Archive pour février, 2013

Holy Mary

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Publié dans:immagini sacre |on 4 février, 2013 |Pas de commentaires »

«CIÒ CHE OCCHIO NON VIDE E ORECCHIO NON UDÌ» (1 Cor. 2, 9) – SANT’AGOSTINO

http://http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/letture_patristiche_o.htm#«CIÒ CHE OCCHIO NON VIDE E ORECCHIO NON UDÌ»

«CIÒ CHE OCCHIO NON VIDE E ORECCHIO NON UDÌ» (1 Cor. 2, 9)

 SANT’AGOSTINO

S. Agostino (354-430), vescovo d’Ippona in Africa, romano per cultura, pensatore di genio, ci ha lasciato un’opera monumentale, di inestimabile valore. Filosofo, teologo, pastore d’anime e grande spirituale, è il Dottore della grazia e, più ancora, della .carità.
In questa celebre pagina delle Confessioni, Agostino ci rivela la profonda comunione di spirito che lo univa alla madre, alla quale doveva la sua conversione.

Eravamo soli, mia madre e io, appoggiati al davanzale di una finestra: sotto di noi si poteva vedere il giardino interno della casa che ci ospitava, a Ostia, presso la foce del Tevere. Lontani dai rumori della folla, dopo la fatica di un lungo viaggio, ci disponevamo ad imbarcarci. Conversavamo dunque, soli, con grande dolcezza. Dimentichi del passato, protesi verso l’avvenire (Fil. 3, 13), oi domandavamo, alla presenza della verità che sei tu, Signore, come sarà quella vita eterna dei santi, che occhio non vide, orecchio non udì né penetrò nel cuore dell’uomo (1 Cor. 2,9)… E mentre ne parlavamo ed eravamo tesi ad essa col desiderio, la raggiungemmo per un istante con tutto lo slancio del nostro cuore e, sospirando, lasciammo le primizie dello spirito (cfr. Rom. 8,23) per ridiscendere al vuoto suono delle nostre bocche, dove la parola ha principio e ha fine…
E dicevamo così: se .in qualcuno il tumulto della carne facesse silenzio, silenzio facessero le immagini della terra e delle acque e dell’aria, silenzio anche i cieli, e l’anima stessa in sé facesse silenzio e si superasse non pensando più a sé, silenzio i sogni e le visioni della fantasia; se ogni lingua e ogni segno e tutto ciò che passa in qualcuno facesse completamente silenzio – a saperle ascoltare, infatti, tutte queste cose dicono: «Non ci siamo fatte da noi, ma ci ha fatto colui che rimane in eterno» – e se, detto questo, tornassero nel silenzio per essersi poste in ascolto di colui che le ha create, e lui solo parlasse, non più per loro mezzo, ma da se stesso e noi udissimo la sua parola, non attraverso lingua umana o voce di angelo o fragore di nube o enigma di parabole, ma lui stesso, che amiamo in queste cose, proprio lui si facesse sentire a noi senza di esse, – come ora che, tesi in tutto il nostro essere, abbiamo raggiunto con la penetrazione di un istante l’eterna sapienza che sta al di sopra di ogni -cosa – se questa condizione si prolungasse e scomparissero tutte le altre visioni che le sono molto inferiori ed essa sola rapisse e assorbisse e immergesse nelle gioie interiori colui che la contempla: e la vita eterna fosse così come ci è apparsa in quest’istante di intuizione che ci ha fatto sospirare, non è forse questo ciò che vuoi dire: Entra nella gioia del tuo Signore? (Mt. 25,21).
E questo, quando? Non forse nel giorno in cui tutti risorgeremo, ma non tutti saremo trasformati? (1 Cor. 15,51)…
Allora mia madre mi disse: «Figlio mio, per quanto mi riguarda, in questa vita non trovo più nessuna attrattiva. Che cosa faccio quaggiù, perché ci resto ancora? Non lo so: ormai non ho più desideri sulla terra. C’era una cosa sola che mi facesse desiderare di rimanere ancora un poco in questa vita: vederti cristiano cattolico prima di morire. Dio mi ha concesso tutto questo in misura maggiore di quello che aspettavo: ti vedo infatti disprezzare le felicità terrene per servire lui. Che cosa faccio ancora qui?».

* Confessionum libri XIII – SEI, Torino 1952 – pp. 332-335

JEAN-MARIE LUSTIGER: E’ POSSIBILE PREGARE O MEDITARE SCANDENDO I TEMPI DELLA GIORNATA?

http://www.qumran2.net/ritagli/index.php?parole=santi%20preghiere&p=barra_sx

3. E’ POSSIBILE PREGARE O MEDITARE SCANDENDO I TEMPI DELLA GIORNATA?

JEAN-MARIE LUSTIGER, AVVENIRE DEL 30/11/2008

Ecco i consigli dell’arcivescovo di Parigi: «Obbligatevi a spezzare il ritmo frenetico delle nostre metropoli. Fatelo sui mezzi pubblici e nelle pause del lavoro». Uno scritto inedito del cardinale Francese morto un anno fa.

Come pregare durante il giorno? La tradizione della Chiesa raccomanda di pregare sette volte al giorno. Perché? Una prima ragione è che il popolo d’Israele offriva il proprio tempo a Dio in sette preghiere quotidiane, in momenti fissi, nel Tempio o almeno voltati verso di esso: «Sette volte al giorno io ti lodo» ci rammenta il salmista (Salmo 118,164). Una seconda ragione è che il Cristo stesso ha pregato così, fedele alla fede del popolo di Dio. La terza ragione è che i discepoli di Gesù hanno pregato così: gli apostoli (vedi Atti 3,1: Pietro e Giovanni) e i primi cristiani di Gerusalemme «assidui nelle preghiere» (vedi Atti 2,42; 10,3-4: Cornelio nella sua visione); poi le comunità cristiane e, più tardi, le comunità monastiche. E così anche i religiosi e le religiose, i preti, sono stati chiamati a recitare o a cantare in sette riprese le «ore» dell’«ufficio» (che significa «dovere», «incarico», «missione» di preghiera), facendo una pausa per cantare i salmi, meditare la Scrittura, intercedere per i bisogni degli uomini e rendere gloria a Dio. La Chiesa invita ogni cristiano a scandire la propria giornata con una preghiera ripetuta, deliberata, voluta per amore, fede, speranza.
Prima di sapere se è bene pregare due, tre, quattro, cinque, sei, sette volte al giorno, un consiglio pratico: associate i momenti di preghiera a gesti fissi, a punti di passaggio obbligati che scandiscono le vostre giornate.
Per esempio: per coloro che lavorano e in genere hanno orari stabili, esiste pure un momento in cui lasciate il vostro domicilio e vi recate al lavoro… a piedi o in auto, in metropolitana o in autobus. A un orario preciso. E ciò vi prende un determinato tempo, sia all’andata sia al ritorno. Perché quindi non associare dei tempi di preghiera a quelli di spostamento?
Secondo esempio: siete madre di famiglia e rimanete a casa, ma avete dei figli da portare e riprendere a scuola in momenti precisi della giornata. Un altro obbligo che segna una pausa: i pasti, anche se a causa di forza maggiore o cattiva abitudine mangiate solo un panino o pranzate in piedi. Perché non trasformare queste interruzioni nella giornata in punti di riferimento per una breve preghiera?
Sì, andate a cercare nella vostra giornata questi momenti più o meno regolari di interruzione delle occupazioni, di cambiamento nel ritmo di vostra vita: inizio e fine del lavoro, pasti, tempi di viaggio ecc.
Associate a questi momenti la decisione di pregare, anche solo per un breve istante, il tempo di fare l’occhiolino a Dio. Datevi l’obbligo rigoroso, qualunque cosa accada, di consacrare quindi anche solo trenta secondi o un minuto a dare un nuovo orientamento alle vostre diverse occupazioni sotto lo sguardo di Dio.
La preghiera così, pervaderà quanto vi sarà dato vivere.
Quando andate al lavoro forse intanto rimuginate sui colleghi che ritroverete, sulle difficoltà da affrontare in un ufficio in cui lavorate in due o in tre; le personalità cozzano maggiormente quando la vicinanza è troppo stretta e quotidiana. Chiedete a Dio in anticipo: «Signore, fa’ che io viva questo rapporto quotidiano nella vera carità. Permettimi di scoprire le esigenze dell’amore fraterno nella luce della Passione di Cristo che mi renderà sopportabile lo sforzo richiesto».
Se lavorate in un grande centro commerciale, forse rimuginerete sulle centinaia di volti che vi scorreranno davanti senza che abbiate il tempo di guardarli. Chiedete a Dio in anticipo: «Signore, ti prego per tutte quelle persone che passeranno davanti a me e alle quali cercherò di sorridere.
Anche se non ne ho la forza quando mi insultano e mi trattano come fossi una macchina calcolatrice».
Insomma, approfittate al meglio, durante la vostra giornata, di questi punti di passaggio obbligati, dei momenti in cui disponete di un po’ di margine e vi lasciano, se siete vigili, un piccolo spazio di libertà interiore per riprendere fiato in Dio.
Si può pregare nella metropolitana o sui mezzi pubblici? Io l’ho fatto. Ho utilizzato diversi metodi secondo i momenti della mia vita o le circostanze. Ci fu un tempo in cui mi ero abituato a mettere i tappi nelle orecchie per isolarmi e poter avere un minimo di silenzio, tanto ero esasperato dal rumore. Pregavo così, senza per questo tagliar fuori le persone che mi erano attorno visto che potevo ancora essere presente a essi con lo sguardo, senza però scrutarli, senza fissarli, senza essere indiscreto nel modo di guardarli. Il silenzio fisico dell’orecchio mi permetteva di essere ancora più libero nell’accoglienza. In altri periodi, invece, ho vissuto un’esperienza esattamente contraria. Ognuno di noi fa come può, ma in nessun caso dobbiamo ritenere che sia impossibile pregare.
Ecco un altro suggerimento. Scommetto che lungo il vostro tragitto, dalla stazione della metropolitana o dalla fermata dell’autobus fino a casa o al posto di lavoro, potete incontrare, nel raggio di trecento o cinquecento metri, una chiesa o una cappella (una piccola deviazione vi consentirebbe di camminare un po’). A Parigi si può fare. In quella tal chiesa potete pregare in tranquillità o, al contrario, essere continuamente disturbati; può essere adatta o meno alla vostra sensibilità: questo è un altro discorso. Ma c’è una chiesa con il Santissimo Sacramento. Perciò, camminate per qualche centinaio di metri in più; vi ci vorranno dieci minuti, e un po’ d’esercizio non farà male alla vostra linea… Entrate in chiesa e andate fino al Santissimo Sacramento. Inginocchiatevi e pregate. Se non potete di più, fatelo per dieci secondi. Ringraziate Dio Padre per il mistero dell’Eucaristia nel quale siete inclusi, per la presenza del Cristo nella sua Chiesa. Lasciatevi andare all’adorazione con il Cristo, nel Cristo, tramite la forza dello Spirito. Rendete grazie a Dio. Rialzatevi.
Fatevi un bel segno della croce e ripartite.

