Archive pour février, 2013

14 FEBBRAIO – SANTI CIRILLO E METODIO:

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Santo_del_mese/02-Febbraio/Santi%20Cirillo%20e%20Metodio.html

14 FEBBRAIO – SANTI CIRILLO E METODIO:

APOSTOLI DEGLI SLAVI

Nel mese di febbraio la liturgia ci propone due grandi evangelizzatori: Cirillo e Metodio. Due fratelli, due intrepidi testimoni di Cristo, due santi. I due “Apostoli degli Slavi”. Nel 1980 sono stati proclamati co-patroni d’Europa assieme al grande Benedetto da Norcia, da Giovanni Paolo II, primo Papa slavo della storia. Lo meritano questo titolo perché hanno dato le loro migliori energie per annunciare il Vangelo di Cristo ai popoli slavi.
Cirillo e Metodio sono nati a Tessalonica (Salonicco) verso gli anni 820-830. Il loro padre, un ricco magistrato e funzionario statale, sognava per ambedue una “vocazione” da impiegati statali, con un “posto sicuro” nella burocrazia imperiale. Ma questi la pensavano diversamente. Di temperamento diverso, ben presto anche le loro strade professionali non potevano che divergere. Metodio, il maggiore, assecondò il desiderio del padre per un po’ di tempo, diventando un eccellente amministratore nel governo di una colonia slava in Macedonia. Poi si fece monaco. Cirillo invece, il più intellettuale dei due, studiò fino a diventare professore di filosofia nella scuola superiore (una specie di università imperiale) di Costantinopoli. Rifiutò nozze prestigiose e anche incarichi di amministrazione statale. Insegnò filosofia così bene che venne chiamato “il Filosofo”. Dimostrò grandi doti di comunicazione, tanto che gli vennero affidati incarichi diplomatici presso gli Arabi. Ma massima aspirazione di Cirillo non era tanto la filosofia e la speculazione su Dio, ma Dio stesso.
Dopo alcuni episodi torbidi a corte, con relativa congiura e assassinio che portarono ad un autentico colpo di stato, Cirillo si ritirò e raggiunse il fratello nel monastero. E così nell’anno 860 i due fratelli si incontrarono e scoprirono una comune “insoddisfazione esistenziale” che solo l’impegno totale per la causa del Vangelo di Gesù Cristo poteva colmare. Volevano qualcosa di più coinvolgente.
Diventarono sacerdoti e furono inviati dall’imperatore di Bisanzio tra gli slavi del Mar Nero a predicare il Vangelo. Nel-l’863 vennero inviati nuovamente a predicare il Vangelo tra gli slavi, questa volta della Moravia. Il principe Rotislavo aveva chiesto infatti dei sacerdoti slavofoni, che parlassero cioè la lingua slava. I precedenti predicatori erano o tedeschi o di lingua tedesca, e celebravano la messa in latino. Quelle popolazioni, ancora analfabete, finalmente capivano quello che veniva loro annunziato. Il successo dei due fratelli fu enorme. La grande svolta, frutto di una brillante intuizione, fu quella dell’introduzione quindi dell’uso della lingua slava nella liturgia, al posto del latino che il popolo non capiva. Grande merito di Cirillo, fu quello dell’invenzione del cosiddetto (impropriamente) “alfabeto cirillico”, per codificare la lingua slava, fin’allora solo parlata. Cirillo viene considerato anche il fondatore della letteratura slava. Intrapresero poi la traduzione della Scrittura in questa lingua.
Purtroppo anche le passioni umane con il loro codazzo di gelosie, di invidia e di accuse non sono estranee ai predicatori del Vangelo. La compresenza di alcuni “missionari” di lingua tedesca negli stessi territori diede origine ad un aspro dissidio di natura politico-religiosa. I due fratelli sono accusati di fomentare un certo nazionalismo, grazie alla lingua slava usata nella liturgia.
Nell’869 Cirillo e Metodio dovettero andare a Roma per “discolparsi”. Questi, Adriano II, con decisione saggia e lungimirante, diede sostegno ai due fratelli, approvando l’uso della lingua slava nella liturgia. Cirillo, stanco delle molte fatiche, cadde malato e sopportò il proprio male per molti giorni… Dopo aver indossato le sacre vesti, rimase per tutto il giorno ricolmo di gioia e diceva: “Da questo momento non sono più servo né dell’imperatore né di alcun uomo sulla terra, ma solo di Dio onnipotente. Non esistevo, ma ora esisto ed esisterò in eterno. Amen…”. E così all’età di 42 anni si addormentò nel Signore, il 14 febbraio dell’869, a Roma. Il papa Adriano II consacrò vescovo Metodio, inviandolo di nuovo come responsabile pastorale della Pannonia, corrispondente all’odierna Austria orientale, Moravia, parte nord della Serbia e l’Ungheria. Ma il vescovo di Salisburgo non era d’accordo con questa delimitazione territoriale. La giudicò una indebita intrusione sul proprio territorio. Lo fece addirittura arrestare e mettere in prigione (e la sorpresa di Metodio fu quella di avere come compagno di cella un vescovo filoimperiale e sabotatore, una spia insomma). Finalmente nell’873 il nuovo papa Giovanni VIII lo fece liberare, lo confermò nella carica di arcivescovo e approvò di nuovo l’uso della lingua slava nella liturgia. Metodio morì nell’885 a Velehrad, nella Cekia di oggi.
                                                                            Mario Scudu SDB ***
*** Questo e altri 120 santi e sante sono nel volume di :
          MARIO SCUDU, Anche Dio ha i suoi campioni, Editrice Elledici, Torino
IMMAGINE: Santi Cirillo e Metodio, icona bulgara del sec. XIX
RIVISTA MARIA AUSILIATRICE 1999-2 /
VISITA Nr. 

Publié dans:SANTI |on 13 février, 2013 |Pas de commentaires »

Il CARDINALE CHE PREDICA AL PAPA – (Gianfranco Ravasi) da Famiglia Cristiana

http://www.famigliacristiana.it/chiesa/news_1/articolo/il-cardinale-che-predica-al-papa.aspx

Il CARDINALE CHE PREDICA AL PAPA

da Famiglia Cristiana

(GIANFRANCO RAVASI)

NONOSTANTE LE DIMISSIONI, BENEDETTO XVI HA CONFERMATO LA PARTECIPAZIONE AGLI ESERCIZI SPIRITUALI CURATI DAL CARDINALE RAVASI . CHI SONO I TESTIMONI DEL VANGELO, OGGI?

12/02/2013

Biblista e teologo, il cardinale Gianfranco Ravasi è tra l’altro un volto noto della Tv: conduce Frontiere dello spirito la domenica mattina su Canale 5 (STEFANO SPAZIANI/OLYCOM).
«È una scelta profondamente sua. Penso che l’avesse presa già qualche mese fa. E credo che ne abbia parlato unicamente con i collaboratori più stretti, quelli che avrebbero dovuto accompagnarlo in questo periodo di passaggio. Ma sono convinto che la decisione di dimettersi sia stata sin dal primo istante irrevocabile, motivata dal profondo amore che Benedetto XVI ha per la Chiesa e dalla profonda responsabilità che sente nei riguardi dell’esercizio del ministero petrino». Il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della cultura, la prossima settimana, dal 17 al 23 febbraio, predicherà gli esercizi spirituali al Papa e alla Curia romana sul tema Il volto di Dio e il volto dell’uomo nella preghiera salmica.
«Il Papa ha voluto personalmente confermarmi il loro svolgimento. Immagino gli esercizi come una “camera di compensazione” che consentirà allo stesso Benedetto XVI, e a tutti noi cardinali, di immergerci spiritualmente nella contemplazione di Gesù Cristo dopo le ovvie emozioni di questi giorni. E per quanti parteciperanno al Conclave sarà anche il momento di chiedere allo Spirito Santo l’assistenza per la scelta del nuovo Pontefice». Le conseguenze del “passo indietro” del Papa agitano l’agenda del cardinale Ravasi, già di per sé fittissima. Per il Cortile dei Gentili gli arrivano richieste di incontri da tutti gli episcopati del mondo. Scrive articoli e libri quasi a getto continuo, con linguaggio comprensibile a tutti, senza mai perdere la profondità dell’analisi e del pensiero. Ha una presenza seguitissima su Twitter, di cui è entusiasta. Riesce a dialogare con credenti e non credenti.
Ma gli interessa stabilire un contatto soprattutto con i giovani. Il cardinale Gianfranco Ravasi ci riceve nel salottino del suo ufficio, in via della Conciliazione, a Roma. Ci ricorda il dialogo su “Il Dio ignoto” con il presidente Giorgio Napolitano ad Assisi, ci parla del viaggio dello scorso settembre a Stoccolma, dove ha parlato all’Accademia reale svedese delle scienze, il luogo dove si assegnano i premi Nobel. E ci anticipa l’appuntamento in Messico, nell’Università statale della capitale, primo sacerdote a mettere ufficialmente piede in quell’ateneo. Un’intensa attività culturale e pastorale per annunciare il Vangelo a un mondo refrattario alla Parola di Dio. L’uomo d’oggi, infatti, come diceva papa Paolo VI, non ascolta più i maestri, ha bisogno di testimoni.

