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LA CARITA (RIFLESSIONI SU 1COR 13,1-8 – PRIMA PARTE – Padri delle Chiesa e Santi (la seconda sotto)

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LA CARITA (RIFLESSIONI SU 1COR 13,1-8 – PRIMA PARTE

(dal sito Qumran una raccolta di testi di Santi e Padri della Chiesa sull’Inno alla Carità, divido in due, uno sotto l’altro)

LA CARITA’ È MAGNANIMA

1. «La carità è magnanima » (1 Cr 13, 4). È questa la prima qualità che S. Paolo le attribuisce. La carità rende l’animo grande, generoso, libero dai calcoli e dalle piccinerie dell’egoismo.
Quando Pietro ha domandato, se bastava perdonare al prossimo sette volte – e forse ciò gli sembrava il massimo possibile – si è sentito rispondere: « Ti dico: non fino a sette volte, ma settanta volte sette » (Mt 18,22). È quanto dire sempre senza mettere alcun limite, proprio come fa « il nostro Dio che è magnanimo nel perdono » (1s 55,7), Tutta la vita dell’uomo è sostanziata dal perdono di Dio. Appena la creatura apre gli occhi all’esistenza, Dio rigenerandola nella grazia, l’accoglie nel suo perdono col quale la riscatta dal peccato di origine. E poi, dal primo uso della ragione fino alla morte, è un continuo susseguirsi del perdono divino. Come potrebbe il cristiano vivere in grazia, perseverare e crescere nell’amicizia con Dio, nutrirsi del Corpo di Cristo senza il continuo, rinnovato perdono del Padre celeste? Ed ecco che la magnanimità del Padre deve divenire la norma della magnanimità dei figli; « Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro » (Lc 6,36), Pietro, dopo aver sperimentato la longanimità del perdono del Maestro da lui rinnegato, non ha avuto più bisogno di fare calcoli per sapere quante volte dovesse perdonare al suo prossimo. E forse ripensava al perdono sceso su di lui, con tanta abbondanza, quando scriveva che chi non ha amore fraterno, « è cieco e di vista corta, dimentico di essere stato mondato dai suoi antichi peccati » (2 Pt 1,9). Proprio perché il cristiano vive del perdono di Dio, deve saper perdonare i fratelli. L’abbraccio del perdono che Dio gli dona e ridona con instancabile magnanimità, non deve fermarsi a lui; è suo dovere trasmetterlo al prossimo. Ciò è tanto importante agli occhi di Dio che, in definitiva, egli inverte le parti e misura la larghezza del suo perdono sulla generosità di ognuno nel perdonare agli altri. « Perdonate e vi sarà perdonato… con la misura con la quale misurerete sarà misurato a voi » (Lc 6, 37-38 ).
2. La carità è magnanima verso gli altri perché « non tiene conto del male ricevuto » (1 Cr 13,5). Ciò che raffredda l’amore fraterno è il pensiero dei torti ricevuti, che molto difficilmente l’uomo sa dimenticare. Il perdono di Dio non solo condona i debiti contratti, ma li distrugge fino ad annullarne la memoria. « Tutte le trasgressioni, che [l'uomo] avrà compiute, non saranno più ricordate per lui » (Ez 18,22), dice la Scrittura. E di più Dio col perdono ridona intatta la sua amicizia. Il perdono del cristiano non è completo se non mira a questo: dimenticare il male ricevuto al punto di trattare con cuore e con gesto d’amico l’offensore. « Siate benevoli gli uni verso gli altri – insiste S. Paolo -, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo » (Ef 4,32). Se il proposito del perdono non è vissuto con generosità e costanza, quando il cristiano si presenta al Padre celeste per la preghiera, pronuncia la sua condanna: « E rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori » (Mt 6, 12). Che cosa può essere dell’uomo se Dio diventa, come lui, avaro del suo perdono? Forse la mediocrità di tanti, un tempo ferventi e generosi nel servizio di Dio, si spiega con la grettezza del loro perdono che ha paralizzato la loro vita spirituale. « Chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà » (2Cr 9,6). Chi semina un perdono scarso e avaro non può pretendere da Dio un perdono largo, magnanimo, e neppure abbondanza di grazia e di amore.
« Date e vi sarà dato – ripete il Signore -; una misura buona, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata in grembo » (Lc 6,38). La carità non è piena se non è magnanima in ogni suo aspetto. Tutti gli uomini vivono dei doni di Dio e tutti devono scambiarsi i doni ricevuti. I doni spirituali dell’amore, della benevolenza, del perdono, e i doni materiali necessari alla vita; « Se il tuo nemico ha fame, sfamalo; se ha sete, dagli da bere »(Pr 25, 21).
« Ma se uno ha dei beni di questo mondo, e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude le proprie viscere, come dimora in lui l’amore di Dio? Figlioletti, non amiamo a parole ne con la lingua, ma a fatti e nella verità » (1 Gv3, 17-18).
PREGHIERE: Perdonaci Signore. Che io possa, come la peccatrice, udire dalla tua bocca le dolci e consolanti parole: « Le sono rimessi molti peccati, perché ha amato molto; quegli a cui più si perdona più ama e quegli a cui meno si perdona meno ama ». Sono parole tue, o Verità eterna. Perdonami dunque e fa’ che ti ami quanto ho di bisogno del tuo perdono…
E affinché nulla manchi alla carità perfetta, ecco ancora l’amore fraterno. Nessuna cosa deve impedire la unione con i nostri, fratelli, se non la possono impedire neppure le offese. Noi le perdoniamo, Signore, così come vogliamo ottenere, il perdono per noi, con la stessa sincerità. Non conserviamo alcun risentimento, come desideriamo che non ne conservi tu. Restituiamo loro il nostro amore, come vogliamo che tu ci renda il tuo.
J. B. BOSSUET, Meditazioni sul Vangelo III,51,v 1,p 235
Chi è o Signore, che non sia debitore verso di te se non chi vada esente da ogni: colpa? Chi è che non abbia per debitore qualche fratello se non chi non sia mai stato offeso da nessuno? …Ogni uomo è debitore e tuttavia ha, a sua volta; qualche debitore. Perciò, o Signore, nella tua giustizia tu hai stabilito che tua regola di condotta verso di me, tuo debitore, fosse quella seguita da me con chi è debitore a mio riguardo.
Due sono infatti le opere di misericordia che ci liberano e che tu stesso hai fatto registrare brevemente nel tuo Vangelo: Perdonate e vi sarà perdonato; date e vi sarà dato… lo voglio essere perdonato del mio peccato, Signore, perciò ho qualcuno cui poter perdonare… Accatta da me il povero, e io sono tuo mendicante, Signore. Infatti quando preghiamo, siamo tutti tuoi mendicanti: stiamo davanti alla porta del grande padre di famiglia, anzi ci prostriamo supplicando con gemiti per la brama di ricevere qualcosa, e questo qualcosa sei tu, o Signore! Che cosa chiede a me il povero? Il pane. E io che cosa chiedo a te se non te stesso che hai detto: Io sono il pane vivo disceso dal cielo? Per ottenere perdono perdonerò; rimetterò ad altri e sarà rimesso a me; volendo ricevere darò, e mi sarà dato.
S. AGOSTINO, Sermo 83;2

LA CARITA’ È BENIGNA
1. La benignità è frutto del cuore buono, benevolo, che a imitazione di Dio vuole e cerca solo il bene dei fratelli: « cercate sempre il bene, tra voi e con tutti », esorta S. Paolo (1 Ts 5, 15). Se il cuore è buono, sono buoni anche i pensieri, sono benevoli anche i giudizi.
« E perché guardi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello mentre non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? » (Mt 7,3 ). Quanto più l’uomo è povero di virtù, tanto più i suoi difetti gli sembrano lievi e gravi invece quelli degli altri, particolarmente se urtano la sua sensibilità. È perciò tentato di erigersi a giudice del prossimo, condotta che denuncia la pochezza del suo amore. È troppo facile che una certa dose di questo spirito critico si annidi anche in coloro che si danno alla pietà e forse vivono all’ombra del santuario. Ma ciò mina in radice la vita spirituale perché ferisce la carità che ne è il fondamento. Se dove regnano la carità e l’amore là Dio è presente, dove la carità e l’amore scarseggiano Dio non dimora volentieri, nulla o quasi è la comunione con lui e della vita di pietà resta solo l’impalcatura esterna.
Il giudizio spetta a Dio solo, perché lui solo scruta i cuori. « L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore » ( 1 Sam 16, 7). Non conoscendo le intenzioni e le circostanze dell’agire altrui, il giudizio dell’uomo – a meno che non vi sia tenuto per ufficio – è sempre temerario e usurpa i diritti di Dio.« E chi sei tu – grida S. Paolo – che giudichi l’altrui servo? Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone » (Rm 14,4), Il padrone è Dio, al tribunale del quale tutti ci presenteremo: « ciascuno di noi renderà conto a Dio di se stesso » (ivi 12), Il giudizio intransigente è condannato da Gesù, che applica ad esso la norma data per il perdono: « Non giudicate per non essere giudicati; perché col giudizio col quale giudicate sarete giudicati » (Mt 7, 1-2). Invece di giudicare il prossimo la carità nutre per lui sentimenti di misericordia, preoccupandosi di scusare piuttosto che di condannare.
2.  Agli, operai della prima ora che mormoravano perché quelli dell’ultima erano trattati alla loro stregua, il padrone della vigna diceva: « non posso fare, delle cose mie quello che voglio? o il tuo occhio è cattivo perché io sono buono? » (Mt 20, 15). Se l’occhio è maligno, il cuore non è benevolo verso il prossimo; di conseguenza il bene degli altri suscita scontento, gelosia, invidia. La carità, al contrario, « non è invidiosa » (1 Cr 13,4), anzi gode del bene altrui, lo favorisce, lo procura, anche se facendo questo dovesse scapitarne personalmente, « Rallegrati del bene degli altri come se fosse tuo – dice S. Giovanni della Croce – cerando sinceramente che questi siano preferiti a te in tutte le cose… Cerca di fare ciò specialmente con coloro che ti sono meno simpatici » (Ct 13 ).
La condotta del cristiano verso il prossimo deve riflettere la benignità e l’amore di Dio, per la bontà del quale siamo stati salvati (Tt 3, 4). Benignità nei sentimenti, nei pensieri, nelle parole, nelle azioni, come continuamente inculca la Sacra Scrittura. S. Pietro esorta a deporre « le invidie e ogni maldicenza » ( 1 Pt 2, 1 ). S. Giacomo raccomanda: « Non sparlate gli uni degli altri, o fratelli. Chi sparla del fratello, o giudica il fratello, parla contro la legge » ( Gc 4, 11 ). La legge della carità che Cristo ha lasciato ai suoi discepoli, è lesa da simili comportamenti; di conseguenza l’amicizia con Cristo viene diminuita, raffreddata. Come dimenticare le sue parole: « Voi siete miei amici, se farete quello che io vi comando » (Gv 15, 14)? E il suo comandamento più caro è appunto quello dell’amore scambievole. Anche S. Paolo insiste: « Agite senza mormorazioni e critiche, affinché siate irreprensibili e semplici, figli di Dio immacolati » (Fl 2, 14-15). Immacolati nella pratica di una carità benevola e pura che cerca il bene altrui e non l’appagamento del proprio cuore o il proprio tornaconto.
La carità infine è benigna nei modi affabili e cortesi, è benigna nel seminare bontà dovunque, anche dove sembra che questa manchi. In ogni uomo, fosse pure malvagio, c’è del bene, è l’orma di Dio che l’ha creato. È compito della bontà scoprire e far riaffiorare questo bene. La bontà del cristiano deve essere simile a quella di Dio che crea il bene in quelli che ama.
PREGHIERE: Aiutami, Signore, a non vedere nel mio prossimo nient’altro che le virtù e le buone opere, e a coprirne i difetti con la considerazione dei miei peccati. In tal modo, mi condurrai a poco a poco a una grande virtù, a quella cioè di considerare gli altri migliori di me: virtù che comincia sempre da qui, ma per questo ho bisogno del tuo aiuto, Signore, senza del quale non posso far nulla, tanto mi è necessario. Aiutami a fare il possibile per meritarla, allora tu che non ti rifiuti a nessuno, me la darai senza dubbio.
cf  S. TERESA DI GESÙ, Vita 13, 10

