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LA DOTTRINA DEL CUORE DI GESÙ – «Caritas Christi urget nos» (II Cor. 3,14)

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LA DOTTRINA DEL CUORE DI GESÙ

26 GENNAIO 2008                                                                             

Mateo Crawley-Boevey SS.CC.
(1867-1960)

RITIRO SACERDOTALE

Adveniat Regnum tuum!

LA DOTTRINA DEL CUORE DI GESÙ
«Caritas Christi urget nos» (II Cor. 3,14)

Nessuna dottrina è più indicata per realizzare il duplice ideale del sacerdote, di essere un santo e un apostolo, che quella del Cuore di Gesù, quando essa è veramente compresa secondo lo spirito e gli insegnamenti della Chiesa. È pertanto giusto che durante il Ritiro questo bel Cenacolo di sacerdoti e di missionari prenda parte al banchetto di una dottrina così alta e forte, per impregnarne la loro vita e farne l’anima di tutto il loro apostolato.
Oh, quanti grandi santi di epoche anteriori avrebbero esultato al conoscere quello che noi conosciamo al giorno d’oggi sopra il Cuore di Gesù!… E come essi avrebbero bevuto a larghi sorsi «de fontibus Salvatoris», alla ferita del S. Costato del salvatore!…
Più fortunati di loro, noi che viviamo in questo pieno giorno e nel pieno splendore del sole divino del Cuore di Gesù, sappiamo almeno trarne grandissimo profitto di luci e di fiamme, che sparge a torrenti questo Cuore adorabile sulla Chiesa e sulle anime.
Madre del bell’Amore, Regina del Cenacolo, svelate dinanzi ai nostri occhi di sacerdoti e di apostoli il divino Santuario del Cuore di Gesù.
E poiché quella Porta Santa del Sacro Costato è rimasta aperta fin dai tempo del Calvario, fateci entrare in questo abisso della divina carità, per ricevere là un amore bruciante che ci santifichi, e una fiamma di Pentecoste che ci faccia diventare i veri araldi del Regno del Sacro Cuore, nelle anime, nelle famiglie e nella società…                                                                                                                                                                                                 
In questo momento, con una gioia pari alla sorpresa, cerchiamo di misurare secondo l’espressione di S. Paolo, «l’altezza e la profondità, la lunghezza e la sublimità dell’abisso della carità di Dio», manifestata al mondo dall’Amore di Gesù Cristo (Eph. 3,18). E adorando a due ginocchi, penetriamo nel «Sancta Sanctorum» del suo Cuore trapassato a causa dei nostri peccati, ma trapassato altresì per amore, per salvarci.
Teologicamente, che cosa significa il Sacro Cuore di Gesù? Voi lo sapete meglio di me. Egli non significa nè solamente, nè principalmente il suo Cuoce di carne, adorabile come l’intera sua persona divina. Sotto questo bel simbolo del Cuore materiale, la Chiesa ci presenta una sublime affermazione trascendentale. Quella precisamente che S. Giovanni Evangelista ci dà come definizione di Dio: «Deus caritas est», Dio è amore!
(I Jo. 2,16).
E ancora ci dice la Chiesa che Gesù Cristo, essendo l’Uomo-Dio, è la rivelazione dell’infinito Amore che è Dio, il Padre: «in caritate perpetua dilexit nos Deus.» (cfr. Jer. 31,3).
Ancor più, nella stessa maniera che tutte le relazioni di Dio con la sua creatura, cominciano e si compiono nell’amore, così in contraccambio tutte le nostre relazioni di creature con il Creatore, attraverso Gesù Cristo, devono avere il loro punto di partenza e il loro compimento nella carità e nell’amore.
Osservate come questo Dio – Carità, mentre si dona, ci dà solamente amore. Osservate come questo Dio – carità, mentre reclama i suoi diritti, non domanda in sostanza alla sua creatura che amore. È questo il motivo che fa esclamare a S. Paolo: «Plenitudo legis, dilectio» (Rom. 13,10). Compimento di tutta la legge di perfezione e di salvezza è l’amore. «Qui diligit, legem implevit» (Rom. 13,8). Colui che veramente ama, ha compiuto senz’altro la legge.
Per confermare e accentuare questa legge che comprende e abbraccia tutta l’economia delle reciproche relazioni fra il Cielo e la terra, l’incomparabile Apostolo S. Paolo fa una dichiarazione che è delle più sorprendenti e sublimi di quante si possono incontrare in tutte le sue famose Lettere: «Si linguis hominum loquar et Angelorum, caritatem autem non habeam, factus sum velut aes sonans, aut cymbalum tinniens. Et si habuero prophetiam, et noverim mysteria omnia et omnem sopentiam: et si habuero omnem fidem ita ut montes transferam, caritatem autem non haibuero, nihil sum. Et si distribuero in cibos pauperum omnes facultates meas et si tradidero corpus meum ita ut ardeam, caritatem autem non habuero, nihil mihi prodest» {I. Cor. 13).
Parlando, dunque, questo linguaggio alto e profondo e il solo dottrinale, «Cor Jesu» non è una semplice devozione, nel senso popolare corrente della parola, ma una sintesi di tutto il dogma cattolico. Non è nemmeno solamente una bella manifestazione della pietà cristiana; né soltanto una forma di culto molto lodevole, un inno di adorazione, bellissimo fra tutti gli altri, alla gloria del Signore. «Cor Jesu» è ben tutto questo, si, ma anche assai più di questo, se io mi attengo al Vangelo e agli insegnamenti formali dei sommi Pontefici e della Chiesa.                                                                         
Permettete che ve lo spieghi, esponendovi in tre punti quello che io oserei chiamare il Vangelo del Sacro Cuore.
Ecco il primo punto: mosso per una carità incomprensibile, infinita, Dio vuole riscattare il mondo colpevole. Avrebbe potuto farlo in mille maniere, tutte gloriose e degne della sua Maestà infinita. Ma, oh mistero! Egli scelse l’umiliazione, l’abbassamento, «et Verbum caro factum est» (Jo. 1,14).
Orbene, se un semplice neofito o un Dottore geniale domandassero il come e il perchè di questo mistero, noi non troveremmo che una sola risposta, la sola di una dottrina solida e luminosa, quella data da Dio medesimo: «sic Deus dilexit mundum»: l’amore! (Jo. 3,16).
Voltiamo La pagina al secondo capitolo. L’Incarnazione era più che sufficiente per salvare mille mondi, ma Dio ha voluto fare di più. Egli avrebbe potuto non incarnarsi, e vedetelo là fatto uomo. Compiuto questo prodigio ineffabile, avrebbe potuto non morire, essendo Dio, ma egli ha voluto discendere fino alla regione dei morti.
Ed eccolo là, «Crucifixus, mortuus et sepultus» Dio e cadavere!…
- Come e perchè? – si sono domandati gli Angeli. Per essi come per noi, la risposta di Dio è netta e identica: «Sic Deus .dilexit mundum».
L’Amore! La follia della Croce non si spiega che per l’eccesso e la follia di un amore divino.
Apriamo adesso e leggiamo il terzo capitolo. Dovendo morire e ritornare nel seno di suo Padre, Gesù non si decide ad abbandonarci e lasciarci orfani.
E il Giovedì Santo Egli sorpassa ogni misura: l’Uomo-Dio dell’Incarnazione e della Croce si dà, si darà fino alla consumazione dei secoli per il Santo Sacrificio della Messa e nel Sacramento dell’Eucaristia.
Prima che voi vi domandiate il come e il perché dell’altare e del Ciborio, io vi prevengo con le parole del Discepolo che ci dà la chiave del mistero: «Cum dilexisset suos qui erant in mundo, in finem dilexit eos… Sic Deus dilexit mundum!» (Jo. 13, 1 e 16).
L’amore infinito di un Dio, nient’altro che l’amore infinito di un Dio, può essere la spiegazione adeguata di questo dono per eccellenza.
Ma, quale di questi tre capitoli meravigliosi contiene la vera dottrina del sacro Cuore? Il primo quello dell’Incarnazione? Il secondo quello della Croce? Il terzo quello della Eucaristia?
È evidente che ciascuno di noi, secondo la sua inclinazione personale, può preferire la meditazione, e pertanto la predicazione, dell’uno e dell’altro di questi tre misteri ineffabili, «Spiritus ubi vult spirat» (Jo. 3,8).
È così che negli annali della Chiesa noi incontriamo una falange di santi che hanno fatto la loro delizia principale del Mistero dell’Incarnazione: fra mille altri e più recentemente, S. Teresa del Bambino Gesù.
Poi abbiamo l’armata innumerevole dei Santi che si lasciarono prendere dalla bellezza della Croce: fra essi S. Francesco d’Assisi e S. Paolo della Croce ne sono degli ammirevoli esempi.
Infine, noi conosciamo dei Santi me sono vissuti della Santa Eucaristia, come Pasquale Baylon, Giulilana Falconieri e il Padre Eymard.
Per conseguenza, ciascuno di noi può seguire l’ispirazione dello Spirito Santo e la propria vocazione.
Ma dal momento alle si deve parlare dottrinalmente del Cuore di Gesù, allora non sarà più l’uno o l’altro dei capitoli che abbiamo presentato, ma i tre insieme, che costituiranno l’Evangelo integrale dell’Amore di Dio, manifestato per l’Incarnazione del Verbo, per la sua Passione e Morte e per il dono incomparabile di se stesso nella Divina Eucaristia.
Non è dunque un capitolo più che un altro, che scegliamo in questo momento, ma i tre capitoli, rilegati e fusi in uno solo che riassume la somma teologica condensata da S. Giovanni in queste parole: «Deus caritas est» (I Jo. 2,16). Dio è Amore.
Ed è pure la dottrina che S. Paolo sintetizza in questa frase: «Qui dilexit me et tradidit semetipsum pro me» (Gal. 2,20), parlando dell’amore di Dio verso gli uomini, e «plenitudo legis, dilectio», parlando dell’amore degli uomini verso Dio.
Se io adesso dovessi riprodurre questa tesi su di una tela, se io volessi nella misura del possibile sviluppare la definizione del Cuore di Gesù e renderla sensibile e plastica, ecco il trittico che io presenterei: davanti al SS. sacramento esposto sopra l’Altare metterei S. Tommaso d’Aquino che canta il suo meraviglioso Tantum Ergo e adora a due ginocchi.
A dritta, Teresa del Bambino Gesù che stringe al suo cuore il divino Bambino di Betlemme.
A sinistra, S. Francesco d’Assisi nel momento in cui Gesù Crocifisso distacca dalla Croce un braccio per serrarlo sul suo petto.
Ma ecco che a questo momento i tre santi Personaggi, come se una voce misteriosa li chiamasse, alzano gli occhi e contemplano estasiati la
visione di Paray-le-Monial: nella ferita del Sacro Costato, appare in mezzo alle fiamme il Cuore trapassato di Gesù.
Allora, S. Margherita Maria fa vedere a tutti e tre, o meglio fa osservare che in questo «Cuore che ha tanto amato gli uomini», essi trovano i tre misteri che vivono in quel momento nella loro mente, l’abbassamento dell’Incarnazione, la forma della Croce, l’annientamento dell’Eucaristia. E la Santa ripete: «Ecco il Cuore che ha tanto amato!»…
Unendo la mia debole voce alla sua, io aggiungerei: «Sic nos amantem quis non redamaret?» In cambio del suo Cuore, i nostri cuori: «Praebe, fili mi, cor tuum mihi». (Prov. 23,24).
Nella misura in cui le idee astratte e sublimi possono essere rese sensibili su di una tela, io credo che questo trittico condensi in una maniera assai precisa e giusta tutta la teologia del Sacro Cuore. Ragionando su questo tono, mettendo armoniosamente insieme dottrina e fiamme, tesi e vita, io trovo il Cuore di Gesù, voglio dire il suo Amore, in tutta La sua Persona adorabile:
Nella sua Testa coronata di spine per amore.
Nei suoi Occhi che hanno pianto per amore.
Nella sua Bocca che ebbe sete e che non ha parlato che d’amore.
Nelle sue Mani forate per amore.
Nei suoi Piedi trapassati per amore.
Nel suo Costato aperto per amore.
Tutto il suo Corpo è divenuto una piaga vivaper amore.
Io direi, dunque, volentieri con il Card. Pie: «tutto Gesù Cristo non è che un Cuore infinito»!
E come tutta la sua divina Persona, così tutte le sue opere, tutte predicano il suo Amore e reclamano il nostro.
La Creazione: Egli mi ha amato, perchè io l’ami.
La Redenzione: Egli mi ha amato, perchè io lo ami.
Il Sacerdozio, il Santo sacrificio, il Tabernacolo, sempre Egli mi ha amato, perché io lo
ami.
L’economia della grazia, la Comunione dei Santi, la santa Vergine: Egli mi ha amato, perché io lo ami.
Inoltre disse Gesù: tutta la legge si riassume in due grandi precetti. Ma il secondo di questi presuppone assolutamente il primo: «Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde et ex tota anima et ex tota mente tua…» (Mc. 12,30).
«Cor Jesu»è, dunque, il centro da dove si diparte, come da una fornace di carità, tutta la azione divina e verso la quale converge tutto il piano divino.
Logicamente, pertanto, «Cor Jesu» non è un solo capitolo, un trattato, ma tutta la somma della Verità Eterna.
Ciò che faceva dire giustamente al Card. Pie: «Io riassumo tutta la teologia in due parole… il mio dogma: Sic Deus dilexit mundum… dilexit me… La mia morale: «Diliges».
Niente di nuovo, per conseguenza, quanto alla sostanza di tale dottrina; questa si trova tutta intera nelle pagine del Vangelo.
Ma quanto ‘alla forma, ossia al culto esteriore con il quale onoriamo il Sacro Cuore di Gesù, vi ha una novità dopo la rivelazione di Paray-le-Monial.
Un semplice esempio di quello che io chiamo novità nel culto o nella forma è la festa solenne del Sacro Cuore, elevata da S. S. Pio XI al Rito di Prima Classe e celebrata il venerdì dopo l’Ottava del Corpus Domini, secondo la domanda esplicita di Nostro Signore alla sua confidente Margherita Maria.
Ma non si deve dimenticare che la dottrina del Sacro Cuore è in sostanza lo stesso dogma dell’amore del Salvatore divino, tale, che noi possiamo affermare che per predicare il Sacro Cuore non avremmo neanche avuto bisogno dell’avvenimento di Paray-le-Monial, né di S. Margherita Maria: ci basta il Vangelo e la nostra Teologia.
Perciò, se io amo ed ammiro con la Chiesa il grande fatto di Paray, è perchè io lo trovo in perfetto accordo con il Vangelo nelle sue domande, nel suo spirito, nelle sue promesse.
Rimarcate per esempio questo: il Maestro Adorabile appare a Paray assolutamente con lo stesso fine e disegno che gli avevano fatto percorrere le tappe di Betlemme, del Calvario e dell’Altare, cioè donare il suo amore e farsi amare, conquistare ed attirare dei cuori per il suo Cuore. In Palestina come a Paray, è la stessa sete che lo fa gemere, sete di amore. Poichè non è disceso venti secoli or sono a Betlemme e non è ritornato in seguito a Paray-le-Monial che per portare un sacro fuoco sulla terra: «Ignem veni mittere in terram et quid volo nisi ut accendatur?» (Luc. 12,49).
Si, riportandomi alla interpretazione che la Chiesa ha dato al fatto di Paray-le-Monial, dico che questo non ha altro fine che di dilatare la conoscenza e lo spirito della adozione filiale divina, accentuando nelle nostre relazioni con Dio, attraverso Gesù Mediatore, il principio di un amore «fortis ut mors», e mettendo alla base della vita delle anime, della loro ascensione verso il Padre e la Trinità, la regina di tutte le virtù, la carità.
Ecco che cosa significa, in fondo, questa frase divenuta classica e indirizzata dal Salvatore a S. Margherita Maria: «Io voglio regnare per mezzo del mio Cuore»! Egli vuol conquistare, trionfare, essere Re per la carità, per l’amore.
Un’ultima parola sul «nova et vetera» della dottrina del Sacro Cuore. S. Francesco di Sales ce la dice con i più bei colori che egli seppe trovare sulla sua tavola. «Se avessero fatto con il cadavere del Salvatore ciò che fanno con il cadavere dei re, l’autopsia, avrebbero potuto constatare che la ferita del Cuore di Gesù non data dal colpo di Lancia del Calvario, ma dalla Incarnazione, ossia che Gesù era nato ferito al Cuore, ferito d’amore!»
Paray-le-Monial ha attirato l’attenzione sul Costato trapassato per permetterci di penetrarvi e di constatarvi per mezzo della meditazione e della preghiera quello che ha detto il santo Dottore di Ginevra. Se la apertura praticata dalla lancia non data che da ieri, la lancia non ha fatto altro che rompere la cortina per mostrarci nell’interiore del Cuore Divino la ferita di un amore eterno. Dio ci ha amato da tutta l’eternità e il suo Verbo non è venuto in questa terra se non per farcelo conoscere. Questo Verbo è quindi ritornato a Paray-le-Monial per ricordarcelo e per reclamare l’adorazione dei nostri cuori. Oh! raccogliete dal fiore delizioso e sanguinante della ferita del Sacro Costato, il miele di questa sublime dottrina e nutritevene.
Sì, nutritevene a sazietà, è interesse vostro ed è ugualmente l’interesse della vostra missione apostolica. Infatti io vi ricordo qui due promesse, per mio conto le più grandi e le più meravigliose che sono state fatte a Paray-le-Monial. La prima riguarda la chiamata alla santità di ogni cristiano e a più forte ragione di ogni sacerdote: «le anime ferventi si eleveranno rapidamente a una grande perfezione».
«Fidelis est Deus», in tutto e sempre, ma Egli dovrà esserlo particolarmente quando si tratta di una causa alla quale il suo Cuore tiene più che a tutto.
La seconda promessa riguarda il nostro apostolato per le anime: «io donerò ai sacerdoti la grazia di commuovere i cuori anche più induriti».
Se voi, pertanto, volete possedere il vero segreto per attirare le anime le più refrattarie, se voi volete far fiorire il deserto per la gloria del Maestro della Messe, prendete il labaro trionfante del Cuore di Gesù, fatelo Re d’amore delle anime, dei focolari, delle vostre opere, delle vostre parrocchie. Fate di questo Re tutto amabile il centro di tutti i cuori, siate tutti i predicatori del suo amore, i missionari del Cuore di Gesù. Non solamente la vostra fede, ma anche la vostra esperienza vi dimostrerà un giorno come è grande la sua fedeltà a mantenere le sue promesse ed anche a superarle in favore dei sacerdoti divenuti come S. Giovanni i confidenti e gli apostoli del suo Amore negletto.
Sacerdoti e Missionari, domandate alla Madre del Bell’Amore di ottenervi la scienza dei Santi per eccellenza, quella che abbraccia tutte le scienze e senza la quale tutte sarebbero vane: «Scientia caritatis Christi» (sfr. Eph. 3,19). Poiché Gesù stesso ha detto: «Se voi mi amate, anche il Padre mio vi amerà e farà la sua dimora in voi» (cfr. Jo 14,23).
Sacerdoti e Missionari, conservatevi nel suo amore, poiché «plenitudo legis, dilectio» (Rom. 13,10). «Diliges, hoc est maximum et primum mandatum… Praebe, fili mi, cor tuum, mihi!… (Mth. 22,38 e Prov. 23,26).