LETTERA DI SAN PAOLO APOSTOLO A FILEMONE – CAPITOLO PRIMO

 http://www.movimentoapostolico.it/filemone/testi/capitoli/filemone1.htm

LETTERA DI SAN PAOLO APOSTOLO A FILEMONE

CAPITOLO PRIMO

(sono 18 citazioni e commenti, metto i primi 9)

INDIRIZZO E RINGRAZIAMENTO

[1]PAOLO, PRIGIONIERO DI CRISTO GESÙ, E IL FRATELLO TIMÒTEO AL NOSTRO CARO COLLABORATORE FILÈMONE,
Chi scrive la lettera è Paolo e il fratello Timoteo.
Paolo si definisce prigioniero di Cristo Gesù.
Bisogna dare a questa espressione una duplice connotazione: prigioniero a causa della fede in Cristo Gesù.
Ma anche: prigioniero dell’amore di Cristo Gesù.
Il carcere di Paolo è un carcere spirituale, è il carcere dell’amore di Cristo. Da questo amore egli si è lasciato imprigionare ed egli vive solo per questo amore e di questo amore.
In questo amore egli consuma la sua vita. Egli è sorretto da questo amore e senza questo amore morirebbe.
Chi ha conosciuto l’amore vero di Cristo e da questo amore si è lasciato conquistare, incarcerare, imprigionare, senza questo amore è come se fosse avvolto dalla morte, è come se si trovasse già nelle tenebre dell’inferno.
È l’inferno già su questa terra per tutti coloro che hanno conosciuto il vero amore di Cristo Gesù e poi lo hanno abbandonato.
Timoteo per Paolo è un vero fratello.
Il fratello è uno che condivide la stessa vita ed è legato da un legame di sangue.
Il sangue che lega Paolo a Timoteo è spirituale, è il sangue di Cristo, è la verità evangelica, è la carità del pastore che è una e la stessa in Paolo e in Timoteo.
Paolo ama con il cuore di Cristo e di Timoteo. Ama con il sangue di Cristo e di Timoteo. Ma anche Timoteo ama con il sangue di Paolo e di Cristo. Ama con il cuore di Paolo e di Cristo.  Un solo cuore, un solo amore, un solo sangue, una sola opera di salvezza.
È questa la vera fratellanza che dobbiamo costruire, edificare nella Chiesa di Dio.
È però una fratellanza assai difficile da costruire. Perché la si possa edificare è necessario che il cuore di Cristo, il suo amore, la sua verità, la sua carità sia in tutti i cuori. C’è un solo sangue che deve divenire la nostra vita, che deve scorrere in noi e questo sangue è quello di Cristo Gesù.
Questo sangue scorre quando c’è la sua verità in noi assieme alla sua carità.
È questo unico e solo sangue che ci fa fratelli gli uni degli altri, ci fa vivere gli uni per gli altri, ma anche ci fa vivere gli uni negli altri.
La lettera è scritta al nostro caro collaboratore Filèmone.
Filèmone è per Paolo e Timoteo un caro collaboratore.
Di lui non si conosce nessuna altra notizia, se non quelle contenute in questa lettera.
Filèmone è caro, perché prezioso. È prezioso perché insieme a Paolo e Timoteo è impegnato nella diffusione del Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo.
La collaborazione per Paolo è una sola: è collaborazione non con  Paolo, non con Timoteo, è prima di tutto collaborazione con Cristo.
La missione è di Cristo. Cristo l’ha consegnata agli Apostoli. Sono loro che devono farla continuare sino alla consumazione dei secoli.
La missione è una. Di questa missione tutti sono collaboratori. Collaborano cioè con Cristo perché essa sia svolta secondo verità, santità, giustizia, perseveranza, universalità, comunione, carità.
Tuttavia in questa missione varia e differente è la responsabilità. Poiché la suprema responsabilità è quella apostolica, tutti gli altri sono in vario modo e grado collaboratori della missione apostolica, che è continuazione della missione di Cristo.
Una sola missione, diversi gradi di collaborazione. Tutto però deve essere visto in Cristo, con Cristo, per Cristo.
[2]ALLA SORELLA APPIA, AD ARCHIPPO NOSTRO COMPAGNO D’ARMI E ALLA COMUNITÀ CHE SI RADUNA NELLA TUA CASA:
La lettera è indirizzata a Filèmone, alla sorella Appia, ad Archippo, alla comunità che si raduna nella casa di Filèmone.
Di Appia non sappiamo altro. È questa l’unica e sola volta in cui viene nominata, ricordata.
Di Archippo, oltre a sapere che è stato compagno d’armi di Paolo, senza sapere però le circostanze, i luoghi, i tempi e i momenti in cui vi è stata questa compagnia, conosciamo anche dalla Lettera ai Colossesi una particolare esortazione di Paolo nei suoi riguardi: “Dite ad Archippo: Considera il ministero che hai ricevuto nel Signore e vedi di compierlo bene” (Col 4,17).
Di sicuro c’era stata una qualche caduta nello zelo e nell’amore e Paolo lo riprende perché possa ritornare nella santità di un tempo.
Un ministero che non si svolge nella santità, non serve alla comunità.
In questo versetto viene rivelato come viveva la prima comunità cristiana. Essa non aveva templi, non aveva Basiliche, non aveva Cattedrali, non aveva Chiese, né piccole, né grandi per l’esercizio del culto. Il culto stesso era vissuto nell’essenziale.
Le case private erano adibite per le riunioni della comunità cristiana. La casa dell’uomo diveniva per un certo tempo casa della comunità cristiana. L’uomo prestava a Dio la sua casa perché la sua comunità potesse riunirsi per ascoltare la Parola, per celebrare la Cena del Signore, per vivere i momenti di crescita nella verità e nella carità.
La bellezza del Vangelo è la sua essenza di essere senza forme, per assumerle tutte, ma anche per abbandonarle tutte, se queste non sono più per l’uomo.
La verità invece rimane in eterno. La Parola di Gesù è senza tempo e senza forme. Questa è la sua bellezza divina. A questa bellezza la Chiesa deve sempre guardare se vuole essere a servizio dell’uomo, altrimenti si troverà a rendere schiavo l’uomo delle forme e dei sistemi che la storia ha creato per il servizio dell’uomo.
Quando leggo la storia che il Vangelo ha saputo creare per incarnarsi nel tempo, mi vengono sempre in mente le Parole del Libro della Sapienza, scritte sulla Sapienza (7,21-30):
“Tutto ciò che è nascosto e ciò che è palese io lo so, poiché mi ha istruito la sapienza, artefice di tutte le cose.
In essa c’è uno spirito intelligente, santo, unico, molteplice, sottile, mobile, penetrante, senza macchia, terso, inoffensivo, amante del bene, acuto, libero, benefico, amico dell’uomo, stabile, sicuro, senza affanni, onnipotente, onniveggente e che pervade tutti gli spiriti intelligenti, puri, sottilissimi.
La sapienza è il più agile di tutti i moti; per la sua purezza si diffonde e penetra in ogni cosa. E` un’emanazione della potenza di Dio, un effluvio genuino della gloria dell’Onnipotente, per questo nulla di contaminato in essa s’infiltra.
E` un riflesso della luce perenne, uno specchio senza macchia dell’attività di Dio e un’immagine della sua bontà. Sebbene unica, essa può tutto; pur rimanendo in se stessa, tutto rinnova e attraverso le età entrando nelle anime sante, forma amici di Dio e profeti.
Nulla infatti Dio ama se non chi vive con la sapienza. Essa in realtà è più bella del sole e supera ogni costellazione di astri; paragonata alla luce, risulta superiore; a questa, infatti, succede la notte, ma contro la sapienza la malvagità non può prevalere”.
Il Vangelo è questa sapienza di Dio che pervade ogni cosa, senza mai essere pervaso da nessuna cosa.
Il Vangelo trasforma ogni storia, senza mai poter essere trasformato dalla storia. Quando la storia trasforma il Vangelo è il segno che il Vangelo è morto.
I Santi sono la sapienza vivente del Vangelo e la vita perenne della sapienza. In loro vive il Vangelo, perché vive la Sapienza. In loro vive la Sapienza perché vive lo Spirito Santo, origine e fonte di ogni Sapienza.
Essi aggiornano la storia al Vangelo e rendono il Vangelo vivo e vivente nel cuore di ogni uomo.
Questa verità è giusto che ognuno la faccia sua propria verità e non confonda mai l’incarnazione del Vangelo nella storia con l’essenza stessa del Vangelo, o con la sua forma. Questo però richiede che in noi abiti e dimori la Sapienza, perché solo con la sua luce viva riusciamo a distinguere essenza eterna del Vangelo e sue forme storiche, necessarie ad un uomo storico che vive in un tempo ma che non servono più ad un altro uomo che vive in un altro tempo.
La santità del Vangelo esige che lo si mantenga sempre in vita e lo si mantiene in vita se si aggiorna la storia con il Vangelo.
Oggi possiamo affermare che in molti cuori il Vangelo è come morto. Giace in essi sotterrato, sigillato, chiuso ermeticamente.
La nostra vocazione, quella del Movimento Apostolico, è quella di risuscitare il Vangelo, di farlo ritornare in vita in ogni cuore, nel mondo intero.
È una missione esigente, impegnativa, coraggiosa. Perché la si possa svolgere e attuare con efficacia è necessario prima di ogni cosa che il Vangelo risusciti e viva con tutta la sua potenza di fede, di carità e di speranza nei nostri cuori.
Il missionario è colui che è risorto al Vangelo perché il Vangelo è risorto nel suo cuore. Può compiere la missione perché può mostrare il Vangelo al vivo, nello splendore della sua potenza di verità, di grazia, di santità.
[3]GRAZIA  A VOI E PACE DA DIO NOSTRO PADRE E DAL SIGNORE GESÙ CRISTO.
L’AUGURIO DI SALUTO È QUELLO DI SEMPRE.
PAOLO VUOLE CHE FILÈMONE E TUTTI  QUELLI CHE SI RADUNANO NELLA SUA CASA SIANO RICOLMI DELLA GRAZIA E DELLA PACE.
LA GRAZIA E LA PACE SONO DONO DI DIO E DI CRISTO GESÙ.
DIO È NOSTRO PADRE. CRISTO GESÙ È IL SIGNORE.