O Signore, per rendermi favorevole il tuo giudizio, o piuttosto per non essere giudicata affatto, voglio avere sempre pensieri caritatevoli, perché tu hai detto: « Non giudicate e non sarete giudicati ». Quando il demonio cerca di mettermi davanti agli occhi dell’anima i difetti di qualche sorella…, aiutami a cercare subito le sue virtù, i suoi buoni desideri… Se l’ho vista cadere una volta, ella può ben aver riportato un gran numero di vittorie che nasconde per umiltà, e perfino ciò che mi pare un errore può benissimo essere, a causa dell’intenzione, un atto di virtù.
S. TERESA DI GESU’  B., Scritto Autobiografico C 291. 290

Fare del bene significa rappresentare perfettamente te, o Gesù, Figlio di Dio, Figlio di Maria, Maestro universale e Salvatore del mondo. Non c’è scienza, non c’è ricchezza, non c’è forza umana che uguagli il valore della bontà: dolce, amabile, paziente. Può subire mortificazioni o contrasti l’esercizio della bontà, ma finisce sempre col vincere, perché la bontà è amore, e l’amore tutto vince… Fa’, o Signore, che non cada nell’errore di credere la bontà, l’affabilità, una piccola virtù. Essa è una grande virtù perché è dominio di se, è disinteresse personale, ricerca fervorosa di giustizia, espressione e splendore di fraterna carità; nella tua grazia, o Gesù, è il tocco dell’umana e divina perfezione.
cf GIOVANNI XXIII, Breviario p 373

LA CARITÀ NON SI VANTA
1.  « ….la carità non si vanta, non si gonfia » (1 Cr 13, 4). È la vanagloria che cerca il proprio vanto, mentre la carità agisce « non per piacere agli uomini, ma a Dio » ( 1 Ts 2, 4). La vanagloria mette l’io al centro della vita; la carità vi mette Dio e il prossimo. La vanagloria si gonfia di quel poco che ha; la carità si vuota di quanto ha per darlo agli altri. La vanagloria: è ricerca di se, la carità è dedizione di se a Dio e ai fratelli. Carità e vanagloria vanno in direzione opposta e si elidono a vicenda, « L’anima innamorata -dice San Giovanni della Croce – è un’anima dolce, mite, umile » (Par 1, 27).
Quanto più la carità è profonda, tanto più il cristiano si dona agli altri, serve il prossimo, dà a chi è nel bisogno con semplicità e delicatezza, senza far valere le sue prestazioni; anzi cerca di farle passare inosservate. « Guardatevi dall’ostentare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro », ha detto Gesù (Mt 6, 1 ), La carità non suona la tromba per annunciare le sue opere buone. « Quando fai l’elemosina non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo che vede nel segreto, ti ricompenserà » (ivi 3-4 ). La carità non dona con alterigia, ma si mette alla pari. Il fratello dona al fratello, godendo di dividere con lui quello che possiede e non fa pesare la sua superiorità perché è convinto di non averne; « Se uno pensa di essere qualcosa mentre non è nulla, inganna se stesso » (Gl 6, 3). La carità viene da Dio e Dio è verità, perciò dove c’è carità sincera non può esserci inganno di vanagloria.
« Chi si gloria, si glori nel Signore », dice S. Paolo (2 Cr 10, 17). La gloria del cristiano è amare e beneficare il prossimo, ma non se ne gonfia; è invece grato al prossimo che gliene dà l’occasione e a Dio che con la sua grazia lo sostiene nel bene.
2. « Non cerchiamo la vanagloria, provocandoci gli uni con gli altri, invidiandoci gli uni gli altri » (Gl 5, 26). Chi è ambizioso non ha riguardo per gli altri, si antepone a tutti, vuol primeggiare e farsi valere. La sua condotta indispone e provoca il prossimo che si vede leso nei suoi diritti; di qui le divisioni, le invidie, gli antagonismi. La carità, al contrario, – « non manca di rispetto »,(1Cor 13, 5) ad alcuno, e piuttosto che rivaleggiare con gli altri o preferirsi ad uno solo, sceglie per se l’ultimo posto. La carità ispira sentimenti delicati verso il prossimo, non disprezza nessuno, rispetta e onora tutti. « Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, prevenitevi a vicenda nel rendervi onore », scrive s. Paolo ai Romani (12,10); e ai Filippesi raccomanda: « ognuno per umiltà consideri gli altri superiori a se » (2, 3). Invece di lotte meschine per scavalcarsi a vicenda, i cristiani, da veri fratelli, fanno a gara per cedersi onori e vantaggi.
Per incoraggiare all’umiltà nei rapporti scambievoli, S. Paolo pone sotto gli occhi dei fedeli il sublime esempio di Cristo: « Abbiate in voi i sentimenti che furono in Cristo Gesù: lui di natura divina, non tenne per se gelosamente l’essere pari a Dio; ma annientò se stesso prendendo la natura di schiavo » (Fl (2,5-7). Il Figlio di Dio ha amato e salvato gli uomini facendosi simile a loro, uno di loro. Egli addita la strada: per amare efficacemente il prossimo, il cristiano, deposta ogni ambizione, deve farsi piccolo e umile, mettersi alla pari di tutti perché tutti lo sentano fratello. Questa è l’unica via non solo della carità fraterna: ma anche di ogni apostolato. « Il rispetto e l’amore – insegna il Vaticano II – deve estendersi anche a coloro che pensano o agiscono diversamente da noi nelle cose sociali,  politiche o anche religiose, poiche con quanta maggiore umanità e amore penetreremo nei loro modi di sentire, tanto più facilmente potremo con essi iniziare un colloquio » ( GS 28 ). Ma non può illudersi di saper amare e rispettare i lontani, chi non ama e rispetta i vicini con i quali convive.
PREGHIERE: « Se la coscienza non ci rimorde, noi abbiamo piena fiducia in Dio » … Fa, o Signore, che la coscienza mi risponda in tutta verità che io amo i fratelli, che in me c’è l’amore fraterno, non finto ma sincero, quello che ricerca il bene del fratello, senza aspettare da lui nessuna ricompensa ma solo la sua salvezza.
« Noi abbiamo piena fiducia in Dio; qualunque cosa domanderemo l’avremo da lui, perché ne osserviamo i comandamenti ». O Signore, fa’ che io faccia questo non davanti agli uomini, ma là dove tu mi vedi cioè nel cuore… Quali sono i tuoi comandamenti? …« Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate l’un l’altro ». È proprio la carità il comandamento di cui parli e che tanto ci raccomandi. Dammi, o Signore, la carità fraterna e ciò davanti a te, là dove tu vedi; fa’ che interrogando il mio cuore con retto giudizio mi senta rispondere che la radice della carità fraterna, da cui nascono frutti di bontà, è in me; allora avrò fiducia in te e tu mi accorderai tutto ciò che ti domanderò, perché osservo i tuoi comandamenti.
S. AGOSTINO, In 1 Io 6, 4

O Dio, Creatore nostro, tu disponi le cose in modo che chi potrebbe insuperbire del dono che ha, si umili per quello che non ha; mentre sollevi uno concedendogli una grazia, lo sottometti ad un altro in cosa diversa… Tu disponi le cose in modo tale che ognuna sia di tutti, e per esigenza di carità, tutte siano di ognuno, e ciascuno possieda in un altro ciò che non ha ricevuto direttamente, ed egli umilmente dia in possesso agli altri quello che ha ricevuto da te. O Signore, fa’ che amministriamo bene la tua grazia multiforme, cioè che siamo convinti che i doni dati a noi sono degli altri, perché ci sono dati a vantaggio loro… Fa’ che ci serviamo a vicenda per mezzo della carità. Infatti la carità ci libera dal giogo della colpa quando vicendevolmente ci sottomette a servirci per amore, e così riteniamo che i doni altrui siano anche nostri e agli altri offriamo i nostri come se fossero cosa loro.
S. GREGORIO MAGNO, Moralia XXVIII, 22

LA CARITÀ NON È EGOISTA
1. La carità « non cerca il suo interesse » (1 Cr 13, 5). Essere sensibili alle necessità altrui, essere pronti a rispettare e a servire il prossimo non giustifica la pretesa di volere il contraccambio. La carità si dona con generosità agli altri, ma non reclama nulla per se. « Fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi » (Lc 6, 35). La carità non è un dare per avere, ma un dare senza calcolo e interesse, che si ritiene sommamente ripagato dall’onore di poter servire e amare Dio nel prossimo. Chi ha il cuore pieno di carità ama, serve, si prodiga per il gusto di amare e servire Dio nelle sue creature, per la gioia d’imitare la sua prodigalità infinita e di sentirsi suo figlio. Quale ricompensa maggiore che condividere con Gesù il titolo di « figlio dell’Altissimo » (Lc 1, 32)?
Per avere quest’unica ricompensa, il cristiano sfugge ogni ricompensa terrena e mira a beneficare soprattutto quelli dai quali non può sperare nessun ricambio. « Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli…, né i vicini ricchi, perché non avvenga che anch’essi invitino te e ti venga reso il contraccambio. Ma quando fai un convito, invita poveri, storpi, zoppi e ciechi; e sarai beato perché non hanno da contraccambiarti » (Lc 14,12-14). La logica del Vangelo è immensamente distante da quella del calcolo; ma sono ben pochi quelli che hanno il coraggio di seguirla integralmente.
« La vostra condotta sia senza avarizia » esorta l’ Apostolo (Eb 13, 5), e raccomanda di vivere nella carità « senza cercare i propri interessi, ma ciascuno quello degli altri» (FiI 2, 4). È sempre il germe dell’egoismo che rende avari e interessati perfino nel compiere il bene; esso si nasconde e fa strage anche nel cuore delle persone devote: isterilisce la carità, indura gli animi, spegne la compassione per i bisogni e le sofferenze altrui. Può allora ripetersi il fatto del levita e del sacerdote che, senza alcun pensiero per il ferito incontrato lungo la strada, tirano dritto andandosene per i fatti loro. 
2. « Mediante la carità fatevi servi gli uni degli altri » (Gl 5,13 ). Mentre l’egoismo rinchiude l’uomo in se stesso e nella stretta cerchia dei suoi interessi, la carità lo spinge a dimenticarsi per aprirsi: alle necessità del prossimo e mettersi a sua disposizione. La carità libera l’uomo dalla schiavitù dell’egoismo per impegnarlo in un generoso servizio del prossimo. È Gesù che ha dato al mondo l’esempio supremo del servizio; lui che essendo Dio si è fatto servo e ha detto: « Io sto in mezzo a voi come uno che serve » (Lc 22,27). E insieme ne ha dato anche il comando: « Chi vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo… Così come il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e dare la sua vita in riscatto per molti » (Mt 20,27-28 ). Il servizio non è un elemento secondario o facoltativo della sequela di Cristo, ma essenziale; tanto essenziale che, secondo la parola del Signore, la grandezza del cristiano sarà proporzionata alla generosità del suo « farsi servo ». Non è un servizio che avvilisce, ma che nobilita perché frutto dell’amore e perché l’uomo non può realizzarsi pienamente « se non attraverso un dono sincero di sé » (GS 24 ); È un servizio che innalza il cristiano fino ad assimilarlo a Cristo, conducendolo ad una dedizione simile alla sua.
La prestazione disinteressata dei credenti deve testimoniare al mondo il valore della carità cristiana e portare a ogni uomo un’eco dell’amore di Cristo, dell’amore dèl Padre celeste; « La presenza dei cristiani nei gruppi umani – afferma il Vaticano II -, deve essere animata da quella carità, con la quale Dio ci ha amati: egli vuole appunto che anche noi reciprocamente ci amiamo con la stessa carità. Ed effettivamente la carità cristiana si estende a tutti… senza prospettive di guadagno o di gratitudine. Come Dio ci ha amati di amore gratuito, così anche i fedeli con la loro carità devono preoccuparsi dell’uomo, amandolo con lo stesso sentimento, con cui Dio ha cercato l’uomo » (AG 12).
PREGHIERE: O Dio, la tua bontà e la tua eterna volontà non cerca né vuole altro che la nostra santificazione, e permette che il demonio ci faccia tribolare e perseguitare dagli uomini solo perché in noi si provi la virtù dell’amore e della vera sapienza, e perché l’amore imperfetto venga a perfezione.
Insegnaci,o Dio, ad amare te per te stesso, in quanto tu sei somma ed eterna bontà e degno di essere amato, e il prossimo per te e non per propria utilità, né per diletto, né per piacere che si trovi in lui, ma in quanto è  creatura amata e creata da te, somma eterna bontà, e servire lui e sovvenirlo di quello che a te non può servire. Onde, poiché a te non possiamo fare utilità, insegnaci a farla al prossimo nostro.
Dacci la perfezione dell’amore! E quando l’amore è così perfetto, non lascia di amare né di servire, né per ingiuria né per dispiacere che gli sia fatto, né perché non trovi diletto e piacere nel prossimo, poiché attende solo di piacere a te.
cf S.CATERINA DA SIENA, Epistolario 151, v 2, p 373.