RISOLUZIONI PRATICHE: Amate, amate di una fiamma che divori la vostra anima sacerdotale, amate l’Amore, il Cuore di quel Dio che vi ha tanto amato!
Oltre la confidenza, il Sacrificio e l’Apostolato, che sono grandi e magnifiche testimonianze del vostro amore, fate della Divina Eucaristia, della vostra Messa quotidiana, il focolare ardente per eccellenza di questo fuoco sacro, di questa carità che dovrà essere il segreto della vostra santificazione personale e della vostra fecondità apostolica. Amate!
A questo scopo, prendete la solida dottrina del Cuore di Gesù come un elemento di primo valore per stabilire tra Gesù e voi quella amicizia forte e intima, quel cuore a cuore che Lui desidera tanto con i suoi sacerdoti.
Non è certo invano che il Signore ha esplicitamente promesso «di elevare a un’alta perfezione i discepoli fedeli del Suo Cuore adorabile». Ecco un beneficio incomparabile al quale un degno sacerdote non può rinunziare. Prendete, dunque, con sollecitudine il posto scelto da S. Giovanni: esso appartiene di pieno diritto a voi missionari privilegiati di Gesù, a voi suoi sacerdoti. Infatti, è su questo Cuore di Re e di Amico che si sono sempre formati i santi, gli apostoli, i martiri !
Poiché non si tratta qui in nessuna maniera di una devozione buona e bella nel senso corrente della parola, ma di una vita di carità, di un’anima pervasa da questa virtù che è la regina delle virtù, che le riunisce tutte: «scientia caritatis Christi».
Entrate a fondo in questo movimento, vero soffio dello Spirito Santo che inonda del suo fuoco e della sua luce la Santa Chiesa e che diventa di più in più e l’ispirazione e il motore dell’apostolato moderno, al grido di: «Cor Jesu Sacratissimum, adveniat Regnum tuum!»
Proponetevi, per il vostro profitto spirituale e per quello delle anime, di far meglio conoscere e meglio amare questo Amore così poco conosciuto anche in mezzo degli stessi buoni.
Sì, date alle anime il gran dono della fede, ma date pure ad esse il gran dono inseparabile della fede di amare, voglio dire, fate ben conoscere ai vostri popoli il Cuore dolcissimo di Gesù, se non volete avere soltanto dei cristiani anemici, mancanti di una fiamma eucaristica, di spirito di sacrificio, e per conseguenza di zelo, di spirito d’apostolato.
Ahimé! Sono dappertutto numerosi i cristiani che credono, sì, ma che non amano se non molto freddamente o anche semplicemente che non amano. Meditate a questo riguardo il lamento così amaro con il quale il Salvatore dichiara di essere stato ferito dai suoi amici per mancanza di amore. È questo lamento doloroso che ha ravvivato nella Chiesa (come l’ha detto Pio XI in una ammirabile Enciclica) lo spirito di riparazione e che ha dato origine all’esercizio dell’Ora Santa, alla Comunione riparatrice dei Primi Venerdì e alla splendida festa del Sacro Cuore.
Credere è una cosa, amare è un’altra!
Ma Dio vuole essere amato poiché lo vuole la Chiesa. Predicate, parlando con un immensa convinzione, questa sintesi dottrinale meravigliosa del Dogma Cattolico, la «plenitudo legis, dilectio», la «charitas Christi urget nos» di S. Paolo. Dottrina tanto semplice quanto solida, e così opportuna per i bisogni della nostra epoca, secondo le affermazioni di Leone XIII e di Pio XI. Dottrina fondamentalmente cattolica, universale, perché allo stesso tempo me essa riassume, rende vivente e vissuto il Primo e il più grande dei Comandamenti: «Diliges!» Ama!
Conveniamo che osservare questo Comandamento non è una semplice devozione, ma una legge e una vita!
Facciamo con generosità quello che il Cuore di Gesù ci domanda in una maniera così commovente, e che la Chiesa applaude e incoraggia. Noi sapremo un giorno, per una fortunata esperienza, come Gesù è realmente fedele alle sue ineffabili promesse.

