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TUTTI QUELLI INFATTI CHE SONO GUIDATI DALLO SPIRITO DI DIO, COSTORO SONO FIGLI DI DIO »
PRIMA PARTE (divisione mia perché lungo, la seconda sotto)
DIVO BARSOTTI, RITIRO DI FIRENZE, 16 LUGLIO 1961
OMELIA
LA PAROLA DI DIO CREA
« Fratelli, noi non siamo debitori alla carne per vivere secondo la carne. Se infatti vivrete secondo la carne, morrete; ma se mediante lo Spirito avrete ucciso le opere della carne, vivrete. Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio sono figli di Dio. Infatti, voi non avete ricevuto lo spirito di servitù per ricadere nel timore, ma lo spirito di adozione in figli, per il quale gridiamo: Abbà, Padre! E lo stesso Spirito rende testimonianza all’anima nostra che siamo figli di Dio; ma se figli, siamo pure eredi: eredi perciò di Dio, coeredi del Cristo » (Rm 8,12-17).
Tanto più son contento di dover meditare con voi questa pagina dell’Epistola di S. Paolo ai Romani, in quanto è la pagina che mi venne annunciata proprio il giorno della mia Ordinazione, il 18 luglio 1937. Il giorno non corrisponde, ma corrisponde la domenica. Ed è precisamente questa pagina che dice la mia e la vostra vocazione. In quel giorno che il Signore mi faceva suo Ministro, già mi preparava ad essere padre delle anime vostre. Così la mia vocazione conteneva la vostra; così la parola che il Signore diceva a me, lontanamente era anche per voi. È una parola, appunto, che ci dice quella che è la nostra vocazione; rivela il disegno di Dio su di noi. E non lo rivela soltanto, ma, come ogni parola divina, più che annuncio, più che richiamo e legge, è anche un impulso segreto, è anche una forza che ci solleva, è anche una potenza che ci crea. No, in questa parola noi non riceviamo soltanto l’indicazione di un cammino che dobbiamo percorrere, ma riceviamo anche la forza che ci muove, riceviamo anche la promessa di doni divini sempre più efficaci, perché quanto Dio ci ha detto un giorno si compia nella nostra povera vita.
Proprio per questo le parole di Dio non ci giudicano, ma ci salvano: perché se la Parola di Dio ci dovesse percuotere l’orecchio come una parola estranea, come una parola che noi non abbiamo accolto come seme nell’anima nostra perché in noi fruttifichi, questa stessa parola non sarebbe per noi altro che motivo di condanna e di morte. Ma non è così: se Dio ci parla, Egli dall’abisso della nostra anima anche ci solleva e ci crea; dal fondo del nostro essere Egli ci trae su, Egli realizza quanto dice. Per questo le parole che un giorno mi, diceva il Signore, ripetute oggi qui al suo altare, non sono per me un motivo di condanna, anche se sento bene quanta infinita distanza ancora io debbo percorrere per realizzare il volere divino: non sono una parola di condanna, sono una parola che rinnova la mia vocazione, che rinnova la promessa di Dio, per me e per voi, di un compimento divino: e di quale compimento divino!
LASCIARSI GUIDARE DALLO SPIRITO SANTO
Non dovremo vivere più secondo la carne, ma secondo lo Spirito: ecco la prima cosa che il Signore ci dice. Bisogna che noi siamo organi totalmente sotto la dipendenza dell’azione dello Spirito, ciascuno di noi deve essere strumento dello Spirito Santo. Il primo dovere che si impone per noi è quello di affidarci all’azione di questo divino Spirito che ci investe; perché ogni chiamata divina implica precisamente un dono che Egli ci fa di Se stesso; perché ogni chiamata divina implica che Egli discenda in noi per realizzare quanto Egli ci chiede.
Non dobbiamo vivere secondo la carne. « Carne », qui, non dobbiamo intendere nel senso latino, greco e italiano, ma in senso semitico: « carne » è tutto l’uomo. Non dobbiamo vivere secondo l’uomo, non dobbiamo vivere più una vita umana; dobbiamo vivere secondo lo Spirito e lo Spirito, qui, non è lo spirito dell’uomo, ma è lo Spirito Santo. Dobbiamo vivere una vita tutta divina. Non dobbiamo più essere animati, guidati, sorretti, mossi dal nostro spirito umano, dagl’istinti della nostra natura: dobbiamo essere docili alla forza che viene dall’alto, dobbiamo abbandonarci alla potenza dello Spirito perché lo Spirito solo ci guidi, ci porti, ci trascini.
Solo in questo caso noi vivremo, perché la vita è il Signore. « lo sono la vita », Egli ha detto. E se lo Spirito Santo vivrà in noi, giustamente noi saremo Lui, il Figlio di Dio. Perché coloro che sono mossi dallo Spirito, ci dice Paolo, questi sono figli di Dio. Non vi è possibilità per noi di una unione con Cristo, di una partecipazione alla sua santità, di una partecipazione ai suoi misteri, non vi è possibilità per noi di vivere in Lui, se non nel possesso del suo Spirito. Per questo, l’allontanamento visibile di Gesù dal mondo è stata la glorificazione del Cristo ma è stata anche la glorificazione nostra. Ora non lo vediamo più il Signore, è vero, ma non lo vediamo più perché siamo Lui. Egli ci ha donato il suo Spirito e nel dono del suo Spirito ciascuno di noi non può esser più separato dalla carità del Cristo. Quis nos separabit a caritate Christi?. Chi potrà separarci dall’amore del Cristo? Noi siamo una sola cosa con Lui nel dono dello suo Spirito. Quello Spirito che lo animava è lo Spirito che ci anima. Il medesimo Spirito che conduceva il Cristo al Padre, ora conduce anche noi. In ciascuno di noi non vive più che lo Spirito di Gesù e noi tutti non siamo più che Lui, figli nel Figlio, non viviamo più che la sua vita di amore, oblazione pura al Padre, sacrificio per i fratelli.