Sappiamo cosa è la grazia. Sappiamo cosa è la pace. La grazia è il dono che ci redime, ci giustifica, ci salva, ci santifica, ci spinge a camminare nella via della verità e della giustizia.
La grazia è il dono della santificazione dell’uomo: dal primo istante della sua conversione fino all’ultimo momento della sua santificazione. Ogni cosa che il cristiano fa, ogni opera di bene per sé e per gli altri è opera della grazia divina.
Questa grazia deve essere sempre nel cuore e deve abbondare. Nella grazia si cresce. Nella grazia si portano frutti di vita eterna.
Chi non cresce nella grazia non sarà mai sufficientemente forte per operare tutto il bene che Dio ha disposto per lui; né mai sufficientemente forte per vincere la tentazione che segue il cristiano come l’ombra segue un corpo.
Nella grazia si cresce con la preghiera, ma anche vincendo il male e facendo tutto il bene. Ogni atto di amore, nella verità e nella giustizia, per il Signore e per gli uomini ci fa crescere in grazia. Ogni tentazione non superata ci fa decrescere nella grazia e quindi ci rende più deboli per le successive tentazioni.
Nell’abbondanza della grazia si è capaci di seguire ogni mozione dello Spirito Santo. Senza la grazia si segue la carne e le sue passioni ingannatrici.
La pace invece è la giusta relazione di figliolanza e di fratellanza ritrovata con Dio e con gli uomini, frutto della redenzione soggettiva che si è compiuta dentro di noi.
La pace, come la grazia, deve crescere in noi. Crescendo si è sempre pronti a vivere relazioni di pace con il mondo intero, compreso il creato.
La regola unica, santa, sempre giusta, sempre attuale della pace è il Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo.
Cristo Gesù è il dono della pace di Dio al genere umano e al mondo intero. La Parola di Gesù, il suo Santo Vangelo, compreso nella sapienza dello Spirito Santo, l’unica norma, l’unica regola della pace.
Ogni altra norma, o regola, per la costruzione della pace sulla terra non regge, perché non è secondo giustizia e verità, non sgorga dal cuore di Cristo e dal suo amore crocifisso per ogni uomo.
Dio è Padre. Per generazione Dio è Padre di una sola Persona: il Suo Verbo Unigenito.
Per adozione è Padre di tutti quelli che sono stati rigenerati a nuova vita nelle acque del battesimo e sono divenuti in Cristo un solo corpo. Noi siamo figli di Dio nel Figlio Suo Gesù Cristo.
Per creazione è Padre di ogni uomo e dell’universo intero. Niente esiste se non perché creato da Lui. Niente esiste se non perché da Lui è stato voluto e chiamato all’esistenza.
La creazione dal nulla, per volontà di Dio, per la sua Parola onnipotente, è verità centrale della nostra fede.
“Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili ed invisibili”. Questa è la nostra fede.
Gesù è il Signore. È Signore perché Dio. La Signoria sull’universo intero gli spetta per diritto divino, essendo Lui il Creatore, nell’unità del Padre e dello Spirito Santo, dell’universo.
È Signore però anche nella sua umanità, a causa del sacrificio che ha offerto al Padre sulla croce.
La Signoria alla Sua Umanità è la gloria che il Padre gli ha dato a motivo della sua umiliazione.
Lui si è umiliato per amore del Padre. Il Padre lo ha costituito Signore nella sua umanità. Come vero Uomo egli è Signore dell’universo intero. È anche giudice del mondo.
Anche questa è essenza e fondamento, sostanza e forma della nostra fede.
[4]RENDO SEMPRE GRAZIE A DIO RICORDANDOMI DI TE NELLE MIE  PREGHIERE,
Paolo, lo abbiamo già notato nelle altre Lettere, ha una relazione particolare con tutti i destinatari delle sue Lettere.
Egli vive in perenne rendimento di grazia per loro.
Loda, benedice, ringrazia Dio per loro.
Li presenta al Signore nelle sue preghiere.
Poiché il cuore di Paolo è perennemente elevato in Dio, perennemente sono elevati in Dio quanti hanno avuto con lui una qualche relazione di grazia e di verità.
Ricordarsi nelle preghiere degli altri, ringraziare Dio per gli altri, è vera comunione di amore, nella verità e nel sacrificio di Cristo Gesù.
Cristo Gesù nel Cielo vive il suo perenne sacrificio di preghiera, di lode, di ringraziamento, di impetrazione di grazia e di misericordia per tutti gli uomini, per i quali ha offerto il suo sacrificio di salvezza.
I discepoli di Gesù, in Cristo, nella sua grazia e nella sua verità, vivono il suo stesso sacrificio di lode e di benedizione, di ringraziamento e di impetrazione di ogni grazia per i loro fratelli. Questa comunione nella preghiera è la più alta forma della carità. Se ad essa si aggiunge l’offerta della nostra vita, noi diamo proseguimento perfetto al sacrificio di Cristo. Noi compiamo ora ciò che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo, che è la Chiesa.
È questo il vero modo di relazionarci con gli altri, con il mondo intero.
In Cristo, per Cristo, con Cristo siamo chiamati a partecipare alla redenzione del mondo, di ogni uomo.
Come si partecipa alla redenzione del mondo se non nella stessa forma e maniera in cui la ha operata Cristo Gesù?
Cristo Gesù la ha operata pregando e offrendo, pregando ed offrendosi a Dio, donando il suo corpo, la sua vita sul legno della croce.
Il cristiano vi partecipa pregando costantemente per i suoi fratelli, offrendo per loro la vita a Dio, perché il Signore abbia di loro misericordia, pietà e li ricolmi con la sua grazia e la sua bontà.
Questa via bisogna inculcare ad ogni discepolo di Gesù. Se non si dona la vita per i fratelli, se non si prega per loro, nessuna redenzione sarà mai possibile. Quella di Cristo è già pronta per loro, perché sia efficace dobbiamo aggiungere la nostra preghiera e la nostra offerta.
Paolo offre a Dio la sua preghiera e l’offerta concreta di se stesso per la redenzione dei fratelli e la salvezza si compie. Molte anime per la sua opera si convertono a Dio, lo riconoscono come unico loro Signore.
[5]PERCHÉ SENTO PARLARE DELLA TUA CARITÀ PER GLI ALTRI E DELLA  FEDE CHE HAI NEL SIGNORE GESÙ E VERSO TUTTI I SANTI.
Si prega e si offre la vita perché i fratelli si convertono.
Si ringrazia il Signore invece per ogni opera buona che i fratelli compiono. Si ringrazia il Signore perché ogni opera buona fatta da noi o dai fratelli è un dono del suo amore.
Dio solo è buono. Dio solo è fonte di ogni bene. Dio solo è giusto. Solo Lui fonte di ogni giustizia che si trova e si vive nel cuore dell’uomo.
Solo per sua grazia noi possiamo amare, volere il bene, compiere opere buone, rispondere alla grazia.
Per grazia si vive nella grazia e per grazia si cresce in grazia, per grazia si opera secondo la grazia, per grazia si producono frutti di grazia e di misericordia.
Per questo motivo bisogna ringraziare il Signore. Lo si ringrazia riconoscendolo come Padre di ogni opera di bene che la sua grazia ha operato e generato in noi.
Paolo ringrazia Dio perché in Filèmone la grazia opera frutti di carità e di fede. Lo ringrazia perché la grazia di Dio conserva Filèmone nella fede di Gesù Cristo. Lo ringrazia perché la carità non è solo verso Dio, ma anche verso i fratelli. D’altronde nessuna carità verso Dio sarebbe vera, autenticamente santa, se non è anche vera, autentica carità verso il fratelli.
Filèmone è uomo di carità e di fede. Con la fede crede nella verità di Cristo, nel suo Messaggio di Salvezza, nella Sua Parola apportatrice di salvezza. Con la carità traduce in atti concreti tutto l’amore che Cristo Gesù ha riversato nel suo cuore.
La prima forma della carità è la sottomissione a Dio Padre e ci si sottomette a Dio ascoltando la sua Parola e mettendola in pratica.
In tal senso fede e carità sono un unico principio di amore. Senza la fede, la carità non sarebbe vera; senza la carità la vera fede che è in noi sarebbe morta.
Fede e carità devono essere un unico principio di operazione del cristiano. La fede detta la regola della carità; la carità detta la regola della vera fede.
Ama chi crede in ogni Parola che è uscita dalla bocca di Cristo e la mette in pratica. Ha fede chi trasforma in carità ogni Parola che Gesù ha vissuto per noi e ci ha insegnato come viverla.
La fede di Cristo è vissuta tutta e interamente nel suo atto di carità sulla croce.
La più alta forma di carità e di fede sulla croce diventano un solo, unico, inseparabile sacrificio: sacrificio di fede, sacrificio di carità.
In Filèmone fede e carità sono già una bellissima realtà e per questo Paolo ringrazia il Signore.
[6]LA TUA PARTECIPAZIONE ALLA FEDE DIVENTI EFFICACE PER LA CONOSCENZA DI TUTTO IL  BENE CHE SI FA TRA VOI PER CRISTO.
Si è già detto precedentemente che nella fede, nella grazia, nella carità bisogna costantemente crescere.
Paolo vuole che la partecipazione di Filèmone alla fede sia sempre efficace. È efficace se ogni giorno diventa più efficace, cioè più operosa.
Questa partecipazione alla fede si fa efficace se c’è una comunione di conoscenza di tutto il bene che nella comunità si fa per Cristo.
Il fine del bene è sempre Cristo. Il bene si fa per grazia di Cristo Gesù. Il bene, ogni bene si fa in Cristo, ma anche si fa a Cristo, al suo corpo, ad ogni altro uomo, perché diventi corpo di Cristo, o perché Cristo con lui si è identificato.