Il cardinale Gianfranco Ravasi twitta un messaggio. Fu tra i primi uomini di Chiesa a usare il social network con l’account @CardRavasi. Oggi ha oltre 31.000 follower, cioè persone che lo seguono ogni giorno (ANDREAS SOLARO/AFP/GETTY IMAGES).
– Eminenza, esistono ancora dei testimoni? Chi sono?

«San Paolo andava anche oltre quando scriveva ai Corinzi: “Potreste avere diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri” (1 Cor 4,15) e si proponeva più come padre che maestro. Ora, come è noto, non è difficile diventare geneticamente padri; “essere” un padre, questo è arduo e impegnativo. Lo stesso vale per la testimonianza. Avere il nome di Dio sulle labbra, proclamare i valori morali è spesso un esercizio compiuto anche da chi ha un’esistenza priva di fede e di etica autentica, come si ha in modo evidente in alcune figure politiche contemporanee. È vero che i testimoni oggi non sono come il Battista, la cui voce risuonava potente, o come i profeti del passato: l’odierna comunicazione di massa li ignora e non dà eco alla loro voce. Essi sono, perciò, da scovare nelle catacombe della società, nel volontariato, nei giovani e negli adulti che cercano le persone sole e abbandonate o disperate. Sono da cercare nei testimoni alti della fede in certi Paesi, ove essere cristiano comprende persino il martirio. Sono i tanti genitori che con fedeltà e pazienza immensa vivono il loro compito ogni giorno, e sono anche i molti sacerdoti consacrati pienamente alla loro vocazione nella Chiesa di Dio».

– Quale aspetto del volto di Cristo le sembra più adatto, in questo momento di crisi, per dire nuovamente la speranza cristiana all’uomo del nostro difficile e inquieto tempo?

«Sono tre i lineamenti di Cristo che vorrei sottolineare come incisivi per l’uomo d’oggi. Innanzitutto il suo linguaggio che parte dai piedi della gente (semi, terreni, pesci, monete perse, figli in crisi e così via) rispetto a una predicazione che spesso veleggia sopra le teste dell’uditorio. Eppure questo linguaggio conduce al Regno di Dio, cioè all’oltre, al mistero divino e umano. Ecco, allora, la seconda realtà: la verità, che non è un elaborato delle nostre decisioni come fa il ragno con la sua tela, ma che è un orizzonte da conquistare. Essa ci precede e ci supera tant’è vero che Cristo la identifica con sé stesso (“Io sono la via, la verità, la vita”). In un mondo così superficiale, individualista, inerte, ecco un appello a mettersi in ricerca, a porsi le domande capitali. E il terzo tratto è ovviamente quello dell’amore, spoglio di ogni retorica, operoso, efficace, creativo e legato intimamente alla bellezza, alla libertà interiore, alla gioia».
– Non le pare che la fede dei credenti sia oggi un po’ spenta? Come rivitalizzare un modo di credere spesso trascinato e stanco? Ha ancora senso la Quaresima cristiana in un mondo distratto? Nell’Anno della fede, come si vince la sfida della nuova evangelizzazione? Su che cosa occorre puntare?

«Bisogna ritornare all’annuncio della Parola di Dio nella sua forza, ricordando che essa non è una sequenza di teoremi teologici ma è una storia con una figura centrale che è Cristo dotato di un volto umano, un testo che comprende altre figure, simboli, narrazioni, esperienze quotidiane, temi spirituali, cultura, morale. Inoltre, la grande eredità di storia, cultura, di testimonianza, di pensiero del cristianesimo potrebbe ancora incidere nella modernità così smemorata. Per questo anche la Quaresima può essere presentata come il tempo dell’essenzialità, della sobrietà, della purificazione dell’occhio da tante immagini brutte e sporche, dell’orecchio da tante chiacchiere, del cervello da tante stupidità. È necessario spingere l’uomo e la donna di oggi all’interrogazione, alla sosta per riflettere, alla ricerca di un senso in mezzo a tante banalità».

– Perché i preti non parlano più dei “novissimi”, cioè di morte, giudizio e vita eterna?

 «Spesso anch’essi guardano solo all’orizzonte in cui sono immersi e, a furia di impegnarsi nelle pur necessarie cose piccole, diventano incapaci di dire e di vivere quelle grandi. Inoltre, parlare dell’altra faccia della vita rispetto a quella rivolta verso di noi, come definiva l’aldilà il poeta austriaco Rilke, esige un esercizio della mente e della conoscenza. Detto in altri termini, è necessaria una rigorosa preparazione filosofica e teologica che richiede tempo dedicato all’approfondimento, tempo da non considerare come marginale, ma come parte necessaria del ministero pastorale. Infine è decisiva la fede nel Cristo risorto, il cuore del cristianesimo. La trama di sofferenze fisiche e morali (fino al tradimento degli amici e al silenzio del Padre sulla croce), la morte, la sepoltura – realtà “impossibili” a un Dio eterno e perfetto – segnano la totale vicinanza a noi di Cristo, il Figlio divino, il suo essere uno di noi, l’Incarnazione appunto. Ma anche quando è cadavere, egli non cessa di essere Dio e quindi depone nella nostra mortalità, nel dolore, nel limite – che egli ha attraversato e vissuto – un seme di eternità, un germe di liberazione, espressa proprio nella Risurrezione».

– Il mistero del dolore, soprattutto quello innocente, è un inciampo per chi crede che Dio sia giusto e buono…

«Quella che abbiamo appena descritta nelle parole precedenti è la sostanza della risposta cristiana alla realtà del dolore. Certo, ci sono altre vie di scavo in questo mistero. Giobbe scopre che Dio ha un “progetto” generale dell’essere e della storia in cui riesce a collocare anche il male che a noi sembra assurdo e scandaloso: un po’ come quando uno guarda una tela di un celebre artista da vicino e vede solo grumi di colore talora confusi e persino brutti. Quando si allontana e ha lo sguardo d’insieme, scopre invece la bellezza e il senso dell’insieme di quei mille e mille punti di colore. Altre risposte sono state elaborate dalle filosofie e dalle religioni. Ma è come conquistare una città, nella quale il centro risulta inespugnabile. È per questo che Dio in Cristo ha scelto non solo di chinarsi su qualche dolore per sanarlo (i miracoli), ma ha assunto in sé tutto questo limite della creatura e anche lo scandalo che esso comporta, condividendolo e cercando di condurlo a una liberazione nella nuova creazione descritta dal libro dell’Apocalisse come meta ultima della storia e dell’universo. Dio, quindi, non ci sottrae al male, che è legato spesso alla nostra libertà e alle sue scelte perverse (ad esempio, se muore di fame un bambino non è colpa di Dio ma dell’uomo che spreca in armi costosissime le risorse della terra ed è frutto del limite di creature). Egli è con noi nel male, nel dolore, nella domanda. Come diceva il poeta francese Claudel, “Dio non è venuto a spiegare la sofferenza, è venuto a riempirla della sua presenza”».
– Oggi, la cultura ha smarrito Dio e coltiva germi di morte. Il Cortile dei Gentili le permette di dialogare con i non credenti? E fin dove è giusto dialogare senza “scendere a compromessi”?