NON SIAMO PIÙ SERVI
E perché abbiamo ricevuto lo Spirito? Da cosa noi possiamo riconoscere di aver ricevuto lo Spirito del Cristo? Nel passaggio dalla servitù allo spirito di adozione, a quei sentimenti di confidenza, di abbandono in Dio, di fiducia, di libertà interiore, di semplicità pura, che distinguono appunto il rapporto del figlio col padre. Non siamo più dei servi. Oh! Proprio queste parole danno una interpretazione meravigliosa, poi, del Vangelo, che sarebbe un pachino conturbante per me, non vi sembra? Il Signore mi chiama: « Rendi conto! ». Oh, ma non fa più paura! Proprio l’Epistola di oggi toglie ogni carattere di timore alla lettura del Vangelo; perché fintanto che debbo render conto, sono un dipendente; ma io non sono più un dipendente di Dio, non sono più il suo fattore: io sono il figlio; posso giocare; posso dire precisamente a voi: « Quanto dovete? Ma fatela finita, non date più nulla! ». Perché? Perché posso usare dei beni del Padre. La parresia, la confidenza, la fiducia! La semplicità nel rapporto! Questo distingue il figlio nei confronti del servo. Il Padre non chiede conto al figlio suo di quello che fa. Può chiederlo al servo, perché di fronte al servo Egli è il padrone. Di fronte al figlio il Padre altro rapporto non ha che quello dell’amore. E tutto quello che è del Padre è del figlio, e il figlio può liberamente usarne; può liberamente concederlo a chi vuole, perché altrimenti non lo possederebbe se non ne avesse un uso pieno.
E dice Gesù: « Ti sono rimessi i tuoi peccati ». Quanto devi a tuo padre? Non te lo domando neppure. Che importa? Tutto è condonato, in un istante. Non è così, forse? Semplicità, purezza, fiducia. Se sono figlio non posso turbarmi. Mi chiede conto di qualche cosa? Non vi è altro rapporto del figlio col padre che quello dell’amore. E noi non abbiamo ricevuto più lo spirito del timore nella servitù, ma lo spirito dell’adozione in figli nella libertà, nella parresia, nella confidenza, nel puro amore. Onde tutta la nostra vita non è più che un esalarsi in un sospiro di carità: « Abbà, Padre! ». Devo fare i conti? No! Devo soltanto cantare. Devo render conto dell’amministrazione? No! Debbo soltanto aprirmi al Padre, guardarlo, contemplarlo, donarmi a Lui. Devo soltanto vivere il rapporto del figlio col padre. « Abbà, Padre ». Tutta la vita del Figlio non è che questa parola.
LA NOSTRA VOCAZIONE: …
E giustamente lo Spirito rende testimonianza in noi che noi siamo figli, perché ogni timore è scomparso, perché ogni angustia del cuore è venuta meno. L’anima non vive che la pura libertà di un rapporto di amore. Dicevo: queste parole contengono la nostra vocazione e la rinnovano. Quale vocazione? Di vivere una vita tutta divina. E una vita divina noi la vivremo solo nella misura che ci strapperemo a noi stessi per affidarci allo Spirito, solo nella misura che non vorremo più vivere la nostra vita, ma lasceremo che Dio viva la sua attraverso di noi, solo nella misura che noi doneremo tutto l’essere nostro a un Altro, che deve avere su noi ogni dominio, che deve possederci interamente, far di noi ciò che vuole. Non obbedire più alla nostra volontà, non essere più nostri: deve guidarci lo Spirito di Dio. Non dobbiamo più amare Dio soltanto: deve essere Dio che ama attraverso di noi, Lui principio primo delle nostre operazioni. Mossi dallo Spirito in ogni cosa, in ogni istante, per ogni movimento e del cuore, e dell’anima, e di tutto l’essere nostro. Tutta la nostra vita non è che in questa docilità pronta, pura, all’azione di Dio. Noi non possiamo dubitare che Dio ci investa.
Ecco la grande novità, ecco il grande annuncio che ci dona l’Epistola. Se noi possiamo sottrarci alla carne per non morire, è perché lo Spirito prende possesso dell’anima nostra. Noi dobbiamo esser sicuri di questo fatto: che Dio ci vuol possedere, che Egli non ci chiede altro che di lasciarci possedere da Lui, Egli non chiede altro che di investirci pienamente e di portarci là dove Egli vuole. Non saremo, dunque, soli in noi, sterili, vuoti. Non dobbiamo temere la morte se noi ci rifiuteremo di obbedire agl’istinti della nostra natura: è proprio piuttosto nel morire a noi stessi che realmente vivremo, perché un Altro ci prenderà, un Altro ci possederà, un Altro farà di noi ciò che vuole, e sarà Dio, lo Spirito. Il grande annuncio è questo. Noi temiamo, abbiamo paura di donarci perché ci sembra che nessuno ci prenda. Eppure è nell’intimo di ogni creatura questa volontà di donarsi, di esser posseduta; anche nel piano stesso di natura, l’uomo non vive che nella misura che ama e nella misura che è amato e perciò posseduto da un’altra creatura. Ma il possesso di una creatura da parte di un’altra è sempre tanto relativo! Tutta la pena degli uomini è che nessuno li ami così pienamente come vorrebbero essere amati, che nessuno veramente così li possegga da non lasciar loro più nulla. Non possiamo esser posseduti mai, perché neppur siamo conosciuti dagli altri, rimaniamo chiusi in noi stessi, impenetrabili gli uni agli altri. Vogliamo amare e non sappiamo; vogliamo essere amati e non riusciamo mai ad essere posseduti pienamente da coloro che pur ci amano. Sentiamo che al limite estremo c’è sempre un’incomprensione che ci chiude, c’è sempre una impenetrabilità degli spiriti che rende impossibile il perfetto amore, il perfetto dono di noi stessi e il perfetto possesso da parte degli altri di quello che noi siamo. Ma non è così, non così nel nostro rapporto con Dio! Nella misura che ci sottrarremo a noi stessi, nella misura che ci doneremo a Dio, Egli ci possederà; e ci potrà posseder pienamente, e possedendoci Dio pienamente noi saremo liberati dalla morte, noi saremo finalmente liberati dal pericolo di rimaner chiusi in noi stessi in questa angustia che è la povera nostra natura.