Veni Sancte Spiritus!
Adveniat Regnum tuum!

testo tratto da: P. Matteo Crawley SS.CC., Ritiro Sacerdotale, Grottaferrata – Trento, 1958, pp. 152-169.

Mary, Queen of the Missions, Don Bosco, Torino

Mary, Queen of the Missions, Don Bosco, Torino dans immagini sacre Z-011-Maria-Regina-Missioni

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Publié dans:immagini sacre |on 8 janvier, 2013 |Pas de commentaires »

ATTI DEGLI APOSTOLI: IL RITORNO A GERUSALEMME (Lectio)

http://www.indes.info/lectiodivina/2003-04_Atti_degli_Apostoli/Il_ritorno_a_Gerusalemme.html

LECTIO DIVINA: ATTI DEGLI APOSTOLI 2003-04

IL RITORNO A GERUSALEMME                    

di Pino Stancari                                    

Paolo è impegnato oramai nei suoi grandi viaggi missionari. Siamo al suo terzo grande viaggio missionario. Ogni viaggio ha la sua particolare fisionomia pastorale, ogni viaggio diventa occasione di crescita nella contemplazione dell’evangelo, ogni viaggio diventa momento di rivelazione per quanto riguarda la novità di cui Dio è protagonista nella storia degli uomini per la salvezza di tutte le genti.
Paolo è spettatore di quello che succede e diviene testimone che prende su di sé la responsabilità di accompagnare il cammino di coloro che si convertono nell’ascolto della parola di Dio e nell’esperienza della comunione che oramai coinvolge tutti gli uomini con la Pasqua del Figlio di Dio, Gesù Cristo, Signore di tutti.
A EFESO
Partito da Antiochia Paolo è ritornato ad Antiochia (18,22). Dal versetto seguente ha inizio il terzo grande viaggio. Ancora una volta siamo alle prese con una geografia impegnativa, frastagliata, in certi momenti un po’ impervia. In questo caso, nel corso di questo terzo grande viaggio missionario, ci sono momenti di sosta relativamente prolungati in località adatte all’attività pastorale di Paolo. In particolare una lunga sosta che trattiene Paolo ad Efeso, capoluogo della provincia d’Asia. Per quanto riguarda il valore narrativo, che è valore teologico delle pagine che leggeremo, le strade che Paolo percorre si internano sempre più profondamente nel mistero della coscienza umana, del cuore umano, nel mistero della condizione umana che è visitata dall’evangelo, là dove gli orizzonti non sono calcolabili secondo le misure della geografia, ma secondo le misure della teologia. E’ il mistero di Dio che Paolo insegue, che Paolo contempla, di cui Paolo è testimone, è il mistero di Dio nel cuore degli uomini, nella storia degli uomini, è il mistero di Dio nelle vicende che coinvolgono l’attività umana, l’attività professionale, le relazioni domestiche, le relazioni sociali, le dimensioni politiche, e il linguaggio, nel significato più ampio del termine, il linguaggio degli uomini, gruppi, popoli, una moltitudine di culture.
Paolo affronta, in modo sempre più risoluto e anche sempre più maturo, il viaggio missionario come impegno a scandagliare la profondità del cuore umano. Sorprese sempre più affascinanti e sempre più preoccupanti, per altro verso, quelle che si prospettano.
«Trascorso colà un po’ di tempo, partì di nuovo percorrendo di seguito le regioni della Galazia e della Frigia, confermando nella fede tutti i discepoli».
Il terzo viaggio ha avuto inizio. Di nuovo Paolo attraversa la penisola anatolica, le regioni centrali. Nel viaggio precedente non aveva potuto raggiungere Efeso. E’ la meta che invece costituisce l’obiettivo della sua missione nella prima parte del viaggio. Questa volta la meta verrà sollecitamente raggiunta. Paolo punta verso Efeso, capoluogo della provincia d’Asia, vi sosterà per poco più di tre anni.
Nel frattempo l’attenzione si sposta per l’appunto verso Efeso, dal momento che in 18,14 Luca ci fornisce una notizia concernente la presenza e la permanenza ad Efeso di un personaggio singolare, di nome, Apollo, mentre Paolo è in viaggio.
APOLLO
«Arrivò a Efeso un Giudeo, chiamato Apollo, nativo di Alessandria, uomo colto, versato nelle Scritture». Egli era educato alle scuole dell’arte oratoria, alle scuole della retorica ellenistica, personaggio prestigioso. Fatto sta che il caso di Apollo viene messo in evidenza per un motivo particolare. Questo tale era stato ammaestrato nella via del Signore, dunque già è venuto in contatto con i discepoli di Gesù che a loro modo, lo avrebbero evangelizzato, ma questa evangelizzazione ha avuto un effetto molto parziale, non si potrebbe nemmeno parlare di una evangelizzazionema di un complesso di notizie che gli sono state offerte a riguardo di Gesù il maestro e che negli anni precedenti ha svolto una sua preziosa opera di predicazione e di insegnamento nella terra d’Israele. Notizie che Apollo ha recepito restando assai ammirato e si è dato da fare per rilanciare il messaggio, si è reso egli stesso disponibile con tutte le sue competenze di studioso e di biblista, aggiungendo oltretutto la competenza che gli deriva dall’aver frequentato le scuole alessandrine, dunque la competenza nella tecnica espositiva. Egli approfitta di tutto questo per insegnare con grande fervore «ciò che si riferiva a Gesù, sebbene conoscesse soltanto il battesimo di Giovanni». E’ una conoscenza parziale, anzi diremmo che proprio ciò che è essenziale, costitutivo di quella novità per cui l’evangelo è coinvolgimento nell’opera che Dio ha compiuto una volta per tutte nella storia degli uomini, instaurando il suo regno, chiamando l’umanità intera a intraprendere la strada del ritorno alla vita, quella novità evangelica che coincide con l’evento pasquale che si è compiuto una volta per tutte, ebbene di queste cose Apollo non è informato. Egli parla di Gesù e poi con grande stima rilancia l’insegnamento di quel maestro fascinoso di cui ha avuto notizia con grande trasporto, ma è l’insegnamento di un maestro, una dottrina morale, è per di più un insegnamento che ha trovato conferma nella testimonianza integerrima in quel personaggio eccezionale di cui Apollo è ammiratore a distanza. Ma l’evangelo è un’altra cosa. Apollo conosce soltanto il battesimo di Giovanni, è un indizio, quello che stiamo percependo, che poi verrà ulteriormente confermato: l’evangelizzazione è in corso ma poi si dà il caso che l’evangelo venga proposto in modo parziale e quindi in realtà inconcludente, in qualche caso si potrebbe addirittura ritenere che l’evangelo si proposto in modo ambiguo e quindi pericoloso, perché viene barattato come evangelo di Gesù un messaggio che in realtà è ancora ripiegato su moduli antichi, e in sé e per sé radicalmente insufficienti.
Ci accostiamo alla problematica di una evangelizzazione rimasta a metà strada, sospesa per aria. L’evangelo non è passato, non è penetrato, non ha raggiunto il cuore degli uomini, si è trasformato in un prontuario di norme, utili per rispettare un certo ordine morale delle cose. L’evangelo si è ridotto a una proposta di vita generosa e intraprendente, ma indipendentemente da quella che è la novità risolutiva, cioè il coinvolgimento nella Pasqua del Figlio di Dio che è morto e risorto. L’evangelo è rimasto a metà. Il caso di Apollo è già esemplare.