LA CARITA (RIFLESSIONI SU 1COR 13,1-8 – SECONDA PARTE

LA CARITA (RIFLESSIONI SU 1COR 13,1-8 – SECONDA PARTE

Come tu, Signore, ci hai sempre preferito a te stesso, e lo fai ancora ogni volta che ti dai a noi nel santo Sacramento facendoti nostro cibo, così vuoi che noi abbiamo gli uni per gli altri un amore tanto grande che preferiamo sempre il prossimo a noi stessi. E come tu hai fatto tutto quello che potevi per noi, eccetto il peccato – poiché non lo dovevi né potevi fare – così vuoi che noi facciamo tutto quello che possiamo gli uni per gli altri, eccetto il peccato. Fa’ dunque, o Signore, che esclusa ogni tua offesa, il mio amore fraterno sia così fermo, cordiale e solido che non tralasci mai di fare o di soffrire qualsiasi cosa per il prossimo.
Insegnami a testimoniare il mio amore con i fatti, procurando al prossimo tutto quel bene che posso, pregando per lui e servendolo in ogni occasione: Rendimi pronto a spendere la vita per i fratelli, a impegnarmi per loro senza alcuna riserva. Non solo, ma a lasciarmi impegnare secondo il volere degli altri, per amore, poiché questo ci hai insegnato tu, benignissimo Salvatore, morendo sulla croce.
cf S. FRANCESCO DI SALES, Trattenimenti 4, 2. 9

LA CARITÀ NON SI ADIRA
1. Quando Giacomo e Giovanni, sdegnati contro i Samaritani che non avevano accolto il Maestro, dissero: « Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi? », egli « si voltò e li rimproverò » (Lc 9, 54- 55). Venuto a salvare e non a perdere, venuto a guarire i malati nell’anima e nel corpo e a redimere i peccatori, Gesù non usa mezzi violenti, ma si presenta al mondo vero « Servo di Jahvé » che non grida, non spezza la canna già rotta, né spegne il lucignolo fumigante (Mt 12,19-20).
Con dolcezza infinita s’insinua nei cuori, istruisce, ammonisce, addita la via della salvezza e a tutti quelli che lo seguono ripete: « Il mio giogo è dolce, e il mio carico leggero » (Mt 11,30).
La dolcezza è il fiore della carità; è una partecipazione della soavità infinita con cui Dio guida e governa tutte le cose. Nessuno vuole il bene dell’uomo con tanta forza come Dio, e tuttavia egli non lo vuole con durezza, rigidità o violenza, ma con soavità, rispettando la libertà della sua creatura, sostenendo i suoi sforzi, attendendo con longanimità infinita la sua adesione alla grazia. Gesù ne ha dato al mondo l’esempio più convincente, particolarmente nella sua passione quando « oltraggiato non rispondeva con oltraggi, soffrendo non minacciava » ( 1 Pt 2, 23 ). Pietro, il quale ne era Stato testimone oculare e al momento della cattura del Maestro si era sentito dire: « Rimetti la spada al suo posto » (Mt 26,52), ne è rimasto così colpito da vincere per sempre la sua indole focosa. Lo attestano le sue frequenti esortazioni alla mitezza evangelica. Ai domestici raccomanda di stare soggetti ai padroni « non solo a quelli buoni e miti, ma anche a quelli intrattabili » ( 1 Pt 2, 18). Alle donne di stare sottomesse ai loro mariti con « uno spirito di mitezza e di pace, che è prezioso agli occhi di Dio » (ivi 3,4); a tutti di rispondere « con mansuetudine e rispetto » (ivi 16 ), anche a chi tormenta ingiustamente. S. Giacomo gli fa eco: « La sapienza che viene dall’alto… è pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia » ( Gc 3, 17 ). I due apostoli avevano imparato da Cristo lo stile della carità.
2. La carità « non si adira » (1 Cor, 13,5), perciò S. Paolo raccomanda: « Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malizia » (Ef 4, 31 ). Tutti vizi opposti alla carità, che provengono dalle passioni non domate, le quali sotto l’urto delle contrarietà rompono i freni. L’ira non contenuta è fonte di parole e atti inconsulti, violenti che turbano fortemente i rapporti fraterni. Chi ama il prossimo preferisce fare violenza a se stesso per vincere l’ira nascente; piuttosto che ferire gli altri con l’asprezza e la violenza;
Tuttavia la carità non esclude, anzi talvolta esige una giusta fermezza, quando è necessario correggere o reprimere il male, soprattutto se sono in gioco i diritti di Dio o quelli dei piccoli e dei deboli. Anche Gesù s’indignò contro i profanatori del tempio e lanciò dure invettive contro i farisei che cori la loro ipocrisia e falsa interpretazione della legge opprimevano e ingannavano il popolo. Ma mentre in Cristo lo sdegno era perfettamente dominato dalla ragione e dalla volontà, nell’uomo, a motivo del disordine portato dal peccato, non è così; perciò è sempre pericoloso dar campo all’ira. « Adiratevi, ma non peccate – dice l’Apostolo -; non tramonti il sole sopra la vostra ira, e non date occasione al diavolo » (Ef 26-27 ). Se per la fragilità umana qualche scintilla si accende, bisogna affrettarsi a spegnerla per impedire che faccia rovine nel cuore proprio e altrui, dando occasione al peccato. Il diavolo si serve dell’ira per suscitare rancori e discordie che rompono la carità. Nel libro dei Proverbi si legge: « Una parola gentile calma l’ira; una parola pungente eccita la collera. – L’uomo collerico suscita litigi; quello longarine seda una contesa. – Favo di miele sono le parole gentili, dolcezza per l’anima e refrigerio per il corpo » (15, 1.18; 16,24). La meditazione di queste sentenze, piene di sapienza perché ispirate dallo Spirito santo, è molto utile per imparare a frenare se stessi e a conformarsi alla mitezza di Cristo che ha detto: « Imparate da me, che sono mite ed umile di cuore » (Mt 11, 29).
PREGHIERE: O carità ineffabile del Dio nostro! …E che m’hai tu insegnato, Carità increata? m’hai insegnato che io, come agnello, pazientemente sostenga non solamente le parole aspre, ma anche le percosse dure e aspre, le ingiurie ei danni. E con questo vuoi ch’io sia innocente e immacolata, cioè senza nuocere a nessuno dei prossimi e fratelli miei; non solamente a quelli che non ci perseguitano ma a coloro che ci fanno ingiuria: e vuoi che per loro preghiamo come per speciali amici che ci danno buono e grande guadagno. E non solo nelle ingiurie e danni temporali vuoi che io sia paziente e mansueta, ma generalmente in ogni cosa la quale sia contro la mia volontà: come tu non volevi che in veruna cosa fosse fatta la tua volontà ma quella del Padre tuo…
O dolcissimo amore Gesù, fa’ che sempre s’adempia in noi la volontà tua, come sempre si fa in cielo dagli Angeli e Santi tuoi.
S.CATERINA DA SIENA, Epistolario 132, v 2, p 299-300

O carità, tu non cerchi il tuo interesse, non ti adiri… e in cambio del male ricevuto colmi di bene.. O carità che tutto sopporti, tu dissimuli, aspetti, non lasci cadere chi sbaglia; o carità, perchè benigna, attiri, conquisti, ti muovi dall’errore. O carità benigna, tu ami anche coloro che devi sopportare e li ami ardentemente. Sì, tu piangi ma di amore, non già di dolore; piangi di desiderio, piangi con coloro che piangono.
O carità, madre buona, sia che tu sostenga i deboli, sia che stimoli i provetti, sia che riprenda gli inquieti, pur mostrandoti diversa con persone diverse, ami tutti come figli! Quando riprendi sei mite, quando accarezzi sei semplice; sei solita incrudelire con pietà, placare senza inganno, sai adirarti con pazienza, indignarti con umiltà; provocata non ti lasci offendere, disprezzata, richiami. Proprio tu; infatti, sei la madre degli uomini e degli angeli. Tu hai pacificato non solo le cose della terra ma anche quelle del cielo. Sei tu che placando Dio verso l’uomo, hai riconciliato l’uomo con Dio.
ANONIMO (sec. XIII), De Charitate 5, 26-7.

CARITÀ E GIUSTIZIA
1. La carità non solo « non gode dell’ingiustizia » (1 Cr 13,6), ma ne soffre e fa tutto il possibile per difendere e promuovere la giustizia. Gesù ha presentato la sua missione come un’opera di salvezza e di giustizia soprattutto in favore dei poveri, dei prigionieri, degli oppressi, liberandoli dalla schiavitù e dalla cecità del peccato, e anche dalla prepotenza dei grandi e dei superbi (Mt 12, 18-20). Egli è venuto a instaurare il regno dell’amore e della giustizia, aperto a tutti, senza alcuna distinzione; e se c’è una preferenza è proprio per gli umili, gli indigenti, i tribolati. La Chiesa segue la stessa condotta: « fondata nell’amore del Redentore, contribuisce ad estendere il raggio d’azione della giustizia e dell’amore » in tutto il mondo (GS76); e si preoccupa di « istruire i fedeli all’amore di tutto il Corpo mistico di Cristo, specialmente delle membra povere, sofferenti e di quelle che sono perseguitate a causa della giustizia » (LG23).
Senza giustizia non vi può essere né carità, né vera vita cristiana. S. Giacomo riprendeva fortemente i fedeli che nelle loro adunanze riserbavano un posto distinto ai ricchi, trascurando i poveri. « Dio non ha forse scelto quelli che sono poveri nel mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del Regno che ha promesso a coloro che lo amano ? Voi invece avete disprezzato il povero! …Se fate distinzione di persone, commettete un peccato » (Gc 2,5-9). È il peccato dell’ingiustizia di cui la carità cristiana non deve mai macchiarsi. « Chi opprime il povero offende il Creatore », dice il libro dei Proverbi (14,31). II Concilio Vaticano II ha inculcato con molta insistenza questi principi e vuole che essi penetrino « l’intera vita dei credenti, anche quella profana, col muoverli alla giustizia e all’amore specialmente verso i bisognosi » (GS 21). Ciò era molto sentito nella Chiesa primitiva, nella quale i fedeli, per spontaneo impulso di carità, mettevano, in comune i loro beni, al punto che « nessuno tra loro era bisognoso » (At 4, 34 ). San Paolo nella lettera agli Ebrei raccomanda di perseverare in questo spirito: « Non scordatevi della beneficenza e della comunione dei beni, perchè il Signore si compiace di tali sacrifici » (13,16).
2. Ai farisei che avevano ridotto la religione a osservanze materiali, come la purificazione delle stoviglie, Gesù diceva: « Piuttosto date in elemosina quel che c’è dentro, ed ecco, tutto sarà puro per voi » (Lc 11,41). Poco o nulla valgono gli atti di culto se non sono accompagnati dalla carità e dalla giustizia, poiche solo queste virtù purificano il cuore dell’uomo dall’egoismo e dalla cupidigia, lo inclinano ad onorare Dio con sincerità e ad amare il prossimo non a parole, ma con i fatti. « Se un fratello o una sorella sono nudi e privi del cibo quotidiano, e uno di voi dice loro: “Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi” ,senza dare loro il necessario per il corpo, che giova? » (Gc 2,15-16). Senza le opere, religione e carità sono vane.
Il soccorso ai poverì non deve essere considerato solo come un atto di carità più o meno facoltativo, ma anche come uno stretto dovere di giustizia. « Dio – dice il Concilio – ha destinato la terra e tutto ciò che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e popoli… Perciò l’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede, non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui, ma anche agli altri » (GS 69). È quello che S. Paolo proponeva alla Chiesa di Corinto, invitandola ad aiutare quella di Gerusalemme: « Non si tratta invero di disagiare voi per sollevare gli altri, ma perchè vi sia eguaglianza; nel momento attuale la vostra abbondanza scenda sulla loro indigenza » (2 Cr 8, 13-14). Se tutti gli uomini sono fratelli, perchè tutti figli di Dio, la loro stessa fraternità esige che mentre alcuni nuotano nell’abbondanza, altri non periscano nella miseria. Perciò la Chiesa insegna « che gli uomini hanno l’obbligo di aiutare i poveri e non soltanto con il loro superfluo… Spetta a tutto il popolo di Dio, dietro la parola e l’esempio dei Vescovi, di sollevare, nella misura delle proprie forze, la miseria di questi tempi, dando, secondo l’uso antico della Chiesa, non solo del superfluo, ma anche del necessario » (GS 69.88). I doni offerti ai poveri « sono un sacrificio accetto e grladito a Dio » (Fl 4, 18 ).
PREGHIERE: O carità, tu dilati il cuore nell’amore di Dio e dilezione del prossimo tuo… Tu sei benevola, pacifica e non iraconda; tu cerchi le cose giuste e sante e non le ingiuste; e come le cerchi, così le serbi in te, perciò riluce nel petto tuo la margarita della giustizia…
O carità, tu ami tutti caritativamente come figlioli… Sei una inadre che concepisci nell’anima i figlioli della virtù e li partorisci per onore di Dio nel prossimo tuo…
Col lume di discrezione, sai dare ad ognuno secondo ch’è atto a ricevere; caritativamente correggi facendoti inferma con gli infermi, insieme lusingando e correggendo secondo che vuole la giustizia e la misericordia.
s. CATERINA DA SIENA, Epistolario 33,v 1, p 150-1 .153