… farci possedere da Dio…
Esser posseduti da Dio! Non è veramente questa la beatitudine, più che anche possedere Dio? Perché possedere Dio da parte nostra sarà sempre ben poco: abbiamo mani così limitate per accogliere il dono divino! Ma essere posseduti da Dio, che suprema felicità! E soprattutto potete capirlo voi donne, per le quali l’amore è più essere possedute che possedere. Ma di fronte a Dio ogni uomo è la sposa, la sposa che è posseduta pienamente dallo Sposo. Lasciatevi possedere da Dio. Dio altro non chiede che questo: che voi lo lasciate libero di possedervi; che voi lo lasciate pienamente libero di potervi investire, strappare a voi stessi, per farvi suoi. La prima verità, il primo grande annuncio è veramente questo. Noi, sul piano naturale ed umano non sappiamo mai se gli altri ci amano. Possiamo dubitarne, possiamo crederlo; possiamo anche sperarlo, ma l’amore degli altri non ci possiede mai pienamente e non sappiamo mai quanto sia puro, quanto sia vero e reale. Ma non possiamo dubitare di questo Spirito che ci vuol possedere.
Il primo annuncio è questo: Uno ci ama ed è Dio. Uno ci ama e ci vuol possedere veramente. Uno ci ama e vuole che la nostra natura sia in qualche modo come la natura che il Verbo assunse nel seno della Vergine: una natura attraverso la quale Egli vive, una natura che diviene l’organo, lo strumento stesso di Dio: Instrumentum coniunctum divinitati: così definisce la natura umana assunta dal Verbo, San Tommaso d’Aquino. Ognuno di noi deve essere questo strumento, ognuno di noi deve essere questo organo dello Spirito, ognuno di noi deve essere un’umanità che si aggiunge all’umanità che il Verbo assunse nel seno di Maria. Si aggiunge? No, non precisamente; non è il medesimo mistero. Dio ci possiede soltanto nella misura che noi consentiamo, mentre la natura umana assunta dal Verbo non implica un consenso di questa natura, quasi che questa natura sussistesse già in una persona umana che poteva consentire all’azione dello Spirito. Per noi invece è diverso: Egli ci possederà nella misura che consentiremo. Allora tutta la nostra vita non deve essere che questo consentire alla forza divina che ci investe e ci rapisce, a questa forza divina che ci travolge. Lasciarci travolgere; lasciarci portare, non aver paura. Oh, certo, noi vogliamo esser amati, ma l’amore di Dio ci fa anche paura. È un amore così grande e così immenso! È un fuoco che ci brucia e ci consuma totalmente! Ma noi non dobbiamo aver paura. Proprio questo invece dice che noi abbiamo ricevuto lo Spirito: l’esser passati dallo spirito di servitù, dalla paura, allo spirito di adozione a figli, allo spirito della libertà, allo spirito dell’amore, al sentimento della più pura fiducia, del più puro abbandono. Si può aver paura fintanto che vogliamo esser nostri, fintanto che non vogliamo concederci, fintanto che non vogliamo esser posseduti; ma se tu ami, come potresti aver paura di esser posseduto da Dio? Lasciati prendere! Lasciati rapire! Lascia che Dio faccia di te quello che vuole! È questa la gioia! Non vi è altra gioia che perderci finalmente a noi stessi per esser posseduti da Lui.
… DI CUI GIÀ SIAMO FIGLI
« E noi abbiamo ricevuto lo spirito di adozione a figli ». Guardate che non dice che lo riceveremo: dice che lo abbiamo già ricevuto. Non possiamo mica dubitare della parola di Dio: Egli l’ha detta a noi. E dunque, al primo annuncio segue quest’altro annuncio, ugualmente grande, ugualmente luminoso: non solo che Dio ci ama, che Dio ci vuol possedere, ma che Dio già ci ha fatto passare dalla servitù all’adozione, Dio ci ha fatto già suoi figli. Realmente abbiamo ricevuto lo Spirito. Possiamo ancora non esserci abbandonati totalmente a questo Spirito di Dio; pur tuttavia l’abbiamo già ricevuto in qualche misura. Non come il Figlio, che lo riceve senza misura, secondo il IV Vangelo, ma in una qualche misura. E la misura non è data da Dio, che se si dona si dà senza misura, Egli che non ha misura, Egli che è indivisibile: la misura del dono dipende dal nostro consenso. Ma comunque l’abbiamo ricevuto, l’abbiamo ricevuto in tal modo che possiamo consentire sempre più pienamente, l’abbiamo ricevuto in tal modo che questo primo entrare di Dio nell’anima nostra può essere l’inizio di un dilatarsi senza fine dell’anima nostra ad accogliere Dio, può essere l’inizio di un abbandono sempre più puro e sempre più perfetto all’azione di questo medesimo Spirito.
