è evidente: la vasca, quella piscina dal bordo in un primo momento troppo alto, è il simbolo della beatitudine eterna nell’aldilà (refrigerium), alla quale il povero Dinocrate non può accedere subito – forse perché non era stato battezzato ?
Il testo non lo precisa -. Compaiono in questo episodio sia la credenza del limbo sia quella nell’efficacia dell’intercessione dei vivi. I teologi non dovevano tardare, in particolare in ambiente pelagiano, ad appropriarsi del caso di Dinocrate per affermare che i bambini morti senza battesimo potevano aver accesso al regno dei cieli, il che provocò una ferma reazione da parte di sant’ Agostino. L’ultima visione di Perpetua ci introduce nel luogo in cui avverrà il martirio suo e dei compagni, vale a dire nell’anfiteatro di Cartagine. Non è tuttavia il suo martirio che ella vede in sogno, bensì una scena «agonistica» apparentemente misteriosa, sulla vera natura della quale è stata fatta luce solamente in tempi molto recenti.
Il diacono Pomponio, una figura certamente familiare a Perpetua, viene a cercarla per condurla nell’anfiteatro; l’abito bianco e le calzature ricamate che egli indossa nel sogno lo trasformano in un altro personaggio, in un dignitario dei giochi di epoca imperiale, l’eisagogòs, che introduceva solennemente i concorrenti nell’arena. Qui si tratta di un combattimento che oppone Perpetua a un Egiziano – una figura simbolicamente demoniaca -, ma non è un combattimento di gladiatori, come si è spesso creduto. Mentre i due concorrenti si preparano, sopraggiunge un uomo «di statura straordinaria», riccamente abbigliato con una veste di porpora, con calzature ricamate d’oro e d’argento: si deve riconoscere in lui un agonoteta, vestito come i dignitari che presiedevano i grandi agoni greci nell’esercizio della loro carica. Questo personaggio tiene in mano la bacchetta dell’arbitro e soprattutto un ramo verde con pomi d’oro. A Perpetua che trionfa sull’egiziano egli consegnerà il ramo della vittoria con i suoi pomi, nient’altro che la ricompensa tradizionalmente assegnata al vincitore della lotta – o più precisamente del pancrazio – nelle gare dei Pythia, gare che, a quanto ci dice Tertulliano (Scorpiace, 6), furono organizzate per la prima volta a Cartagine all’inizio del III secolo. Dunque i ricordi ancora ben vivi di un combattimento (ag6n) reale hanno arricchito la visione di Perpetua – visione che essi dimostrano sicuramente autentica – con alcuni personaggi trasfigurati dalla trasposizione allegorica: il diacono- eisagogòs, il pancraziaste egiziano demoniaco (e si sa che effettivamente gli Egiziani erano specializzati nella lotta e nel pugilato), infine il Cristo-agonoteta che dà a Perpetua la certezza della vittoria, non sulle fiere ma sul diavolo, nel combattimento che ella deve ancora affrontare realmente nell’anfiteatro.
Il martirio di Perpetua, Felicita e SaturoNell’episodio finale del martirio ritroviamo Felicita, la cui figura peraltro è messa in ombra da quella di Perpetua e anche da quella di Saturo, il catechista le cui visioni profetiche danno alla Passione il suo pieno significato. Felicita era incinta, e secondo il testo molto afflitta al pensiero che il suo martirio potesse essere rinviato a causa della gravidanza, giacché la legge proibiva l’esecuzione capitale delle donne incinte. Due giorni prima dei giochi, quand’ella era ormai all’ottavo mese di gravidanza, i suoi compagni di carcere si unirono in una preghiera che fu immediatamente seguita dalle prime doglie; e così, dice la Passione, Felicita «mise al mondo una bambina, che una sorella nella fede allevò come fosse sua figlia». ! Quest’ultima parte del testo è preziosa sotto vari aspetti, tanto per le informazioni che fornisce sopra molti particolari istituzionali che riguardano i giochi e i loro preliminari, che per la luce ch’essa getta sull’atteggiamento morale dei martiri, sui loro rapporti con i carcerieri, sui momenti di angoscia attraversati pur nel fervore religioso. Si è osservato, spesso con stupore, che i martiri conversano con i loro guardiani e che essi alternano le concessioni al rigore.