« Ebbi fame e mi deste da mangiare ». O Signore, tu ci dai qui il vero motivo dell’elemosina, il più forte di tutti. Ce ne sono altri: bisogna dare per obbedire al tuo ordine tante volte ripetuto; bisogna obbedire per imitare te che dai così generosamente…; bisogna dare perchè il tuo amore ci obbliga a riversare l’amore che abbiamo verso di te sugli uomini, tuoi figlioli amatissimi; bisogna dare per bontà, unicamente per praticare, coltivare questa virtù che dev’essere amata in se stessa, in quanto è uno dei tuoi attributi una delle tue divine bellezze, una delle tue perfezioni e per conseguenza, te stesso, o mio Dio.
Ma tra tutti i motivi che abbiamo per dare, quello che più ci spinge, quello che… ci infiamma sopra ogni cosa, è che tutto ciò che facciamo al prossimo lo facciamo a te, o Gesù: è quanto basta per mutare, riformare tutta la nostra vita, orientare tutte le nostre azioni, le nostre parole, i nostri pensieri. Tutto quello che facciamo al prossimo, lo facciamo a te, o Gesù!
C. DE. FOUCAULD, Meditazioni sul Vangelo, Op: sp. p 186

CARITÀ E  VERITÀ
1. La carità « non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità » (1 Cr 13,6). Ecco due qualità chei non si possono separare perchè la giustizia suppone la verità e viceversa, mentre, dove c’è l’ingiustizia c’è l’inganno, la frode o almeno l’illusione di essere nel vero.
In Dio carità è verità si identifìcano nel modo più assoluto perché in lui tutto è amore, tutto è verità. Il Verbo è presentato da Giovanni come « la luce vera che illumina ogni uomo » (1,9); non luce fredda, ma luce che è fiamma di carità, perchè «Dio è amore » (l Gv 4,16). E la luce vera, ossia la verità divina, il Figlio di Dio l’ha, portata nel mondo attraverso il ministero del suo amore.
Dio, poiché ama l’uomo, lo mette nella verità e lo conduce al bene. L’amore e la bontà verso il prossimo « non devono in alcun modo renderci indifferenti verso la verità e il bene. Anzi, lo stesso amore spinge i discepoli di Cristo ad annunziare a tutti gli uomini la verità che salva » (GS 28 ). Questo insegnamento del Vaticano II mette a fuoco il dovere di non tradire mai la verità, sotto pretesto di carità. Del resto non sarebbe vero amore quello che non porta alla verità. Ma nello stesso tempo non si può imporre la verità con la forza; bisogna piuttosto pazientare con carità longanime e a poco a poco, attraverso l’amore, aprire un varco alla luce. Bisogna anche « distinguere tra l’errore, che deve essere sempre rifiutato, e l’errante, che conserva sempre la dignità di persona, anche quando è inquinato da false e meno accurate nozioni religiose » (ivi).
S. Paolo esorta a professare « la verità nella carità » (Ef 4, 15); la difesa della verità non deve mai andare a scapito della carità. Anche nella disparità dei pareri, i fedeli devono sempre cercare « di illuminarsi vicendevolmente in un dialogo sincero, mantenendo sempre tra loro la carità e avendo cura in primo luogo del bene comune » (GS 43). Armonizzare carità e verità non è sempre facile alla limitatezza umana, ma è una meta cui bisogna tendere con lo sguardo fisso a Dio, il quale è verità e amore, e per mezzo dell’amore conduce l’uomo alla verità e al bene.
2. « Deponendo la menzogna, dite ciascuno la verità al prossimo; perchè siete membra gli uni degli altri » (Ef 4, 25). La menzogna è peccato non solo contro la giustizia, ma anche contro la carità, perchè essendo membra di uno stesso corpo, ed, essendo fratelli, i cristiani sono in debito della verità l’uno verso l’altro. La menzogna non favorisce l’unione fraterna, ma la ferisce e la distrugge; chi si sente ingannato non può pensare di essere amato. Anche S. Pietro raccomanda ai fedeli di deporre « ogni malizia, ogni frode e finzione » ( 1 Pt 2, 1 ). Ed è sintomatico che tanto lui come S. Paolo presentano la rinuncia ad ogni genere di falsità come la caratteristica del cristiano rigenerato in Cristo a vita nuova, il quale deve essere come un bambino appena nato (ivi 2) e deve « rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità della verità » (Ef 4, 24 ). Tutto ciò che esce dalle mani di Dio ha lo splendore della verità e il calore della carità. Menzogna e vita cristiana sono contraddittorie, come lo sono menzogna e carità.
« La carità non abbia finzioni: fuggite il male, aderite al bene » (Rm 12, 9). La carità non può battere vie tortuose che in apparenza tendono al bene, ma nascostamente perseguono il male. Cortesie, complimenti, favori prodigati per raggiungere mire ambiziose o di guadagno, parole che simulano affetto e stima ma celano secondi fini e presto si mutano in mormorazioni o calunnie sono azioni indegne del cristiano, la cui condotta deve essere tutta limpidezza e sincerità.
La carità deve essere così amante della verità che, esigendolo le circostanze, sappia anche scoprire e denunciare il male per difendere dall’inganno i deboli e i semplici che possono rimanerne vittime. S. Paolo indica la professione della verità nella carità, come il grande mezzo per crescere « in lui che è il capo, Cristo » (Ef 4, 15). Il cristiano infatti, membro di Cristo, non può vivere e non può crescere in lui se non partecipando alla sua stessa vita, vita di verità e di amore, vita che testimonia e attua la verità con le opere della carità.
PREGHIERE: O Signore, quando vedessi peccare il prossimo, scuserò in lui l’intenzione la quale è nascosta e non si può vedere, e se anche vedessi apertamente questa intenzione essere storta e cattiva, fa’ che sappia scusare la tentazione dalla quale nessun mortale è escluso.
E quando qualcuno mi verrà a dire i difetti del prossimo mio, io, Signor mio, non lo voglio udire, e gli risponderò che faccia orazione per lui e preghi il Signore che prima io emendi me stessa. E, più facilmente voglio dire il difetto al prossimo che sbaglia che parlarne con altri, perché invece di rimediarvi se ne commettono molti altri e molto più gravi di quelli di cui si parli!
S. M. MADDALENA DE’ PAZZI, Probatione, Op. v 5, p 237

Signore, fa’ che io ami e compatisca il peccatore non già amando in lui il peccato, ma perseguitando il peccato per amor suo. Quando amo un infermo, ne combatto la febbre, perchè risparmiando la febbre non amerei l’infermo.
Dirò dunque al mio fratello la verità senza reticenze. Sì, con franca schiettezza gli dirò ciò che è vero; ma fino alla correzione pazienterò con lui. Il giusto, mentre riprende il peccatore, ne tollera caritatevolmente i peccati, poiche la carità tutto sopporta (Sr 4,20).
Riprenderò, Signore, sì riprenderò; ma mentre per la carità userò rigore, non si diparta dal mio cuore la mitezza. Chi più pietoso del medico che usa il ferro? Piange per dover tagliare e taglia, piange per dover bruciare e brucia. Non è crudeltà questa. È senza pietà con la piaga perché la persona guarisca, poiche accarezzando la piaga si perde la persona. Concedi anche a me, o Signore, di amare in ogni modo il fratello che ha peccato, di non allontanare dal mio cuore la carità verso di lui e nello stesso tempo, se è necessario, di saperlo correggere (Sr 83,8).
cf s. AGOSTINO