Il viaggio di Paolo si svolge in modo tale da costringerlo a prendere atto di questa situazione. Sono passati ancora pochi anni, ma già viene registrata da Paolo una preoccupante distanza tra la novità evangelica nella sua pregnanza feconda per la salvezza e un certo modo di proporre dei comportamenti, degli impegni di ordine morale. Apollo conosce soltanto l’evangelo di Giovanni. A Efeso sono presenti Priscilla e Aquila, Paolo si è avvicinato a loro a Corinto, hanno lavorato insieme durante quel soggiorno. Adesso si trovano a Efeso, lo ascoltano, mentre Apollo si dà un gran daffare nella sinagoga. Lo prendono in disparte e «gli esposero con maggiore accuratezza la via di Dio. Poiché egli desiderava passare nell’Acaia». Apollo adesso si rende conto di come stanno le cose e Priscilla ed Aquila a loro modo, ma con molta onestà e coerenza, e con l’autenticità della loro testimonianza di discepoli del Signore, comprendendo il valore straordinario del personaggio con cui hanno a che fare, si dedicano a lui per aiutarlo a immergersi nella relazione con il mistero del Signore vivente. E’ la novità Pasquale, è la novità evangelica, la novità della vita cristiana. Apollo riparte da Efeso per recarsi a Corinto, quando Paolo scriverà qualche tempo dopo la lettera ai Corinti segnalerà il passaggio di Apollo a Corinto. Apollo è molto intraprendente, tutto preso dalle sue scoperte, viene da Efeso da parte di coloro che già compongono la ecclesia di Efeso, dove già esiste una comunità di discepoli del Signore, ma con tutte quelle incertezze, quelle soluzioni ancora approssimative, grezze, con tutte quelle forme grossolane ancora proprie di una vita che si propone come novità ed invece ancora è carica di compromessi con gli equilibri antecedenti. Fatto sta che da quella comunità di Efeso Apollo viene aiutato a trasferirsi a Corinto e si dà un gran daffare «confutando vigorosamente i Giudei, dimostrando pubblicamente attraverso le Scritture che Gesù è il Cristo».
I CRISTIANI DI EFESO
Cap. 19, «mentre Apollo era a Corinto», a Efeso giunge Paolo. L’episodio di Apollo adesso sta sullo sfondo di quanto avviene dal momento in cui Paolo si trova egli stesso a Efeso, dopo aver attraversato le regioni dell’altopiano. A Efeso Paolo trova alcuni che sono già discepoli del Signore, già fanno parte di una prima comunità che è stata fondata in seguito a una prima evangelizzazione. Questi discepoli vengono interrogati da Paolo: «Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede? Gli risposero: Non abbiamo nemmeno sentito dire che ci sia uno Spirito Santo».
Ci sono dei cosiddetti discepoli che non hanno l’esperienza della vita nuova. L’esperienza del battesimo di Giovanni, come diceva Apollo. Il battesimo di Giovanni è un battesimo di penitenza, è un battesimo che esprime il ravvedimento di una vita che vuole intraprendere orami un nuovo cammino, ma è ben altra cosa.
“Non abbiamo nemmeno sentito dire che ci sia uno Spirito Santo”. Luca fin dall’inizio degli Atti degli apostoli, ci ha aiutati a considerare che proprio in forza dello Spirito Santo si realizza quel contatto vitale tra noi uomini. Il contatto vitale con colui che oramai è passato attraverso la morte, vittorioso, intronizzato, nella gloria, asceso al cielo e tra lui e noi c’è una comunicazione diretta, un coinvolgimento vitale nello Spirito Santo. Paolo continua:«Quale battesimo avete ricevuto?. Il battesimo di Giovanni, risposero». Come nel caso di Apollo poco prima.
«Disse allora Paolo: Giovanni ha amministrato un battesimo di penitenza, dicendo al popolo di credere in colui che sarebbe venuto dopo di lui, cioè in Gesù».
Paolo interviene per precisare: se il messaggio ricevuto da questi cristiani è stato da qualcuno proposto come un evangelo, si rende conto che è un evangelo menomato, mutilato, avvilito, è un evangelo che non si esprime nella sua autentica novità, dunque non è più un evangelo. E si dà il caso che oramai, e siamo appena all’inizio della storia dell’evangelizzazione, si tratti di fare i conti con una evangelizzazione che si è svolta nei suoi dati empirici, ma che ha ottenuto come risuultato delle situazioni di vita che non realizzano la novità del Signore nella storia umana. L’evangelo è rimasto a metà. Siamo appena all’inizio della storia dell’evangelizzazione e Paolo fronteggia una constatazione del genere, che è più che mai preoccupante, addirittura angosciante, che diventa motivo di ripensamento radicale. Pensate come la questione sia attuale per noi dopo tanti secoli. L’evangelo è passato, ma non ha preso, non ha afferrato, non è sceso, non è penetrato, non ha raggiunto il fondo, non ha coinvolto la radice del cuore umano. L’evangelo è passato, sì, ma è come avere a che fare con una spolverata un po’ superficiale, qualche volta anche con riscontri di generosità interessanti, ammirevolissimi, ma non è la novità evangelica.
PAOLO DI DÀ DA FARE:
«Dopo aver udito questo, si fecero battezzare nel nome del Signore Gesù e, non appena Paolo ebbe imposto loro le mani, scese su di loro lo Spirito Santo e parlavano in lingue e profetavano».
C’è di mezzo una imposizione delle mani che rinvia a una organizzazione comunitaria, la quale diventa comunicazione tra diversi, c’è una esperienza di gioia intrattenibile, c’è un’ulteriore rilancio della evangelizzazione che rende profeti coloro che sono stati raggiunti dalla profezia che evangelizza, «erano in tutto circa dodici uomini». E’ come se in piccolo, ad Efeso, Luca ci riproponesse la scena della Pentecoste, di quella che è stata la prima pentecoste, ma è sempre pentecoste, è una pentecoste permanente: a Gerusalemme all’inizio, a Efeso, pentecoste sarà sempre dappertutto. La vita cristiana è la vita nuova di coloro che man mano vengono coinvolti nella profezia dell’evangelo là dove con la forza misteriosa dello Spirito Santo gli uomini sono condotti a incontrare il Signore vivente e a vivere oramai in comunione con lui. Gli uomini nella loro precarietà, nella loro debolezza, nella loro miseria, gli uomini che devono ancora affrontare la morte, ma che già sono chiamati a vivere in comunione con il Signore glorioso, intronizzato. E’ il mistero della vita cristiana. Ebbene erano circa 12 uomini come all’inizio, è sempre e ancora pentecoste.
Anche se l’apparenza è così dimessa, anche se ci sembra di avere a che fare con personaggi molto modesti e molto condizionati, è sempre ed ancora la pentecoste. Paolo rimane a Efeso, si dà un gran daffare, qui il suo ministero apostolico si sviluppa, ha a che fare con la sinagoga dei giudei a Efeso. Ci sono momenti di polemica molto serrata.
«Questo durò due anni, col risultato che tutti gli abitanti della provincia d’Asia, Giudei e Greci, poterono ascoltare la parola del Signore».
E’ un ministero molto ricco, un ministero molto fecondo: la evangelizzazione promossa da Paolo si irraggia in tutto il territorio circostante. Efeso è capoluogo della provincia e questo consente anche da un punto di vista tecnico una proiezione su tutto il territorio circostante, di città in città, di villaggio in villaggio, ai bordi delle strade. Così Paolo a Efeso.
MAGHI ED ESORCISTI
L’episodio che segue (18,11-20) ci riporta brutalmente a confermare l’impressione che avevamo avuto fin dall’inizio: una evangelizzazione rimasta a metà. Intanto c’è una crescita, non c’è dubbio. E’ una crescita benefica, una crescita entusiasmante in estensione, ma rimane una problematica a cui non ci si può sottrarre per quanto riguarda la penetrazione in profondità dell’evangelo. Cosa succede qui?
«Dio intanto operava prodigi non comuni per opera di Paolo, al punto che si mettevano sopra i malati fazzoletti o grembiuli che erano stati a contatto con lui e le malattie cessavano e gli spiriti cattivi fuggivano».
Per le mani di Paolo passano le opere potenti di Dio. Una scena questa che ci affascina in modo clamoroso, ma già percepiamo che affiorano delle ambiguità, si dà spazio a dei fraintendimenti. A riguardo di tutto questo poi, Paolo è più insofferente che mai. Paolo in nessun modo vuole dare adito a soluzioni che equivochino circa l’autenticità dell’evangelo che egli ha ricevuto ed accolto e di cui è profeta con tutta la partecipazione del suo vissuto. Ed ecco un episodio, sintomatico:
«Alcuni esorcisti ambulanti giudei si provarono a invocare anch’essi il nome del Signore Gesù sopra quanti avevano spiriti cattivi».
E’ proprio vero, il fraintendimento è all’ordine del giorno. Qui compaiono questi esorcisti giudei, che come evidentemente erano abituati a comportarsi, ancora una volta abusano della superstizione popolare e invocano anch’essi il nome del Signore Gesù sopra quanti avevano spiriti cattivi, «dicendo: Vi scongiuro per quel Gesù che Paolo predica». Procedure di tipo magico, approfittano della creduloneria della gente, approfittano di quello che è un animo generoso comunque aperto all’esperienza religiosa, subito compromesso da soluzioni di tipo superstizioso. E questo è un fenomeno che non riguarda soltanto le persone poco acculturate. Questo è un fenomeno che riguarda spesso proprio gli uomini dotati della cosiddetta alta cultura, non meno e non di più, e in modo tragicamente drammatico.
Gli uomini colti sono molto spesso estremamente superstiziosi. Il caso di Apollo già ci é stato presentato in concomitanza con l’inizio del terzo viaggio missionario, come una indicazione programamtica. Fatto sta che questo era il comportamento di «sette figli di un certo Sceva, un sommo sacerdote giudeo». Giudei della diaspora, abbastanza disarticolati nei loro comportamenti. Situazioni più o meno corrotte rispetto alla coerenza della tradizione di fede che è ricchezza inconfondibile e tale rimane, del popolo d’Israele. Questi tali in qualche modo hanno captato qualche cosa della predicazione di Paolo e hanno trasformato quel messaggio in uno strumento di cui adesso si sono appropriati e che intendono utilizzare ad uso e consumo delle loro procedure magiche. E qui succede, v. 15, l’episodio che adesso assume delle movenze un po’ grottesche, se non addirittura ridicole:
«Ma lo spirito cattivo rispose loro: Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete?. E l’uomo che aveva lo spirito cattivo, slanciatosi su di loro, li afferrò e li trattò con tale violenza che essi fuggirono da quella casa nudi e coperti di ferite. Il fatto fu risaputo da tutti i Giudei e dai Greci che abitavano a Efeso».
Giudei e greci, questo è un fatto che riguarda la cittadinanza efesina in tutte le sue componenti. Lo scalpore è generale. L’episodio in sé e per sé è molto circoscritto, però allude a quelle situazioni di ambiguità che dimorano nella coscienza comune degli uomini a causa del linguaggio religioso diffuso, che ottiene il consenso più ampio, se non addirittura generalizzato. E’ quel certo linguaggio religioso che deve fare i conti con un incidente sconcertante e angosciante.
