«CIÒ CHE OCCHIO NON VIDE E ORECCHIO NON UDÌ» (1 Cor. 2, 9) – SANT’AGOSTINO

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«CIÒ CHE OCCHIO NON VIDE E ORECCHIO NON UDÌ» (1 Cor. 2, 9)

 SANT’AGOSTINO

S. Agostino (354-430), vescovo d’Ippona in Africa, romano per cultura, pensatore di genio, ci ha lasciato un’opera monumentale, di inestimabile valore. Filosofo, teologo, pastore d’anime e grande spirituale, è il Dottore della grazia e, più ancora, della .carità.
In questa celebre pagina delle Confessioni, Agostino ci rivela la profonda comunione di spirito che lo univa alla madre, alla quale doveva la sua conversione.

Eravamo soli, mia madre e io, appoggiati al davanzale di una finestra: sotto di noi si poteva vedere il giardino interno della casa che ci ospitava, a Ostia, presso la foce del Tevere. Lontani dai rumori della folla, dopo la fatica di un lungo viaggio, ci disponevamo ad imbarcarci. Conversavamo dunque, soli, con grande dolcezza. Dimentichi del passato, protesi verso l’avvenire (Fil. 3, 13), oi domandavamo, alla presenza della verità che sei tu, Signore, come sarà quella vita eterna dei santi, che occhio non vide, orecchio non udì né penetrò nel cuore dell’uomo (1 Cor. 2,9)… E mentre ne parlavamo ed eravamo tesi ad essa col desiderio, la raggiungemmo per un istante con tutto lo slancio del nostro cuore e, sospirando, lasciammo le primizie dello spirito (cfr. Rom. 8,23) per ridiscendere al vuoto suono delle nostre bocche, dove la parola ha principio e ha fine…
E dicevamo così: se .in qualcuno il tumulto della carne facesse silenzio, silenzio facessero le immagini della terra e delle acque e dell’aria, silenzio anche i cieli, e l’anima stessa in sé facesse silenzio e si superasse non pensando più a sé, silenzio i sogni e le visioni della fantasia; se ogni lingua e ogni segno e tutto ciò che passa in qualcuno facesse completamente silenzio – a saperle ascoltare, infatti, tutte queste cose dicono: «Non ci siamo fatte da noi, ma ci ha fatto colui che rimane in eterno» – e se, detto questo, tornassero nel silenzio per essersi poste in ascolto di colui che le ha create, e lui solo parlasse, non più per loro mezzo, ma da se stesso e noi udissimo la sua parola, non attraverso lingua umana o voce di angelo o fragore di nube o enigma di parabole, ma lui stesso, che amiamo in queste cose, proprio lui si facesse sentire a noi senza di esse, – come ora che, tesi in tutto il nostro essere, abbiamo raggiunto con la penetrazione di un istante l’eterna sapienza che sta al di sopra di ogni -cosa – se questa condizione si prolungasse e scomparissero tutte le altre visioni che le sono molto inferiori ed essa sola rapisse e assorbisse e immergesse nelle gioie interiori colui che la contempla: e la vita eterna fosse così come ci è apparsa in quest’istante di intuizione che ci ha fatto sospirare, non è forse questo ciò che vuoi dire: Entra nella gioia del tuo Signore? (Mt. 25,21).
E questo, quando? Non forse nel giorno in cui tutti risorgeremo, ma non tutti saremo trasformati? (1 Cor. 15,51)…
Allora mia madre mi disse: «Figlio mio, per quanto mi riguarda, in questa vita non trovo più nessuna attrattiva. Che cosa faccio quaggiù, perché ci resto ancora? Non lo so: ormai non ho più desideri sulla terra. C’era una cosa sola che mi facesse desiderare di rimanere ancora un poco in questa vita: vederti cristiano cattolico prima di morire. Dio mi ha concesso tutto questo in misura maggiore di quello che aspettavo: ti vedo infatti disprezzare le felicità terrene per servire lui. Che cosa faccio ancora qui?».

* Confessionum libri XIII – SEI, Torino 1952 – pp. 332-335

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