LA CARITÀ TUTTO SCUSA
1. « Soprattutto siate saldi in una carità vicendevole, perchè la carità copre una moltitudine di peccati » (1 Pt 4,8). La carità ripara e copre i peccati propri e anche i peccati altrui. Nel libro dei Proverbi si legge: « L’amore ricopre ogni colpa » (10, 12). Della donna peccatrice Gesù ha detto: « Le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha amato molto » (Lc 7, 47). Qualche cosa di simile la carità opera anche per i peccati del prossimo. Anzitutto la carità cerca, per quanto possibile, di scusare i falli altrui, come una madre cerca di scusare gli errori dei figli. « Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno »(Lc 23, 34), implorava Gesù sulla croce per tutti quelli che avevano collaborato alla sua passione. Non erano esclusi da questa preghiera l’apostolo traditore che, vissuto nella sua intimità, ne conosceva troppo bene la bontà e la grandezza, i giudici che l’avevano condannato pur essendo convinti della sua innocenza, il popolo che dopo aver ascoltato i suoi insegnamenti e goduto dei suoi miracoli, aveva voluto la sua morte. Invece di calcare la mano sulle responsabilità altrui la carità rende solleciti e industriosi nel cercarne le attenuanti. Quella cura che ognuno spontaneamente usa per scusare i propri errori, la carità insegna ad usarla anche per gli errori altrui.
Ricoprire le colpe o i difetti del prossimo vuol dire anche non parlarne senza necessità, non attirare su di essi l’attenzione degli altri, non essere curiosi di saperne la storia. « Non ascoltare il racconto delle debolezze altrui – dice S. Giovanni della Croce – e se qualche persona si lamenterà con te di un’altra, potrai pregarla con umiltà di non dirti niente » (Par 2, 68).
Ma la carità non si accontenta di questo; vuol fare qualche cosa di più positivo; riparare, espiare a imitazione di Cristo « che prese su di se i nostri peccati per portarli sul legno della croce » (1 Pt 2,23). Addossarsi le colpe dei fratelli come se fossero proprie per espiarle in sé con la preghiera e la penitenza è l’impegno di chi vuol vivere la carità del Salvatore fino ad associarsi alla sua espiazione vicaria. Con lui, allora, potrà dire a buon diritto: « Padre, perdona loro ».
2. « Se il tuo fratello commette una colpa, vai e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà avrai guadagnato il tuo fratello » (Mt 18, 15). La carità non è connivenza col male; scusare i falli altrui non significa tacita condiscendenza; tacito lasciar fare per amore del quieto vivere o per pusillanimità. Ci sono dei casi – colpe che possono incidere sul bene comune e indurre altri al male – in cui la carità impone il dovere della correzione fraterna. Si tratta, come dice il Vangelo, di guadagnare il fratello; perciò bisogna agire in modo che egli, più che umiliato e rimproverato, si senta amato e quindi ammonito per il suo bene. La correzione fraterna è e deve mostrarsi un vero atto di carità. « Fratelli – avvisa S. Paolo – qualora uno venisse sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito correggetelo con dolcezza » (Gl 6, 1). Come sono riprovevoli quelli che per viltà trascurano il dovere della correzione fraterna, lo sono pure quelli che si lasciano trasportare da zelo indiscreto, aspro, pungente. « Vigila su te stesso – dice l’apostolo – per non cadere anche tu in tentazione » (ivi 2). Chi ammonisce non deve farlo dall’alto, ma mettendosi sullo stesso piano del colpevole nell’umile consapevolezza della propria fragilità, perchè la tentazione potrebbe sorprenderlo da un momento all’altro e senza il soccorso della grazia potrebbe finire più in basso del fratello. « Chi crede di star dritto, guardi di non cadere » (1 Cr 10,12).
La carità « tutto scusa, tutto crede, tutto spera » (ivi 13,7). Nel campo della correzione fraterna ciò significa dar fiducia al colpevole, credere alla sua volontà di emendarsi, non inasprirsi per le sue ricadute, non stancarsi di tendergli la mano con fraterna bontà. E se per la sua pertinacia nel male il fratello, come allude il Vangelo, dovesse essere allontanato, la carità non cesserà di seguirlo con cure benevole sempre operando e attendendo un segno di ravvedimento. « Vivete in pace tra voi », dice S. Paolo. E aggiunge immediatamente: « Vi esortiamo, o fratelli: correggete gli sregolati, confortate i pusillanimi, sostenete i deboli, siate longanimi con tutti » (1 Ts 5, 13). La pace tra fratelli non contraddice al dovere della correzione fraterna ma l’una e l’altra sono frutto della carità evangelica.
PREGHIERA. « Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate l’un l’altro »… Questo tuo comandamento, o Cristo, si chiama amore e in virtù di questo amore vengono eliminati i peccati… O Signore, riempimi di carità in tale pienezza che sia pronto non solo a non odiare il fratello ma a morire per lui.. Tu hai dato l’esempio di questa carità, morendo per tutti e pregando per quelli che ti crocifiggevano col dire: « Padre, perdona loro perchè non sanno quello che fanno »… Questa è la carità perfetta… Questa carità è forse già perfetta al momento in cui nasce ? Essa incomincia ad esistere ma le occorre un perfezionamento; perciò, o Signore,  nutrila, in me, irrobustiscila finché raggiunga la perfezione.
O Signore, fa’ che io ami, allora non potrò che fare del bene. Dovrò forse riprendere qualcuno? Sarà l’amore a operare in me, non il risentimento. Dovrò dargli una punizione corporale? Sarà per educarlo. L’amore della carità non mi consentirà di trascurare chi è indisciplinato… Insegnami, Signore, a non badare alle parole di chi blandisce e all’apparente severità di chi rimprovera; fa’ che sappia guardare alla sorgente, che sappia cercare la radice da cui proviene quell’atteggiamento. Quello blandisce per ingannare, questo rimprovera per correggere…
O carità, la tua regola, la tua forza, i tuoi fiori, i tuoi frutti, la tua bellezza, la tua attrattiva, il tuo alimento, la tua bevanda, il tuo cibo, il tuo abbraccio, non conoscono sazietà. Se ci riempi di diletto mentre ancora siamo, pellegrini, quale sarà la nostra gioia in patria?
S. AGOSTINO, In 1 Io 5,2.4; 10; 7

LA CARITA TUTTO SOPPORTA
1. « Portate i pesi gli uni degli altri, e adempirete così la legge di Cristo » ( Gl 6, 2). Ogni uomo ha il suo peso da portare: debolezze fisiche e morali, doveri, responsabilità, fatiche, sofferenze che gravano sulle sue spalle; ed ognuno sente il bisogno di una mano amica che lo aiuti a sostenere il suo fardello. La « legge di Cristo », che è la legge dell’amore fraterno, esige questo soccorso scambievole per cui il cristiano ha il cuore sempre aperto agli altri, pronto a dimenticarsi per offrire ai fratelli un po’ di aiuto e di conforto. « Godete con chi è nella gioia – dice S. Paolo -, piangete con chi è nel pianto » (Rm 12, 15).
La carità porta a farsi « tutto a tutti » (1 Cr 9, 22) per adeguarsi non solo alle necessità dei fratelli, ma anche alla mentalità al carattere, ai gusti, alla personalità di ognuno. Amare il prossimo a motivo di Dio, riconoscendo in ogni uomo l’immagine, la creatura, il figlio del Padre celeste, non significa disincarnare la carità riducendola a una forma di amore freddo, stereotipato che abbraccia tutti in massa senza tener conto delle singole persone. E certo che Gesù ha amato tutti gli uomini con amore divino; tuttavia attraverso le pagine del Vangelo si può cogliere che il suo amore assumeva sfumature e modi diversi secondo le persone a cui si rivolgeva. Non era un amore standardizzato il suo e neppure indifferente alle particolari esigenze di ciascuno. Si pensi, ad esempio, alla diversità del suo comportamento verso ogni discepolo, oppure verso gli amici di Betania: non trattava Pietro come Giovanni, o Marta come Maria.
La carità rende attenti a trattare ogni fratello secondo la concretezza della sua situazione individuale – temperamento, sensibilità, qualità, limiti – per fargli sentire il calore di un affetto che si industria di adeguarsi alla sua persona e di alleggerire i suoi pesi. « Il Dio della fortezza e del conforfo – scrive S. Paolo – vi conceda di avere a vicenda tra voi i sentimenti di Cristo Gesù… Accoglietevi dunque a vicenda, come Cristo accolse voi per la gloria di Dio » (Rm 15,5-7).
2. La carità « tutto sopporta » (1 Cr 13, 7). I difetti, le debolezze, le lacune, il temperamento più o meno felice o simpatico di ognuno possono essere, soprattutto nella convivenza, un vero peso scambievole che bisogna impegnarsi di portare con amore. Data la limitatezza di ogni uomo, è impossibile vivere insieme senza essere gli uni di peso agli altri, anche in modo del tutto involontario. È questa una condizione alla quale nessuno può sfuggire e che va risolta sopportandosi «a vicenda nella carità » (Ef 4,2), con l’umile consapevolezza che se ognuno ha qualche cosa da soffrire è, nello stesso tempo, causa di sofferenza agli altri. Chi è forte metterà a disagio il debole, chi è attivo l’indolente, chi è coraggioso il timido e viceversa. D’altra parte chi ha maggiori risorse è maggiormente tenuto a frenarsi, a compatire, ad adattarsi. « Noi che siamo forti – dice S. Paolo – abbiamo il dovere di sopportare la debolezza dei deboli, senza compiacere noi stessi. Ciascuno cerchi di compiacere il prossimo nel bene, al fine di edificare. Cristo non compiacque se stesso » (Rm 15,1-3). Come Cristo si è adattato all’uomo fino a farsi uomo, così il cristiano si studia di adattarsi agli altri, rinunciando a se stesso.
Negli ultimi mesi della sua vita, S. Teresa di Gesù Bambino, scriveva: « Capisco ora che la carità perfetta consiste nel sopportare i difetti degli altri, non stupirsi delle loro debolezze » (MC 289). Se all’inizio si sopporterà fremendo e a denti stretti, un po’ alla volta la carità insegnerà a sopportare con benevolenza, con comprensione, come una madre sopporta amabilmente i malestri del figlio. La carità insegna a curvare volentieri le spalle per prendere su di se il peso dei difetti altrui, non sfuggendo neppure le persone importune. « Se uno ti costringe a fare un miglio con lui, tu fanne due con lui, dà a chi ti domanda, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle! » (Mt 5, 41-42). Il Vangelo inculca una generosa rinuncia alle proprie esigenze e anche ai propri diritti per assecondare il prossimo con una carità piena di dedizione.
PREGHIERE O Signore, quanto sono ancora lontano dalla vera carità e umiltà! …Tu m’insegni che non è gran cosa l’andare d’accordo con gli uomini mansueti e buoni; ciò naturalmente piace a tutti e ognuno sta volentieri in pace e ama di più coloro che pensano come lui. Ma invece è grazia grande, virtù maschia e degna di molte lodi il saper vivere in pace con gli ostinati, i perversi, gli indisciplinati e con quelli che ci sono contrari.
Se tutti fossero perfetti, che ci resterebbe a patire dagli altri per amore tuo, o mio Dio? Ma tu hai così disposto affinché ciascuno impari a « sopportare il peso dell’altro»; poiché nessuno è senza il suo peso, nessuno può bastare a se stesso, nessuno è abbastanza saggio per se, ma occorre che ci sopportiamo reciprocamente, ci confortiamo, ci aiutiamo, ci ammoniamo e ammaestriamo a vicenda.
Imitazione di Cristo II, 3, 2; I, 16, 3-4

O Signore, se dividerò volentieri con i miei fratelli i doni da te ricevuti, se mi mostrerò con tutti servizievole, benigno, riconoscente, affabile e umile potrò spandere dovunque il profumo della misericordia. Fa’ dunque che io sappia non solo sopportare pazientemente le debolezze fisiche e morali dei miei fratelli, ma che inoltre, nel limite del possibile, rechi ad essi il sollievo dei miei servizi, il conforto della mia parola e dei buoni consigli.
Dammi viscere di misericordia perchè sia liberale e generoso non soltanto con i miei parenti e amici, con quelli che mi fanno del bene e dai quali mi aspetto qualche bene, ma con tutti al punto di non rifiutare mai per amor tuo, neppure al nemico, la carità dell’aiuto materiale o spirituale. Allora abbonderò di quest’ottimo profumo e lo verserò non solo sul tuo capo e sui tuoi piedi, ma su tutto il tuo corpo che è la Chiesa.
cf S. BERNARDO, In Cantica Cant. 12,5 .7

Con questa meditazione termino il mio lavoro.
Possa il Signore farci comprendere il vero valore della CARITA’ affinchè tutti (il primo io ^__^) impariamo a vivere e a conformarci sempre più a Cristo, VERO MODELLO DI CARITA’.   Amen

Jesus’ Sufferings

Jesus' Sufferings   dans immagini sacre crucified+jesus

http://kloska.blogspot.it/2010/04/good-friday-jesus-sufferings.html0

 

 

 

Publié dans:immagini sacre |on 18 février, 2013 |Pas de commentaires »

MEDITAZIONI SU SAN PAOLO APOSTOLO: 1 CONVERSIONE, 2 DOVE LO PORTA IL SIGNORE

http://www.sangiuseppespicello.it/catechesi-e-riflessioni/san-paolo-apostolo.html

MEDITAZIONI SU:

PAOLO APOSTOLO 1°  – CONVERSIONE

(ho trovato una serie di meditazioni in forma breve su San Paolo, sono 19, spero di ricordarmi di metterle tutte, magari non di seguito per poter inserire altri testi, metto le prime due – dal Santuario San Giuseppe, non capisco la provincia, ma non è lontano da Fano)