«Il Cortile dei Gentili nasce da un suggerimento di papa Benedetto XVI modellato sullo spazio così denominato presente nel tempio di Gerusalemme. Là potevano accedere anche i pagani per vedere il culto di Israele, ascoltare le loro preghiere, scoprire la loro visione della vita. Tuttavia un muro invalicabile separava i Gentili (“genti”) dagli Ebrei e san Paolo dirà che Cristo è venuto ad abbattere questo muro di separazione per fare dei due un solo popolo (così in Efesini 2,14-18). È così che nasce il “dialogo” che è confronto e non scontro: come dice questa parola di origine greca è l’incrocio (diá, in greco) tra due lógoi, cioè tra due visioni del mondo, due discorsi seri e diversi tra loro. È evidente che ognuno deve conservare la sua identità di fede e di concezione, ma deve ascoltare l’altro e riconoscere i semi di verità che porta. Si scopre, così, la comune radice umana, arricchita dalla diversità delle fedi e delle visioni della realtà, che può rendere la società più giusta, ma può anche far intuire spiegazioni più profonde sulla vita e sulla morte, sul male e sul dolore, sull’amore e sulla verità e sullo stesso mistero che ci supera e ci avvolge».

– Maschio e femmina Dio li creò: quali sono i pericoli dell’ideologia del gender che si vorrebbe imporre? E, poi, il fine vita, tra accanimento terapeutico ed eutanasia: come il credente riesce a fare i conti con la morte?

«Le questioni etiche, in particolare quelle bioetiche, meriterebbero un discorso molto più articolato rispetto agli slogan e alle semplificazioni solitamente adottate. Affrontare i problemi delicati e moralmente sensibili con la loro cancellazione brutale (pensiamo all’aborto e all’eutanasia) non è una scelta umanamente corretta. In questa linea è significativo che sulla frontiera di questi problemi siano rimaste le religioni, il cristianesimo in primo piano ma anche l’ebraismo e l’islam, ad affermare con rigore e vigore il primato dei princìpi di fondo della vita. Ora, sia per la teoria del gender sia per le questioni bioetiche è indispensabile ritornare, in sede religiosa e in ambito laico, a riflettere sul concetto di “natura”, sulla legge e sul diritto naturale, elementi strutturali dell’essere uomini e donne. È per questo che stiamo orientando in tale ricerca il Cortile dei Gentili e anche il dipartimento Fede e scienza del nostro dicastero».

– Il suo Pontificio consiglio della cultura si è occupato, di recente, dei giovani. Come risponde la Chiesa al loro modo sbrigativo di intendere la morale con la logica binaria dell’informatica save/delete (salva/cancella)?

«Le culture giovanili non sono riducibili a uno schema unitario. Per questo stiamo dedicando a esse un’attenzione particolare per comprenderne le contraddizioni ma anche le potenzialità. Infatti i giovani sono individualisti eppure il volontariato è una delle loro caratteristiche; sono schiavi delle mode di massa ma hanno voglia di libertà; rigettano la cultura ma si nutrono di musica; sono sconnessi col nostro mondo isolandosi con le loro cuffie ma sono connessi nella rete in un infinito flusso di contatti; sono vitali eppure si bruciano nella droga o nel non-senso. Proprio per questo una testimonianza ecclesiale efficace deve cominciare con l’ascolto e la conoscenza del loro linguaggio e del loro mondo per proporre soprattutto la figura di Cristo, per loro spontaneamente affascinante, in modo a loro comprensibile».

– Internet, Facebook, Twitter, Chiesa 2.0: è giusto che anche il Papa usi Twitter o questa scelta è poco consona al suo ruolo, come ha detto qualche importante esponente del mondo cattolico?

«A parte il fatto che i più bei tweet sono i cosiddetti lóghia o “detti” di Gesù presenti nel Vangelo (“Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”, “Convertitevi e credete al Vangelo”, “Chiedete e otterrete, bussate e vi sarà aperto” e così via), bisogna ricordare che san Paolo ha adottato senza esitazione la lingua e la cultura greca per ritrascrivere il messaggio cristiano nel nuovo contesto globalizzato dell’Impero romano. Anche i Vangeli sono stati scritti in greco, che era l’inglese di allora. I nuovi media sono portatori non solo di una tecnica inedita ma di un nuovo approccio alla realtà. Certo, questo non deve far perdere la straordinaria eredità che l’elaborazione teologica, culturale, morale ci ha lasciato il cristianesimo con le sue forme espressive più complesse, come continuamente attesta Benedetto XVI. L’incisività e la velocità della comunicazione attuale non deve cancellare l’approfondimento, il ragionamento e il discorso articolato e completo».

– A cinquant’anni dal Vaticano II è vero che la Chiesa ha perso la sua forza profetica? Condivide il pensiero del cardinale Martini che, nell’ultima intervista, disse che la Chiesa è indietro di duecento anni? E perché?

«Francamente devo dire di non considerarmi un reperto del passato. Eppure la mia è una presenza insediata proprio nel cuore della Chiesa di Benedetto XVI. Penso che molte altre persone delle varie comunità ecclesiali operano in modo incisivo sia nella società attuale sia nella cultura, così come si hanno esempi molteplici di istituzioni e di testimoni cattolici vivi ed efficaci. Certo è che da sempre la Chiesa, che è di sua natura una realtà “incarnata”, comprende chi si muove più speditamente e chi è più cauto e persino restio a muoversi. È ciò che avveniva già nella Chiesa di Gerusalemme degli Atti degli Apostoli. Necessario è, perciò, il dialogo interno, l’autocritica serena e coraggiosa, la conversione costante (la prima parola pubblica di Gesù è “Convertitevi!”), l’essere attenti ai segni dei tempi per non doverli sempre inseguire con ritardi rischiosi. Il profeta biblico, infatti, è l’uomo coi piedi piantati nel presente e che intuisce gli sviluppi futuri. È radicato nella fede come Abramo, il quale, però, parte per una terra ignota; non è un nostalgico Ulisse alla ricerca del passato pur glorioso».
Antonio Sciortino

IL PAPA HA RINUNCIATO PER RICONDURCI AL NOSTRO CUORE, PER AIUTARCI A CREDERE – DON ANTONELLO IAPICCA

http://www.zenit.org/it/articles/il-conclave-della-fede-al-quale-siamo-tutti-chiamati