«Il fatto fu risaputo da tutti i Giudei e dai Greci che abitavano a Efeso e tutti furono presi da timore e si magnificava il nome del Signore Gesù». C’è comunque un appello nel nome del Signore, la magnificenza del nome del Signore viene proclamata, c’è un Magnificat che viene cantato al nome del Signore Gesù. Ma c’è un piccolo particolare di cui bisogna tener conto: il Magnificat è cantato dalla Madre del Signore nella sua piccolezza. Come si può proclamare la magnificenza del Signore Gesù senza esporre, senza consegnare, senza affidare la propria piccolezza? Come si può proclamare il Magnificat rimanendo ancorati ad un atteggiamento magico e superstizioso ? Tutto ciò che ha a che fare con la magia o la superstizione riguarda l’uso del potere. Qui viene proclamata la magnificenza del nome del Signore Gesù, ma rimanendo all’interno di un certo dinamismo della coscienza umana per cui gli uomini aspirano in tutti i modi a ottenere quel potere. Questo atteggiamento così ambiguo è quanto mai diffuso.
«Molti di quelli che avevano abbracciato la fede venivano a confessare in pubblico le loro pratiche magiche e un numero considerevole di persone che avevano esercitato le arti magiche portavano i propri libri e li bruciavano alla vista di tutti. Ne fu calcolato il valore complessivo e trovarono che era di cinquantamila dramme d’argento. Così la parola del Signore cresceva e si rafforzava».
Cresceva e si rafforzava, ma Paolo si rende conto che i tempi si allungano, si rende conto che in un primo momento si era prospettata la sua attività di evangelizzazione missionaria come una corsa mirata a ottenere dei frutti definitivi, ora capisce che il cuore umano ancora non è stato penetrato in profondità, la situazione dei credenti è stata condizionata ancora da complicazioni di ordine magico. C’è una religiosità diffusa che non è stata affatto coinvolta nella novità evangelica. Paolo se ne accorge. E qui una svolta.
E’ il terzo grande viaggio missionario, passano alcuni anni. Luca ci dà di Paolo una immagine pensosa, meditativa. Paolo sta ripensando alle sue cose, alla sua attività di evangelizzatore, sta ripensando al suo impegno. Fa bene ogni tanto. Paolo anche in queste cose è esemplare. v. 21, finalmente Paolo ha preso una decisione dopo un ripensamento intenso, drammatico. E’ un nuovo programma apostolico quello che si prospetta.
BISOGNA TORNARE A GERUSALEMME
«Dopo questi fatti, Paolo si mise in animo di attraversare la Macedonia e l’Acaia e di recarsi a Gerusalemme dicendo: Dopo essere stato là devo vedere anche Roma». Invia due dei suoi, Timoteo ed Erasto, e lui si trattiene ancora per qualche tempo ad Efeso, ma ha preso una decisione. C’è una svolta.
Paolo, giunto a questo punto della sua attività missionaria, decide di tornare indietro, bisogna tornare a Gerusalemme. Non è mica una decisione da poco, questa! Fino a questo momento abbiamo l’impressione che Paolo è proiettato verso mete sempre più remote, una periferia sempre più lontana geograficamente e anche culturalmente, sempre passando attraverso le sinagoghe, là dove trova appoggio e possibilità di dialogo, e poi superando la sinagoga per rivolgersi ai pagani, lungo tutte le strade, lungo tutte le direzioni, fino agli estremi confini della terra. Questo sembrava un programma già elaborato da Paolo e dagli altri con lui. Ora Paolo cambia programma: bisogna tornare indietro, bisogna ritornare da capo. Quello che mi sembra importantissimo è diventare anche noi accompagnatori di Paolo in questa sua vicenda, mentre si interroga, appronta delle soluzioni, elabora dei programmi e poi si accorge che i programmi vengono man mano ridimensionati e sconfessati dai fatti. Paolo si trova sempre più esposto alla esperienza di una novità, quella vera novità che appartiene soltanto la Signore e che sbaraglia tutte le possibili programmazioni pastorali. L’evangelo ancora non ha ottenuto i frutti desiderati. Come è possibile questo?
Paolo si rende conto che c’è uno slittamento in avanti. Nel primo periodo Paolo si comporta come se tutto dovesse risolversi nel corso di pochi anni, entro la sua generazione, ora si accorge che i tempi si allungano, che i disegni della storia umana sono altri, che la provvidenza del Signore che si è manifestata a noi attraverso l’incarnazione del Figlio e la potenza dello Spirito Santo, la provvidenza del Signore guida i disegni della storia futura secondo scadenze e mediante modalità di cui Paolo non si era ancora reso conto.
E intanto bisogna ritornare indietro, ritornare a Gerusalemme, ripartire dalla radice, ripartire dalle fondamenta. Bisogna affrontare il fondo del cuore umano. Paolo ha un unico obiettivo davanti a sé che è la salvezza universale. Bisogna che lo sopportiamo con questa sua pretesa. D’altra parte, se noi, nel nostro piccolo, siamo i cristiani al seguito dell’evangelo, è perché abbiamo anche lo stesso problema: la salvezza universale. Paolo, nel suo piccolo, ha pensieri grandi, ha una prospettiva immensa. Ha davanti a sé il problema della salvezza universale, bisogna ripartire da capo, bisogna ripartire da Gerusalemme, bisogna ripartire da Israele. E quando Gerusalemme sarà evangelizzata ecco … Come gli antichi profeti avevano annunciato, Gerusalemme si solleverà verso l’alto, splenderà. Ecco un punto di riferimento, un segnale sulla scena del mondo, e tutti i popoli vi accorreranno. Allora la evangelizzazione dei pagani sarà come una specie di girotondo che risponderà ai ritmi determinati da quel segnale luminoso e inconfondibile. Così si esprimevano già i profeti dell’epoca antica.
C’è ancora qualche incertezza per quanto riguarda il discernimento per quanto riguarda il tempo:
«si trattenne ancora un po’ di tempo nella provincia di Asia». Ed ecco: «Verso quel tempo scoppiò un gran tumulto riguardo alla nuova dottrina».
Mentre Paolo ha ancora qualche incertezza circa il kronos, intanto il kairos, come dice qui, irrompe. In italiano abbiamo un unico termine: tempo, in greco abbiamo kronos e kairos. Paolo si sta ancora interrogando circa la disposizione dei tempi all’interno di un disegno e intanto accade il kairos. E’ un tempo che si impone come una scadenza che interseca i disegni misurati dall’iniziativa umana. Paolo rimane spettatore di un evento sbalorditivo.
GLI EFESINI IN RIVOLTA
A Efeso un bel giorno una sommossa popolare. Tumulto, confusione, è un caos infernale. E’ proprio il caso di usare questo aggettivo. La consorteria degli artigiani, argentieri, dediti alla costruzione di certi oggetti relativi al culto della dea Artemide, la dea degli efesini, protestano. La scena pubblica della città è sconvolta, la folla accorre nel teatro, nessuno capisce più niente di quello che sta succedendo, ma è uno sconquasso generale. Paolo non ha mai assistito a un fenomeno del genere. E’ proprio il mondo dei pagani, il « mondo ». Paolo ha sempre avuto a che fare con i giudei, i suoi avversari, che sono quelli della sua gente. E poi si è rivolto ai pagani, i pagani lo hanno accolto, riconosciuto, accettato, seguito. E’ su quest’onda che Paolo ha impostato il suo ministero apostolico fino a questo momento. E adesso sta ripensando tutto, è come se gli esplodesse la terra sotto i piedi, è come se all’improvviso Paolo si rendesse conto che sta camminando su un vulcano ancora in attività. E il vulcano esplode. Paolo vorrebbe scendere in campo, andare in piazza e lo trattengono. Paolo rimane al suo posto, non perché abbia paura. Ha dimostrato in tanti modi di sapere affrontare la folla. Tra l’altro il tumulto popolare viene sedato perché certi personaggi, responsabili dell’amministrazione pubblica, sanno come gestire la cosa. Ma rimane il fatto in sé come clamorosa espressione di questa infernale ostilità del cuore umano. E’ proprio vero, il cuore umano non si è proprio convertito. Qui abbiamo a che fare con un mostro. E’ proprio vero, qui noi stiamo cavalcando un’onda tempestosa. E’ proprio vero, qui i tempi si allungano. Ma come funziona l’evangelo in questo contesto, in questa storia? Cosa resta di quella corsa fino agli estremi confini della terra per raccogliere tutto e tutti a Gerusalemme? Questo disegno non corrisponde alla realtà, viene smentito in modo sfacciato, in modo violento, demoniaco. C’è di mezzo la città di Efeso, c’è di mezzo l’identità di tutta una popolazione, c’è di mezzo la storia umana, c’è di mezzo il cuore umano. A parte la dea Artemide e le sue prerogative cultuali, c’è di mezzo il cuore umano. Paolo è spettatore di questa improvvisa esplosione di ostilità, di insofferenza, di rifiuto. Babelico rifiuto.
Non si capiscono nelle cose che dicono, eppure schiamazzano, gridano, strepitano e tutta la città è scoppiata come la pancia di un mostro. E’ una storia vecchia questa. Quante immagini nell’AT! Giona nella pancia del mostro. Qui è Paolo che si ritrova improvvisamente nella tempesta che sconquassa la scena pubblica della storia umana. Si ritrova alloggiato nella pancia di un mostro.
LA CRISI DI PAOLO
Il suo programma pastorale deve essere nuovamente registrato in base ad altri riferimenti. E infatti, cap. 20.
«Appena cessato il tumulto, Paolo mandò a chiamare i discepoli e, dopo averli incoraggiati, li salutò e si mise in viaggio per la Macedonia».
Paolo parte, una partenza affrettata. Paolo è accompagnato da molti pensieri, da molti interrogativi. Non è spaventato per quel che è successo. Anzi da parte sua sarebbe pronto ad affrontare la scena pubblica. Non è questo il suo problema. Paolo non sa più esattamente in quale prospettiva deve inserirsi il suo ministero apostolico, all’interno di quale disegno la evangelizzazione che è affidata a lui, e quella che è affidata ad altri accanto a lui, si inserisce. Da Efeso in Macedonia, in Acaia, Corinto. Rimane a Corinto alcuni mesi, sono i mesi in cui scrive la lettera ai Romani. Da Corinto riparte, ritornerà indietro, per tornare a Gerusalemme. Abbiamo a che fare con un Paolo meditabondo, un Paolo che sembra come raccolto nell’impegno di un discernimento interiore che ancora non lo soddisfa. Era giunto a quella soluzione, l’aveva individuata come risposta alla problematica messa a fuoco precedentemente e ora bisogna tornare a Gerusalemme! Gerusalemme è il punto di partenza, ma è anche la meta: il resto sarà soltanto una corsa agevole e disinvolta attraverso i popoli della terra per raccoglierli e convogliarli alla città del Signore. Questo programma è già saltato per aria, è già frantumato, è già esploso insieme con gli eventi di cui Paolo è stato spettatore e in cui Paolo è stato coinvolto a Efeso. Nel cap. 20 il viaggio di Paolo è segnato da un costante riferimento all’eucarestia. Paolo celebra l’eucarestia. Partito da Efeso, Macedonia, Acaia, sosta a Corinto, riparte. Luca non accenna espressamente alla colletta di aiuti che Paolo ha messo insieme per portarli a Gerusalemme, ma è implicita questa attività che Paolo ha promosso nel corso del suo viaggio per portare alla chiesa madre di Gerusalemme quei soccorsi di cui ha bisogno. Qui sono coinvolti i collaboratori di Paolo che provengo da vari luoghi, varie città, come se fossero una piccola avanguardia dei popoli della terra che accorrono a Gerusalemme, che portano i propri doni, che contribuiscono con la propria collaborazione. Un modo per ricostruire immagini che provengono dalla predicazione degli antichi profeti, fino al momento in cui, 20,5: «Questi però, partiti prima di noi ci attendevano a Troade». Si deve notare la prima persona plurale. Luca usa la prima persona plurale quando ciò che scrive comporta un diretto coinvolgimento di lui, scrittore e narratore, e di noi lettori.