In relazione all’episodio di Damasco, è necessario correggere alcune idee false o, per lo meno, non precise ed esaurienti. L’episodio si trova in Atti, 9 – 22 – 26.
• Non è una conversione morale. Non sta semplicemente nel fatto che un peccatore cambia modo e stile di vita. Paolo, nel nostro caso, è perfettamente osservante della legge, non può rimproverarsi nulla.
• Non è un cambiamento di bandiera. Egli non passa solamente dallo zelo per la legge a quello per Cristo, dal servizio della sinagoga a quello della Chiesa.
• Paolo, quando cita l’episodio, non usa la parola “conversione”, come ora la intendiamo noi (= traduzione del termine “penitenza”, cioè del cambiamento di mentalità, di una retromarcia).
• Egli sa bene che ha pure tale senso e non lo scarta totalmente. Però non esprime tutto. Bisogna arrivare a comprendere che c’è qualcosa di molto più profondo.
Paolo considera l’evento di Damasco come un “mistero”, nel senso d’intervento e opera diretta di Dio. In un passo afferma che è stato “afferrato” da Cristo, come lo sono stati Abramo, Mosè e altri, sino al nostro don Alberione.                                                  
• “Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre, e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare a me suo Figlio, perché lo annunziassi in mezzo ai pagani…” (Gl 1, 15-16).
• Tutto è in un quadro di Provvidenza. Dalle parole sottolineate si evidenzia che è una scelta ed una chiamata, per una missione.
• “Non ho veduto Gesù, Signore nostro?” (I Cor 1, 9).”Ultimo fra tutti apparve anche a me” (I Cor 15, 8).”Tutto io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo, mio Signore… per il quale tutto è spazzatura” (Fil 3, 4- 9).
• Per spazzatura intende la circoncisione, lo zelo, l’irreprensibilità. Se è irreprensibile, allora, che cosa è cambiato?
In lui è avvenuta una rivalutazione completa di tutto il mondo. Quello che prima considerava importante, ora gli appare zero e non desta più interesse per lui. Quello che prima sarebbe stato irrinunciabile, ora è divenuto “spazzatura”.
• “Rendo grazie a Gesù che mi ha giudicato degno di fiducia chiamandomi al ministero: io che per l’innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento” (I Tim 1, 12-13). Allora, è irreprensibile o bestemmiatore? “Però mi è stata usata misericordia…” (cf I Tm 1, 13-16).
Come si vede l’evento di Damasco è molto più complesso di un semplice episodio di conversione morale, o di semplice cambio di mentalità.
Paolo è convertito, in altre parole è “afferrato” per una missione
Delle tre descrizioni, la più ricca e distesa è quella in Atti 26.
Alla domanda che si potrebbe porre: “Dove eri e com’eri, quando la Parola ti ha raggiunto?”, lui stesso risponde (Fil 3, 3-6).
 “Circonciso”, quindi non maledetto o abbandonato da Dio come i pagani
 “Stirpe di Israele”, appartenente al popolo eletto, alla luce delle nazioni
 “Tribù di Beniamino”, conosce antenati e il legame che lo riporta a Giacobbe
 “Ebreo da ebrei”, padre, madre, nonni, tutti di questa gloriosa generazione
 “Fariseo, quanto alla legge”, ebreo perfetto, della stretta osservanza
 “Persecutore della Chiesa, quanto a zelo”, quindi fedelissimo al massimo
 “Irreprensibile, quanto alla giustizia che deriva dalla legge”, uomo giusto come Giuseppe, Gioacchino e Anna, Zaccaria ed Elisabetta (= la massima lode che si può fare dal punto di vista biblico)     
Dunque, Paolo è colto in una situazione nella quale possiede tradizioni, impegno personale, zelo e giustizia. Un insieme di grandi beni, di cui fa l’elenco con profonda commozione.
Inoltre, vive la sua realtà come un “tesoro geloso” da non poter consegnare a nessuno. Ecco perché perseguita i cristiani, perché vanno alla radice di quel tesoro.
Come si spiega l’autoaccusa di “bestemmiatore, persecutore, violento”
Non bestemmiatore nel senso comune, ma nel senso che si è messo contro il Figlio per difendere il proprio tesoro. Ora, sempre più si considera peccatore, in quanto si accorge che il suo atteggiamento verso Dio era profondamente sbagliato.
Non considerava Dio come tale, autore e origine di ogni bene; ma al centro di tutto c’era il “suo” possesso, la “sua” verità, i “tesori” che gli erano stati affidati.
Era un atteggiamento apparentemente “irreprensibile”, ma che interiormente era di una possessività esasperata.
Egli viveva, non il vangelo della “Grazia”, ma la legge dell’autogiustificazione, che gli faceva dimenticare d’essere un pover’uomo, graziato da Dio, non perché valesse qualcosa, ma perché amato da Dio.
Paolo aveva il peccato che Gesù rimprovera ai farisei. Il peccato che fa essere “ciechi”. Ecco perché Gesù dice: “I peccatori, i pubblicani e le prostitute vi precederanno nel regno dei cieli”. Questi descritti, sono i peccati di coloro che si rendono conto di sbagliare e si umiliano.
Il peccato di Paolo era un altro, del quale non si rendeva conto, anzi, se ne vantava.

PAOLO APOSTOLO 2°
(DOVE LO PORTA IL SIGNORE)
Poniamo a Paolo un’altra domanda relativa alla sua “conversione”.
“Verso quale direzione ti ha portato il Signore?”.

Distacco dalle sue sicurezze per una nuova missione
Verso un distacco da quello che prima gli era sembrato sommamente importante: “Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo” (Fil 3, 7-8).
• Verso la percezione che, quanto prima valeva, ora è zero, non in sé, ma di fronte a Cristo.
• Verso una visione completamente nuova delle cose. Non ad un cambiamento morale immediato, ma ad un’illuminazione, perciò parla di “rivelazione”.
• Il “perché mi perseguiti” di colpo gli fa capire e dire: “Ho sbagliato tutto. Io, che mi gloriavo della giustizia, sono diventato giustiziere degli innocenti!”.
Verso una missione: “Colui che mi scelse sin dal seno materno, si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani” (Gal 1, 16).
• Nello stesso momento in cui Gesù gli fa capire di aver sbagliato tutto, dice pure di affidargli tutto, e di mandarlo.
• Il Dio del Vangelo, mentre gli fa capire che tutto è sbagliato, dimostra la sua misericordia e gli dà fiducia chiamandolo al suo servizio.
Com’è avvenuto questo passaggio
• Per pura iniziativa e dono di Dio. Non c’è stata da parte sua sforzo, meditazione, esercizi spirituali, lunghe preghiere, digiuni. Tutto gli è stato donato, perché fosse “segno” della misericordia di Dio, per tutti i popoli.
• Tutto gli è stato dato nella conoscenza di Gesù Cristo: “Si compiacque di rivelarmi suo Figlio”. È la nostra eredità, soprattutto in quanto paolini.
Che cosa succede a Paolo nei dieci anni dopo
Incontra il disagio a Damasco, l’incomprensione a Gerusalemme, momenti di solitudine e di sconforto (Atti 9, 19-31; Gal 1, 15. 2, 1).
Era considerato uno di disturbo, anche se lo ammiravano per lo zelo.Il periodo di solitudine e amarezza si chiude con una seconda visione della gloria di Dio: “Verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo…” (II Cor 12, 1-5)
Di chi la colpa delle sue amarezze? Un po’ degli altri e un po’ sua.
• Dei giudeo/cristiani che non lo hanno capito, non lo hanno saputo valorizzare, nel timore che il suo modo di agire producesse più danno che vantaggio.
• Degli avversari che gli si sono scagliati contro perché intuivano che era un uomo chiave.
• Di se stesso. Tornato alla vita quotidiana, si butta nella nuova missione con lo stesso zelo (= come se cambiasse bandiera). Ritorna ad appassionarsi dell’opera, come se fosse il suo “nuovo tesoro”.
Allora il Signore permette un periodo di durissima prova, di purificazione, perché impari che la conversione non gli ha fatto cambiare oggetto d’attività, ma ha formato in lui un nuovo modo di essere, un altro modo di vedere le cose, che deve essere macerato lentamente prima di integrarsi nella sua personalità.
Le idee sono chiare, le parole anche. Però, il modo istintivo di agire, torna ad essere quello di prima.
Come ha vissuto i dieci anni
Si premette che non è stato il primo a vivere quest’esperienza. È toccato anche a Mosè, ad Elia e ad altri profeti, anche dei nostri tempi.
La prima reazione è stata d’indignazione, di rivalsa e anche di risentimento.
• Perché perdere le forze e la vita per gente che tratta male?
• Perché Cristo mi ha chiamato con tante belle parole per poi ridurmi a lavorare nella mia bottega di Tarso?
• C’è veramente un disegno di Dio nella mia vita, oppure sono sogni del passato?
• Che cosa volevano dire quelle parole: “Ti sono apparso per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai viste e di quelle per cui ti apparirò ancora. Per questo ti libererò dal popolo dei pagani?” (At 26, 16-17).
Paolo è passato, come ogni santo, attraverso il travaglio interiore. Però, dopo l’indignazione e il risentimento, come succede con la grazia di Dio quando la prova è macerata dentro, emerge la riflessione e trova sempre la risposta nella Parola di Dio: “Felice l’uomo che è corretto da Dio, egli fa la piaga e la fascia”.
Paolo trasforma la riflessione in “illuminazione” che rientra in quella rivelazione avuta sulla via di Damasco, come appare nelle sue lettere.
• Una riflessione escatologica: “Fratelli, il tempo si è fatto ormai breve…passa la scena di questo mondo” (I Cor 7, 29-31). Ridimensiona il suo zelo; si accorge che si era legato a progetti immediati, mentre il regno di Dio è al di là e al di sopra di tutto; tutte le cose, anche buone, passano; solo il Signore rimane.
• Un’illuminazione. L’opera appartiene a Dio; è Dio che pone tempi e condizioni. Deve ancora staccarsi dalla possessività: “Siamo ministri…chi è Paolo? (I Cor 3, 5). Non dirà più “il mio campo, il mio edificio”, ma “voi siete il campo…”. Così Paolo diventa strumento sempre più adatto nelle mani di Dio.
È a questo punto che giunge da Tarso la notizia che è arrivato Barnaba. Lo invita ad andare in Antiochia, dove c’è una comunità giovane che l’attende.
È il secondo momento dell’attività apostolica. Riprende, in forma nuova, ciò che dieci anni prima aveva iniziato con tanto zelo, ma mettendoci dentro non poco di sé.

« UN TEMPO PER NASCERE, UN TEMPO PER MORIRE » NEI VANGELI E NELLE LETTERE DI PAOLO – Barbaglio 1993

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=79

« UN TEMPO PER NASCERE, UN TEMPO PER MORIRE » NEI VANGELI E NELLE LETTERE DI PAOLO

Sintesi della relazione di Giuseppe Barbaglio, Verbania Pallanza, 13-14 febbraio 1993

(in realtà sono tre sezioni, la prima intitolata: Il vissuto di Gesù; la seconda: Come Gesù ha percepito il vivere umano in generale e la terza Paolo, ed è quella che posto; naturalmente metto il link allo studio, per correttezza, ma anche perché possiate, volendo leggere tutta la relazione)