IL « CONCLAVE » DELLA FEDE AL QUALE SIAMO TUTTI CHIAMATI

IL PAPA HA RINUNCIATO PER RICONDURCI AL NOSTRO CUORE, PER AIUTARCI A CREDERE

ROMA, 13 FEBBRAIO 2013 (ZENIT.ORG). DON ANTONELLO IAPICCA

Oggi, mercoledì delle ceneri, sulla soglia della quaresima, un Papa stanco, provato, e carico della Croce si è incamminato attraverso la porta della fede che egli stesso ha aperto alcuni mesi orsono, e ci chiama a seguirlo. Ci attende un lungo « conclave », il segreto della stanza dove si gioca la nostra vita, come quella della Chiesa: il « conclave della fede » nel quale entrare con il capo cosparso di cenere, accogliendo e custodendo le parole che ci verranno dette oggi: « Polvere sei e polvere tornerai, convertiti e credi al Vangelo ». Scriveva San Paolo ai Romani:  « Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza »; nessuna professione di fede sarà credibile, nessuna nuova evangelizzazione sarà autentica, se prima, dai Cardinali al più semplice fedele, non saremo entrati nel conclave del nostro cuore, e lì, nel segreto dialogo che decide l’esistenza, non accoglieremo il dono della fede preparato da Dio per noi. Il Papa ha rinunciato per ricondurci al nostro cuore, per aiutarci a credere. Non vi è dossier, scandalo, peccato, non vi è nulla di più importante e decisivo che la fede. Ma essa viene dalla « stoltezza della predicazione », dell’annuncio del Kerygma, la Buona Notizia che Cristo è risorto. E mai come oggi  la predicazione è stata così « stolta » per il mondo: poche parole, e un gesto che realizza quello che il Papa aveva detto proprio in un mercoledì delle ceneri: « Convertirsi a Cristo significa in fondo proprio questo: uscire dall’illusione dell’autosufficienza per scoprire e accettare la propria indigenza, esigenza del suo perdono ».
La Buona Notizia ha oggi il volto, lo sguardo e la voce di Benedetto XVI, seduto sulla cattedra dell’umiltà, crocifisso con Cristo nella stessa rinuncia a se stesso per far posto al potere di Dio. Gesù, nei brevi anni della sua vita pubblica, ha predicato e sanato, ma solo sulla Croce e nel sepolcro ha salvato l’umanità. Anche il Papa, negli anni del suo pontificato, ha insegnato, predicato, sanato tante situazioni. Ma oggi, con la sua rinuncia, è Cristo che di nuovo viene innalzato sulla Croce dinanzi ai nostri occhi per attirare a sé l’umanità; con il Santo Padre Cristo è pronto ad entrare nel sepolcro di un convento per intercedere ancora per ogni uomo. E’ la rinuncia che prelude alla risurrezione, il Golgota e la tomba che preparano lo splendore dell’alba di Pasqua. La stessa Croce e lo stesso sepolcro sono pronti per noi: « Quando pregate, non siate simili agli ipocriti… ma entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà ». Non a caso, proprio in Quaresima, « ci è stato tolto lo Sposo »: Sede vacante si dice, profezia e memoria del tempo in cui lo Sposo non è con i discepoli. Un tempo di digiuno, l’unico autentico, al quale, vedove come la Chiesa dei prossimi giorni, siamo tutti chiamati. Digiuno di pensieri e parole stolte di mormorazione e giudizio; digiuno che ricorda la fame di Verità e amore che afferra ogni uomo; digiuno che si fa preghiera ed elemosina nel segreto dell’intimità del conclave a cui Dio ci convoca, per rinunciare all’uomo vecchio e rivestirci dell’uomo nuovo mosso e ispirato dalla fede, la speranza e la carità.
« Egli è colui che prese su di sé le sofferenze di tutti. Egli è colui che fu ucciso in Abele, e in Isacco fu legato ai piedi. Andò pellegrinando in Giacobbe, e in Giuseppe fu venduto. Fu esposto sulle acque in Mosè, e nell’agnello fu sgozzato. Fu perseguitato in Davide e nei profeti fu disonorato » (Melitone di Sardi, Omelia Pasquale). Poi, Egli è stato di nuovo crocifisso nella vita dei santi, ucciso e perseguitato nei martiri che in ogni latitudine e secolo hanno versato il loro sangue. E oggi, Egli, ha rinunciato in Benedetto XVI, un segno indelebile sulla pelle della Chiesa e dell’umanità. Scelti e chiamati da Dio, i profeti e i santi, accanto alle parole, hanno sempre incarnato il messaggio che gli è stato affidato. Osea ha dovuto prendere come moglie una prostituta; Geremia ha conosciuto le pene del carcere; Ezechiele ha visto morire sua moglie; sulla carne di San Francesco sono apparse le stimmate; Benedetto XVI ha deposto nel sepolcro il suo pontificato. Vivrà tra le mura di un convento, come in un lungo sabato santo. In silenzio, anticipando profeticamente il dissolversi della carne, attraverso la quale, di norma, si esercita il potere e si governano le cose della terra. Ma un Papa ha a che fare con qualcosa che è sì nel mondo, ma non vi appartiene. Egli governa le cose della terra con la legge del Cielo, l’amore incorruttibile che non conosce l’usura del tempo. E rinunciare è, essenzialmente, il gesto più grande d’amore, che solo la sapienza celeste è capace di decodificare. Nel mondo la rinuncia è viltà, fuga dalle proprie responsabilità. Nel Cielo, la rinuncia è il segno più credibile della vita che in esso è donata. Cristo ha rinunciato a parlare, a difendersi, a lottare; Cristo ha rinunciato alla propria vita, perché ad un’altra era chiamato; Cristo ha rinunciato alla terra perché non dubitava del Cielo; Cristo ha rinunciato a tutto per dare tutto se stesso a ogni uomo. Il gesto di Benedetto XVI incarna e ci pone davanti la stessa rinuncia di Colui del quale è vicario qui sulla terra. E’ Cristo che in lui ha rinunciato.
La conversione, dunque, sorge dalla rinuncia, che è anche un sinonimo di sequela e amore: « Chi non rinuncia a tutti i suoi beni, e perfino alla propria vita, non può essere mio discepolo ». A che cosa siamo disposti a rinunciare oggi? Forse a nulla, ed è la ragione per la quale non possiamo essere discepoli autentici di Cristo. Il Papa ha rinunciato per insegnare alla Chiesa intera cosa significhi, « nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede », essere discepolo credibile del Signore: fermi nella fede, rinunciare a tutto per amore a Cristo, che è anche, l’unico amore autentico per ogni uomo. Incamminiamoci allora in questa Quaresima seguendo le orme che Cristo ci ha lasciato in quelle deposte dal Santo Padre sul sentiero della storia. Entriamo con la Chiesa e accompagniamo i Cardinali nel conclave improvvisamente fattosi imminente. Inoltriamoci nei giorni di penitenza custodendo nel cuore le parole di San Paolo, scritte duemila anni fa ai Filippesi, ma recapitate dallo Spirito Santo, oggi, a ciascuno di noi: « Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho rinunciato a tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù ».

II stazione – Gesù è caricato della croce

II stazione - Gesù è caricato della croce dans immagini sacre II_stazione

http://www.parrocchiasantapollinare.it/sacramenti-e-liturgia/via-crucis

 

 

Publié dans:immagini sacre |on 12 février, 2013 |Pas de commentaires »

1 COR 1, 18-31 – (CHIAVE DI LETTURA DI TUTTA L’ESISTENZA DI GESÙ: È LA REALTÀ DEL SILENZIO [DAL TESTO])

http://www.diocesitv.it/treviso/allegati/669/archpiovana1Cor%201.pdf

(CHIAVE DI LETTURA DI TUTTA L’ESISTENZA DI GESÙ: È LA REALTÀ DEL SILENZIO [DAL TESTO])

1 COR 1, 18-31

(è un PDF per trascriverlo in Txt ho dovuto cambiare la grafica e stringere le righe)

18 La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che  si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio.
19 Sta scritto infatti: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l‟intelligenza degli intelligenti.
20 Dov’è il sapiente? Dov‟è il dotto? Dov’è il sottile ragionatore di questo mondo? Dio non ha forse dimostrato stolta la sapienza del mondo?
21 Poiché infatti, nel disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione.
22 Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza,
23 noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani;
24 ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio.
25 Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.
26 Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili.
27 Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti;
28 quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono,
29 perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio.
30 Grazie a lui voi siete in Cristo Gesù, il quale per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione,
31 perché, come sta scritto, chi si vanta, si vanti nel Signore.