Già siamo figli: ecco il secondo annuncio che ci dà l’Epistola di San Paolo. Già siamo figli perché già abbiamo ricevuto lo spirito di adozione. Che cosa vuol dire essere figli? Vuol dire non vivere più un lavoro, un servizio. Il figlio non serve. Ed effettivamente, quando saremo perfettamente i figli, nel Cielo, allora non serviremo perché Dio non ha bisogno del nostro servizio. Ma già ora, l’opera fondamentale del figlio non è più il servizio, non è più l’amministrazione dei beni del Padre. Il lavoro del figlio, praticamente, è uno solo: quello di gridare, di cantare: « Abbà, Padre! »; quello di volgersi a Dio, quello di lodarlo, di amarlo; quello di non vedere più che Lui, quello di far di tutta la vita un canto di amore. E tu lo senti, e tu lo sai, che è precisamente questo che Dio vuole da te. E tu lo senti, e tu lo sai che è precisamente questo che lo Spirito in te opera. È per questo che Egli agisce nell’intimo tuo. Non ti chiama tanto a un servizio quanto a questa vita di amore; ed è questa la nostra vocazione. Quante volte si è detto: la nostra vita? Tutta perduta, non facciamo mica nulla! A voi, veramente sembra di far qualche cosa: non state ferme dalla mattina alla sera. Eppure non è questo il lavoro fondamentale. Il vostro lavoro fondamentale è quello di cantare, è quello di lodare Dio, di amare. Puramente di amare.
VITA CONTEMPLATIVA
L’ordinarsi della nostra vita alla contemplazione dice questo. La contemplazione non è più un’opera, non è più un servizio: è la pura lode, il puro canto. Non è forse vero? Ed è a questa pura contemplazione che è ordinata la nostra vita. La nostra vocazione è questa: una vocazione o immediatamente o indirettamente contemplativa, che ci ordina a questo atto supremo del Figlio che è la lode del Padre, a questo atto supremo del Figlio che è l’amore.
Notate come l’Epistola ai Galati riprende questo versetto, ma lo dice in un modo diverso: non « nel quale gridiamo Abbà Padre », ma « che grida in noi Abbà Padre ». Vedete: l’opera nostra è l’opera dello Spirito; l’opera dello Spirito è l’opera dell’uomo; non c’è differenza.
Ma allora notiamo una cosa che è importantissima. Diceva uno chassidi: « La preghiera è una grande cosa: è la stessa Divinità ». Giusto! Se la nostra preghiera è lo Spirito che grida, nella nostra preghiera viviamo già la vita divina. È per questo che nella preghiera noi sentiamo l’essere nostro dilatarsi, trasfigurarsi, penetrarsi di grazia, sentiamo come dall’essere nostro cada ogni scaglia di materialità, di pesantezza, ci sentiamo penetrati da Dio, dalla luce divina. « La preghiera dell’uomo è la stessa Divinità ». Il chassidi non poteva dirlo, veramente, perché per lui rimaneva atto umano quello della preghiera; ma per noi non è più un atto puramente umano, è un atto anche di Dio; è Dio che prega in te, è lo Spirito Santo che geme in te con gemiti inenarrabili; e la tua preghiera è tua, ma è anche di Dio. È tua perché è di Dio, è di Dio perché è tua. Dio e tu non siete più che uno. Unità di vita: lo Sposo e la sposa non vivono più che una medesima vita. Sono due, ma la vita rimane una: e la vita dell’Uno e dell’altra è l’amore, questo esalarsi dell’essere nel canto: « Abbà, Padre! ».
E ora l’ultima parola che ci dice l’Epistola: non è altrettanto bella? « È lo stesso Spirito che attesta che siamo figli di Dio ». La testimonianza dello Spirito in noi. Ne possiamo dubitare di questa testimonianza? Tanto più questa testimonianza diverrà certa, inoppugnabile, quanto più il consenso dell’anima all’azione dello Spirito sarà pieno e puro; quanto più, cioè, Dio c’investirà. Se noi abbiamo consentito poco, se noi ancora siamo così avari con Dio da donarci a contagocce, certo che la testimonianza dello Spirito nella nostra vita non sarà così piena né così sicura: certo che in noi la testimonianza dello Spirito di esser figli di Dio rimarrà sempre estremamente dubbia ed incerta ed oscura. Ma se noi ci siamo abbandonati totalmente allo Spirito, non potremo più dubitare. Ecco di qui le parole estremamente audaci di San Simeone il Nuovo Teologo, di qui anche le parole di tutti i mistici della Chiesa occidentale, di Santa Teresa: « Non posso dubitare di essere in Dio e che Dio sia in me », ella dice. Le cose presenti danno testimonianza della loro realtà attraverso i sensi dell’uomo, ma vi sono sensi spirituali per i quali davvero si rende certa anche all’anima nostra la presenza di Dio, si rende certo anche all’anima nostra l’amore di Dio, questa vita divina che Egli ci ha comunicato e che già canta in noi e che già ci beatifica.
Ed è questa la nostra vocazione: vivere nel mondo presente proprio come testimonianza della vita futura, come presenza anticipata nel mistero, di quella beatitudine pura, di quella pura luce dell’amore infinito di Dio. Questa è la nostra vocazione: vocazione però che non è soltanto un richiamo, vocazione che Dio non lascia compiere a te. Nell’istante medesimo che Egli chiama, già Egli opera quello che a te chiede, perché giustamente Lui solo può rispondere a quanto Egli stesso domanda. Abbandoniamoci a Dio e vivremo questa vita di purezza, di semplicità, e vivremo questa vita di libertà e di amore, e vivremo questa vita di confidenza, la parresia. È uno dei temi fondamentali della mistica cristiana: questo abbandono puro, semplice, assoluto, questo abbandono gioioso, questa libertà pura dell’anima in Dio. Viviamo tutto questo. Viviamo crescendo all’amore, abbandonandoci a questo medesimo Spirito che ci è stato donato e già ora ci investe e ci vuol possedere totalmente.