3. PAOLO

Rifletteremo ora su come Paolo ha vissuto la sua esistenza particolare qualificata dalla missione apostolica e su come ha interpretato il senso profondo dell’esistere nella precisa angolatura dell’esistere cristiano.
un rapporto personale con i Tessalonicesi
La personalità di Paolo appare nelle sue lettere in cui affronta problemi ecclesiastici, teologici, causati dalle situazioni concrete delle sue comunità o in cui parla di sé. Al di là dello sviluppo teologico del suo pensiero emerge il soggetto, lo spessore umano di Paolo, che viveva in modo molto unitario la sua esperienza umana e apostolica.
Seguiamo le lettere nell’ordine cronologico partendo dalla 1 Tessalonicesi che ha scritto da Corinto a cavallo dell’anno 50. E’ il primo scritto della Bibbia cristiana, circa 20 anni dopo la morte di Gesù. In questo scritto le connotazioni più personali sono esplicite; i primi tre capitoli sono una rievocazione dell’incontro che ha avuto con i Tessalonicesi. Non era rimasto a lungo a Tessalonica, da cui era dovuto fuggire inseguito dalla inimicizia dei giudei della sua stirpe; fece sosta ad Atene e giunse a Corinto. Paolo era molto preoccupato che la comunità potesse estinguersi poiché la sua opera non era stata completata. Tessalonica era la capitale della provincia romana di Macedonia e Corinto la capitale di Acaia. Paolo scrive rievocando l’incontro con i Tessalonicesi e, in 2,8 dice: « voi c’eravate talmente cari che a noi piaceva comunicare a voi non solo il Vangelo di Dio, ma anche le nostre stesse vite ». Il « noi » include i suoi collaboratori Timoteo e Sila. Paolo intende il suo esistere come una realtà da comunicare. Giunto ad Atene inviò Timoteo a raccogliere informazioni e questi lo raggiunse poi a Corinto con buone notizie sulla comunità che resisteva e che, dice Paolo ha « un buon ricordo di me ». In 3,8 dice « abbiamo ricevuto questa notizia, ora sì vediamo che voi state saldi nel Signore ». Il rapporto di Paolo come apostolo nella sua comunità non è solo funzionale, ma è personale, una comunione interpersonale.
Paolo assume il volto del Vangelo
Paolo costituì poi una comunità a Corinto di nuovo tipo perché era formata da incirconcisi in un ambiente greco. Corinto era una grossa metropoli che contava mezzo milione di abitanti, era centro culturale (Atene viveva allora un momento di eclisse) e commerciale. Il rapporto di Paolo con questa sua comunità, in cui era rimasto due anni e mezzo, è stato molto controverso, perché, dopo la sua partenza, erano subentrati altri predicatori di orientamento diverso che avevano ottenuto il consenso della comunità mettendola contro Paolo.
In 1 Corinti 2,1-5, Paolo parla della sua venuta. La comunità di Corinto era un po’ tronfia, piena di sé per la nuova esperienza, e con atteggiamenti trionfalistici. Paolo reagisce e dice: « anch’io fratelli quando venni da voi non ero portatore di una sapienza eccellente o di capacità retorica » – logos, abilità nel parlare e sophia, pensiero penetrante -. Il pensiero greco era incentrato, dal punto di vista culturale, sulla sapienza e sulla eleuteria, la libertà personale e politica. Paolo dice: non sono venuto facendomi scudo di parola retorica e di pensiero penetrante « sono venuto ad annunciarvi il mistero di Dio ed ho ritenuto bene, in mezzo a voi, di annunciarvi solamente Gesù Cristo e costui crocifisso ». Il crocifisso era la contraddizione più palese nei confronti di un mondo molto orgoglioso, molto superbo della propria saggezza umana. La croce aveva origine barbara, persiana, era riservata ai paria, ai ribelli e la sensibilità greca, molto raffinata, la rifiutava. Paolo si presentava sulla scena di Corinto in antitesi alla cultura dell’ambiente; « io venni in mezzo a voi nella debolezza – en asteneia – nel timore e in grande tremore » nella pochezza umana dell’annunciatore Il mio annuncio, il mio kerigma non venne in mezzo a voi con parole persuasive di sapienza ma con la manifestazione dello spirito della sua potenza affinché la vostra fede non sia basata sulla sapienza umana, ma sulla forza di Dio ».
In questo testo possiamo notare come la forma del Vangelo di Paolo incentrato sul Cristo crocifisso diventa la forma della sua vita. Non è il rifiuto del pensiero e della riflessione, ma il rifiuto di un pensiero che si erge a metro della realtà. C’è l’identificazione tra l’esistere di Paolo e il Vangelo di cui è portatore. Non è un funzionario del Vangelo, non lo vende sul mercato come se fosse un prodotto, ma Paolo assume il volto del Vangelo. Paolo è l’apostolo crocifisso non nel senso della sofferenza, ma della debolezza: il crocifisso è il segno della debolezza del figlio di Dio e della debolezza di Dio nella storia.
A Corinto la comunità si era suddivisa in gruppuscoli ed ognuno di essi aveva come sua bandiera un grande esperto; c’era il gruppo di Paolo, di Apollo, un predicatore cristiano di Alessandria formatosi secondo i canoni della paideia greca, dotato quindi di logos splendente e di sophia, c’era il gruppo di Cefa e il gruppo di Cristo. Vi era una personalizzazione dell’esperienza cristiana e Paolo reagisce dicendo che l’esperienza cristiana dipende da Cristo e non dal predicatore « forse che Paolo è stato crocifisso per noi? Forse che siete stati battezzati nel nome di Paolo? ». In 3,5 dice: « Chi è Paolo? Chi è Apollo? Sono soltanto amministratori (oiconomoi) », L’oiconomos era uno schiavo o un liberto che nella casa dei ricchi aveva compito di amministratore dei beni. Poiché costoro dicevano: io sono di Cefa, io sono di Apollo, Paolo rovescia il rapporto « tutto appartiene a voi, noi siamo vostri, ma voi siete di Cristo ».
PAOLO MODELLO DI ESISTENZA CRISTIANA ATTENTA AI DEBOLI
L’esistere di Paolo come amministratore della casa emerge soprattutto al cap. 9 della 1 Corinti dove si presenta come modello, esempio di una esperienza cristiana attenta ai deboli nella comunità. Nella comunità di Corinto c’erano i forti ed i deboli che avevano molti scrupoli riguardo le carni immolate agli idoli. Nelle città greche e romane del tempo la maggioranza delle macellerie vendeva carne che era stata immolata al tempio. La carne infatti veniva in parte destinata ai sacerdoti, in parte bruciata, in parte data ai devoti e quella che eccedeva veniva venduta nelle macellerie. Alcuni cristiani avevano problemi di coscienza nel mangiarla mentre altri addirittura si sedevano nei ristoranti collegati al tempio in luoghi in cui si consumava il banchetto sacro da parte di colui che aveva offerto i sacrifici e dei suoi amici. Il capo ristorante, il macellaio e il sacerdote chiamato « magheiros » erano la stessa persona. C’era un intrico di significati sociali, sacri ed anche idolatrici. I forti esibivano la loro libertà interna, l’eleuteria, ostentandola ed i deboli erano scandalizzati.
Paolo dice che si deve fare attenzione ai deboli per i quali lui è il fratello, per i quali Cristo è morto. Il simbolo religioso diventa la ragione di un comportamento di attenzione al fratello debole: si deve rinunciare alla libertà quando questa si traduce in uno svantaggio per il fratello debole. Paolo dice: « Guardate a me. Non sono forse io libero, non sono forse apostolo? »
In quanto apostolo Paolo aveva diritto di essere mantenuto dalla comunità che era orgogliosa di farlo, invece ha rinunciato ed ha lavorato con le sue mani per mantenersi. La comunità era rimasta molto scossa ed aveva dato interpretazioni negative come se Paolo non si sentisse un vero apostolo, dicendo che i veri apostoli come Cefa e come i fratelli di Gesù, si erano dati alla missione e si facevano mantenere. Paolo rivendica il diritto e dice al v.12 « ma noi non ci siamo avvalsi di questo diritto bensì tutto sopportiamo per non creare un qualsiasi ostacolo al Vangelo di Gesù ». Paolo non ha voluto farsi mantenere perché non si potesse sospettare un suo interesse privato nell’annuncio del Vangelo. Nel mondo greco lavorare con le mani era compito di ceti molto bassi, popolari e veniva disprezzato; l’ideale greco e romano era l’otium, la contemplazione, la riflessione filosofica, la lettura. Paolo annunciando il Vangelo gratuitamente si sottraeva al sospetto di interesse privato, ma, lavorando manualmente come artigiano, si esponeva al disprezzo della società-bene del tempo. Negli ambienti stoici e cinici invece il fatto di lavorare personalmente era ritenuto un’espressione di libertà.
A quel tempo vi erano predicatori propagandisti religiosi e filosofici il cui problema di mantenimento era risolto in quattro modi: c’era chi entrava nella casa del re oppure in casa di personaggi importanti come precettore (ad es. Aristotele era istitutore dei figli di Filippo) ma il rischio era di perdere la libertà di giudizio; c’era chi si faceva dare un salario per l’insegnamento; c’era chi mendicava come i cinici; c’era infine chi lavorava personalmente per salvare la propria libertà. Il grande modello del mondo stoico di chi lavorava per essere libero era Socrate. Paolo ha scelto questa strada e dice, 9, 19-23: « Essendo io libero da tutto mi sono fatto schiavo di tutto affinché io possa guadagnare parecchie persone e sono diventato per i giudei come un giudeo perché potessi guadagnare i giudei, per quelli che sono sotto la legge mi sono fatto come uno sotto la legge pur non essendo io sotto la legge affinché io potessi guadagnare quelli che sono sotto la legge; per quelli che sono senza legge io mi sono fatto come uno senza legge pur non essendo io un fuorilegge nei confronti di Dio, ma sono dentro la legge di Cristo affinché potessi guadagnare quelli che sono senza legge. Mi sono fatto a favore dei deboli come uno che è debole affinché io potessi guadagnare il debole; io mi sono fatto tutto a tutti per guadagnare in ogni modo alcuni. Tutto io faccio per amore del Vangelo affinché io sia compartecipe con voi del Vangelo ». La parola tutto « panta » ritorna continuamente: come plurale neutro, come dativo (pasin), per tutte le persone, per rendere un linguaggio di totalità che riflette la totalità della dedizione di Paolo. L’esistenza di Paolo è intesa come dedizione totale assumendo i costumi altrui; non è il nostro problema dell’inculturazione del Vangelo, ma dell’evangelista.
La sua adattabilità ha però un punto fisso ed é l’amore del Vangelo. Nei versi 24-27 Paolo prosegue usando l’immagine dello sport, molto sentita dal mondo greco. I giochi di Corinto erano secondi solo ai giochi di Olimpia; l’atleta che vinceva la corsa non riceveva denaro, ma la corona che a Corinto era di rami di pino intrecciati, diventando così celebre. « Non sapete che quelli che corrono nello stadio, tutti corrono, ma uno solo prende il premio? Così voi correte per prenderlo. Chiunque lotta nell’agone sportivo si disciplina in tutto e quelli lo fanno per una corona corruttibile. Noi invece corriamo per ricevere una corona incorruttibile. Perciò io corro non come uno che corre senza una meta fissa, faccio pugilato non come un pugile che colpisce l’aria, bensì colpisco sotto l’occhio il mio corpo (era il pugno più offensivo), e lo riduco in schiavitù affinché non avvenga che, dopo aver fatto l’araldo agli altri, io stesso finisca squalificato ». Paolo non si sente un uomo sicuro, non è un « superman ». Da una parte ha una dedizione totale per salvare qualcuno, ma dall’altra permane il timore, per cui si sottopone a severissima autodisciplina.
fiducia e speranza in colui che dà la vita piena

Al cap. 15 della I Corinti Paolo ricorda il momento drammatico che ha vissuto a Efeso e si esprime in termini metaforici: ho combattuto con le fiere e l’ho fatto perché avevo la speranza nella resurrezione. Se ho messo la vita a repentaglio, dice, l’ho fatto nella speranza di ricevere da Dio una vita piena. Paolo sente che la sua vita è preziosa, ma è pronto a pagare questo prezzo alto, a vendere la sua vita, non per masochismo, ma per creare vita agli altri e a se stesso. Nella 2 Corinti ritorna sul pericolo mortale che ha corso ad Efeso. Dice in 1,8 « non vogliamo infatti che voi ignoriate come noi nell’Asia siamo stati assaliti da una tribolazione, siamo stati oberati al di là delle nostre forze a tal punto che abbiamo dubitato di potere vivere e noi abbiamo portato dentro di noi la sentenza di morte affinché non riponessimo la fiducia in noi stessi, ma in Dio il quale risuscita i morti. Ci ha riscattati da tale morte e ci riscatterà affinché noi riponessimo la nostra speranza anche per il favore della vostra preghiera ». Paolo ha avvertito enormemente il pericolo e dall’altra parte ha la sorpresa di essere stato risparmiato e questo, dice, mi ha dato una lezione. Paolo ha imparato da questa esperienza drammatica a riporre la fiducia e la speranza in colui che dà la vita ed aggiunge: questo ve lo dico perché impariate.
In 2 Corinti 7,2 dice a questa comunità che lo aveva fatto soffrire moltissimo perché aveva dato ragione ai suoi avversari, ripercorrendo la vicenda, « voi avete un grande posto nel mio cuore ». E al verso 5 « la mia vita all’esterno è avvolta da lotte e all’interno vi sono paure ».
il valore dell’annuncio