Far conoscere il bene che si fa, senza dire come lo si fa, o chi lo fa, per non incorrere nel peccato della superbia, o della vanagloria, aiuta gli altri a crescere nel bene, a vivere una più grande carità.
Su questo penso noi cristiani dovremmo essere più incisivi, più aperti, più comunionali.
Dovremmo spronarci gli uni gli altri ad amare di più il Signore servendo l’uomo, ad avere più fede in Dio ascoltando e vivendo ogni sua Parola.
In questo ci può essere di sprone, di incitamento, di invito, sia la fede che la carità dei fratelli.
Per questo è giusto, sempre conservando la carità evangelica e la stessa umiltà di Cristo Gesù, che i fratelli sappiamo tutto di tutti, tutto il bene che uno fa lo venga a conoscere l’altro, perché anche l’altro si impegni a realizzare una più grande fede e una più forte e più intensa carità.
Su questo argomento molte volte non si hanno idee chiare. Si pensa che tutto debba essere nascosto, taciuto.
Il bene che si fa non deve essere motivo di esaltazione, di superbia, di vanagloria, di umiliazione del fratello. Questo è senz’altro vero.
Il bene che si fa è opera e come tale non deve restare nascosto. C’è una giusta predicazione e manifestazione del bene che deve essere fatta in modo che i nostri fratelli nella fede si spronino reciprocamente ad avere una fede efficace, più efficace nelle opere buone.
La comunità ha bisogno di essere sostenuta dalla carità e dall’amore dei fratelli. Ha bisogno di trovare nella carità e nell’amore degli altri la forza, il coraggio, la determinazione, la giusta volontà per perseverare sempre in ogni opera buona.
Il pensiero di Paolo è ora chiaro: ogni cristiano è chiamato a partecipare alla fede. Si partecipa alla fede attraverso la vita di carità, le opere di misericordia.
Quando carità e fede, fede e carità si uniscono la fede dona forza alla carità e la carità dona vigore alla fede.
La singola persona potrebbe rischiare di perdersi, arenarsi, sconfortarsi, abbattersi, restare schiacciata dal bene che si deve fare, pensandosi sola nel dover affrontare ogni opera di carità.
Invece conoscendo il bene dei fratelli, si riceve quella energia sempre nuova che spinge sempre ad andare avanti.
Non so se il caso lo si è già trattato in qualche commento. Quando ci si pensa soli, si rischia di cadere nella delusione di Elia. Anche Elia si sentiva solo nel difendere la fede nel vero Dio.
Chi si sente solo, cade nello smarrimento, si abbatte, rinuncia, si ritira. Troppo grande è il bisogno, troppo piccolo è l’apporto del singolo, quasi un niente.
Il Signore rassicura Elia che non è solo e lo rimanda a continuare la sua missione in mezzo al suo popolo.
Il racconto merita tutta la nostra attenzione. Si trova nel capitolo 19 del Primo Libro dei Re.  Elia aveva sfidato e abbattuto sul monte i falsi profeti del Dio Baal. Inizia così il successivo racconto:
“Acab riferì a Gezabele ciò che Elia aveva fatto e che aveva ucciso di spada tutti i profeti. Gezabele inviò un messaggero a Elia per dirgli: Gli dei mi facciano questo e anche di peggio, se domani a quest’ora non avrò reso te come uno di quelli.
Elia, impaurito, si alzò e se ne andò per salvarsi. Giunse a Bersabea di Giuda. Là fece sostare il suo ragazzo. Egli si inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto un ginepro. Desideroso di morire, disse: Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri.
Si coricò e si addormentò sotto il ginepro. Allora, ecco un angelo lo toccò e gli disse: Alzati e mangia! Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve, quindi tornò a coricarsi. Venne di nuovo l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: Su mangia, perché è troppo lungo per te il cammino.
Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb. Ivi entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco il Signore gli disse: Che fai qui, Elia?.
Egli rispose: Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita.
Gli fu detto: Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore. Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero.
Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco, sentì una voce che gli diceva: Che fai qui, Elia?
Egli rispose: Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita.
Il Signore gli disse: Su, ritorna sui tuoi passi verso il deserto di Damasco; giunto là, ungerai Hazaèl come re di Aram. Poi ungerai Ieu, figlio di Nimsi, come re di Israele e ungerai Eliseo figlio di Safàt, di Abel-Mecola, come profeta al tuo posto. Se uno scamperà dalla spada di Hazaèl, lo ucciderà Ieu; se uno scamperà dalla spada di Ieu, lo ucciderà Eliseo.
Io poi mi sono risparmiato in Israele settemila persone, quanti non hanno piegato le ginocchia a Baal e quanti non l’hanno baciato con la bocca.
Partito di lì, Elia incontrò Eliseo figlio di Safàt. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il decimosecondo. Elia, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello. Quegli lasciò i buoi e corse dietro a Elia, dicendogli: Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò. Elia disse: Va’ e torna, perché sai bene che cosa ho fatto di te.
Allontanatosi da lui, Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con gli attrezzi per arare ne fece cuocere la carne e la diede alla gente, perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elia, entrando al suo servizio”.
La forza della comunità cristiana è la sua comunione di fede e di carità, ma anche di conoscenza delle opere che si compiono.
La forza del singolo è la comunità. La forza della comunità è il singolo. La comunità nel singolo e il singolo nella comunità in una perfetta comunione di fede, di carità, di conoscenza, di rispetto, di gareggiamento, di superamento di ogni individualismo, in modo che tutta la comunità viva nel singolo e il singolo viva tutto nella comunità.
Quando questa armonia sarà realizzata in una comunità, questa comunità manifesta il Signore, lo rende presente.
Questa comunità è via di salvezza e di redenzione per il mondo intero.
È questa la nostra vocazione.
[7]LA TUA CARITÀ È STATA PER ME MOTIVO DI GRANDE GIOIA E CONSOLAZIONE, FRATELLO, POICHÉ IL CUORE DEI CREDENTI È  STATO CONFORTATO PER OPERA TUA.
Paolo è Apostolo di Gesù Cristo. Egli è posto in alto nella comunità. È suo pastore e guida, suo maestro, modello ed esempio in ogni cosa.
Anche lui è uomo. Anche lui deve sentirsi incoraggiato dai frutti che il Vangelo produce nel mondo.
Lo stile della comunità delle origini era proprio questo. Si raccontava quanto il Signore operava per loro tramite, perché tutti si sentissero incoraggiati, spronati a non desistere dalle opere buone.
Leggiamo negli Atti degli Apostoli (14,24-28), dopo il primo viaggio missionario compiuto da Paolo:
“Attraversata poi la Pisidia, raggiunsero la Panfilia e dopo avere predicato la parola di Dio a Perge, scesero ad Attalìa; di qui fecero vela per Antiochia là dove erano stati affidati alla grazia del Signore per l’impresa che avevano compiuto.
Non appena furono arrivati, riunirono la comunità e riferirono tutto quello che Dio aveva compiuto per mezzo loro e come aveva aperto ai pagani la porta della fede. E si fermarono per non poco tempo insieme ai discepoli”.
Paolo conosce la carità che anima il cuore di Filèmone. Questa carità vissuta, praticata, procura a Paolo grande gioia e consolazione.
Importante è scoprire il motivo. È questo che spiega ogni cosa. Il motivo non può essere che uno: il cuore dei credenti è stato confortato per opera tua.
Filèmone praticando la carità con cuore generoso, senza riserve, ha fatto sì che i suoi fratelli di fede si sentissero confortati, incoraggiati, spronati a credere con più fede nel Signore.
Quando la fede produce frutti di carità, chi li riceve o chi li vede, si sente più forte sia nella fede che nella carità.
È più forte perché vede la forza della fede che agisce. La nostra fede non è una parola sterile, vuota, un suono che irrompe nell’aria e basta.
La nostra fede è potenza di salvezza, è carità che commuove, è opera che convince, è santità che alimenta altra santità, è dono del proprio cuore ai fratelli perché in esso possano trovare sicurezza, certezza, speranza, consolazione, gioia, conforto.
Vedere l’altro che ama, avvertire e sentire il suo amore per noi aiuta la nostra fede, spinge la nostra carità, favorendo la crescita di tutta la comunità cristiana.
A volte basta un solo gesto d’amore perché tutto in una comunità ricominci a vivere.
Paolo vede la carità di Filèmone e l’aiuto che essa dona alla comunità nella sua vita di fede e di carità e per questo prova gioia e consolazione, grande gioia e consolazione.
Questa è la vera pastorale sul modello della quale dobbiamo ridare vita a tutte le nostre comunità.
Se riusciamo a fare questo tipo di pastorale, il nome di Cristo Gesù sarà di sicuro creduto nel mondo e il suo Vangelo amato tra i popoli.
Il Vangelo è amore. L’amore è opera. L’opera si vede. L’amore si vede. Chi vede crede, chi non vede, non crede.
Noi siamo chiamati a far vedere l’amore di Cristo al mondo intero. Come? Trasformando la nostra vita in un gesto perenne di amore.
RICHIESTA IN FAVORE DI ONESIMO
[8]PER QUESTO, PUR AVENDO IN CRISTO PIENA LIBERTÀ DI COMANDARTI CIÒ  CHE DEVI FARE,
Fino adesso Paolo si è limitato a descrivere ciò che avviene nella comunità ad opera di Filèmone e della sua grande carità.