C’è una realtà che misteriosamente accompagna il cammino terreno di Gesù, una realtà che è, allo stesso tempo, esperienza personale e chiave di lettura di tutta l’esistenza di Gesù: è la realtà del silenzio. E questo è tanto più paradossale nella misura in cui si riflette sulla identità di Gesù come Parola, come esperienza comunicativa del mistero di Dio, come “rivelazione del mistero taciuto per secoli” (Rm 16, 25), come narrazione dell‟evento inconoscibile del volto di Dio. Certamente, come ci ricorda s. Ignazio di Antiochia, Gesù è “il Verbo uscito dal silenzio” (Ai Magnesi VIII, 2); eppure questo silenzio continua a custodire e a rivestire questo Verbo, permettendo ad esso di risuonare in tutta la sua forza. Può sembrare un paradosso: Gesù, per narrare Dio all‟uomo, ha dovuto farlo attraverso il linguaggio del silenzio, o meglio, accettando quella realtà di limite, di fragilità, di  finitezza che è rappresentata dalla carne; una esperienza appunto di umiltà, e in definitiva, di silenzio dell‟identità divina. Giustamente nota D.Cerbelaud: “La fusione tra silenzio e parola determina tutta la vita umana di Gesù, compresa la vita pubblica. È singolare infatti che il « Verbo di Dio » abbia parlato, tutto sommato, così poco! Soltanto dopo una lunga vita nascosta, egli si manifesta. Manifestazione che, sebbene comporti davvero un insegnamento, è anche costituita in larga parte da segni muti (i miracoli) e da puro silenzio…”  (D.CERBELAUD, Silenzio di Dio e il  Sabato Santo, pp.14-15).
Se si volesse scegliere qualche parola che ha la forza di esprimere questo silenzio di Cristo, questa Parola di Dio nascosta nella carne dell’uomo, si potrebbe far riferimento a due termini presenti in Filippesi 2: ekénosen (v.7: svuotò se stesso) e etapeínosen (v.8: umiliò se stesso). Lo « svuotamento » (ekénosen) è l’inizio della parabola discendente di Gesù, la prima tappa del cammino del suo silenzio esistenziale. È una espressione di grande forza visiva: viene usata quando una qualunque realtà perde tutto ciò che è sua prerogativa, tutto ciò che la contraddistingue e la valorizza e, di conseguenza, tutto ciò che permette di comunicare sé stessa. L‟immagine che appare  al nostro sguardo è quella del deserto, di una terra che diventa desolata, incolta. Riferito a Cristo, questo significa il far tacere la potenza e la gloria della forma Dei per rivestirsi della debolezza della forma servi.  Lo Pseudo-Macario esprime plasticamente questa spogliazione radicale (tanto da affrontare anche il silenzio di Dio) quando definisce l‟esperienza del Getsemani con queste parole: “Dio si ritira da Gesù come il mare si ritira dalla spiaggia, lasciandola asciutta”. Il silenzio dell‟umiliazione (etapeínosen) è il silenzio di una esistenza che si pone in basso e accetta tutto ciò che contraddice una apparenza di gloria e di potere. Il Deutero Isaia così esprime il profondo legame tra umiliazione e silenzio: “Maltrattato si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca…come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca… Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi” (Is 53, 7.3).Ma il silenzio della umiliazione raggiunge la sua dimensione più abissale in quell‟ “obbediente fino alla morte” (e l‟obbedienza richiede il silenzio delle proprie parole, del proprio io, per ascoltare la parola che deve esser incarnata nella propria vita) e alla  “morte di croce”. Qui si tocca il limite estremo di questo silenzio di Cristo: la morte, la realtà che stronca definitivamente ogni possibilità di comunicare una parola, e la morte di croce, la smentita di ogni parola in quanto è la morte dello scomunicato. Ma paradossalmente, proprio all‟interno di questo silenzio abissale, risuona l‟unica vera parola, l‟unica parola che conta, l‟unica parola che può comunicare e narrare il volto di Dio, l‟unica parola che dona la vita e che dice la qualità dell‟amore di Dio. È una parola „inaudita‟ e nello stesso tempo, una parola che non smentisce né annulla questo silenzio, anzi è la parola della croce. Questo breve percorso attraverso il silenzio di Gesù ci può aiutare a intuire tutta la forza contenuta nella espressione di Paolo, la parola della croce, e farci comprendere che essa è come il cuore del mistero „taciuto per secoli‟, quel cuore che non può essere assolutamente compromesso o annullato, a costo di render incomprensibile il volto di Dio, a costo di neutralizzare la vita che in esso viene comunicata. Ecco perché Paolo ribadisce con decisione, di fronte ai Corinzi, il senso autentico del suo ministero (un ministero frutto di esperienze patite in prima persona) e il contenuto
dell‟evangelo: “Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo, non con sapienza di parola, perché non venga resa vana la croce di Cristo (me kenothê o stauròs tou Christoû)” (1, 17). In una comunità ancora giovane nella sua adesione all‟evangelo, attraversata da lacerazioni e tensioni, emerge un rischio che intacca il contenuto stesso della fede in Cristo: è il rischio di svuotare dall‟interno l‟evento della croce di Cristo, non comprenderne più il significato relegandolo come fatto passato e preferendo mascherare la parola dell‟evangelo con una ideologia capace di convincere, attraente (o per mezzo di miracoli o per mezzo di una „sapienza di parola‟). E il contrasto che Paolo pone di fronte ai Corinzi è sorprendente: da una parte c‟è una parola che insegue una logica mondana, intellettuale e dall‟altra c‟è la croce di Cristo (che Paolo subito dopo definisce „parola‟). La parola di sapienza tende a svuotare la parola della croce. E Paolo insiste su questo termine: „render vuoto‟. Anzi, si potrebbe dire ( e questo è un altro sorprendente contrasto), che l‟annullamento (kenothê) della parola della croce operato da una parola frutto di sapienza umana può essere superato solo se la croce rimane il segno eloquente dello svuotamento (ekénosen) di Cristo. Ed è questo che Paolo afferma con forza in 1 Cor 1, 18-31.