PRIMA MEDITAZIONE
LA VITA, UN CAMMINO DI LIBERAZIONE
« Noi non siamo schiavi della carne per dover vivere al suo servizio; se quindi vivrete secondo la carne morrete, mentre se mediante lo Spirito soggiogherete all’anima le opere della carne, vivrete ».
Con grande semplicità, mi sembra che sia bene riprendere il testo dell’Epistola che abbiamo meditato anche stamani durante la santa Liturgia, e meditare con maggiore attenzione la parola del Signore, fermandoci su ogni versetto e cercando di capire quello che lo Spirito Santo ci vuole insegnare attraverso le parole dell’ Apostolo.
« Non siamo debitori alla carne ». Si diceva già stamani che « carne », anche nel IV Vangelo, ma soprattutto nell’apostolo Paolo, non implica per sé un richiamo soltanto al corpo, ma alla natura umana concreta. Dopo il peccato l’uomo è divenuto tutto carne, secondo il linguaggio estremamente concreto e anche un po’ violento della Sacra Scrittura. Ora l’uomo non è debitore alla carne; non ha nessun dovere, non ha nessun debito verso questa natura vulnerata dal peccato. L’uomo, perciò deve, vivendo, affrancarsi dal dominio di essa, deve vivere la sua libertà nei confronti di questa natura. Il vivere, per l’uomo, non è altro che un processo di liberazione. Giustamente, la salvezza si esprime, tanto nel linguaggio di Paolo come nel secondo Oremus dell’Ora di Prima, col termine di libertà: Salvi et liberi esse mereamur e così anche tutta l’Epistola ai Romani. Il cammino dell’uomo nella sua redenzione è un cammino che dalla legge tende alla sua libertà.
L’uomo non è debitore; non ha nessun dovere verso questa carne che l’opprime e l’ha reso schiavo. Perciò nella esperienza di questa sua schiavitù, l’uomo deve sempre più sentire e sempre più vivere un impegno di affrancamento, di liberazione. Non abbandonarci a noi stessi, alla nostra natura, ma liberarci dall’impero che la nostra natura, vulnerata dal peccato, vuole imporre al nostro medesimo spirito. Debitores sumus non carni. Non dobbiamo render conto di noi stessi a noi stessi, ma a Dio. Ecco quello che mi sembra che dica l’apostolo Paolo all’inizio di questa Epistola. Ci richiama cioè al dovere di un affrancamento, di una liberazione; a prender coscienza della necessità per noi e di questo affrancamento e di questa liberazione, che è tutto il cammino dell’anima nella sua vita spirituale. Non dobbiamo vivere secondo la carne. La carne ci può imporre la sua legge, ma l’uomo deve liberarsi da questa legge. Perché di fatto, dice l’Apostolo, se noi vivremo secondo la carne morremo. Ecco perché non siamo debitori alla carne. Voler consentire agli istinti implica per sé un abbandonarsi alla morte. Non dobbiamo nulla alla carne, perché nella misura anzi che noi ci sottoporremo alla sua legge, nella stessa misura noi perderemo la vita. Vivere per l’uomo è affrancarsi da questa schiavitù.
E poi ecco quello che vorrei meditare con voi perché quello che vi ho detto finora era in fondo ordinato a vedere quello che c’insegna l’Apostolo con quest’altre parole: « Se invece per lo Spirito voi mortificherete le opere della carne, vivrete ». Con queste parole l’Apostolo c’insegna in che modo praticamente noi possiamo riconoscere se è lo Spirito che ci conduce: vivere secondo lo Spirito vuol dire mortificare le opere della carne. Allora l’azione dello Spirito Santo tende a questa mortificazione della nostra natura vulnerata dal peccato.
NATURA E GRAZIA
È tutto l’insegnamento delle Beatitudini che qui implicitamente si fa presente. Il Regno di Dio, questo dilatarsi della vita divina nel cuore dell’uomo implica come sua condizione un morire agli istinti. Dio dilata in te il suo Regno nella misura che tu, nella tua povertà, nell’umiltà, nella dolcezza, nella purezza, ti sottrai alla legge della carne, per usare il termine della Scrittura. Il cammino dell’uomo, guidato da Dio, porta l’uomo a vivere la beatitudine stessa di Dio, a possedere la stessa pace di Dio, a possedere nell’intimo la stessa dolcezza di Dio. Ma tutto questo non si fa presente nell’uomo che in una mortificazione, in un annientamento, che dobbiamo considerare non voluto per sé, ma operato dallo Spirito stesso che t’invade o realizzato dallo Spirito come condizione precisamente a una maggiore sua presenza, a un trionfo maggiore della sua azione nell’uomo. In queste parole mi sembra già insegnato tutto il cammino dell’anima verso la libertà dei figli di Dio.
È certo che è estremamente doloroso dover vedere come natura e grazia sono in qualche modo in tensione fra loro, anzi, in contrasto; ci sembra anche in qualche momento che questa dottrina non possa esser conforme a verità. Non è Dio che ha creato la natura? Come dunque la natura dovrebbe esser soppressa in questa invasione dello Spirito? La vita spirituale, la vita divina, non esige una trasformazione della natura, una trasfigurazione che non è annientamento, ma è superamento di essa? Che non è una mortificazione, una morte, ma un trionfo maggiore di vita? Eppure il linguaggio dell’Apostolo è estremamente preciso e chiaro: Si Spiritu facta carnis mortificatis, vivetis. Il vivere nello Spirito e per lo Spirito implica una mortificazione delle opere della carne, mortificazione che non si può compiere che mediante lo Spirito; anzi, il vivere dello Spirito in te opera questa mortificazione. In altre parole: la vita cristiana implica due elementi di cui uno non è condizione dell’altro ma tutti e due sono presenti e sono realizzati da questa stessa invasione di Dio nell’anima tua. Perché Si Spiritu facta carnis mortificatis ci dice come la stessa mortificazione delle opere della carne sia opera dello Spirito: se nello Spirito, se per lo Spirito voi mortificherete le opere della carne, vivrete. Il vivere e il mortificare sono l’atto identico e simultaneo di un medesimo Spirito che entra nell’anima tua, ti investe e ti colma.