È questo lo stile di Paolo. Si presenta, saluta, prega, ringrazia, annota il bene che si fa in una comunità, o anche il male, e solo in seguito passa a trattare il motivo per cui si è sentito in dovere di scrivere la Lettera.
In nessun caso bisogna pensare che Paolo abbia prima voluto accattivarsi la benevolenza di Filèmone, per poi chiedere un grande favore.
Chi conosce Paolo sa che questo non è il suo stile e soprattutto non è per lui metodo evangelico, né manifestazione del suo ministero apostolico.
L’autorità di Paolo non ha bisogno di preamboli. Egli sa chiedere e chiede ogni qualvolta ce bisogno, senza passare per preliminari inutili, vani, ingombranti.
Quanto prima ha detto è la pura verità. È verità che sta per se stessa. Noi lo abbiamo visto: è una bellissima pagina di pastorale sulla conduzione della comunità.
Cosa dice esattamente in questo versetto?
Dice che lui è apostolo di Gesù Cristo. Essendo apostolo ha un potere che gli viene da Cristo, che lo esercita in Cristo, che lo vive per Cristo.
Questo potere consiste nel dire esattamente qual è la volontà di Dio, conosciuta nella pienezza di verità, per opera dello Spirito Santo che lo illumina, lo guida, lo conduce verso la verità tutta intera.
Nella verità Paolo è libero. Egli è libero di dire sempre la verità di Cristo Gesù.
La verità di Cristo egli la può dire in ogni momento. Per questo egli è stato costituito apostolo di Cristo Gesù: per insegnare ad ogni uomo come si segue Cristo, come Cristo si serve e si ama nella sua Persona, ma anche nei fratelli.
La libertà in Paolo non è assoluta. Egli non può dire la verità quando vuole, come vuole, a chi vuole.
Se è vero apostolo di Cristo Gesù, deve dire la verità quando lo Spirito vuole, a chi lo Spirito vuole che sia detta, nelle forme e nelle modalità che lo Spirito suggerisce al cuore e all’intelligenza.
Come lo Spirito Santo conduce gli Apostoli verso la verità tutta intera, così lo stesso Spirito deve condurli nella modalità giusta e santa perché la verità sia accolta, messa in pratica, trasformata in frutto di vita e di salvezza.
La forma, la modalità è essenziale alla verità, non è indifferente alla verità.
Questo legame intrinseco tra verità e modalità deve essere sempre osservato, conservato, mantenuto.
Chi lo può conservare in noi è lo Spirito Santo. Se manca in noi lo Spirito che opera, e lo Spirito opera sempre nella nostra santità, noi non conserviamo più giusto e santo questo principio. I mali che si potrebbero produrre in un cuore potrebbero essere anche incalcolabili.
Questo è sempre avvenuto nella storia della Chiesa. È avvenuto ogni qualvolta un uomo si fa forte della verità, ma dimentica che le modalità sono spesso più essenziali della stessa verità che si vuole inculcare.
Per questo ogni uomo di Dio è obbligato a due cose: a lasciarsi condurre dallo Spirito in una verità sempre più grande; a lasciarsi suggerire da Lui le giuste modalità attraverso cui la verità conosciuta, da attuare, possa essere data ad un cuore perché la viva e cresca di grazia in grazia, fino alla pienezza della sua santificazione. Quest’obbligo lo può osservare però ad una sola condizione: che cresca ogni giorno in santità. È la santità che consente allo Spirito di abitare nel suo cuore. È la santità che toglie dal cuore tutti gli impedimenti di peccato che fanno sì che si sia sordi alla sua mozione, duri ad ogni suo suggerimento di modalità e di forme per la comunicazione della verità.
Paolo conosce sempre la giusta modalità perché una grande santità governa la sua anima e dimora nel suo cuore. Egli può essere vero, fedele, ascoltatore dello Spirito di Dio.
Questo principio spesso è ignorato. Si pensa che sia in ragione dell’ufficio o del ministero che uno sia capace di verità e di sane modalità.
Non è in ragione né dell’ufficio, né del ministero. È invece questione di santità e di Spirito Santo.
Il carisma del santo discernimento, del discernimento certo, non è dato al ministero. È dato al ministro in ragione della sua santità. Il discernimento è opera dello Spirito che abita in lui. Più grande è la santità, più grande sarà vero e giusto il discernimento.
Senza santità non può esserci vero discernimento, né giusto, né certo, né assoluto.
Solo per il Papa c’è il carisma dell’infallibilità. Ma esso è sottoposto alla legge che definisce e stabilisce i casi in cui l’infallibilità è possibile.
Negli altri casi è la santità l’unica via, via obbligata, per conoscere la verità tutta intera, per sapere le giuste modalità di intervento nella storia concreta degli uomini.
Libertà di dire e modalità per dire devono sempre essere esercitate nello Spirito Santo. Questa è la legge che governa l’agire dell’apostolo di Gesù Cristo.
[9]PREFERISCO PREGARTI IN NOME DELLA CARITÀ, COSÌ QUAL IO SONO, PAOLO, VECCHIO, E ORA ANCHE PRIGIONIERO PER CRISTO GESÙ;
La modalità di cui Paolo si serve in questo caso è la carità, l’amore.
La modalità è la preghiera, la richiesta umile, senza pretese.
La modalità è l’abbassamento.
La modalità è quella di farsi amico dell’amico e parlargli da amico.
La modalità è la parola detta al cuore e non più alla volontà perché obbedisca.
La modalità è lasciare all’altro libertà nel prendere la decisione. È l’altro che decide. Decide per amore. Decide dal profondo del suo cuore. Decide perché conquistato dalla carità di Paolo, che è carità di Cristo, che è carità di Dio Padre, nello Spirito Santo. La carità è la suprema legge per il cristiano, la suprema verità, la verità assoluta.
La carità è la nostra vocazione. Siamo chiamati ad amare l’altro allo stesso modo in cui lo ha amato Cristo.
Cristo lo ha amato appendendo il suo corpo sulla croce, offrendo la sua vita per lui. La sua vita al posto della vita del fratello. Questo è stato l’amore di Cristo Gesù.
Dinanzi alla legge della carità, che è assoluta, senza riserve, dono totale della nostra vita a Cristo, perché Cristo continui ad amare dall’alto della croce, il cristiano si scopre seguace di Cristo, o lontano da lui.
La carità manifesta la grandezza del nostro amore. Il nostro amore è grande, tanto grande quando è grande il dono che sappiamo fare di noi stessi ai fratelli.
Non solo Paolo fa appello alla carità, mostra se stesso come esempio vivente di carità.
Lui è ormai vecchio. Nella carità è invecchiato. È invecchiato esercitando nel mondo la carità di Cristo. Lui è vissuto per fare di carità il suo corpo, la sua anima, il suo spirito.
Lui è vissuto per lasciarsi consumare, invecchiare dalla carità. La carità lo ha reso vecchio, lo ha consumato, lo ha esaurito.
Tutto egli ha speso di sé per la carità, per amare, per essere di aiuto e di salvezza agli altri, al mondo intero.
In niente egli si è risparmiato. Tutte le sue energie sono state spese per la carità. Anche lui or può dire come Cristo sulla croce: consummatum est.
Il sacrificio è stato consumato, arso, bruciato dalla carità. Il sacrificio consumato è il suo corpo, la sua anima, il suo spirito. Tutto di lui è stato fatto un sacrificio d’amore per la salvezza dei suoi fratelli.
Anche il momento attuale è nella grande carità. Egli è privo della sua libertà. È prigioniero degli uomini, ma prima ancora è prigioniero dell’amore di Cristo Gesù.
È prigioniero degli uomini perché si è fatto volontariamente prigioniero di Cristo. Se non fosse prigioniero di Cristo per amore, mai sarebbe stato fatto prigioniero degli uomini.
La carità ha portato Cristo sulla croce, lo ha fatto prigioniero degli uomini.
La carità ha condotto Paolo in carcere, lo ha fato prigioniero dei suoi fratelli da salvare.
Filèmone è discepolo di Cristo, è discepolo di Paolo. Sarà anche lui vero discepolo se osserverà la legge della carità.
Come si vive la carità, Paolo glielo ha prospettato ponendo se stesso dinanzi ai suoi occhi.
Ora Filèmone sa cosa è la carità. Sa anche chi è il vero discepolo di Cristo Gesù, perché sa chi è Cristo Gesù.
A lui, solamente a lui, la scelta di seguire Cristo, o di non seguirlo. Nessuno glielo potrà imporre.
Anche lui dovrà ora scandagliare il suo cuore e trovare in esso le ragioni di un amore più grande. Queste ragioni non potrà trovarle se non nell’agire di Cristo, nella visione che Paolo gli ha prospettato di sé in brevissimi accenni.Se lui saprà fare questo, non soltanto continuerà ad essere seguace di Cristo Gesù, potrà dare al mondo intero una nuova via della carità e questa nuova via trasformerà il mondo. A volte infatti è sufficiente che uno solo apra una via nuova di amare, perché il mondo esca dal suo sonno di morte e si incammini verso la pienezza della verità da cui lo chiama e lo attende il suo Maestro e Signore.
È questa modalità veramente sublime. Si lascia all’altro la decisione, dopo aver messo il cuore dinanzi all’unica decisione possibile.
Si prospetta all’altro una via universale di salvezza e la si prospetta come via per amare secondo verità Cristo e in Cristo i fratelli, alla maniera di Cristo Gesù.
Solo lo Spirito Santo può operare simili cose. Quando lo Spirito muove un cuore, illumina una mente, guida la volontà, di simili cose se ne operano tante, tantissime.
Il mondo è cambiato dallo Spirito Santo che agisce attraverso un uomo che ama veramente Cristo Gesù.