LECTIO
Attraverso la dinamica delle antitesi, Paolo pone i Corinzi  quasi  di fronte ad una scelta: a quale evangelo vogliono aderire? Quale è la qualità dell‟annuncio cristiano? Davanti allo sguardo di questa comunità inquieta ci sono logiche diverse, mondi differenti: sapienza e stoltezza, potenza e debolezza, Dio e mondo, umanità che chiede segni e cerca sapienza e umanità „chiamata‟ ad una logica differente, perduti e salvati. E pian piano queste logiche opposte mirano a condurre al cuore dell‟annuncio cristiano. E “centrale è la contraddizione interna alla parola  della croce o a Cristo crocifisso, dichiarati sapienza e insensatezza, potenza e debolezza, secondo i rispettivi punti di vista di Dio e del mondo” (BARBAGLIO, La prima lettera ai Corinzi, p.133).Si potrebbero individuare tre momenti come altrettante tappe attraverso le quali Paolo vuole condurre i Corinzi a prendere coscienza di tutto questo:
vv.  18-21: la parola della croce e la sua logica
vv.  22-25: il contenuto della parola della croce: il Cristo crocefisso
vv.  26-31: una comunità segnata dalla parola della croce
1. La parola della croce
Se al v. 17 Paolo aveva definito il nucleo della sua missione come annuncio della croce di Cristo, al v. 18 definisce la croce di Cristo come parola che deve essere proclamata, „gridata‟. E l‟espressione è di per sé sorprendente:  o lógos o toû stauroû. Anzitutto si può notare che il contenuto dell‟annuncio non è la croce in sé, ma la parola riguardante la croce, la parola che viene comunicata attraverso la croce, una parola segnata dalla croce. E la cosa in sé è scioccante, soprattutto per un orecchio che aveva ancora una certa sensibilità ad un segno che manteneva tutta la sua carica di crudeltà, un segno la cui drammaticità disumana non era ancora stata indebolita da una sovrapposizione simbolica. Un uomo appeso sulla croce appariva feccia umana, maledetto da Dio: “il nome stesso della croce  – affermava Cicerone – non solo è assente dal corpo di un cittadino romano, ma addirittura dai suoi pensieri, dai suoi occhi, dalle sue orecchie” (Pro Rabirio 5, 16). Veramente l‟uomo appeso ad una croce è “come uno davanti al quale ci si copre la faccia” poiché “chiunque pende da un legno è maledetto da Dio” (Deut 21, 23).Ma allora quale parola può comunicare la croce? Può nascere da una maledizione una parola di benedizione?  Paolo invita i Corinzi a mettersi in ascolto di questa parola. E anche questo è sorprendente. Luca, al termine del suo racconto (cfr. 23, 48), ricordava che la croce è uno spettacolo da vedere, anzi una „visione‟ (teoría). Anche Giovanni (cfr. 19, 37), citando il profeta Zaccaria, orienta ad uno sguardo: “volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”. Per comprendere il senso nascosto della croce, per giungere alla fede, bisogna vedere. Paolo ci indica un altro atteggiamento: ascoltare. Ma ascoltare e vedere sono le due forme, le due vie del credere: è un vedere che apre ad una comprensione profonda (offerta a „coloro che si salvano‟, per noi), ad un ascolto che si attua a livello di cuore nella misura in cui questa parola scende e feconda il terreno della propria vita. Vedere e ascoltare richiedono un silenzio da altre immagini e da altre parole che non siano quelle della croce.a. La parola della croce: stoltezza e potenza di Dio v.18  La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio. La parola custodita nella croce è un parola nella quale Dio si disvela per quello che è e davanti alla quale ogni uomo è chiamato a confrontarsi, ad operare una crisis (attraverso la quale si evidenzia il contrasto tra coloro che vanno in rovina e coloro che sono sulla via della salvezza). “La croce è il patibolo impuro, chi vi sale è un anàthema, rigettato dalla comunità cui Dio si è legato in alleanza: chi vi muore, muore fuori dell‟accampamento e della porta della città (cfr.  Eb 13, 11-13), nel luogo sconsacrato in cui Dio è ritenuto assente. Davvero la croce è l‟anti-sacrificio per eccellenza, secondo le norme cultuali di Israele: è follia, stoltezza, scandalo! Ma solo chi conosce questa verità e assume fino in fondo questa follia, vedendo morire Gesù in croce può confessare con il centurione: „Veramente quest‟uomo era Figlio di Dio!‟” (E.BIANCHI, Stoltezza della croce, p.8). La parola della croce è dunque un‟arma a doppio taglio che provoca un giudizio, una separazione, una chiarezza. E questa riguarda anzitutto il modo di conoscere Dio. “Contro ogni attesa umana che vuole incontrare Dio sotto il segno della sapienza e della potenza umana, Dio è là dove regna insensatezza e debolezza, appunto nell‟evento della crocifissione di Cristo e nella predicazione del crocifisso. E lo può incontrare, uscendone salvato, solo chi, in contrasto con il mondo, lo crede e lo confessa „crocifisso‟ sulla croce  di Cristo. Chi invece resta prigioniero del suo  rifiuto di ciò che è insensatezza, si autodestina alla perdizione” (BARBAGLIO, p.135). Questo duplice sguardo sulla croce che opera un giudizio è stupendamente espresso in questa preghiera presente nella liturgia bizantina per l‟ora nona: “La tua croce, o  Cristo, in mezzo ai due ladri fu come una bilancia di giustizia: l‟uno fu trascinato all‟Ade dal peso della bestemmia, l‟altro, alleggerito dai peccati, fu guidato alla conoscenza della teologia”. La croce salva poiché conduce “alla conoscenza della teologia (pros gnosin theologias)”. Ciò che è in gioco è conoscere Dio, il suo vero volto; e la croce lo rivela. Ecco perché Paolo dice che in essa, nella sua scandalosa debolezza, è contenuta la „potenza di Dio‟, il peso della sua gloria e la sua forza: nella parola della croce “è presente il Dio di Gesù Cristo come Dio debole e insensato, se giudicato con il metro del mondo,  eppure potente e sapiente della sua potenza e sapienza salvifica” (BARBAGLIO, p.136). Si realizza così ciò che il profeta Isaia aveva preannunciato come giudizio di Dio per un popolo vicino a Lui a parole, ma lontano con il suo cuore: “Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l‟intelligenza degli intelligenti” (Is 29, 14).
b. La sapienza del mondo e la sapienza di Dio vv. 20-21 Dov‟è il sapiente? Dov‟è il dotto? Dov‟è il sottile ragionatore di questo mondo? Dio non ha forse dimostrato stolta la sapienza del mondo? Poiché infatti, nel disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. Dopo aver fissato lo sguardo sul cuore dell‟evangelo, la parola della croce, Paolo ne disvela il mistero e la forza: ciò che la parola della croce testimonia è nient‟altro che la logica dell‟agire di Dio, della sua  eudokía, della sua libera scelta. E qui Paolo continua nel confronto tra la sapienza del mondo e la sapienza di Dio. Il mondo è pieno di „sapienti‟. E Paolo elenca tre categorie di „sapienti‟: c‟è colui che indaga sui misteri del sapere, il filosofo (sophós); c‟è colui che conosce e studia i testi della Scrittura, la sa interpretare e forse anche strumentalizzare (grammateús); c‟è chi sa usare con maestria la parola e con essa riesce a svelare i misteri di questo mondo (syzetetès). Ma che valore ha la loro sapienza? Dove sono e come si collocano di fronte al mistero di Dio? Pretendono di conoscere il disegno di Dio, ma Dio stesso, con il suo modo di agire paradossale, ha squalificato la loro sapienza, l‟ha neutralizzata, anzi l‟ha trasformata in stoltezza. Dio è capace di cambiare i connotati essenziali della logica dell‟uomo, del suo modo di ragionare e di pensare. Ed è proprio l‟evento della croce che opera questo radicale capovolgimento.Questo paradosso, e Paolo lo sottolinea con forza, è libera scelta di Dio: è piaciuto a Dio. Ma sta qui l‟apertura straordinaria di Dio nei confronti di questa umanità impazzita nella sua pretesa di conoscere Dio e che di fatto ha smarrito le vie che portano all‟incontro con Dio: questo capovolgimento di logica non è per la condanna, ma per la salvezza. E coloro che accolgono la parola della croce attraverso un annuncio che sembra votato alla stoltezza (i „credenti‟, i veri sapienti che riconoscono la croce come rivelazione dell‟agire di Dio) possono realmente camminare verso la salvezza, cioè conoscere Dio ed entrare in comunione con Lui. 2. La parola della croce e il volto del Crocefisso
vv. 22-25  Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini. a. Ma in fondo, a cosa conduce la logica della sapienza del mondo proprio nella sua pretesa di cercare di conoscere Dio? Quale volto di Dio rivela? L‟uomo chiede a Dio di rivelarsi (i segni che dimostrano l‟intervento di Dio); l‟uomo cerca un Dio che soddisfi e gratifichi il suo modo di ragionare. Miracoli e sapienza sono due volti del Dio cercato dall‟uomo. Ma sono proprio i due tratti che la parola della croce contraddice, in quanto essa è, apparentemente, il segno dell‟impotenza di Dio, una pietra di inciampo nella logica di un credere ad un Dio forte (così i capi dei sacerdoti e gli scribi gridavano a Gesù in croce: “Ha salvato altri e non può salvare se stesso! Il Cristo, i re di Israele scenda ora dalla croce perché vediamo e crediamo”  Mc 15, 31-32), il segno di ciò che umanamente è di più irrazionale, stolto. b. È un altro il volto di Dio che è rivelato e comunicato nella parola della croce. Ed è questo che Paolo annuncia. E qui si opera un sorprendente salto di qualità. Finora sembrava  che sotto lo sguardo fosse posta una realtà assurda, una realtà di morte e di umiliazione, con la pretesa di essere un segno dell‟agire di Dio: la croce e il suo significato. Ora Paolo non parla più di croce , ma di Cristo crocifisso. C‟è un volto, certamente umiliato e sofferente, ma un
volto. Ed è questo volto a rivelare il volto stesso di Dio. È il Cristo  potenza di Dio e sapienza di Dio. “Nell‟immaginario cristiano  – annota G.Colombo  – la croce sembra prevalere sul crocifisso, dando sfogo alle tendenze ambigue insite nel subconscio dell‟uomo… Non è la croce a fare grande Gesù Cristo; è Gesù Cristo che riscatta persino la croce, la quale è propriamente da comprendere, non retoricamente da esaltare” (Sulla evangelizzazione, p.64). La croce rivela l‟agire di Dio in Gesù: un dono liberamente scelto e un dono della propria vita per amore. Questa è la sapienza e la potenza che Dio ci offre. E su questa rivelazione la ricerca dell‟uomo deve confrontarsi (ecco perché diventa segno di contraddizione). E l‟uomo è sempre chiamato a scegliere in quale modo, da quale angolatura guardare il crocifisso: da quello della sapienza umana che vi riconosce il segno dell‟assurdo o da quello donato da Dio nella fede (la chiamata come dice Paolo al v.24) che vi riconosce la sapienza e la potenza di Dio.c. E Paolo lo ricorda ancora con forza: per giungere a conoscere il volto di Dio, la grandezza del suo amore, bisogna attraversare la stoltezza e la debolezza di Dio, bisogna lasciare che la sua debolezza vinca la nostra pretesa di potenza, che la sua stoltezza annulli la nostra ricerca sapiente. È veramente una via umanamente svuotante e umiliante; ma è la via che ha percorso Dio stesso per farsi prossimo dell‟uomo. E proprio quando l‟uomo sperimenta il nulla di sé, della sua ricerca, dei suoi sforzi, Dio interviene: fa sua la debolezza dell‟uomo e proprio lì rivela ciò che Egli solo può fare per l‟uomo. E proprio attraverso la croce, anzi attraverso la morte di Gesù, la vita del Figlio donata per amore, Dio ha rivelato la logica della vita. Già nella croce è contenuta la sapienza e la potenza di quella vita di Dio che si manifesta pienamente nella risurrezione e  viene donata ad ogni uomo, a coloro che sono „chiamati‟. “Non è sufficiente conoscere Dio nella sua gloria e nella sua maestà – dice Martin Lutero  – ma è anche necessario conoscerlo nella umiliazione e nell‟infamia della croce… In Cristo, nel Crocifisso, stanno la vera teologia e la vera conoscenza di Dio” (E.BIANCHI, La stoltezza della croce, p.9).6
3. UNA COMUNITÀ SEGNATA DALLA PAROLA DELLA CROCE vv. 26-31 Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili. Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che  è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio. Grazie a lui voi siete in Cristo Gesù, il quale per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto, chi si vanta, si vanti nel Signore. Non dobbiamo dimenticare che Paolo sta parlando ad una comunità che sta smarrendo la sua
profonda identità cristiana. E a questo punto i Corinzi sono invitati a compiere l‟ultimo passo: riprendere coscienza della loro identità, a che cosa sono stati chiamati e da chi (considerate la vostra vocazione), e confrontarsi con la parola della croce. a. Anzitutto lo sguardo dei Corinzi deve fissarsi su Dio che li ha chiamati,. L‟essere comunità cristiana non è frutto di uno sforzo o di un progetto umano. Sono dei chiamati e questa espressione, usata da Paolo al v.24. li mette subito in relazione con la libera scelta e la logica di Dio: per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Il loro sguardo dunque deve fissarsi su colui che ha rivelato questa logica: il Cristo crocifisso. b. E qui si opera una seconda conversione di sguardo. Alla luce della logica di Dio i Corinzi devono guardare con grande onestà e realismo alla loro situazione. Chi sono? E che cosapretendono di essere? Paolo lo dice senza mezzi termini: sono una comunità debole e povera. Mancano in questa comunità la forza data dalla cultura (i sapienti secondo la carne), quella offerta dall‟economia e dalla politica (i potenti), quella legata ad una classe sociale (i nobili). Un quadro di comunità un po‟ dimesso e deprimente, che già suscitava il commento ironico e polemico del pagano Celso: “Queste le norme dei cristiani: „Non si unisca a noi alcuna persona istruita, sapiente o saggia; tutto ciò è mal visto tra di noi. Ma chi è ignorante, ottuso, incolto, questi venga pure fiducioso!‟. Che persone del genere siano
degne del loro dio, appare chiaramente se si pensa che essi non vogliono e non sanno convincere se non gli sciocchi, gli insensati, gli schiavi, le  donnette e i ragazzini… Che vedete tra i cristiani? Cardatori di lana, ciabattini, lavandai e la gente più ignorante e rozza… I cristiani proclamano: „Chiunque sia peccatore, privo di intelligenza, ingenuo, in breve un povero diavolo, si avvicini: il Regno di Dio gli appartiene‟” (CELSO, Il discorso vero, III, 44.55.59). Eppure questa povertà attira lo sguardo di Dio perché Dio sceglie ciò che l‟uomo rifiuta, ciò che considera stolto, debole e ignobile,  quello che è nulla, per rivelare quello che lui è e può fare per l‟uomo. Ed è quella logica, quel capovolgimento di valori, che già una piccola, una povera, Maria, aveva profondamente compreso e trasformato in inno di lode alla grandezza di Dio: “…ha guardato l‟umiltà della sua serva… ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, ha rovesciato i potenti dai troni… ha rimandato i ricchi a mani vuote “ (Lc 1, 48 passim). “Dio chiama e sceglie non in base al valore dei beneficiari della sua iniziativa, ma  „sub signo crucis‟, luogo dell‟impotenza dell‟uomo e della divina potenza risuscitatrice” (BARBAGLIO, p. 146). c. Questo capovolgimento di valori (quelli che l‟uomo considera valori da Dio sono trasformati in disvalori) diventa la via scelta da Dio per creare una sorta di vuoto (ridurre a nulla le cose che sono) necessaria per frantumare ogni pretesa umana: sgretolare la radice della kauchesis (il gloriarsi) umana di fronte a Dio. Perché è proprio questa pretesa di avere una gloria da dimostrare davanti a Dio che chiude alla grazia di Dio. In fondo, ricorda Paolo ai Corinzi (forse proprio in preda a questa tentazione diabolica e distruttiva, radice di ogni divisione), l‟agire di Dio (tutto ciò che si rivela nella parola della croce e nel Cristo crocifisso) vuole annientare questa via di morte che comprometta la salvezza: “vuole rendere impossibile all‟uomo di mettersi davanti a lui con l‟atteggiamento del fariseo della parabola… a vantare la sua „nobiltà‟ e le proprie prestazioni eccellenti…. È in questione la rispettiva posizione di Dio e dell‟uomo” (BARBAGLIO, p.149).d. Ma Dio non distrugge se non per donare qualcosa di più grande. E al v.30 si giunge al vertice di questo cammino attraverso la debolezza e attraverso il deserto di ciò che l‟uomo tenta di costruire (questo gloriarsi di fronte a Dio). Tutto ciò che una comunità è nella fede, quella salvezza che è la via della conoscenza di Dio, tutto questo è gratuità: grazie a Lui voi siete in Cristo Gesù. Qui sta il fondamento dell‟unità di una comunità e tale unione nasce dall‟adesione alla parola della croce. Ma qui si rivela anche ciò che Gesù è per ogni credente. Si potrebbe dire che quella debolezza e stoltezza nella quale si manifesta l‟agire sapiente e potente di Dio, hanno dei nomi per il credente: sono redenzione (Gesù ha pagato, nella croce, il prezzo necessario al riscatto della nostra schiavitù), sono  santificazione (nell‟amore di Cristo rivelato sulla croce è indicata la via che fa risplender in noi la santità di Dio), sono giustizia (la croce è via di liberazione e di giustificazione), sono sapienza (è la parola l‟unica sapienza del credente).  Solo di questo possiamo vantarci. Ma la gloria non è più la nostra, ricorda Paolo, ma quella del Signore (cfr. Ger 9, 22). Nella parola della croce, nel volto del crocifisso, si rivela la gloria di Dio. E solo facendo propria questa gloria, che per il credente si rivela nella debolezza della sua esistenza, nell‟esperienza del peccato e del perdono di Dio, nella compassione e nel dono di sé, può essere resa vana la stolta sapienza del mondo.