Ci attendevano a Troade. Paolo a Filippi e Luca con lui e noi con Paolo. «Noi invece salpammo da Filippi dopo i giorni degli Azzimi». Questo ultimo scorcio del viaggio si svolge adesso tra Pasqua e Pentecoste,«li raggiungemmo in capo a cinque giorni a Troade dove ci trattenemmo una settimana». Più volte Luca accenna alla settimana. La settimana è quel periodo di tempo che è segnato dal rinnovarsi del giorno del Signore, il giorno del Vivente, il giorno dell’eucarestia. Da Pasqua a Pentecoste, 20,16: «Paolo aveva deciso di passare al largo di Efeso per evitare di subire ritardi nella provincia d’Asia: gli premeva di essere a Gerusalemme, se possibile, per il giorno della Pentecoste».
Ed ecco: da Pasqua a Pentecoste, per essere a Gerusalemme a Pentecoste. Pasqua-Pentecoste, di settimana in settimana, mentre viene celebrata l’eucarestia. A Troade, l’episodio del ragazzino che cade dalla finestra e Paolo interviene. E’ un segno di vita non un segno di morte. Tuttavia man mano che Paolo procede lungo il suo viaggio, indizi di morte sempre più vistosi, sempre più invadenti, anche direi sempre più scandalosi, si fanno avanti. E’ il mistero della vita che Paolo cerca, che Paolo testimonia: è la strada del ritorno alla vita, è la strada aperta dal Signore risorto dai morti che ci coinvolge con potenza di Spirito Santo. Questo vale per la storia di tutti gli uomini, per la storia umana, per la storia dei popoli. Paolo intanto vede calare sullo sviluppo del suo cammino un’ombra di morte. Il viaggio, ancora una volta, è caratterizzato da questo atteggiamento pensoso del nostro Paolo. Il cuore degli uomini non si è convertito. L’evangelizzazione prosegue, ma il cuore degli uomini ancora non si converte. Ha approntato una soluzione e si è accorto che era del tutto approssimativa e già svuotata di validità. E adesso sta rielaborando, rimeditando, cercando di mettere a fuoco un altro programma pastorale, perché il povero Paolo, cosa volete mai, di un programma ha bisogno, di un disegno ha bisogno, deve riuscire in qualche modo a chiarire a se stesso come vanno le cose e in quale prospettiva si inserisce la sua fatica quotidiana. Di tappa in tappa, segni di morte. E Paolo celebra il mistero della vita, non c’è dubbio, non ci si può confondere a questo riguardo. Non è l’umore cupo, tetro, amaro, avvelenato, di un uomo deluso. Non è così. Paolo non è un uomo deluso, eppure le cose non sono andate come lui desiderava.
Ritorna in Asia, procede parzialmente per via di terra, poi si imbarca per girare al largo da Efeso. Non può entrare ad Efeso con tutto quello che è successo, sono passati mesi. Sbarca a Mileto, qui vanno a visitarlo gli anziani della chiesa di Efeso. Qui il famoso discorso agli anziani di Efeso, responsabili della comunità, a Mileto (20,17-35). Il discorso è veramente splendido. Paolo parla a cuore aperto anche se in un contesto che di per sé denuncia la fatica del ministero, perché non ha potuto recarsi ad Efeso per evitare disordini e complicazioni. Comunque grande trasparenza nel suo linguaggio, grande lucidità nel suo discernimento.
«Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno.. Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà».
Io mi trovo in queste condizioni, non so cosa sta succedendo. Nello stesso tempo però, mi rendo conto che «lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni». Sono incatenato, so questo: che vado incontro a dei guai, ma non so perché, con quali risultati, per quale obiettivo pastorale? Perché corri a
IN VISTA DI GERUSALEMME
Gerusalemme? Nello stesso tempo tutto mi lascia intendere che a Gerusalemme per me le cose si mettono male. Che senso ha questo viaggio, il mio presente.
«Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio».
Paolo è ancora risoluto, nulla e nessuno potrà fermarlo. D’altra parte, in un contesto di oscurità, Paolo si rende conto che dinanzi a lui si delinea un itinerario pericoloso, un itinerario luttuoso. «Ecco, ora so che non vedrete più il mio volto». Questo è un vero e proprio annuncio di morte, «voi tutti tra i quali sono passato annunziando il regno di Dio. Per questo dichiaro solennemente oggi davanti a voi che io sono senza colpa riguardo a coloro che si perdessero». E’ un testamento questo discorso. Paolo va a Gerusalemme, non sa come andranno certe cose, però intuisce di andare incontro alla morte. E ne parla in maniera comprensibilissima: non vedrete più il mio volto. E intanto resta a voi l’incarico pastorale di cui Paolo parla qui nei versetti seguenti .
Dal v. 29 l’esortazione che è rivolta a questi anziani della chiesa efesina, perché rimangano vigilanti, perché si assumano il rischio della loro presenza in seno alla chiesa: «Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi ». E poi ancora l’esortazione a mantenersi in un atteggiamento di gratuità, come si è comportato lo stesso Paolo: «Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani», ecc. ecc.
«Detto questo, si inginocchiò con tutti loro e pregò. Tutti scoppiarono in un gran pianto e gettandosi al collo di Paolo lo baciavano, addolorati soprattutto perché aveva detto che non avrebbero più rivisto il suo volto. E lo accompagnarono fino alla nave». Commozione generale, avevano capito bene cosa avesse detto loro. Paolo va incontro alla morte. La tristezza che appanna la vista è come un velo di lacrime, o anche se non piangono non riescono più a sollevare lo sguardo e a guardare in faccia a Paolo, perché Paolo è sottratto alla relazione con loro. Paolo oramai va incontro alla morte.
Così ha dichiarato il nostro apostolo impegnato in questo che dovrebbe essere il suo ultimo viaggio. Le cose non andranno in questo modo. I programmi di Paolo non sono adeguati alla realtà dei fatti. Il disegno delle cose corrisponde a una iniziativa di Dio che rimane gratuita e travolgente rispetto a qualunque tentativo di programmazione umana. E’ vero che Paolo ci ha messo tutto il suo discernimento, ci ha messo tutta la sua partecipazione orante, ci ha messo tutta la sua intelligenza pastorale, è vero. Però ancora una volta il programma di Paolo non corrisponde alla verità del disegno provvidenziale che è nelle mani di Dio.
LE INCOGNITE DEL PIANO DI DIO
Giunti a questo punto siamo almeno arrivati a stringere qualche nodo. Quel grande programma pastorale, di tono un po’ trionfalista diremmo noi, senza giudicare nessuno, si è dimostrato inconcludente già in partenza. Quest’altro programma pastorale sembra essere subentrato: debbo salire a Gerusalemme perché là vado incontro alla morte. E in un modo che io non conosco, in base a un disegno che lo Spirito di Dio gestisce a suo modo, nella economia dei suoi doni, questo mi è chiesto, in questo modo debbo rendere testimonianza, debbo salire a Gerusalemme per andare incontro alla morte. Prospettiva del martirio. C’è una bella differenza. I programmi si sono succeduti capovolgendo in qualche modo l’orientamento. Dalla prospettiva di un disegno pastorale che da Gerusalemme giunge a Roma e di là dilaga fino agli estremi confini della terra e ritorna a Gerusalemme a questa prospettiva di salire a Gerusalemme per andare incontro alla morte.
I programmi pastorali Paolo se li gioca nell’intimo, nel suo discernimento, nella sua preghiera, nella sua ricerca interiore, nella sua partecipazione al vissuto di altri.
E adesso, cap. 21, «Appena ci fummo separati da loro, salpammo e per la via diretta giungemmo a Cos, il giorno seguente a Rodi e di qui a Pàtara. Trovata qui una nave che faceva la traversata per la Fenicia, vi salimmo e prendemmo il largo. Giunti in vista di Cipro, ce la lasciammo a sinistra e, continuando a navigare verso la Siria, giungemmo a Tiro, dove la nave doveva scaricare». Da notare la prima persona plurale: sbarcano, ripartono; tutti passaggi che sono segnati, quand’è il caso, dall’incontro con una comunità di discepoli presenti in quella località, l’eucarestia, giungono a Tolemaide, l’attuale Akko (21,7) «Terminata la navigazione, da Tiro approdammo a Tolemàide, dove andammo a salutare i fratelli e restammo un giorno con loro».
Lungo il percorso parecchi sono intervenuti con Paolo dicendo: non è il caso che tu vada. Cosa vai a fare a Gerusalemme, se le cose stanno così? Già quelli di Efeso che sono andati incontro a Mileto si sono inginocchiati con lui in preghiera, piangendo. Ma perché? Adesso, espressamente, altri si fanno avanti: ma non andare, non andare. Siamo ad Akko e per via di terra, Paolo con altri, Luca è tra quelli, giunge a Cesarea.
«Ripartiti il giorno seguente, giungemmo a Cesarea», là dove per la prima volta un pagano è stato evangelizzato da Pietro. Cesarea è la località nella quale è andato a dimorare Filippo, di cui leggemmo le avventure nel cap. 8. Cesarea è dunque un punto di riferimento. Cesarea è anche la sede del procuratore romano, una città in crescita, un porto famosissimo costruito da Erode il grande. Cesarea è l’ultima tappa prima di salire a Gerusalemme, «ed entrati nella casa dell’evangelista Filippo, che era uno dei Sette, sostammo presso di lui». Paolo sta recuperando, ripassando tutto quello che è successo, sta rileggendo gli Atti degli apostoli, sta rileggendo il vangelo secondo Luca, sta ritornando a Gerusalemme, che vuol dire ritornare all’inizio degli Atti, ritorna per Pentecoste, che poi è la fatica di ciascuno di noi che si mette in questione e cerca di ritrovare il filo conduttore della propria vita cristiana nel proprio servizio. Come facciamo? Ritorniamo la principio degli Atti. E Paolo sta ritornando e man mano affronta gli strati del percorso che si sono oramai trasformati in narrazione. E dunque Filippo, Pietro, e tutti quelli che ha incontrato lungo il percorso, tutti quelli che costituiscono oramai l’antefatto della sua vita cristiana, perché deve entrare alla radice: ma io, che cristiano sono?
Filippo, uno dei sette, a casa sua, «aveva 4 figlie (vergini) nubili, che avevano il dono della profezia. Eravamo qui da alcuni giorni, quando giunse dalla Giudea un profeta di nome Agabo. Egli venne da noi e, presa la cintura di Paolo, si legò i piedi e le mani e disse: Questo dice lo Spirito Santo: l’uomo a cui appartiene questa cintura sarà legato così dai Giudei a Gerusalemme e verrà quindi consegnato nelle mani dei pagani. All’udir queste cose, noi e quelli del luogo pregammo Paolo di non andare più a Gerusalemme».
Cosa vai a fare a Gerusalemme se sarai esposto a questi inconvenienti. «Ma Paolo rispose: Perché fate così, continuando a piangere e a spezzarmi il cuore? Io sono pronto non soltanto a esser legato, ma a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù». In modo più esplicito di così Paolo non poteva esprimersi. Io salgo a Gerusalemme proprio per questo, perché mi sono reso conto che questo è il senso del mio cammino, che questa è la prospettiva che mi si apre dinanzi, per questo devo salire a Gerusalemme, per morire nel nome del Signore Gesù. Prospettiva del martirio per Paolo a Gerusalemme. C’è solo questo come obiettivo che possa e debba perseguire: il martirio nel nome di Gesù.
In realtà i fatti non vanno in questo modo, ancora una volta Paolo si sbaglia. Anzi, c’è una nota un po’ grottesca, un po’ ironica, un’ironia molto benevola, quell’ironia di cui è capace il nostro evangelista Luca. La storia di un cristiano che man mano elabora programmi e man mano scopre che la novità dell’evangelo.