Publié dans:Lettera a Filemone |on 4 février, 2013 |Pas de commentaires »

Toronto Icon of St. Paul (stained glass is reflected on the image from the chapel)

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L’INNO DELL’APOSTOLO PAOLO ALLA CARITÀ ATTUALIZZATO DA UN GIORNALISTA

http://www.luigiaccattoli.it/blog/?page_id=1044

L’INNO DELL’APOSTOLO PAOLO ALLA CARITÀ ATTUALIZZATO DA UN GIORNALISTA

(ANCORA L’INNO ALLA CARITÀ NELLA SECONDA LETTURA DI  DOMENICA, IO NON MI STANCO MAI DI LEGGERLO)

CASTELVENERE – SABATO 7 FEBBRAIO 2009

1 CORINTI 13, 1-13

(DAL BLOG  DI LUIGI ACCATTOLI)

-1 Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. 2 E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. 3 E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova. 4 La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, 5 non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6 non gode dell`ingiustizia, ma si compiace della verità. 7 Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. 8 La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. 9 La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. 10 Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. 11 Quand`ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l`ho abbandonato. 12 Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch`io sono conosciuto. 13 Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!
Non faremo una lettura esegetica: non è affar mio. Faremo una lettura da cristiani comuni. Qui abbiamo il vescovo e il parroco, che potrebbero dirci di più. Noi cristiani comuni facciamo una lettura dal punto di vista dell’uomo d’oggi, nella sua lingua media e nella sua media cultura. Ci chiediamo a che cosa penserebbe oggi l’apostolo Paolo dicendo “la carità è paziente, è benigna”. Allora ammaestrava i cristiani di Corinto che si cavavano gli occhi animatamente gareggiando per la leadership della comunità, oggi magari sarebbe colpito dalla sfida tra cristiani che si vituperano con altrettanta animazione a invettive in crociate: “voi di destra, voi di sinistra…”. Sarebbe colpito da questo e da molto altro. Proviamo a chiederci da cosa, seguendo l’inno parola per parola. Per gente semplice quale noi siamo l’inno alla carità è un testo centrale del Nuovo Testamento, come il Simposio di Platone, con il suo elogio dell’eros, è un testo centrale dell’umanesimo greco. E come l’enciclica Deus caritas est di papa Benedetto è un testo centrale per il cristianesimo di oggi. E come le parole di Teresa di Lisieux “Nel cuore della Chiesa mia madre io voglio essere l’amore” sono un dono capitale per ognuno di noi. Teresa e Benedetto ci dicono insieme l’attualità dell’inno di Paolo.
L’inno, come si dice a scuola, lo possiamo dividere in tre parti. E’ detto “inno” perchè ha l’afflato di un canto, di una poesia. E’ uno dei testi in cui Paolo si fa poeta.
Chiameremo la prima parte: il primato della carità, versetti 1-3.
La seconda la chiameremo: natura e opere della carità, versetti 4-7.
La terza: la carità dura per sempre, ovvero l’eternità dell’amore, versetti 8-13.
Siamo probabilmente nel 53 dopo Cristo quando Paolo scrive la Prima lettera ai Corinti: cioè appena venti o quindici anni dopo che i primi cristiani hanno fatto l’esperienza della morte e della resurrezione di Cristo. Prima della redazione dei Vangeli. In questa lettera è la narrazione dell’ultima cena, la prima che sia giunta a noi (capitolo 11).
Incredibile tempismo di Paolo. L’Anno Paolino ci provoca a riflettere sulla posizione principe di Paolo nel Nuovo Testamento.
In questa lettera Paolo parla a una comunità cristiana con forti divisioni interne, simile alla Chiesa di oggi; inserita in una società libertaria, che amava ostentare l’attrazione dei corpi, proprio come la nostra. Tra i cristiani di Corinto c’è “uno che convive con la moglie di suo padre” (5, 1). E’ in questa lettera che Paolo dice: “Sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo” (4, 15). E’ qui che leggiamo le parole consolanti per ogni coppia cristiana: “Il marito non credente viene reso santo dalla moglie credente e la moglie non credente viene resa santa dal marito credente” (7, 14). Qui ancora leggiamo: “Mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno” (9, 22). E’ qui il motto “Se Cristo non è risorto, vuota è allora la nostra predicazione” (15, 14). Nel vasto mondo di questa lettera vi è come un culmine, che è il nostro inno alla carità. Esso sgorga dal cuore di Paolo in risposta alla diatriba di quella rissosa comunità, lacerata dalla contesa tra i portatori dei carismi di maggiore richiamo: il dono delle lingue, quello delle guarigioni, quello dei miracoli, quello della conoscenza, quello della profezia. Di fronte a tale contesa Paolo dice: “desiderate i carismi più grandi” e subito aggiunge che il più grande è l’amore, “la via più sublime” (12, 31).
1 SE ANCHE PARLASSI LE LINGUE DEGLI UOMINI E DEGLI ANGELI, MA NON AVESSI LA CARITÀ, SONO COME UN BRONZO CHE RISUONA O UN CEMBALO CHE TINTINNA.
Che cos’è questa “carità” di cui parla, dopo aver detto “vi mostrerò la via più sublime”? E’ un dono, è una via, ma è anche molto di più: è l’amore, è Dio. Il Dio di Gesù Cristo che un’altra “lettera” del Nuovo Testamento, la Prima di Giovanni, qualifica come “amore”: “Dio è amore: chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (4, 16).
Dobbiamo dunque dire “carità”, o dobbiamo dire “amore”? La parola dei testi originali greci è la stessa: “agape”. Noi useremo ambedue le parole italiane, ma diciamo subito che per sentire la forza piena di questo inno, il trasporto con cui esso erompe dal cuore di Paolo, è utile provare a leggerlo mettendo la parola “amore” dove la traduzione della CEI mette “carità”. Perchè nella cultura nostra “carità” e “amore” non sono la stessa cosa.
“Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli”: cioè ogni linguaggio, anche quelli sconosciuti agli umani. Mi viene in mente Tolkien, l’autore de Il Signore degli anelli, che fa parlare stregoni e orchetti, hobbit e nani, elfi e kent, uomini selvaggi e troll e ha la bellissima espressione: “Tutte le stirpi dotate di parola”. Ecco dunque, in linguaggio d’oggi, “le lingue degli uomini e degli angeli”.
2 E SE AVESSI IL DONO DELLA PROFEZIA E CONOSCESSI TUTTI I MISTERI E TUTTA LA SCIENZA, E POSSEDESSI LA PIENEZZA DELLA FEDE COSÌ DA TRASPORTARE LE MONTAGNE, MA NON AVESSI LA CARITÀ, NON SONO NULLA.
La carità vale più della profezia, più della conoscenza e più della fede, addirittura più dei miracoli. Qui per certo occorre sostare. Per capire bene.
La fede non è al di sopra di tutto? No, ci dice Paolo, al di sopra c’è la carità, cioè l’amore, cioè Dio. E se anche la fede fosse clamorosamente grande, da operare segni straordinari, non eguaglierebbe comunque l’amore.
Perché la fede mi porta a Dio, mi congiunge al Signore; l’amore invece è Dio: ecco perché è più in alto.
Ed ecco perché è meglio leggere “amore” dove è scritto “carità”.
Ma possiamo usare la stessa parola per dire Dio (Dio è amore) e per dire il dono che ci viene da Dio (Dio ci dona il suo amore) e per dire infine che quel dono siamo chiamati a trasmetterlo ai fratelli (amare gli altri come Dio li ha amati)? Possiamo: questa è la meraviglia cristiana!
C’è come un’attrazione, una calamita che ci destina, ci chiama, ci attrae verso Dio per questa via “sublime”: egli che è amore viene a noi con il suo amore e ci insegna ad amare. Purchè noi accettiamo di aprirgli il cuore, di fargli spazio. Di obbedire all’amore. L’amore obbedisce all’amore.
3 E SE ANCHE DISTRIBUISSI TUTTE LE MIE SOSTANZE E DESSI IL MIO CORPO PER ESSER BRUCIATO, MA NON AVESSI LA CARITÀ, NIENTE MI GIOVA.
E’ forse il versetto più importante per noi, la chiave a noi dedicata per permetterci di entrare in questo grande testo cristiano. Una chiave dedicata a noi uomini e donne dell’inizio del terzo millennio, che siamo sensibilissimi all’amore e sensibili alla carità ma tendiamo a ridurla alla beneficienza. Attenzione dunque: la carità non è la Caritas! Non la possiamo ridurre al solo soccorso del bisognoso.
Qui più che mai diviene chiaro che non basta tradurre “carità”, ma bisogna arrivare a tradurre “amore”.
Ecco come il papa nell’enciclica “Deus Caritas est” segnala questo punto decisivo: “San Paolo, nel suo inno alla carità (cfr 1Cor 13) ci insegna che la carità è sempre più che semplice attività: ‘Se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova’. Questo inno deve essere la Magna Carta dell’intero servizio ecclesiale; in esso sono riassunte tutte le riflessioni che nel corso di questa Lettera enciclica, ho svolto sull’amore” (34).
Chiediamoci – proviamo a chiederci – che cosa mancherebbe, che cosa potrebbe mancare in una donazione di tutte le proprie sostanze e addirittura della propria vita fatta senza “la carità”. Ci riesce difficile intenderlo, ed è naturale perché si sta parlando indirettamente di Dio e Dio è pur sempre di suo inconoscibile, nonostante la conoscenza “per speculum” che ce ne ha fornita il Cristo. Qui – come in altri passi dell’inno – avvertiamo che Paolo ci parla per paradossi, per iperboli. Per dirci qualcosa che propriamente non si può dire.
Per un tentativo di comprensione ascoltiamo ancora il papa: “L’azione pratica resta insufficiente se in essa non si rende percepibile l’amore per l’uomo, un amore che si nutre dell’incontro con Cristo. L’intima partecipazione personale al bisogno e alla sofferenza dell’altro diventa così un partecipargli me stesso: perché il dono non umilii l’altro, devo dargli non soltanto qualcosa di mio ma me stesso, devo essere presente nel dono come persona” (ivi).
4 LA CARITÀ È PAZIENTE, È BENIGNA LA CARITÀ; NON È INVIDIOSA LA CARITÀ, NON SI VANTA, NON SI GONFIA, 5 NON MANCA DI RISPETTO, NON CERCA IL SUO INTERESSE, NON SI ADIRA, NON TIENE CONTO DEL MALE RICEVUTO, 6 NON GODE DELL`INGIUSTIZIA, MA SI COMPIACE DELLA VERITÀ.