Di tale ambiguo dialogo tra la vittima e il suo carnefice, abbiamo qui una delle prime e più complete testimonianze. Per esempio il capocarceriere, il tribuno, generalmente duro con i prigionieri, dopo una battuta ironica di Perpetua concede loro di trasformare l’ultimo pasto, il «pasto libero», in agape aperta ai parenti e agli amici, e anche a un gruppo di curiosi che Saturo apostrofa e tra i quali attua delle conversioni. La mattina del 7 marzo 203, infine, tutti lasciano il carcere per entrare nell’arena: in questo glorioso corteo, il redattore ha posto in risalto la figura di Perpetua, la «sposa di Cristo», la «prediletta di Dio» (matrona Christi, Dei delicata), e quella di Felicita, «gioiosa di aver partorito senza danno, cosi da poter combattere contro le fiere, passando dal sangue al sangue, dalla levatrice al reziario, pronta a ricevere, dopo il parto, il bagno di un secondo battesimo». Il Signore, dice il testo, concesse a ciascuno il genere di morte che aveva desiderato. Saturo, che non temeva nulla più dell’orso, ricevette il battesimo del sangue dal dente del leopardo. Egli che, nella prima visione di Perpetua, l’aveva preceduta sulla scala, fu anche il primo a ricevere il colpo di grazia. Il racconto si conclude con l’immagine di santa Perpetua che guida lei stessa contro la propria gola la mano incerta del gladiatore inesperto che era preposto alla iugulatio: una donna siffatta non sarebbe potuta morire, se ella stessa non avesse voluto. 
La prima visione di Perpetua
Chiesi la grazia ed ebbi questa visione. Vidi una scala di bronzo di mirabile altezza, che giungeva fino al cielo; ma era stretta e si poteva salire solo uno per volta. Sui lati della scala era fissato ogni genere di strumenti di ferro: c’erano spade, lance, arpioni, lunghi coltelli, spiedi, per modo che se uno saliva incautamente o trascurava di tenere lo sguardo verso l’alto, finiva dilaniato e le sue carni restavano impigliate nei ferri. Ai piedi della scala giaceva un serpente di mirabile grandezza che aspettava al varco chiunque si avvicinava per spaventarlo ed impedirgli l’ascesa. Prima di me salì Saturo (egli si era consegnato spontaneamente per amor nostro: era lui che ci aveva istruito nella fede, ma, al momento dell’arresto, non era stato presente).
Giunto in cima alla scala, si girò e mi disse: « Perpetua, ti aspetto. Ma bada che il serpente non ti morda ». Gli risposi: « Non mi farà nulla, in nome di Gesù Cristo ». Il serpente infatti, al fondo della scala, levò il capo assai lentamente, quasi avesse paura di me. Io allora, calcando il suo capo come primo gradino della scala compii l’ascesa. E vidi un immenso giardino, e, assiso nel mezzo, un uomo dalla testa bianca, vestito da pastore, di grande statura, che mungeva delle pecore; e, tutt’intorno. molte migliaia di persone bianco vestite. Levò il capo, mi vide e mi disse: « Benvenuta, figlia [nel testo latino, troviamo la parola greca: teknon]. Poi mi chiamò per nome e mi offri un boccone del formaggio che mungeva. Io lo presi a mani giunte e lo mangiai. Tutti i presenti dissero: « Amen ».
Al suono di quella voce mi svegliai che ancora masticavo non so cosa di dolce. Ne riferii immediatamente a mio fratello: comprendemmo che sarebbe stato il martirio e deponemmo per sempre ogni speranza in questo mondo». Passione, in Atti e passioni dei martiri.                                                                                                               
La quarta visione di Perpetua
La vigilia dei giochi, ebbi questa visione. Vidi il diacono Pomponio giungere alla porta della prigione e bussare energicamente. Andai ad aprirgli: indossava una bianca tunica senza cintura, e sandali molto eleganti. Mi disse: « Perpetua, ti aspettiamo: vieni ». Poi mi prese per mano e ci avviammo per un cammino aspro e tortuoso. Alla fine, tutti trafelati, giungemmo all’anfiteatro. Mi fece entrare nell’arena e mi disse: « Non temere: sono qua io, combatterò con te ». E se ne andò. M’accorsi che c’era una gran folla eccitata, e poiché sapevo di essere condannata alle fiere, mi stupii che non venissero liberate contro di me. Si fece avanti, invece, per affrontarmi in duello, un egiziano d’aspetto ripugnante coi suoi accoliti. Anche a me si avvicinarono dei giovinetti di bell’aspetto, per assistermi e incitarmi. Fui spogliata e divenni uomo. I miei assistenti presero a massaggiarmi con l’olio, come s’usa prima dei combattimenti nell’arena, mentre vedo che l’egiziano si rotola nella polvere. S’avanzò infine un uomo di mirabile statura, più alto ancora del tetto dell’anfiteatro, con veste di porpora senza cintura e, ai lati del petto, due bande verticali; calzava meravigliosi sandali d’oro e argento, e portava una bacchetta da allenatore dei gladiatori e un ramo verde con pomi d’oro. Intimò il silenzio e disse: « L’egiziano, se sarà lui a vincere, ucciderà l’altra con la spada; se invece sarà lei a prevalere, avrà in premio questo ramo », e si ritirò. L’incontro ebbe inizio, cominciammo a tirarci dei pugni.