È l’insegnamento dell’ascesi cristiana e dell’ascesi anche di ogni altra religione. Ma che differenza c’è fra quello che possono insegnare l’ascesi buddista o indù e l’ascesi cristiana? La morte, là, sembra voluta per sé. Perché dal momento che non vi è una dottrina esplicita, chiara, che riguarda Dio, la mortificazione sembra essere fine a se stessa. La mortificazione, poi, è operata dall’uomo. Non implica un’azione dello Spirito; non è un aspetto della vita divina, di una vita divina che t’invade: è il tuo atto che realizza questa morte. Per questo, un cristiano, di fronte alle affermazioni, non dico l’esperienza religiosa, dico le affermazioni proprie del Buddhismo o dell’lnduismo, rimane molto in riserva. Non può accettare una simile dottrina. Per noi la morte non è fine a se stessa: è anzi un aspetto e, direi, l’espressione stessa della vita. Noi si parla tanto di morte, nel Cristianesimo: in realtà non se ne dovrebbe nemmeno parlare. Il morire, per il cristiano, vuol dire morire precisamente ai limiti, morire precisamente a una schiavitù, morire precisamente alla morte. Ma tu non muori alla morte che nella misura che precisamente Dio entra in te, Dio si fa presente in te, Dio ti invade, Dio ti colma. E quello dunque che è più importante, in questo insegnamento cristiano, è questa vita che entra, è questa vita che invade, è questa vita che ti sommerge. Non solo perché è l’elemento positivo, ma perché è precisamente questa vita che opera questa morte.
LE BEATITUDINI
Si Spiritu facta carnis mortificatis, vivetis. Oh! Tutto il cammino dell’anima nella vita spirituale! Sembra veramente che l’anima affondi come nel nulla; ma è il contrario che è vero. Tutto quello che è imperfetto, che è limitato, tutto quello che pesa, che è opaco, tutto lentamente si allontana nella presenza di un Dio che vive nel cuore dell’uomo. Perché sono precisamente questo i facta carnis, son queste le opere della carne: l’opacità, la pesantezza, il limite, la morte. La povertà cristiana veramente s’identifica alla ricchezza; come la dolcezza si identifica precisamente al possesso. Può sembrare paradossale il linguaggio del Vangelo, ma rimane parola di Dio. Non solo vera, però, perché è parola di Dio, cioè vera indipendentemente da una esperienza che l’anima possa avere; ma vera anche per una nostra esperienza intima, che ce ne garantisce in qualche modo la verità, anche se la garanzia di questa verità non dipende in fondo da una nostra esperienza, ma dal fatto proprio che è parola di Dio. E voglio dire: non è forse vero che è colui che è mite che veramente possiede la terra? Che veramente ha un’esperienza di dominio, di quella pace che è il segno di un perfetto possesso delle cose e di sé? E voglio dire: non è la povertà cristiana che dà all’anima già una esperienza di una ricchezza ineffabile, che nessuna cosa potrebbe compromettere perché nessuna cosa ha la possibilità d’intaccarla? Le cose umane possono intaccare la tua ricchezza, gli avvenimenti umani possono compromettere il possesso dei beni che hai; ma nessun avvenimento umano può compromettere la tua povertà. Avvenga quello che avvenga, nulla dall’esterno potrebbe nuocerti, nessuna cosa potrebbe toglierti quello che hai: la tua povertà. Ed è precisamente in questa povertà, in questo distacco del cuore, in questa purezza interiore che tu veramente tutto possiedi. Il cammino dell’anima guidata dallo Spirito non è questa presenza di un Dio che entra in te e ti riempie nella misura che tutto da te si allontana come non fosse? Non che tu debba buttar via le cose: son le cose che non ti legano più. Non che tu debba buttar dalla finestra quel che possiedi: tu non possiedi più nulla, anche se tu usi di tutto, perché non sei posseduto più da cosa alcuna. Possedere è esser posseduti; ma l’anima che possiede Dio è anche soltanto da Lui posseduta e per questo anche è libera.
Noi vivremo nella misura che nello Spirito Santo si opererà questo spogliamento, questa liberazione, piuttosto. Se non vogliamo usare i termini di spogliamento o di morte, se ci dà noia anche il termine che usa San Paolo, mortificatis e di fatto è un termine che dobbiamo capire, usiamo il termine vero, quel termine che è implicito, piuttosto, nelle altre parole dell’Apostolo: « liberazione ». Una mortificazione dalle opere della carne implica una liberazione dalle opere della carne. Vivere per noi vuol dire sempre più morire alla morte, sempre più liberarci dalla schiavitù della carne, sempre più allontanarci, spogliarci, o meglio: scioglierci da tutto quello che ci lega, spogliarci da tutto quello che ci pesa, purificarci da tutto quello che ci obnubila, ci acceca, che rende meno puro il nostro sguardo.
LA MORTE PER IL CRISTIANO
Per ritornare a quanto si diceva prima, secondo altre religioni, questo cammino di mortificazione è un cammino umano, è l’uomo che si dona la morte. Noi abbiamo detto che questa mortificazione, questo spogliamento, questa liberazione, è opera dello Spirito: e soltanto nella misura che lo Spirito opererà questa mortificazione, questo spogliamento, questa liberazione, noi vivremo. Ma si potrebbe noi mortificarci senza che lo Spirito operasse con noi questa mortificazione, ci desse il potere di mortificarci? Ecco la grande illusione delle ascesi fuori del Cristianesimo: che cioè si possa mortificarci da noi. Siccome la mortificazione è l’elemento, è l’espressione stessa della vita, nella stessa misura noi moriamo in cui la vita divina ci investe; noi moriamo nella stessa misura in cui Dio si fa presente nell’anima nostra. Noi c’illudiamo di poterci mortificare da noi; ma invece, siccome la mortificazione è appunto un elemento della vita, non si può operare questa mortificazione che nella misura stessa che Dio si fa presente nel cuore dell’uomo.