La lettera ai Filippesi viene scritta da Paolo mentre si trova in prigione nella prospettiva di una condanna capitale. Poi Paolo verrà liberato, ma sarà nuovamente arrestato a Gerusalemme, portato a Cesarea, quindi a Roma dove subirà la sentenza di morte. Paolo si trova dunque in catene, con probabilità a Efeso. Oltre al pericolo di essere condannato a morte, vive anche il disagio creato dagli avversari che avevano approfittato della sua disgrazia per succedergli nella comunità. La reazione di Paolo è in 1,18 « io godo perché, o per motivi sinceri o anche abbietti, Cristo è annunciato ». Paolo, che è stato accusato di avere identificato troppo se stesso con il Vangelo, in questa occasione separa se stesso dal Vangelo e sottolinea il valore dell’annuncio. La reazione di fronte alla sentenza capitale è di incertezza; Paolo non sa se desiderare la morte perché in tal modo si unirebbe a Cristo oppure l’assoluzione per continuare ad essere utile. « Sono ondeggiante », dice, ma dopo lungo pensare conclude che preferirebbe sopravvivere (Filippesi 1,21-22).
un esempio di autarchia

Un altro testo molto bello sul costume di Paolo è un esempio di autarchia. L’essere economicamente autosufficiente era un ideale dei cinici, chiamati cani perché vivevano nella povertà, nel distacco totale, come Diogene. I Filippesi, che amavano molto Paolo, gli avevano mandato aiuti mentre si trovava in prigione. I detenuti infatti non venivano mantenuti, e si nutrivano solo se parenti o amici provvedevano. Gli avevano anche mandato uno per compagnia, come si usava. Paolo ne è felice, però rimanda questi dicendo « ve ne ringrazio, però ho imparato nella vita ad essere autarchico, ho imparato a vivere nella ricchezza ed ho imparato a vivere nella povertà » (Filippesi 4,11 ss.)
un inno di trionfo sulla morte

In 1 Corinti cap.15,54-55 c’è un inno di trionfo sulla morte: « La morte è stata ingoiata nella vittoria. Dov’è o morte la tua vittoria? Dov’è il tuo pungiglione? », e prosegue al verso 57: « sia reso grazie a Dio il quale dà a noi la vittoria mediante il Signore nostro Gesù ». In 15, 26 la morte è definita « l’ultimo nemico dell’uomo ».
Paolo ha, in quanto erede della tradizione ebraica, una concezione altamente drammatica della morte e ritiene che la morte sia anche l’ultimo nemico di Cristo. La sua teologia è sempre caratterizzata dalla categoria della forza, della potenza. Confrontandosi con la domanda: chi ha il dominio del mondo? dice: la morte che tutti ci falcia. Però Cristo vuole essere il padrone del mondo, il Signore. Allora, dice Paolo, il nemico nostro è anche il nemico di Cristo; se noi crediamo alla signoria di Cristo speriamo che Lui vinca la morte in noi, per una causa sua. Cristo vince la morte in noi per sé perché si tratta della sua signoria. E’ un inno nella fede, nella speranza: che vinca Cristo! Non è una certezza, è una fiducia.
E’ un testo che viene ripreso nel cap. 8 di Romani dove Paolo dice che ci sono forze terribili di morte contro di noi. « Che cosa diremo? Se Dio è per noi, chi potrà essere contro di noi? Non ha risparmiato il figlio suo, anzi lo ha consegnato, a favore di tutti noi, alla morte. Se ha fatto questo, non ci farà dono, insieme con Cristo, di tutte queste cose? Chi ci accuserà? Chi accuserà gli eletti di Dio? Cristo è colui che è morto, anzi è risuscitato e siede alla destra di Dio ed intercede per noi ». L’azione di Cristo non è solo al passato, ma allo stato attuale intercede, è il nostro avvocato. « Chi mai potrà separarci dall’amore di Cristo? La tribolazione, l’angustia, la persecuzione, la fame, la nudità, i pericoli, la spada… ma in tutte queste traversie noi stravinciamo (ipernikomenon) a causa di colui che ci ha amati. Siamo persuasi che né morte né vita né angeli né principati né le cose presenti né le cose future né altezza né profondità né alcuna altra creatura potrà separarci dall’amore di Dio che lui ha per noi in Cristo Gesù nostro Signore ». La fiducia è in questo amore indistruttibile che Dio ha per noi. Paolo vive la sua esistenza in questa fiducia radicale nell’amore di Dio e di Cristo.

Jesus’ Temptation

Jesus' Temptation dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 15 février, 2013 |Pas de commentaires »

ROMANI 10,8-13

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Romani%2010,8-13

BRANO BIBLICO SCELTO

ROMANI 10,8-13

Fratelli, 8 che dice la Scrittura? « Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore »: cioè la parola della fede che noi predichiamo. 9 Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo.
10 Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza. 11 Dice infatti la Scrittura: « Chiunque crede in lui non sarà deluso ». 12 Poiché non c’è distinzione fra giudeo e greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che l’invocano. 13 Infatti: « Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato ».

COMMENTO A ROMANI 10,8-13

Nei cc. 9-11 della sua lettera ai Romani Paolo si pone un problema che doveva interessare direttamente i cristiani provenienti dal giudaismo: come si può dire che Cristo abbia portato la salvezza definitiva se proprio i giudei, ai quali per primi era stata promessa, l’hanno rifiutata. Nel c. 10, riprendendo uno spunto già presente nel capitolo precedente, egli afferma che Israele non ha raggiunto quella giustizia di cui era il primo destinatario perché non ha capito che proprio secondo la Scrittura essa si acquista esclusivamente mediante la fede. Questo malinteso non è frutto di ignoranza, ma di un rifiuto colpevole, che già i profeti avevano preannunziato.
Di questa argomentazione la liturgia riprende solo il brano in cui si parla dell’efficacia della fede. Per capirlo correttamente bisogna ricordare che Paolo, in contrapposizione con la giustizia che proviene dalla legge, descrive qui la giustizia che viene dalla fede. A questo proposito egli utilizza anzitutto nei vv. 6-7 un brano del Deuteronomio, riletto alla luce della traduzione aramaica (Targum) che a sua volta si ispira al Sal 107,26: in esso si dice che il comando del Signore «non è nel cielo perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? Non è di là dal  mare(Tg: nel profondo del grande abisso), perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare (Tg: chi scenderà nel grande abisso) per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? Anzi questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» (Dt 30,11-14). In questo testo si vuole esprimere la sintonia della legge con le intime aspirazioni del cuore umano. Secondo Paolo invece la giustizia (personificata) che viene dalla fede esorta a non usare le espressioni «chi salirà al cielo» oppure «chi discenderà nell’abisso» perché esse significano rispettivamente la venuta di Cristo e la sua risurrezione (vv. 6-7), due eventi che si sono già realizzati.
Inizia qui il testo liturgico in cui Paolo si pone la domanda: «Che dice dunque?» e risponde: «Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore: cioè la parola della fede che noi predichiamo» (v. 8). In questa risposta egli fa uso di Dt 30,14, riprendendo però solo la prima parte («Anzi questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore»), mentre sostituisce la seconda («perché tu la metta in pratica»). La vera giustizia si limita a dire, con le parole della Scrittura, che la parola di Dio è una realtà non lontana dal credente, ma molto vicina a lui, sulla sua bocca e nel suo cuore. Ma la parola di cui parla il testo biblico non è altro che la «parola della fede» (rêma tês pisteôs) che Paolo predica. Nella sua rilettura dunque il testo biblico non indica più, come nel contesto originale, la legge che il credente è invitato a praticare, ma la predicazione apostolica, il cui compito non è altro che quello di annunziare la venuta di Cristo e la sua risurrezione al fine di suscitare la fede in lui.
L’apostolo poi prosegue: «Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo» (v. 9). Con queste parole egli commenta Dt 30,14 così come è stato da lui citato. Da esso egli ricava il principio secondo cui, facendo con la bocca l’antica professione di fede cristiana («Gesù è il Signore») e credendo con il cuore che egli è stato risuscitato dai morti, si ottiene la salvezza. Le due parti di questo versetto sono strettamente parallele: professione con la bocca e fede del cuore sono due modi diversi per dire la stessa cosa, cioè la piena adesione al Cristo risuscitato. E aggiunge, sempre facendo ricorso al parallelismo: «Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza» (v. 10). In altre parole, la fede nella risurrezione di Cristo, professata con sincerità dalla comunità cristiana, produce la giustificazione che è il primo passo verso la salvezza finale.
A sostegno di questa affermazione egli riporta un altro testo biblico: «Dice infatti la Scrittura: Chiunque crede in lui non sarà deluso» (v. 11). Questo testo, già citato nel capitolo precedente, viene ricavato dal libro di Isaia, dove si afferma: «Chiunque crede in lui non sarà deluso» (Is 28,16). Dal testo di Isaia Paolo deduce poi questa conclusione: «Poiché non c’è distinzione fra giudeo e greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che l’invocano» (v. 12). Il fatto che sia proprio la fede, coltivata nel cuore e proclamata con la bocca, a procurare la giustificazione e la salvezza, è prova e garanzia che questa è accessibile a tutti coloro che lo invocano, siano essi giudei o gentili: poiché è il Signore di tutti, Dio fa a tutti i suoi doni.
E di nuovo Paolo fa appello a un testo biblico che conferma questa conclusione: «Infatti: Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato» (v. 13). Questo testo è ricavato da Gioele, il quale dice: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato» (Gl 3,5). Il «Signore» è Gesù, che viene così identificato con il Signore (JHWH),. L’invocazione del suo nome coincide con l’espressione della fede in lui, che diventa fonte di salvezza per tutta l’umanità.

Linee interpretative
In questo brano Paolo vuole anzitutto sottolineare come la giustizia provenga esclusivamente dalla fede in Cristo, come appare, secondo lui, da un testo riguardante la vicinanza della parola di Dio e la sua sintonia con il cuore del credente. Secondo lui il messaggio evangelico della giustificazione mediante la fede in Gesù Cristo è stato predicato al popolo giudaico in modo adeguato, mediante messaggeri inviatigli ufficialmente da Dio. Il rifiuto di Cristo da parte dei giudei è dunque frutto di una scelta deliberata e colpevole: non si tratta quindi di un evento tale da mettere in discussione la fedeltà di Dio, ma di una decisione sbagliata, la cui responsabilità ricade sul popolo stesso. D’altronde il comportamento di questo popolo nei confronti di Cristo corrisponde all’immagine che ne danno proprio le Scritture che esso riconosce come sacre.
A sostegno della sua tesi, l’apostolo porta una serie di brani biblici che, in quanto parola di Dio, ritiene più convincenti di qualsiasi rilievo oggettivo, citandoli però al di fuori del loro contesto e dando loro un significato abbastanza diverso da quello che avevano originariamente. Egli dunque interpreta le Scritture con una notevole libertà, della quale d’altronde anche i dottori del suo tempo si avvalevano senza eccessivi scrupoli. Ispirandosi ad alcuni testi biblici molto noti egli attribuisce alla fede, che per lui ha come oggetto la morte e la risurrezione di Cristo, il posto centrale nel processo che porta alla giustificazione e alla salvezza. Egli può fare ciò perché ha presente in modo globale la predicazione dei profeti, i quali pronunziano una dura condanna nei confronti di Israele, considerato come un popolo che per sua natura è infedele a JHWH.
In tal modo egli può dimostrare che Dio vuole la salvezza di tutti, senza legarsi alla tradizionale divisione dell’umanità in giudei e gentili. Il passaggio dell’annunzio evangelico ai gentili non rappresenta dunque una sconfessione o un rifiuto dei giudei da parte di Dio, ma piuttosto l’attuazione del suo progetto originario, in quanto esso aveva lo scopo di far sì che mediante i giudei la salvezza giungesse a tutta l’umanità.
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