Quello cercò di afferrarmi i piedi, ma io lo colpii al volto con dei calci. Allora mi sollevò in aria, ma così lo potei colpire ancora meglio, non avendo i piedi impegnati nell’appoggio al suolo. Poi, approfittando di un momento di tregua, congiunsi le mani intrecciando ben bene le dita e lo afferrai alla testa. Quello crollò col volto a terra e io gli calcai la testa sotto il tallone. La folla prese a gridare e i miei accoliti a cantare salmi. Mi avvicinai all’allenatore e presi il ramo. Lui mi baciò e disse: « La pace sia con te, figlia mia ». E io mi avviai tra il tripudio della folla verso la Porta della Vita. Qui mi svegliai. Compresi che non era contro le fiere che avrei dovuto combattere, bensì contro il demonio, ma sapevo che avrei vinto». Passione, 1-14, in Atti e passioni dei martiri.

Il martirio di Saturo e di Perpetua
Saturo, che si trovava presso un’altra porta (dell’arena), esortava a sua volta la guardia, Pudente, dicendo: « Vedi bene: come avevo sperato e previsto, non una fiera mi ha ancora toccato. E affinché tu ora creda con tutto il tuo cuore, ecco, io ora entro nell’arena e vengo ucciso da un sol morso di leopardo ». E non appena fu esposto al leopardo (i giochi volgevano ormai al termine), perse tanto sangue al primo morso che, mentre lo trascinavano fuori, la folla gli gridò, a testimonianza del suo secondo battesimo: « Salvo e ben lavato! Salvo e ben lavato! ». E certamente poteva dirsi salvo uno che aveva fatto quel genere di bagno. Disse allora a Pudente, la guardia: « Addio, ricordati di me, ricordati della fede: che queste cose non ti turbino, ma ti fortifichino ».
E nello stesso tempo si fece dare un anello che portava al dito, lo intinse nella sua ferita e glielo restituì, in eredità, come pegno del suo amore e ricordo del suo martirio. Quindi, ormai privo di conoscenza, fu trascinato con gli altri per essere giugulato, nel luogo a ciò preposto. Ma siccome la folla chiedeva che venissero portati nell’arena [...] si levarono spontaneamente e si portarono bene in vista dove li voleva la folla; non prima, però, di essersi scambiati il bacio di rito, così da affrontare il martirio con questo gesto di pace. Gli altri ricevettero il ferro immobili e in silenzio, in special modo Saturo, che, salito sul patibolo prima di Perpetua, prima di Perpetua era spirato (anche in quella circostanza lui la precedeva). Perpetua, invece, per provare almeno un po’ di dolore, quando la spada le arrivò all’osso lanciò un urlo e guidò lei stessa contro la propria gola l’incerta mano del gladiatore inesperto. È da credere che una donna siffatta non avrebbe potuto essere uccisa se essa stessa non l’avesse voluto: tanto grande era il timore che incuteva allo spirito immondo». Passione, 21, l – 10, in Atti e passioni dei martiri.

Un gruppo di martiri
Perpetua, Felicita e i loro compagni sono così presentati all’inizio del racconto del loro martirio: «Furono arrestati alcuni giovani catecumeni: Revocato e Felicita, sua compagna di schiavitù, Saturnino e Secondolo; con loro anche Vibia Perpetua, di buona famiglia, di ottima educazione, degnamente maritata. Aveva ancora padre e madre, due fratelli, uno dei quali era anch’egli catecumeno, e un figlioletto che ancora poppava; lei, aveva all’incirca ventidue anni» (Passione, 2, 1-3). A questo piccolo gruppo, bisogna aggiungere il nome di Saturo, il catechista, che si consegna spontaneamente più avanti (Passione, 4, 5), e quelli dei personaggi che quest’ultimo menziona nella sua visione come vittime della medesima persecuzione, ma in altre circostanze: Giocondo, un altro Saturnino, Artassio e Quinto (Passione, 1l, 9). Di questo gruppo di martiri, la tradizione ha lasciato gli uomini in ombra per ricordare soprattutto i nomi di Perpetua, la giovane donna di nascita libera e di buona condizione sociale, che ci appare nel suo ambiente familiare, e di Felicita, una giovane schiava, appartenente forse alla casa di Perpetua, cosa che il testo, tuttavia, non precisa; Felicita era incinta, e partorì in carcere una bambina (Passione, 15) il cui padre era probabilmente Revocato.
Nonostante qualche esitazione dei testi su questo punto, l’intero gruppo sembra originario di Thuburbo Minus, piccola città sulle rive del fiume Medjerda, a una cinquantina di chilometri da Cartagine. Di là essi furono trasferiti nella capitale della provincia, per subirvi una prigionia di parecchi mesi prima del martirio, avvenuto il 7 marzo del 203, nell’anfiteatro in occasione di giochi indetti per celebrare l’anniversario dell’assegnazione del titolo di Cesare a Geta, figlio di Settimio Severo. La data del 7 marzo è indicata in modo concorde dai martirologi (die nonarum martiarum, nonas martias) ed è anche la data consacrata dalla liturgia cattolica e dal santorale attuale.