Di qui deriva che le ascesi al di fuori del Cristianesimo non operano la morte. Possono, sì, essere insegnamento di una mortificazione della carne ma non sono un insegnamento della mortificazione dello spirito umano. L’uomo, in fondo, da sé solo, non potrebbe operare questo spogliamento totale, non potrebbe operare questa sua liberazione. Può cadere da una schiavitù in un’altra schiavitù, ma soltanto se l’anima diviene serva di Dio è veramente libera. Trovo giusto che si debba avere una certa ripugnanza a dover parlare di morte. Effettivamente, fermandoci soltanto su questo elemento, c’è il rischio che facciamo nostra la dottrina di quest’ascesi non cristiana. Per il cristiano, invece, il morire è precisamente un aspetto negativo di quello che è, in termini positivi, la vita stessa di Dio che entra in lui. Può sembrare illogico che tu prima debba morire e poi vivere: di fatto tu muori nella misura che vivi, tu muori alla carne nella misura che vivi allo Spirito. O piuttosto, tu muori alla tua natura nella misura che lo Spirito ti prende e ti possiede, t’investe e ti trasforma, entra in te e ti trasfigura.
Considerate come l’insegnamento evangelico sia un insegnamento che ha implicita questa morte, ma si esprime in termini totalmente positivi: « Beati i poveri perché di essi è il regno dei cieli; beati i miti perché possederanno la terra; beati coloro che piangono perché saranno consolati… « ; ma il « saranno » non rimanda a domani. Dobbiamo renderci conto che beati siamo già ora, anche se la consolazione piena sarà soltanto domani. Il Vangelo parla in termini positivi. Qui, San Paolo sembra parlare in termini negativi: Si Spiritu facta carnis mortificatis, vivetis. Ma l’insegnamento rimane uno solo ed è questo: non vi è possibilità per l’uomo di essere invaso da Dio che nella misura che egli in qualche modo vien meno a se stesso: prima al suo peccato, poi alle sue imperfezioni, agli stessi limiti propri della sua natura creata. Davvero, essere invasi da Dio vuol dire morire a noi stessi. Ma questa morte è una morte beata: Beati mortui qui in Domino moriuntur. È, si diceva, un vivere la stessa vita di Dio.
Implica forse, questo, un certo monofisismo? Implica cioè un disprezzo di quelle che sono le esigenze proprie della natura umana e soprattutto implica l’insegnamento di una distruzione ontologica dell’essere creato? No! Ma implica quello che noi vediamo nel Cristo: una trasfigurazione operata dallo Spirito, che sottrae in qualche modo la natura umana a ogni esperienza terrestre. Egli è l’Uomo anche ora, ed eternamente Egli rimane Uomo. Eppure come possiamo dire che Gesù risorto da morte, viva ora la nostra povera vita? È la nostra vita umana coi suoi limiti, nella sua forma, che è propria di Gesù? Invaso dallo Spirito, glorificato dallo Spirito, l’Uomo Gesù vive ora una vita uguale alla nostra? Egli rimane Uomo, ma per vivere anche nella sua natura la stessa beatitudine e gloria di Dio. Tutto questo è forse un qualche cosa che distrugge o mortifica in senso proprio la natura umana del Cristo? Che la rende meno perfetta di quanto non sia la nostra natura? Gesù Uomo è più perfetto o meno perfetto ora, come uomo intendo dire, di quanto non lo fosse avanti la sua morte? Mi sembra che questo basterebbe a farci capire come la necessità di un nostro morire non sia affatto un elemento di mortificazione in senso proprio, non sia che la condizione a una invasione della luce divina in noi.
L’azione della grazia…
Per riprendere l’insegnamento delle Beatitudini: siccome la vita eterna futura non è che in continuazione alla vita di grazia che noi già possediamo, noi non possiamo vedere nella vita di gloria che è propria della umanità di Gesù oggi, che il termine proprio del nostro stesso cammino che a quel termine deve approssimarci sempre più. Queste due vite, la vita presente e la vita futura, la vita di grazia e la vita di gloria, non sono in opposizione fra loro: è un cammino continuo. Ed è ben questo che la grazia opera in te. Non è forse vero che nella misura che lo Spirito ti invade viene meno in te ogni volontà di potenza, e tanto più tu domini e regni quanto più ti fai umile e dolce, quanto più la tua natura investita dallo Spirito perde ogni sua asprezza, perde ogni sua rigidità, diviene pieghevole, senza durezza: docile, malleabile, liquida all’azione di Dio? Non è forse vero che via via che la grazia opera in te, entra in te, sempre più il tuo cuore si stacca dalle cose presenti, si libera da ogni asservimento alle cose, da ogni legame che ci rende schiavi delle creature perché nella libertà, l’anima già vive una sua esperienza del Regno, anzi, ne vive già il possesso iniziale?
Ora, è precisamente in questo cammino che noi dobbiamo consentire allo Spirito. Si diceva stamani che, in fondo, a noi non viene chiesto che questo. È vero che dobbiamo mortificarci ma nello Spirito, per lo Spirito: praticamente, noi ci mortificheremo soltanto per lo Spirito Santo, per la forza di questo Spirito, nella misura che noi consentiamo alla sua azione. Ora, tutta la vita cristiana consisterà precisamente nel consentire a questa azione dello Spirito che ci spoglia, che ci purifica e ci rende più lievi. Povertà, umiltà, semplicità. Guardate come tutte le virtù cristiane abbiano a prima vista soltanto un carattere negativo. E guardate invece come queste virtù non sono che il segno di una presenza: di un elemento non positivo, ma più che positivo, divino. È Dio stesso, la presenza di Dio. Povertà, umiltà, purezza: il cammino dello Spirito ci porta qua. Effettivamente tutte le Beatitudini non sono che una sola parola: « Beati i poveri ».