MEDITATIO
a.“Per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini”.La parola della croce in cui si rivela il volto della sapienza e della potenza di Dio, il volto del Cristo crocifisso, è per coloro che sono chiamati e la accolgono nella loro vita. È per ogni uomo e donna che riconosce in essa la mano potente di Dio (come nella icona della Discesa agli inferi) che può strappare la propria vita dall‟impotenza della morte, di ogni sorta di morte. E questa parola è per ciascuno di noi: noi siamo chiamati a portare nella nostra vita la parola della croce. E questo avviene in tanti modi: nella debolezza della nostra carne, quella debolezza che a volte non accettiamo o non sappiamo gestire e che ci pare così lontana dalla via della santità che con tanti sforzi perseguiamo; nella logica della croce, cioè dell‟amore che passa attraverso la morte e che siamo chiamati a vivere ogni giorno; nelle varie sofferenze che incontriamo come discepoli di Cristo. Siamo veramente segnati dalla parola della croce. Ma ciò che è importante è che essa, nella nostra vita rimanga sempre unita a Cristo. Solo così è potenza e sapienza d Dio; solo così ci rivela il percorso di Dio in mezzo alla nostra debolezza e la forza che solo lui può portare alla nostra vita. La parola della croce ci ricorda questa verità:  Gesù ha percorso ogni abisso dell‟umanità, tracciando un cammino di comunione con le realtà umane in tutte le loro espressioni drammatiche per aprirle al dono della vita. Attraverso Cristo, attraverso il suo mistero di incarnazione, passione e morte, espressione del dono di sé, attraverso la parola della croce, la vita ormai abita il dramma del limite, del peccato  e  della morte. È come un chicco di grano nascosto sotto terra e che solo attraverso la morte porta frutto. Nulla dell‟uomo  è  estraneo al Figlio di Dio; ma ormai nulla di Dio è estraneo all‟uomo. “Dio non si vergogna della piccolezza dell‟uomo – scrive D.Bonhoeffer – vi si coinvolge totalmente: sceglie un esser umano, lo fa suo strumento, e compie il suo mistero là dove meno lo si attende. Dio è vicino a ciò che è piccolo, ama ciò che è perduto, ciò che è insignificante, reietto, ciò che è debole, spezzato. Quando gli uomini dicono „perduto‟ egli dice „trovato‟; quando dicono „condannato‟, egli dice „salvato‟; quando gli uomini dicono „no‟, egli dice „si‟… Quando giungiamo, nella nostra vita, al punto di vergognarci dinanzi a noi stessi e dinanzi a Dio, quando arriviamo a pensare che è Dio stesso a vergognarsi di noi, quando sentiamo Dio lontano come mai dalla nostra vita, ebbene, proprio allora Dio ci è vicino come non mai; allora vuole irrompere nella nostra vita, allora ci fa percepire in modo tangibile il suo farsi vicino, così che possiamo comprendere il miracolo del suo  amore, della sua prossimità, della sua grazia” (BONHOEFFER D,  Memoria e fedeltà, Bose/Magnano, Qiqajon, 1995, pp.57-58). Allora diventa profondamente vero per la nostra vita ciò che Paolo dice in  2Cor 12, 9-10: “Quando sono debole, è allora che sono forte, perché la potenza di Dio si manifesta nella debolezza”. La nostra debolezza, in un continuo confronto con la parola della croce, la nostra debolezza come chiamata ad una forza altra, la nostra debolezza come deserto in cui viene annullata e resa vuota ogni nostra pretesa di perfezione (quella farisaica) è luogo di grazia, è vera teologia, è cammino di conoscenza del sovrabbondante amore di Dio.b. “Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti…”.  Davanti alla parola  della croce una comunità, la Chiesa, scopre se stessa, chi veramente è e quale  è la sua vocazione. Come  coloro che erano giunti allo spettacolo della croce, tornando ripensavano a ciò che era accaduto percuotendosi il petto, così una comunità, tutta la Chiesa,coglie, davanti al Cristo crocifisso, nello steso momento, nell‟unico istante, la grandezza dell’amore di Dio e ciò che essa è: una comunità di salvati, ma continuamente bisognosa di perdono. Come comunità siamo chiamati a passare sempre per signum crucis. E questo ci fa capire come essere cristiani nel mondo: nella umiltà di chi non può vantare nulla davanti a Dio e nell‟umiltà di chi non vuole seguire vie di potenza (essere dei segnati dalla croce e non dei crociati). Ma questo permette a ciascuno di accogliere anche la comunità, la chiesa nella sua debolezza, nelle sue innumerevoli povertà, convinti che Dio può trasformarle in luogo della sua gloria. Una comunità cristiana, ci ricorda ancora D. Bonhoeffer “è un dono di Dio che non possiamo reclamare. Solo Dio sa a che punto è la nostra santificazione. Ciò che a noi pare debole, povero, per Dio può esser grande e magnifico… Quanto più profonda è la gratitudine con la quale accettiamo ogni giorno ciò che ci viene donato, tanto più certa e costante sarà la crescita quotidiana della comunione secondo la volontà di Dio” (La vita comune, Brescia 1969, pp.57- 59). Una comunità, una chiesa che continuamente considera, prende consapevolezza della propria  vocazione davanti e per mezzo della parola della croce, non si spaventa della propria debolezza, ma la affida al suo Signore; sempre di più preoccupata di vantarsi non dei propri risultati (certamente frutto del suo agire per il Signore) ma dell‟unica gloria del Signore. Commentando
proprio questo passaggio della 1Cor 1, 24-27, H.De Lubac scriveva. “Agli occhi del mondo la Chiesa, come il suo Signore, ha sempre l‟aspetto di schiava. Esiste quaggiù in „forma di serva‟… ‟E difficile, o piuttosto assolutamente impossibile all‟uomo naturale, fino a quando non sia intervenuta in lui una radicale trasformazione, riconoscere in questo fatto il compimento della kenosi salvifica e la traccia adorabile della umiltà di Dio… Non esiste un “cristianesimo privato”; e per accettare la Chiesa, bisogna prenderla così com‟è, tanto nella sua realtà umana e quotidiana, quanto nella sua idea eterna e divina, perché, di diritto come di fatto, la dissociazione è impossibile”. E il teologo continua indicando un modo „cattolico‟ di amare la chiesa: per amarla “bisogna immergersi nella sua vita come il grano affonda nella terra… Bisogna spingere fino al limite estremo la logica della Incarnazione, per cui la divinità si adegua alla debolezza umana. Per possedere il tesoro bisogna avere il vaso di argilla che lo contiene, fuori del quale esso si perde” (DE LUBAC, Le nostre tentazioni nei confronti della Chiesa). “O nome della croce mistero nascosto! O grazia ineffabile espressa nel nome della croce…Comprendete o uomini il mistero di tutta la natura e quale è stato il principio di ogni cosa… È giusto salire sulla croce di Cristo che è l‟unica e sola parola distesa, della quale lo Spirito dice: “Che cosa è Cristo se non la parola, l‟eco di Dio?”. Così la parola è l‟asse diritto della croce, quello al quale sono crocifisso; l‟eco è l‟asse trasversale, cioè la natura dell‟uomo; il chiodo che unisce l‟asse trasversale a quello diritto è la conversione e la penitenza
dell‟uomo. Poiché, dunque, o parola di vita… mi hai fatto conoscere e mi hai svelato queste cose, io ti ringrazio con labbra inchiodate… con quella voce che è compresa dal silenzio” (Atti di Pietro 37-39: in Apocrifi del Nuovo Testamento, cur. L.Moraldi, II, pp.100-102).