Giovanni Calvino (1509–1564): La Parola Nostra Sola Regola

http://www.cprf.co.uk/languages/italian_calvinsermontitus1v15.htm

Giovanni Calvino (1509–1564): La Parola Nostra Sola Regola

Sermone su Tito 1:15-16

(da Protestant Reformed Church,  la traduzione in italiano è del sito)

Ben è ogni cosa pura a’ puri; ma a’ contaminati ed infedeli, niente è puro; anzi e la mente e la coscienza loro è contaminata. Fanno professione di conoscere Iddio, ma lo rinnegano con le opere, essendo abbominevoli e ribelli, e riprovati ad ogni buona opera (Tito 1:15-16—Versione Diodati).
S. Paolo ci ha mostrato che dobbiamo essere governati dalla Parola di Dio, e considerare i comandamenti degli uomini come vani e sciocchi; perché la santità e la perfezione della vita non appartiene a loro. Egli ha condannato alcuni loro comandamenti, come quando essi proibivano certe carni, e non tolleravano che noi usassimo quella libertà che Dio dà ai fedeli. Quelli che turbavano la chiesa all’epoca di S. Paolo, stabilendo certe tradizioni, usavano i comandamenti della legge come scudo. Queste non erano che invenzioni d’uomini: perché il tempio doveva essere abolito alla venuta di nostro Signore Gesù Cristo. Quelli nella chiesa di Cristo che mantengono questa superstizione di considerare proibite alcune carni, non hanno l’autorità di Dio, perché era contro la Sua intenzione e proposito che i Cristiani dovessero essere soggetti a tali cerimonie.
Per farla breve, S. Paolo ci informa in questo passo che in questi giorni noi abbiamo la libertà di mangiare ogni genere di carne senza eccezione. Per quanto riguarda la salute del corpo, qui non se ne parla; ma la questione qui esposta è che gli uomini non dovranno proporsi come padroni, per fare leggi per noi contrarie alla Parola di Dio. Visto che è così, che Dio non ha posto alcuna differenza tra le carni, usiamole pure; e non investighiamo mai cosa gradiscono gli uomini, o cosa ritengono bene. Ciò nonostante, dobbiamo usare i benefici che Dio ci ha concesso con sobrietà e moderazione. Dobbiamo ricordare che Dio ha creato le carni per noi, non perché noi ci saziassimo come maiali, ma perché le usassimo per il nostro sostentamento: quindi, accontentiamoci di questa misura che Dio ci ha mostrato nella Sua Parola.
Se non abbiamo il nutrimento che desidereremmo, sopportiamo con pazienza la nostra povertà e pratichiamo la dottrina di S. Paolo; e sapremo come sostenere tanto la povertà quanto le ricchezze. Se nostro Signore ci dà più di quanto avremmo desiderato, nondimeno dobbiamo moderare i nostri appetiti. D’altra parte, se Egli si compiace di toglierci il nostro boccone, e di non nutrirci che miseramente, dobbiamo esserne contenti, e pregarlo di darci la pazienza quando non abbiamo ciò che i nostri appetiti desiderano. In breve, dobbiamo fare riferimento a quanto viene detto in Romani 13: « siate rivestiti del Signor Gesù Cristo, e non abbiate cura della carne a concupiscenze. » Accontentiamoci di avere ciò di cui abbiamo bisogno, e che Dio sa essere appropriato a noi; in questo modo ogni cosa sarà pura per noi, se noi siamo in quel modo purificati.
Tuttavia è vero che sebbene noi siamo così impuri, le carni che Dio ha creato sono buone; ma la questione che dobbiamo considerarne è il loro uso. Quando S. Paolo dice che tutte le cose sono pure, egli non intende che esse lo sono di per sé, ma in relazione a chi le riceve; come abbiamo notato prima, dove egli dice a Timoteo, tutte le cose sono da noi santificate per fede e rendimento di grazie. Dio ha colmato il mondo di tale abbondanza che possiamo meravigliarci di vedere quale cura paterna Egli abbia per noi: perché quale fine o proposito hanno tutte le ricchezze sulla terra, se non per mostrare quanto liberale Egli sia verso l’uomo?
Se non sappiamo che Egli è nostro Padre, e che agisce come un genitore verso di noi, se noi non riceviamo dalla Sua mano ciò che Egli ci dà, tanto che quando mangiamo, non siamo convinti che è Dio a nutrirci, Egli non può essere glorificato come merita; nè possiamo mangiare un solo pezzo di pane senza commettere un sacrilegio di cui dobbiamo rendere conto. Affinché possiamo godere legittimamente di questi benefici, che ci sono stati concessi, dobbiamo essere risoluti su questo punto (come ho detto prima), che è Dio che ci nutre e ci sostenta.
Questa è la purezza di cui qui parla l’apostolo, quando dice, tutte le cose sono pure, specialmente quando abbiamo in noi una tale onestà da non disprezzare i benefici concessi agli altri, ma desideriamo il nostro pane quotidiano dalla mano di Dio, essendo persuasi di non averne diritto, ma di riceverlo solo come la misericordia di Dio. Ora, vediamo da dove proviene questa purezza. Non la troveremo in noi stessi, perché ci è data per fede. S. Pietro dice, il cuore degli antichi padri fu purificato in questo modo, ovvero, quando Dio diede loro la fede (Atti 15).