Bisogna consentire dunque all’azione di questo Spirito che ci porta per questo cammino, che ci trascina, ci muove: prima dolcemente poi ci investe e ci sforza per questo cammino, poi ci travolge con una forza sempre maggiore via via che acconsentiamo alla sua azione. In noi l’azione dello Spirito è così insensibile che, direi, ci sembra di muoverci noi stessi verso questa povertà e per questo, muovendoci noi stessi, noi non percepiamo tanto l’elemento positivo di questa azione quanto l’elemento negativo ed è una mortificazione che ci viene chiesta. Via via, invece, che noi acconsentiamo allo Spirito e investiti dallo Spirito noi ci abbandoneremo alla sua forza che ci travolge allora, nella stessa misura, invece che l’elemento negativo, noi avremo esperienza dell’elemento positivo di quest’azione dello Spirito in noi. Non viviamo più tanto una mortificazione quanto la vita stessa di Dio. San Francesco non si accorge di esser povero: si accorge soltanto di esser ricco. Noi, certo, sentiamo prima di tutto questo sforzo che dobbiamo compiere per liberare il nostro spirito dall’attaccamento alle cose, eppure sentiamo, nonostante tutto, che in questo spogliamento un Altro ci sforza, non soltanto dall’esterno, ma per una grazia interiore e ci spinge verso questa libertà sempre maggiore. Rimane vero per noi che dobbiamo mortificarci, che cioè questo cammino implica prima il sentimento, l’esperienza di un nostro morire. Ma noi non viviamo questo nostro morire come una morte, viviamo questo nostro morire come una condizione a che lo Spirito Santo entri sempre più nell’anima nostra e sempre più la invada, e sempre più la possegga. Anche se abbiamo l’esperienza di un nostro morire, non vogliamo questo nostro morire che come condizione, precisamente, a questa invasione di Dio.
… ACCOLTA NELLA FEDE
E allora s’impone a noi, proprio perché non viviamo ancora questa azione dello Spirito nell’elemento positivo più che nell’elemento negativo, s’impone per noi che la fede ci sostenga, che noi ci rendiamo conto cioè che nel nostro vivere la morte non siamo noi che viviamo, ma che un Altro in questo cammino ci spinge, a questo cammino ci porta. Dobbiamo, nella fede, renderci conto che soltanto nella misura che consentiamo a morire la vita subentra. Possiamo non avere un’esperienza così viva della vita come invece abbiamo un’esperienza viva della nostra morte: proprio per questo ci rimane difficile consentire all’azione dello Spirito e allora ci deve soccorrere la fede. Se la fede ci sostiene, se la fede ci aiuta, allora noi consentendo allo Spirito daremo sempre più modo allo Spirito di invaderci, di penetrarci, di muoverci con una forza maggiore. E allora da un’esperienza di morte noi passeremo a sentire più profondamente, a sperimentare sempre più prepotente, invece, l’azione della vita, questa invasione della vita. Allora, all’esperienza di un’ascesi mortificante subentrerà sempre più l’esperienza di un mistico possesso di Dio. Allora al linguaggio di Paolo più facilmente risponderà il linguaggio di Gesù: « Beati i poveri ». Comunque, mi sembra che sia questo l’insegnamento dei primi versetti dell’Epistola di oggi: sentire che l’azione dello Spirito Santo ci porta a esser mossi da questo stesso Spirito, a un nostro sparire, a un nostro venir meno a tutti i limiti creati, a tutte le nostre imperfezioni, perché si faccia presente in noi sempre di più il Signore, perché in noi viva sempre più Lui e Lui solo.
Ma si noti quello che dice Paolo qui nella Lettera, tanto nella prima parte del versetto che nella seconda parte: la persona che esperimenta la morte e la vita è sempre l’uomo. È Dio che opera questa morte, è Dio che fa presente in te questa vita; ma sei tu che muori e sei tu che vivi. Cioè: se anche lo Spirito Santo t’investe, non distrugge la tua sussistenza, non vi è un annientamento di te. È Dio che opera la tua morte, è Dio che vive in te la sua vita. Ma sei anche tu che muori per questa azione dello Spirito, ma sei anche tu e tu solo che vivi per questa vita dello Spirito che in te trabocca, che in te si fa presente. Questo dobbiamo tenere ben presente, perché non si trasformi, questa dottrina di una certa sostituzione della vita umana alla vita divina, in una certa sostituzione di Dio all’uomo. Non c’è sostituzione di Dio all’uomo: l’uomo rimane, ma per vivere in Dio; l’uomo rimane ma per non avere altra vita che quella divina, come Gesù: nella sua natura umana non vive più la vita che è propria dell’uomo ma vive la vita del Figlio; e nella natura umana creata e nella natura increata non vive più che una vita.
Il fatto che Egli non viva più la mia vita condizionata dal tempo, dallo spazio, limitata nel suo potere, limitata nella sua influenza: il fatto che non possa vivere più questa vita non lo fa meno uomo, non distrugge in Lui quella natura che Egli ha ricevuto da me; non lo fa meno perfetto, non soltanto come Dio ma nemmeno come uomo. Egli rimane ora perfetto uomo come era uomo quaggiù, ma non vive in questa natura che la vita di Dio, che una vita che è la vita stessa dello Spirito. Così noi dobbiamo vivere.