Nella seconda parte dell’inno Paolo con linguaggio discorsivo e quasi narrativo – non definitorio: Dio non può essere definito – ci indica 15 note o caratteristiche dell’amore: è come una cascata di attributi di crescente intensità, a indicare qualcosa che supera ogni immaginazione – appunto perché è Dio, in definitiva, al centro dell’inno e non semplicemente un carisma o una virtù. Osserva il cardinale Martini (nel volume L’Utopia alla prova di una comunità, Piemme 1998, p. 129) che sette delle note sono positive e otto negative e anche le positive “richiedono un patire più che un agire”. Forse – ipotizza Martini – Paolo vuole segnalarci che “amare non significa fare qualcosa per gli altri, come si pensa abitualmente, ma piuttosto sopportare gli altri come sono” (ivi). “Sopportare” dice, ma io direi accettare, accogliere: un poco come fanno i genitori con i figli, che non li sopportano ma li accolgono. Torneremo su questa pietra di paragone dell’amore oblativo che è quello materno-paterno.
Il modello in questa elencazione è la figura di Gesù che tutto sopporta – per amore – fino alla croce. E a sua volta il comportamento di Cristo rinvia al Padre “ricco di misericordia”.
La carità è paziente come l’amore dei genitori che si alzano anche dieci volte la notte per il bambino che piange;
è benigna la carità: cioè benevola e benefica secondo l’insegnamento di Cristo che passa beneficando quanti incontra – dunque fa festa se viene ritirata una scomunica;
non è invidiosa la carità: per esempio non dice al papa da sinistra “ma quante concessioni stai facendo ai tradizionalisti” – ovvero, da destra: “stai sopportando troppo gli abusi dei novatori”;
non si vanta: qui faccio un esempio in positivo: gli italiani hanno molto operato durante l’occupazione nazista per salvare gli ebrei; mi sono occupato a lungo della materia e non ho mai trovato uno dei salvatori che abbia menato vanto del gesto compiuto;
non si gonfia: si gonfia invece chi giudica gli altri cristiani con commiserazione: “voi di sinistra” non siete a difesa della vita, “voi di destra” non volete l’accoglienza dello straniero; e chi è di centro si gonfia magari due volte: “ma che cristiani siete voi di sinistra e voi di destra, che dimenticate questo e quello? Noi di centro invece…”;
non manca di rispetto: possiamo dire che non siamo d’accordo con il papà di Eluana senza mancargli di rispetto come fa per esempio chi lo definisce “assassino”;
non cerca il suo interesse: perché cerca l’interesse di Cristo e di tutti in Cristo, evitando ogni movimento teso a occupare i primi posti nella vita della comunità;
non si adira come chi dice “ha esagerato e ora gliela facciamo pagare”, parole che vengono lanciate a chi si azzarda a uscire dal coro, in ogni direzione;
non tiene conto del male ricevuto: il comportamento di “misericordia” del papa verso i vescovi lefebvriani, due dei quali l’avevano persino accusato di eresia;
non gode dell`ingiustizia: quando vediamo un ladruncolo che viene ucciso per “eccesso di difesa” – ecco quella è un’ingiustizia – di essa non possiamo compiacerci;
ma si compiace della verità: anche quando non coincide con la nostra opinione, perché Dio è verità e chi dice la verità parla a nome di tutti (avesse anche a toccare argomenti spinosi, come il comportamento dei cattolici in tangentopoli o quello dei preti pedofili).
7 TUTTO COPRE, TUTTO CREDE, TUTTO SPERA, TUTTO SOPPORTA.
Tutto copre: anche la mancanza di documenti dell’immigrato clandestino, come certamente faranno i medici cristiani nonostante la norma che è stata introdotta con il pacchetto sicurezza e che li autorizza alla delazione.
Tutto crede: anche le giustificazioni di comportamenti apparentemente ingiustificabili, proprio come fanno i genitori con i figli, tanto che la loro testimonianza non vale in tribunale.
Tutto spera: anche il risveglio di Eluana, per la quale proprio oggi è stato interrotto il sostentamento nutrizionale.
Tutto sopporta: nella 2Timoteo 2, 10 Paolo dice “tutto sopporto per amore degli eletti” – pensate a una donna abbandonata dal marito che non sparla di lui con i figli: che cioè sopporta il tradimento per non trasmettere veleno ai figli che ama.
Queste quattro assolutizzazioni o “totalità” ci dicono quanto sia esigente l’amore cristiano. Ecco una considerazione di papa Benedetto che ci ha proposto il 26 novembre scorso, in una delle catechesi dedicate all’Anno paolino, con riferimento al nostro inno: “L’amore cristiano è quanto mai esigente poiché sgorga dall’amore totale di Cristo per noi: quell’amore che ci reclama, ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, sino a tormentarci, poiché costringe ciascuno a non vivere più per se stesso, chiuso nel proprio egoismo, ma per ‘Colui che è morto e risorto per noi’ (cfr 2 Cor 5,15). L’amore di Cristo ci fa essere in Lui quella creatura nuova (cfr 2 Cor 5,17) che entra a far parte del suo Corpo mistico che è la Chiesa”.
Attualizzo per chi è padre o madre: essere cristiani vuol dire tendere ad avere con ogni persona che incontriamo la stessa “benevolenza” che abbiamo verso i nostri figli.
8 LA CARITÀ NON AVRÀ MAI FINE. LE PROFEZIE SCOMPARIRANNO; IL DONO DELLE LINGUE CESSERÀ E LA SCIENZA SVANIRÀ. 9 LA NOSTRA CONOSCENZA È IMPERFETTA E IMPERFETTA LA NOSTRA PROFEZIA. 10 MA QUANDO VERRÀ CIÒ CHE È PERFETTO, QUELLO CHE È IMPERFETTO SCOMPARIRÀ.
Poiché l’amore è divino, anzi è Dio stesso, esso non avrà mai fine: non può finire e resterà quando ogni altra realtà sarà finita. Cioè avrà raggiunto il suo fine. Cioè sarà ricapitolata in Dio. Insomma, alla fine ci sarà solo l’amore. Dio sarà tutto in tutti e tutto sarà in Dio. Cioè tutto sarà amore.
Io qui vedrei un argomento per la salvezza finale d’ogni creatura. Ma lasciamo questo ai teologi.
L’intenzione di Paolo è di indurre i litigiosi cristiani di Corinto a mirare in alto, lasciando le dispute su che cosa valga di più, la profezia o le lingue. Egli dice: badate che tutto questo per cui vi combattete finirà e intanto nella vostra diatriba sacrificate l’amore, che mai finirà!
Potremmo applicare il richiamo di Paolo alla grande disputa che divide oggi i cristiani: se privilegiare la solidarietà sociale, la pace, l’accoglienza degli stranieri; o la difesa della famiglia, della vita e della libertà educativa. Paolo ci direbbe: tutto questo finisce, cercate piuttosto l’amore che “non avrà mai fine”.
Non è lo stare a sinistra o a destra che fa la differenza, ma il fatto che vi si stia o non vi si stia in nome dell’amore, cioè per amare. Gli schieramenti politici sono modalità per prendersi cura della costruzione della società, ragionevolmente tutte valide, purché perseguite nell’amore! E c’è una riprova per sapere se lo si fa con amore o no: non ci muove l’amore se il richiamo ai valori cristiani lo svolgiamo per prevalere sui cristiani di altri schieramenti invece che per convincere della loro bontà chi cristiano non è.
11 QUAND`ERO BAMBINO, PARLAVO DA BAMBINO, PENSAVO DA BAMBINO, RAGIONAVO DA BAMBINO. MA, DIVENUTO UOMO, CIÒ CHE ERA DA BAMBINO L`HO ABBANDONATO. 12 ORA VEDIAMO COME IN UNO SPECCHIO, IN MANIERA CONFUSA; MA ALLORA VEDREMO A FACCIA A FACCIA. ORA CONOSCO IN MODO IMPERFETTO, MA ALLORA CONOSCERÒ PERFETTAMENTE, COME ANCH`IO SONO CONOSCIUTO.
Qui Paolo ci invita a guardare alla nostra vita cristiana come a una crescita nell’avvicinamento al Signore, fino a quando lo vedremo “faccia a faccia”. E ci incoraggia anche, a non perderci d’animo di fronte alle difficoltà che incontriamo nella politica, nelle professioni, nell’educazione dei figli, nella partecipazione alla vita della Chiesa, perché in un certo senso l’amore non può essere sconfitto, essendo eterno. Esso “vince sempre anche se al momento questo non appare: ciò che si è fatto con amore e per amore non avrà mai fine, anche se in questo mondo non viene riconosciuto” (Carlo Maria Martini, l.c., p. 131).
Potremmo applicare questo spunto sull’amore che non va mai perduto, che capitalizza in Dio, alla fatica e anche ai fallimenti di noi genitori: quanto avremo dato ai figli in denaro e case e libri e fatica e libertà e severità, tutto finirà, ma resterà solo l’amore che gli avremo trasmesso; e quello resterà oltre ogni fallimento nostro e oltre ogni ribellione loro.
Lo possiamo applicare – questo spunto dell’amore che non si perde – anche alle persone che amano senza essere riamate, o che continuano ad amare chi non è più sulla terra: il loro amore non va perduto.
13 QUESTE DUNQUE LE TRE COSE CHE RIMANGONO: LA FEDE, LA SPERANZA E LA CARITÀ; MA DI TUTTE PIÙ GRANDE È LA CARITÀ!
E’ come se Paolo dai tumultuosi e petulanti cristiani di Corinto sentisse venire l’obiezione che anche la fede e la speranza non si perdono e durano. Ed ecco la sua risposta: quando saremo in Dio cesseranno anche la fede e la speranza, ma sempre resterà l’amore e dunque esso è più grande. Perché viene da Dio, perché è Dio. E perché Dio è all’inizio e alla fine, alfa e omega.
In conclusione di nuovo ci affidiamo all’insegnamento del papa e in particolare a queste parole dell’enciclica Deus caritas est che dovremmo memorizzare: “L’amore è la luce – in fondo l’unica – che rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire. L’amore è possibile, e noi siamo in grado di praticarlo perché creati ad immagine e somiglianza di Dio. Vivere l’amore e in questo modo far entrare la luce di Dio nel mondo, ecco ciò a cui vorrei invitare con la presente enciclica” (n. 39).
Ogni uomo è capace di amore, anche il non credente. E l’amore è frequente e lo Spirito lo suscita dove vuole. A noi il compito di accompagnare quel soffio, di accoglierlo in noi, di risvegliarne la percezione nei nostri contemporanei e di affidarci con fiducia alla sua pedagogia. “L’amore cresce attraverso l’amore” dice ancora Benedetto nella sua enciclica (n. 18) fino alla pienezza finale in Dio.