LA SAGGEZZA CRISTIANA ARTE DEL VIVERE: IN CARNE ED OSSA

http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/quesnel_saggezza_cristiana7.htm

Michel Quesnel

LA SAGGEZZA CRISTIANA ARTE DEL VIVERE

IN CARNE ED OSSA

(anche Paolo)

ELOGIO DEL CORPO
Il filosofo Celso, il cui nome è legato alla polemica anticristiana che si sviluppò nel secondo secolo della nostra era, criticava i cristiani definendoli « popolo che ama il corpo ». Vi è di che stupire i nostri contemporanei i quali pensano che la morale ebraico cristiana, come la definiscono, ponga sul corpo uno sguardo negativo. Tra i protestanti dal look austero ed i cattolici impacciati, sembra che ci sia poco spazio nel cristianesimo per la valorizzazione del corpo.
Lontano discepolo di Platone, Celso considerava che il corpo fosse la tomba o la prigione dell’ anima, la sola che recasse in sé la nobiltà della condizione umana. Ora, fin dalle origini del loro movimento, i cristiani hanno fondato la propria fede sulla resurrezione di Gesù, una resurrezione corporale; ed è ad un eguale futuro, la resurrezione del corpo, che sono destinati gli uomini.
Le raffigurazioni artistiche che ne sono state fatte sono state dunque al servizio della resurrezione. I timpani delle cattedrali esibiscono tombe che si aprono e cadaveri che ne escono. Il superbo affresco di Signorelli, nel duomo di Orvieto, così come il Giudizio Universale, dipinto da Michelangelo nella cappella Sistina, raffigurano la resurrezione finale mediante rappresentazioni di scheletri che si ricoprono di carne ed ossa.
Esteticamente parlando, abbiamo qui dei puri e semplici capolavori. Il testo biblico che li ispira è dapprima la scena delle ossa aride al capitolo 37 del libro del profeta Ezechiele, poi gli insegnamenti del Nuovo Testamento sulla fine dei tempi. Credere nella resurrezione non esige in nessun modo di rappresentarsela in termini di tombe che si aprono e di corpi terrestri che si ricostituiscono a partire dalle cellule che un tempo li avevano composti. Le scienze della natura e della vita ci insegnano che dopo la nostra morte i nostri cadaveri o le nostre ceneri saranno ricic1ati biologicamente, e che le nostre antiche cellule non conserveranno traccia di ciò che saremo stati.
A questo proposito, san Paolo fa un ‘utile distinzione fra il corpo e la carne. Per lui la carne è la materia che ci compone; essa appartiene soltanto a questo mondo. Il nostro corpo, in compenso, è ciò grazie a cui siamo degli organismi strutturati, in relazione con gli altri uomini e con il resto del mondo creato. È lui – e non le nostre cellule – che passerà da questo mondo nell’altro, dopo che Dio lo avrà trasformato in un corpo nuovo, del quale siamo incapaci di immaginare la futura forma. L’apostolo esprime, con ciò, una speranza fondamentale, cioè che la vita nell’ aldilà non è una specie di fusione in un immenso tutto indifferenziato, ma una vita nuova nella quale la nostra personalità e le relazioni che avremo costruito si prolungheranno. È il dato più grande dell’antropologia e della cosmologia cristiane.
Perché allora i cristiani vengono ritenuti così riservati, anche così pudibondi, quando si tratta del corpo? Sembra che esistano almeno due ragioni. La prima è congiunturale. Non è tanto al corpo che le società occidentali moderne consacrano un’enorme attenzione, quanto alla sua immagine. È il corpo visibile, il corpo fotografato, il corpo in superficie. Sono più attente al corpo così come può essere colto da un apparecchio fotografico che allo stesso corpo esaminato ai raggi X o al laser, in tutto il suo spessore e la, sua profondità. Ognuno è attento al proprio look, sforzandosi di rispettare canoni fissati da altri; corporalmente parlando, è attento all’immagine che dà di sé molto più di quanto lo sia a quello che egli è. Stupefacente paradosso: riguardo al fisico come a molte altre cose, siamo molto dipendenti dalle immagini sociali, proprio mentre rivendichiamo libertà fondamentali!
Di tanto in tanto, fortunatamente, qualche soprassalto di lucidità rimette le cose a posto. Qualche anno fa all’ingresso di molti body shops veniva appesa una frase che, citando a memoria, era formulata pressappoco così: « Sei donne al mondo sono top-models… Tre miliardi non lo sono ». L’autore di questa saggia osservazione non spiegava quale fosse la sua intenzione, ma è possibile leggerla come denuncia del machismo attuale che impone ai corpi femminili di assomigliare ai fantasmi dei maschi occidentali di oggi, cioè alti, smilzi e svelti.
L’attaccamento al vestiario è l’espressione più visibile dell’importanza accordata all’immagine che il corpo dà di se stesso. Ora, « la vita non vale forse più del cibo ed il corpo più del vestito? » chiedeva Gesù (Mt 6,25). Curare il proprio vestiario non significa necessariamente rispettare il proprio corpo. Non c’è che da vedere la stravaganza di certi abbigliamenti in rapporto alla forma e al benessere del corpo: dai corpetti delle nostre nonne ai tacchi altissimi o ai jeans inguainanti delle nostre contemporanee, numerose donne sono pronte a martirizzare il loro corpo per presentare la propria immagine secondo i canoni della moda. Si tratta di un modo ben curioso di onorare il proprio corpo!
La seconda motivazione dell’opinione che pesa sui cristiani in quanto non accorderebbero che un minimo valore al corpo, e che è una variante della prima, viene dal fatto che essi reagiscono contro la strumentalizzazione del corpo. Corpo oggetto, corpo idolatrato, il corpo si trova come isolato dalla persona che lo abita. Si « fa l’amore » senza che vi sia amore, si sostituisce al legittimo erotismo un’avvilente pornografia, si beve senza aver sete… Si privilegia l’ordine dell’apparire più di quello dell’ essere. Ora, antropologicamente parlando, pensare che si abbia un corpo è un’approssimazione. Sarebbe più giusto dire che si è un corpo. Il mio corpo è costitutivo di ciò che sono; non posso cambiarlo. Poca o tanta cura della mia personale coerenza che io possa avere, rifiuterò di strumentalizzare il mio corpo e quello di chicchessia. Questo forse mi farà sembrare sorpassato agli occhi di alcuni tra i miei contemporanei. Ma le mie relazioni con i corpi umani nella loro totalità diverranno più armoniose.
Il mio corpo, secondo Pierre Teilhard de Chardin, è una « totalità dell’universo che io possiedo parzialmente », mentre invece sono sempre tentato di considerarlo come « una parte dell’universo che possiedo totalmente ». Attraverso il mio corpo, qualcosa dell’intero universo è in me e, in un certo qual modo, mi oltrepassa e merita di essere rispettata. San Paolo – ancora lui
scriveva del corpo umano che è « tempio dello Spirito Santo » (1Cor 6,19). Rispettandolo, rispetto l’intero universo. Valorizzando la sua bellezza, porto un tocco ornamentale alla creazione. Estetista e creatore di moda sono bei mestieri, quasi arti. Le cure corporali sono legittime. Un corpo non curato è, in genere, il segno di una vita che, nel suo insieme, non lo è di più. Al contrario, un bel corpo accresce il fascino della vita, ed ogni corpo ha in sé un valore tale da essere ammirato. Può succedere che un corpo sia infermo o ferito e, per questo, difficile da accettare. Ma, come mostra benissimo il film di François Dupeyron, La chambre des officiers, non c’è corpo così sfigurato da non poter essere amabile ed amato.
La Bibbia valorizza la bellezza del corpo e l’erotismo. Il dialogo appassionato tra l’amante e l’amata del Cantico permette di non dimenticarlo.
* * *
« Come sei bella, amica mia, come sei bella! I tuoi occhi sono colombe. Come sei bello, mio diletto, quanto grazioso! Anche il nostro letto è verdeggiante » (Ct 1,15-16).
IN CARNE ED OSSA
ELOGIO DEL DESIDERIO
Curioso destino di un sostantivo che dice tutto il suo contrario. Etimologicamente, il termine latino desiderium evoca il tramonto di un astro: è il desiderio di qualche cosa o di qualcuno che non è più presente, con una sfumatura di rimpianto e di nostalgia. Ma l’evoluzione nell’uso ha fatto del termine qualcosa di più attivo e bruciante: il colore del desiderio è il rosso, il suo elemento è il fuoco. Nelle religioni il desiderio è spesso mal visto. È fisico, sensuale, difficile da controllare; odora di peccato, furore ed adulterio. Tuttavia i tempi moderni, al seguito del dottor Freud e di alcuni teologi come sant’ Agostino, san Bernardo e san Tommaso d’Aquino, l’hanno riabilitato. Un bel libro di Denis Vasse (16) sugli atteggiamenti religiosi s’intitola Le temps du désir (Il tempo del desiderio). Il desiderio è una componente delle tre virtù teologali. La fede cristiana si nutre del desiderio di Dio, la speranza del desiderio di vivere per sempre, e la carità del desiderio dell’altro. « Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione », annunciava Gesù ai suoi discepoli nei minuti che precedettero l’ultima cena (Lc 22,15). L’esempio viene dall’alto.
Il desiderio è presente nella vita del credente anche quando la parola ne è assente. Tutte le preghiere che innalziamo a Dio all’imperativo sono espressione di un desiderio che non viene nominato. Si potrebbe riscrivere il Padre nostro inserendo il verbo « desiderare » in ogni frase: « Desideriamo che il tuo nome sia santificato, desideriamo che venga il tuo regno, desideriamo che sia fatta la tua volontà. .. Desideriamo che tu ci doni il pane quotidiano e che tu rimetta i nostri peccati, e che tu non ci faccia provare la tentazione, e che ci liberi dal male ». Visto che gli imperativi rivolti a Dio non possono essere un ordine, essi esprimono un desiderio. Potremmo dedicarci allo stesso esercizio con la maggior parte dei salmi e ritrovare in essi la medesima costante. Citiamo soltanto questo: « Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio » (SI 42,2). Tutti gli scritti del patrimonio ebraico e cristiano riservano uno spazio al desiderio.