Publié dans:Lettera ai Corinti - prima |on 12 février, 2013 |Pas de commentaires »

« Trasparentissima prova di amore a Cristo e alla Chiesa » (Mons. Bruno Forte)

http://www.zenit.org/it/articles/trasparentissima-prova-di-amore-a-cristo-e-alla-chiesa

« Trasparentissima prova di amore a Cristo e alla Chiesa »

Comunicato di monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-vasto, sulle dimissioni di Benedetto XVI

Roma, 12 Febbraio 2013 (Zenit.org). Bruno Forte

Riportiamo di seguito il testo del comunicato pubblicato ieri da monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-vasto, a proposito dell’annunciata rinuncia al soglio petrino da parte di Benedetto XVI.
***
Oggi, 11 Febbraio 2013, durante il Concistoro convocato per le canonizzazioni di due Beate e dei Martiri di Otranto (1480), Papa Benedetto XVI ha comunicato una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Ecco le Sue parole, veramente toccanti: “Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di San Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20.00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice”. Il Papa ha concluso ringraziando i Cardinali “per tutto l’amore e il lavoro con cui avete portato con me il peso del mio ministero”, e ha aggiunto parole di profonda umiltà e di grande fede: “Chiedo perdono per tutti i miei difetti. Ora, affidiamo la Santa Chiesa alla cura del suo Sommo Pastore, Nostro Signore Gesù Cristo, e imploriamo la sua santa Madre Maria, affinché assista con la sua bontà materna i Padri Cardinali nell’eleggere il nuovo Sommo Pontefice. Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio ». Davanti a questa trasparentissima prova di amore a Cristo e alla Chiesa, non possiamo che esprimere al Papa Benedetto tutto il nostro amore, la devozione più profonda, l’ammirazione sincera e la gratitudine per il servizio reso con tanta generosità e ricchezza di luce per il popolo di Dio e il mondo intero in questi otto anni. Sappiamo che il divino Pastore guiderà la Sua Chiesa e le darà gli aiuti necessari. Papa Benedetto XVI pregherà per tutti noi e noi tutti lo porteremo fedelmente nella preghiera e nel cuore, invocando sin da ora lo Spirito Santo su chi sarà chiamato ad eleggere il nuovo Pontefice e su chi dovrà assumere il peso delle chiavi di Pietro.

Papa Benedetto

Papa Benedetto dans immagini sacre papa-ratzinger-si-dimette-322-770x5121

Publié dans:immagini sacre |on 11 février, 2013 |Pas de commentaires »
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