IV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C. : «NESSUN PROFETA È BENE ACCETTO IN PATRIA» – ENZO BIANCHI

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IV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C. : «NESSUN PROFETA È BENE ACCETTO IN PATRIA» – ENZO BIANCHI

I profeti inviati da Dio sono più ascoltati da quelli di fuori che dai propri fratelli, sono accolti più facilmente dai non credenti che dai credenti, trovano maggior accoglienza presso i peccatori manifesti

Siamo ancora nella sinagoga di Nazaret, dove Gesù durante la liturgia del sabato ha letto la profezia di Isaia sul profeta–servo di Dio inviato a portare la buona notizia ai poveri, a proclamare la liberazione a tutti gli oppressi, a predicare l’anno della misericordia del Signore (cf. Is 61,1-2). Gesù ha appena commentato queste parole, dicendo agli abitanti di Nazaret là presenti che esse si sono realizzate in lui.
Ed ecco che questa breve «omelia» desta stupore tra quelli che la ascoltano, i quali sentono le sue parole come intriganti, piene di grazia e autorevoli. Ricordando la giovinezza trascorsa da Gesù a Nazaret con la sua famiglia, essi allora si chiedono: «Non è costui il figlio di Giuseppe, il figlio del falegname?». Ma questa ammirazione per le sue parole non corrisponde in realtà a un vero ascolto di Gesù e alla fede in lui. E così Gesù fin da questo suo primo atto pubblico si rivela quale «segno che viene contraddetto e che svela i pensieri profondi di molti cuori» (Lc 2,34-35), come aveva profetizzato il vecchio Simeone su di lui quando, quaranta giorni dopo la nascita, egli era stato presentato al tempio.
Gesù si accorge di questo rifiuto della sua identità, annunciatagli come realizzazione puntuale delle parole profetiche di Isaia. E proprio perché non si ferma alle impressioni superficiali degli uomini, ma guarda ai pensieri che abitano i loro cuori (cf. Gv 2,24-25), quasi previene e denuncia le intenzioni dei suoi interlocutori: «Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso, pensa a te, non fare la predica a noi; compi piuttosto anche in mezzo a noi i prodigi che hai operato a Cafarnao, e allora conosceremo bene chi tu sei!». Ecco svelati i pensieri dei loro cuori, ecco la non-accoglienza di Gesù proprio nella sua città, tra i suoi, a casa sua (cf. Gv 1,11)!
Poi Gesù pronuncia parole che rivelano un altro compimento realizzatosi in quel giorno: «Nessun profeta è bene accetto in patria». Dal fallimento della sua predicazione egli non trae motivo di sconforto o delusione; al contrario, scorge in tale evento una conferma della sua identità: egli è veramente un profeta e, come tale, può solo essere rifiutato dai suoi fratelli nella fede. Per questo Gesù ricorda ai suoi concittadini e ai suoi familiari che nulla di nuovo sta accadendo nella sinagoga di Nazaret; anzi, si rinnova quello che è sempre accaduto a tutti i profeti. È accaduto a Elia, sostentato e ascoltato solo da una vedova straniera, una fenicia di Sarepta di Sidone (cf. 1Re 17); è accaduto a Eliseo, il successore di Elia, che poté operare la guarigione dalla lebbra solo a favore di un pagano, Naaman il Siro (cf. 2Re 5). Sì, i profeti hanno sempre trovato accoglienza e ascolto non tra i credenti di Israele, bensì tra i non credenti provenienti dalle genti: i credenti sovente sono così soddisfatti e sicuri della loro appartenenza da non essere più aperti ad accogliere parole e azioni «nuove», non attese e non previste, da parte di Dio e dei suoi profeti.
Ma queste parole di Gesù fanno infuriare ancora di più i presenti. Si erano recati in sinagoga per il culto settimanale, per ascoltare la Parola di Dio, e di fronte a questa Parola fatta carne in Gesù (cf. Gv 1,14) in verità non credono; anzi, giungono fino a rifiutare Gesù e volerlo uccidere gettandolo giù da un alto dirupo. Di fronte a questa violenza collettiva che si scatena nei suoi confronti Gesù non reagisce, ma «passando in mezzo a loro riprende il suo cammino», va avanti per la sua strada: «ascoltino o non ascoltino, un profeta si trova in mezzo a loro» (Ez 2,5)…
Succedeva nell’antico Israele, è successo a Gesù, è successo e succede all’interno delle chiese: i profeti inviati da Dio sono più ascoltati da quelli di fuori che dai propri fratelli, sono accolti più facilmente dai non credenti che dai credenti, trovano maggior accoglienza presso i peccatori manifesti che non presso quanti si credono giusti e buoni. E noi, noi che leggiamo questa pagina, siamo disposti a non scandalizzarci delle parole franche di Gesù?

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