È vero che qui egli si riferiva alla salvezza eterna, perché noi eravamo completamente impuri finché Dio non si fece conoscere da noi nel nome del nostro Signore Gesù Cristo, il quale, essendo stato reso nostro Redentore, recò il prezzo e il riscatto delle nostre anime. Ma questa dottrina può, e dovrebbe essere applicata a ciò che concerne questa vita presente; perché finché non conosciamo che, essendo adottati in Gesù Cristo, siamo figli di Dio, e che di conseguenza l’eredità di questo mondo è nostra, se tocchiamo anche un solo boccone di carne noi non siamo che dei ladri; perché a causa del peccato di Adamo siamo privati e banditi da tutte le benedizioni che Dio ha fatto, finché non le possediamo nel nostro Signore Gesù Cristo.
Dunque, è la fede che deve purificarci. Allora tutte le carni saranno pure per noi: ovvero, potremo usarle liberamente senza esitazione. Se gli uomini ci prescrivono leggi spirituali, non dobbiamo osservarle, sicuri che tale obbedienza non può piacere a Dio, perché così facendo noi stabiliamo dei governanti per dominarci, rendendoli uguali a Dio, il quale riserva tutto il potere per sé. Così, il governo dell’anima deve essere mantenuto sicuro e saldo nelle mani di Dio. Dunque, se consentiamo tanta superiorità agli uomini da tollerare che le nostre anime siano imbrigliate dalle loro stesse mani, altrettanto riduciamo e sminuiamo il potere e il dominio che Dio ha sopra di noi.
E quindi l’umiltà che noi potremmo avere nell’obbedire alle tradizioni degli uomini sarebbe peggiore di tutta la ribellione del mondo; perché significherebbe derubare Dio del Suo onore, e consegnarlo, come spoglie, a uomini mortali. S. Paolo parla della superstizione di alcuni dei Giudei, i quali volevano che gli uomini osservassero ancora le ombre e le figure della legge; ma lo Spirito Santo ha pronunciato una sentenza che deve essere osservata fino alla fine del mondo: che Dio oggi non ci ha vincolati a quel fardello che fu sostenuto dagli antichi padri; ma ha tagliato via quella parte che aveva comandato, relativa all’astensione dalle carni; perché essa fu legge solo per un’epoca.
Visto che Iddio ci ha così liberati, quale sconsideratezza è per dei vermi della terra il fare nuove leggi; come se Dio non fosse stato abbastanza saggio. Quando accusiamo di questo i papisti, essi rispondono che S. Paolo parlava dei Giudei, e delle carni che erano vietate dalla legge. Questo è vero, ma vediamo se questa risposta ha una qualche ragione, o se sia degna di essere accettata. S. Paolo non ha detto solamente che ci è lecito usare ciò che era vietato, ma ha parlato in termini generali, dicendo, tutte le cose sono pure. Così, vediamo che Dio ci ha qui dato la libertà riguardo all’uso delle carni, in modo tale da non tenerci in soggezione, com’erano gli antichi padri.
Dunque, poiché Dio ha abrogato quella legge che era stata da Lui stabilita, e non la impone più, che cosa penseremo quando vediamo che gli uomini inventano proprie tradizioni e non si accontentano di ciò che Dio ha mostrato loro? In primo luogo, essi cercano di mantenere ancora la chiesa di Cristo sotto le restrizioni dell’Antico Testamento. Ma Dio vuole che noi siamo governati come uomini adulti e dotati di discernimento, che non hanno alcun bisogno di istruzioni adatte ai bambini. Essi stabiliscono norme umane, e dicono che dobbiamo osservarle dietro la pena del peccato mortale; mentre invece Dio non vuole che la Sua stessa legge, relativamente ai tipi e alle figure, sia osservata da noi fino ad oggi, perché tutto ebbe fine alla venuta di nostro Signore Gesù Cristo.
Sarà quindi lecito osservare ciò che gli uomini hanno concepito nella loro sapienza? Non vediamo che è una questione che va direttamente contro Dio? S. Paolo si contrappone a questi mistificatori: contro quelli che volevano vincolare i Cristiani ad astenersi dalle carni come Dio aveva comandato nella Sua legge. Se qualcuno dice che non è che una piccola questione l’astenersi dalle carni il Venerdì, o in Quaresima, consideriamo se sia una piccola questione il corrompere e l’imbastardire il servizio di Dio! Perché sicuramente, coloro che si danno tanto da fare a promulgare e stabilire le tradizioni degli uomini, pongono sé stessi contro ciò che Dio ha ordinato nella Sua Parola, e quindi commettono sacrilegio.
Poiché Dio vuole essere servito con obbedienza, facciamo attenzione e manteniamoci entro quei confini che Dio ha posto, e non consentiamo che gli uomini vi aggiungano alcuna cosa di loro invenzione. In questo vi è qualcosa di peggiore di tutto il resto: perché essi pensano che astenersi dal mangiare le carni sia un servizio che merita qualcosa da Dio. Pensano che sia una grande santità; e quindi il servizio di Dio, che dovrebbe essere spirituale, viene bandito, come dire, mentre gli uomini si occupano di sciocche inezie. Come nel detto comune, lasciano la mela per la buccia.
Dobbiamo essere fedeli, e rimanere saldi nella nostra libertà; dobbiamo seguire la regola che ci è data nella Parola di Dio, e non consentire alla nostra anima di essere condotta in schiavitù da nuove leggi, forgiate dagli uomini. Perché è una tirannia infernale quella che abbassa l’autorità di Dio e confonde la verità del vangelo con le figure della legge; e perverte e corrompe il vero servizio di Dio, che dovrebbe essere spirituale. Quindi, consideriamo quale prezioso privilegio sia il rendere grazie a Dio con la quiete della coscienza, essendo rassicurati che è la Sua volontà e beneplacito che noi godiamo delle Sue benedizioni: e affinché possiamo farlo, non imprigioniamoci nelle superstizioni degli uomini, ma siamo appagati di ciò che è contenuto nella pura semplicità del vangelo. Allora, come abbiamo mostrato riguardo alla prima parte del testo, ogni cosa sarà pura, per coloro che sono puri.
Quando accogliamo il Signore Gesù Cristo, noi sappiamo di essere purificati dalla nostre lordure e falli, perché per la Sua grazia noi siamo resi partecipi dei benefici di Dio, e considerati come Suoi figli, sebbene in noi non vi sia altro che vanità. « Ma ai contaminati e agli infedeli, niente è puro ». Con questo S. Paolo intende che tutto ciò che procede da coloro che sono contaminati e non credenti non è gradito a Dio, ma è pieno di corruzione. Finché sono non credenti, essi sono ripugnanti e impuri; e finché hanno in loro tale lordura, tutto ciò che toccano diviene contaminato dalla loro infamia.
Quindi, tutte le regole e le leggi che possono produrre non saranno altro che vanità: perché Iddio non gradisce nulla di ciò che essi fanno, anzi, lo aborrisce completamente. Anche se gli uomini possono tormentarsi con cerimonie e pratiche esteriori, tuttavia tutte queste cose sono vane finché essi non divengono retti nel cuore: perché in questo ha inizio il vero servizio di Dio. Finché dunque noi non abbiamo fede, siamo immondi innanzi a Dio. Queste cose dovrebbero essere evidenti per noi; ma l’ipocrisia è così radicata in noi che siamo inclini a trascurarle. Sarà prontamente confessato che noi non possiamo compiacere Dio servendolo finché il nostro cuore non è spogliato della malvagità.
Dio contese con il popolo dei tempi antichi per la stessa dottrina, come vediamo specialmente nel secondo capitolo del profeta Aggeo: in esso egli chiese ai sacerdoti se un uomo che tocca una cosa santa sia reso santo oppure no, e i sacerdoti risposero di no. Al contrario, se un uomo impuro tocca una cosa, questa diviene impura oppure no, e i sacerdoti risposero dicendo, essa sarà impura; così è questa nazione, dice il Signore, e così sono le opere delle loro mani. Notiamo ora che cosa contengono le figure e le ombre della legge. Se un uomo impuro toccava qualcosa, questa diveniva impura, e doveva quindi essere purificata. Nostro Signore dice, considerate cosa siete, perché non avete altro che impurità e lordura; e tuttavia, voi potete appagarmi con i vostri sacrifici, offerte e simile cose. Ma Egli ha detto, finché le vostre menti sono prigioniere di malvagia concupiscenza, finché alcuni di voi sono libertini, adulteri, blasfemi e spergiuri, finché siete pieni di inganno, crudeltà, malignità, le vostre vite saranno completamente illecite, e piene di ogni impurità, io non posso tollerarlo, per quanto possa sembrare giusto davanti agli uomini.
Vediamo dunque che tutti i servizi che possiamo compiere, finché non siamo veramente riformati nel nostro cuore, non sono che parodie, che Iddio condanna e respinge completamente. Ma chi crede che queste cose siano così? Quando i malvagi, che sono presi nella loro malvagità, sentono un qualche rimorso di coscienza, si impegnano con qualche mezzo o altro a legarsi a Dio compiendo alcune cerimonie: ritengono questo sufficiente per soddisfare la mente degli uomini, credendo che Dio allo stesso modo debba esserne soddisfatto. Questa è un’abitudine che è prevalsa in ogni epoca.
Non è solo in questo testo del profeta Aggeo che Dio rimprovera gli uomini per la loro ipocrisia, e perché pensano di poter ottenere il Suo favore con sciocchezze, ma è stata una continua contesa quella che tutti i profeti hanno avuto con i Giudei. Viene detto in Isa. 1:13-15: « Non continuate più a portare offerte da nulla; i profumi mi son cosa abbominevole; quant’è alle calendi, a’ sabati, al bandir raunanze, io non posso portare iniquità, e festa solenne insieme. L’anima mio odia le vostre calendi, e le vostre solennità; mi son di gravezza; io sono stanco di portarle. Perciò, quando voi spiegherete le palme delle mani, io nasconderò gli occhi miei da voi; eziandio, quando moltiplicherete le orazioni, io non le esaudirò; le vostre mani son piene di sangue. »
E ancora viene detto, « Che se mi offerite olocausti, e le vostre offerte, io non le gradirò; e non riguarderò a’ sacrificii da render grazie, fatti delle vostre bestie grasse » (Amos 5:22). Dio qui ci mostra che le cose che Egli Stesso aveva comandato erano lorde e immonde quando venivano osservate e abusate da ipocriti. Quindi, impariamo che quando gli uomini servono Dio secondo le loro maniere, essi illudono e ingannano loro stessi. Viene detto in un altro testo di Isaia, « chi ha richiesto questo di man vostra? » (Isa. 1:12). In cui è evidenziato che se vogliamo che Iddio approvi le nostre opere, queste devono essere secondo la Sua divina Parola.
Vediamo così cosa intende S. Paolo quando dice che non vi è nulla di puro per coloro che sono impuri. E perché? Perché anche la loro mente e coscienza sono contaminate. Con questo egli mostra (come ho osservato prima) che fin quando non avremo imparato a servire Dio correttamente, nella maniera appropriata, noi non faremo alcun bene con le nostre opere; sebbene possiamo lusingare noi stessi ritenendo che esse siano di grande importanza, e in questo modo cullarci nel sonno.
Vediamo ora quali sono le tradizione del papismo. Il loro primo fine è di fare un accordo con Dio, mediante le opere di supererogazione, come le denominano; ovvero, le loro opere in eccesso, che sono tali quando essi compiono più di quanto Dio abbia loro comandato. Secondo le loro concezioni, essi assolvono al loro dovere verso Lui e Lo soddisfano con il pagamento reso dalle loro opere, e con il quale essi saldano il loro conto. Quando hanno digiunato nei loro giorni santi, quando si sono astenuti dal mangiare carne il Venerdì, quando hanno frequentato devotamente la messa, quando hanno preso l’acqua santa, essi pensano che Dio non debba esigere più nulla da loro e che non manchi nulla in loro.
Ma allo stesso tempo, essi non cessano di indulgere nella fornicazione, nell’indecenza, nello spergiuro, nella blasfemia, ecc.: ognuno di loro si abbandona a quei vizi; e tuttavia essi pensano che nonostante questo Dio debba ritenersi ben pagato dalle opere che loro Gli offrono; come, per esempio, quando hanno preso l’acqua santa, venerato immagini, vagato di altare in altare, e fatto cose simili, essi immaginano di aver reso sufficiente pagamento e retribuzione per i loro peccati. Ma noi ascoltiamo la dottrina dello Spirito Santo riguardante coloro che sono corrotti, la quale è che non vi è nulla di puro nè di mondo in tutte le loro azioni.
Ma mettiamo il caso, e supponiamo che tutte le abominazioni dei papisti non siano malvagie per loro propria natura; tuttavia, secondo questa dottrina di S. Paolo, non può esservi null’altro che impurità in esse, perché loro stessi sono peccatori e impuri. La santità di questi uomini consiste in sciocchezze e inezie. Essi si affaticano a servire Dio nelle cose che Egli non richiede, e allo stesso tempo lasciano non realizzate le cose che Egli ha comandato nella Sua legge.
È accaduto in ogni epoca che gli uomini abbiano disprezzato la legge di Dio in favore delle loro tradizioni. Nostro Signore Gesù Cristo condannò i Farisei quando disse, « E voi, perchè trasgredite il comandamento di Dio per la vostra tradizione? » (Matteo 15:3). Così fu nei tempi passati, nei giorni dei profeti. Isaia gridava, « Perciocché questo popolo, accostandosi, mi onora con la sua bocca, e con le sue labbra, e il suo cuore è lungi da me; e il timore, del quale egli mi teme, è un comandamento degli uomini, che è stato loro insegnato; perciò, ecco, io continuerò a fare inverso questo popolo maraviglie grandi, e stupende; e la sapienza de’ suoi savi perirà, e l’intendimento de’ suoi intendenti si nasconderà » (Isa. 29:13-14). Mentre gli uomini si occupano delle loro tradizioni, essi tralasciano le cose che Dio ha comandato nella Sua Parola.
Questo è ciò che indusse Isaia a protestare contro coloro che affermavano le tradizioni degli uomini, dicendo loro chiaramente che Dio minacciava di accecare i più saggi tra loro, perché essi si erano allontanati dalla pura regola della Sua Parola per seguire le loro stolte invenzioni. Parimenti S. Paolo allude alla medesima cosa, quando dice che essi non hanno timor di Dio nei loro occhi. Non inganniamoci, perché noi sappiamo che Dio esige che l’uomo viva rettamente, e si astenga da ogni violenza, crudeltà, malizia e falsità; che nessuna di queste cose compaia nella nostra vita. Ma coloro che non hanno timore di Dio davanti ai loro occhi, è evidente che sono in errore e che non vi è che corruzione in tutta la loro vita.
Se vogliamo sapere come dovrebbe essere regolata la nostra vita, esaminiamo il contenuto della Parola di Dio; perché non possiamo essere santificati dall’esibizione e dalla pomposità, sebbene queste siano così stimate tra gli uomini. Dobbiamo rivolgerci a Dio con sincerità, e riporre tutta la nostra fiducia in Lui; dobbiamo abbandonare l’orgoglio e la presunzione, e confidare in Lui con vera umiltà di pensieri affinché non siamo dominati dai sentimenti carnali. Dobbiamo sforzarci di mantenerci in riverenza, nella soggezione di Dio, e di fuggire la golosità, la lussuria, gli eccessi, il furto, la blasfemia, e gli altri mali. Così vediamo che Iddio vorrebbe che facessimo, affinché abbiamo la nostra vita ben regolata.
Quando gli uomini vogliono giustificarsi mediante le opere esteriori, è come coprire un cumulo di lordume con un telo di lino puro. Quindi, mettiamo da parte la lordura che è nascosta nei nostri cuori; io dico, allontaniamo il male da noi, e allora il Signore accetterà la nostra vita; così possiamo vedere in cosa consiste la vera conoscenza di Dio! Comprendere correttamente questo ci condurrà a vivere in obbedienza alla Sua volontà. Gli uomini non si sono così abbrutiti da non comprendere che esiste un Dio che li ha creati. Ma questa conoscenza, se essi non si sottomettono alle Sue richieste, serve come condanna per loro, perché i loro occhi sono accecati da Satana, tanto che sebbene il vangelo sia loro predicato, essi non lo comprendono; al giorno d’oggi vediamo molti in questa situazione. Quanti sono nel mondo quelli a cui è stata insegnata la dottrina del vangelo, e tuttavia continuano nella brutale ignoranza!
Questo è avvenuto perché Satana ha così posseduto la mente degli uomini con malvagi sentimenti che sebbene la luce possa splendere luminosa quanto mai, essi rimangono ciechi, e non vedono nulla. Impariamo, quindi, che la vera conoscenza di Dio ha una tale natura da mostrarsi da sé, e produrre frutti per tutta la nostra vita. Quindi, per conoscere Dio, come S. Paolo dice ai Corinzi, noi dobbiamo essere trasformati nella Sua immagine. Perché se fingiamo di conoscerlo, e allo stesso tempo la nostra vita è disordinata e malvagia, non servono testimoni per dimostrarci dei bugiardi; la nostra stessa vita produce sufficienti prove del fatto che siamo ipocriti e falsi, e che abusiamo del nome di Dio.
S. Paolo dice in un altro passo, se conoscete Gesù Cristo, dovete disfarvi dell’uomo vecchio; come se dicesse, non possiamo dichiarare di conoscere Gesù Cristo, solo riconoscendolo come nostro capo, e perché Egli ci accoglie come Suoi membri; questo non può avvenire se non ci disfiamo dell’uomo vecchio e diveniamo nuove creature. Il mondo ha in ogni epoca abusato scelleratamente del nome di Dio, come fa ancora oggi; quindi, riconosciamo la vera conoscenza della Parola di Dio, di cui parla S. Paolo.
In conclusione, non posiamo le nostre opere sulla bilancia, dicendo che sono buone e che ne abbiamo una buona opinione; ma comprendiamo che le buone opere sono quelle che Dio ha comandato nella Sua legge e che tutto ciò che possiamo fare oltre a quelle è nulla. Quindi, impariamo a plasmare la nostra vita secondo ciò che Iddio ha comandato; a confidare in Lui, ad invocarlo, a rendergli grazie, e ad accettare con pazienza qualunque cosa Gli piaccia di mandarci; a comportarci correttamente con il nostro prossimo, e a vivere onestamente davanti a tutti gli uomini. Queste sono le opere che Dio richiede dalle nostre mani.
Se non fossimo così perversi per natura, non ci sarebbe nessuno di noi che non saprebbe discernere queste cose: anche i bambini saprebbero discernerle. Le opere che Dio non ha comandato non sono che stoltezza e abominio, con le quali il puro servizio di Dio viene deturpato. Se desideriamo conoscere che cosa costituisce le buone opere di cui parla S. Paolo, dobbiamo mettere da parte tutte le invenzioni degli uomini, e semplicemente seguire le istruzioni contenute nella Parola di Dio, perché non abbiamo alcun’altra regola che quella data da Lui; che è quella che Egli accetterà quando ne renderemo conto nell’ultimo giorno, quando Egli soltanto sarà il giudice di tutta l’umanità.
Inginocchiamoci ora innanzi al volto del nostro buon Dio, riconoscendo i nostri falli, pregandolo di farceli percepire più distintamente, e di donarci un fiducia nel nome del nostro Signore Gesù Cristo tale che possiamo accostarci a Lui ed essere rassicurati che i nostri peccati sono perdonati e che Egli ci rende partecipi di una fede salda, con la quale ogni lordura possa essere eliminata.

(Da: http://www.federiformata.it/biblioteca/vita_cristiana/calvino_laparolasolaregola.html)

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