Ma non tutte le religioni hanno la medesima concezione. Nel buddismo, ad esempio, il desiderio non ha nessun valore. Poiché implica una mancanza, esso comporta una sofferenza che non è compatibile con la serenità. È una disposizione imperfetta. Il nirvana, al contrario, consiste nell’assenza di desiderio. Il Budda immobile non si può tendere verso qualcosa. La tensione implicita nel desiderio trova il proprio spazio solo nelle correnti spirituali nelle quali il movimento è costitutivo e che hanno una visione positiva della mancanza. Il desiderio apre una breccia nell’universo delle mediocrità e delle soddisfazioni. Mette in marcia, permette la caduta e favorisce la ripresa.
Per attribuirgli l’intera sua importanza nel cristianesimo, conviene non limitarne la concezione positiva al solo desiderio di Dio. Perché il desiderio ha un’estensione più ampia. Accanto al desiderio di conoscere e di avvicinare Colui che è il bene supremo esistono desideri minori, che non si oppongono alla sete spirituale e che possono indicarne il cammino. Non è cattivo il desiderio di possedere dei beni, a condizione che ciò non avvenga a qualsiasi prezzo; questo mette in movimento e permette di fare del bene attorno a sé. È bene desiderare di unirsi al corpo di chi si ama, se si rispetta la sua libertà; la comunione fisica è sorgente di fecondità, e non solo di fecondità nella procreazione. È bene aver voglia di mangiare cose buone; significa rendere onore ai frutti della terra e all’arte culinaria che s’ingegna a prepararli. È bene aver voglia di andare veloci al volante di un’auto o sulle pendici di un monte innevato; la velocità genera una sensazione di pienezza che non c’è motivo di rifiutare a se stessi. Accanto a tutti questi desideri buoni il moralista porrà necessariamente la nozione di misura, cioè di controllo. Perché lasciando libero corso a tutti i suoi desideri l’uomo ne diverrebbe schiavo, senza contare i danni che potrebbe causare ad altri.
Ma avremmo torto se proibissimo il desiderio a causa dei suoi possibili eccessi. Volendolo contenere troppo, lo si uccide o lo si fa esplodere. Il puritanesimo, che non ha riconosciuto il ruolo essenziale del desiderio nella costruzione della persona umana, ha dato vita a generazioni di frustrati. O, all’opposto, ha prodotto persone che hanno fatto saltare tutte le norme perché quelle che si voleva loro imporre sembravano stupide o castranti.
Paolo, l’apostolo focoso, era un essere di desiderio. Nelle prime righe dell’epistola ai Romani, lettera indirizzata a una comunità cristiana che non aveva ancora visitato, esprime con calore la voglia che ha di incontrarla. Facendo questo lascia intravedere la sua fiamma.
* * *
« Quel Dio, al quale rendo culto nel mio spirito annunziando il vangelo del Figlio suo, mi è testimone che io mi ricordo sempre di voi, chiedendo sempre nelle mie preghiere che per volontà di Dio mi si apra una strada per venire fino a voi. Ho infatti un vivo desiderio di vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale perché ne siate fortificati, o meglio, per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi ed io. Non voglio pertanto che ignoriate,
fratelli, che più volte mi sono proposto di venire fino a voi – ma finora ne sono stato impedito – per raccogliere qualche frutto anche tra voi, come tra gli altri Gentili. Poiché sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i dotti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in me, a predicare il vangelo anche a voi di Roma » (Rm 1,9-15).
[16] Gesuita, medico e psicanalista contemporaneo.
IN CARNE ED OSSA
ELOGIO DELLA BELLEZZA
« Datemi un’anima santa, Signore, che contempli la bellezza e la purezza, affinché non si spaventi vedendo il peccato ma sappia ricondurre al bene la situazione ». Così si esprimeva san Tommaso Moro, cancelliere di Enrico VIII, nella celebre preghiera che comincia con: « Concedetemi una buona digestione, o Signore. . . ».
Contemplare la bellezza, guardare con purezza, considerare il mondo con benevolenza, offrire spontaneamente fiducia, tutti questo obiettivi costituiscono aspetti differenti del medesimo atteggiamento di fondo. « Dio vide che questo era buono », proclama il libro della Genesi nel primo racconto della creazione (Gn 1,10). Si potrebbe anche tradurre: « E Dio vide che questo era bello ». Bellezza e bontà appartengono allo stesso ordine. San Tommaso d’Aquino considerava tre trascendentali dell’Essere: l’Uno, il Vero e il Bene; ma ne aggiungeva un quarto, un trascendentale derivato, il Bello. In questo non era infedele né alla Bibbia né agli antichi filosofi greci. Questi ultimi avevano inventato una nuova qualità a partire dai due aggettivi « bello e buono »: kalòs kagathòs. La nozione, in effetti, è globale.
Come tutto ciò che è essenziale, la bellezza è difficile da definire. Nel 2004 Umberto Eco ha accettato la sfida di scriverne la storia: Storia della bellezza, dà come titolo alla sua opera. Naturalmente, è un libro illustrato, perché la bellezza si guarda. Manca un CD che permetterebbe di capirne di più, perché la bellezza si ascolta anche. Tutti i sensi partecipano. Nessuno è insensibile alla gioia che la bellezza procura, comprese perfino quelle persone che si dichiarano insensibili al cospetto dell’ arte.
La bellezza esiste allo stato naturale: si impone attraverso un bel paesaggio che ci tocca il cuore; irradia da un bel corpo, cosa che fa sì che la giovinezza venga considerata l’età dell’oro; s’irradia da un bel fiore che è, come sappiamo, l’organo sessuale della maggior parte dei vegetali. Ma la bellezza si fabbrica anche. È il lavoro degli artisti, che sono gli artigiani della bellezza. Più di altri, forse, essi prolungano, attraverso il loro lavoro, l’opera di Dio, creatore del visibile e dell’invisibile. « Il bello ci deve elevare – scriveva Pio XII nella sua Lettera agli artisti. – La funzione di tutte le arti consiste nell’ infrangere lo spazio stretto ed angosciante del finito nel quale è immerso l’uomo quaggiù, per aprire una specie di finestra al suo spirito che tende all’infinito ».
Che cosa sarebbe un mondo senza bellezza? Basta vedere a qual punto la bruttezza sia destabilizzante per rispondere che sarebbe un inferno. Perché i centri storici delle città appaiono così attraenti? Le ragioni sono di certo molteplici, ma una di esse consiste in questo: molti edifici di periferia sono esteticamente mal riusciti, i loro abitanti ne fuggono la bruttezza. La bellezza favorisce l’armonia, compresa quella delle relazioni umane; la bruttezza, al contrario, è una delle sorgenti di violenza. Consciamente o inconsciamente gli architetti e gli urbanisti che costruiscono brutti edifici seminano granelli di criminalità.
Ne L’idiota, Dostoievski fa porre questa domanda all’ateo Ippolito: « Ma quale bellezza salverà il mondo? ». Attraverso questa domanda scettica, nella quale non si riconosce, il romanziere russo esprime la propria convinzione, più volte ripresa in seguito da autori di ogni famiglia spirituale, che « la bellezza salverà il mondo ». È quasi diventato uno slogan che, a differenza di altri, forse ha il merito di essere vero.
I teologi di numerose correnti religiose sono sensibili alla dimensione estetica della fede. È bello credere. L’oggetto della fede è bello. La religione è, da sempre, sorgente di ispirazione artistica; e il cristianesimo ha avuto, in questo ambito, una grande parte. La celebre statua di Cristo che orna l’ architrave del portale centrale, sulla facciata della cattedrale di Amiens, viene chiamata da una tradizione popolare antichissima « il Dio bello ». Rappresenta infatti un giovane uomo dalle sembianze regolari bellissime, conforme ai canoni estetici dell’epoca gotica; non sarebbe stato possibile pensare di non rispettarli scolpendo l’immagine di colui che è parola e immagine di Dio. Se ci vuole così tanto tempo per dipingere un’icona, è perché essa sia il riflesso della bellezza interiore che illumina il cuore di un artista credente.
Uno dei rimproveri mossi alla liturgia uscita dal concilio Vaticano II è la perdita della dimensione estetica delle celebrazioni. Certo, una spolveratura si imponeva. Non rimpiangiamo la pompa di un tempo; la nostalgia esasperata delle cerimonie di stile antiquato si nutre più spesso di sterile conservatorismo che di amore per la bellezza. Ma il cattolico medio che si sposta oggi da una parrocchia all’altra è spesso obbligato, bisogna riconoscerlo, a subire qui e là celebrazioni banali in luoghi banali, presiedute da preti i cui ornamenti sono tutt’altro che ornamentali. Già nel 1935, tuttavia, venne fondata la rivista L’art sacré (L’arte sacra), dove trovò posto l’interrogativo estetico di padre Couturier (17), collegato a quello di numerosi artisti. Fu un lavoro pionieristico, anche se la ricaduta sulla vita quotidiana della Chiesa non ha dato ancora tutti i frutti.
Immagine e somiglianza di Dio, la persona umana è stata creata bella in un mondo bello. Alcune sozzure sfigurano questa immagine, è vero, ma vengono lavate nell’ acqua del battesimo, come esprime molto bene il rituale di questo sacramento, e poi attraverso il sacramento della riconciliazione che ne costituisce, in qualche modo, il prolungamento. Il più grande compito dell’uomo riconciliato è quello di produrre, a sua volta, la bellezza: come giardiniere del mondo e cesellatore di relazioni armoniose, partecipa all’opera della creazione, che prosegue. Se agisce in modo opposto, distrugge se stesso ed il mondo con sé. Il disprezzo, il vandalismo e l’inquinamento sono regressioni.
Nei consigli dati a Timoteo, discepolo di Paolo, viene spesso tradotto con « buono » l’aggettivo greco kalòs il cui senso primo evoca piuttosto la bellezza, ed anche la bellezza fisica. Se si rimette il termine « bello » al suo posto, il testo assume ancora maggior rilevanza.
* * *
« Ma tu, uomo di Dio, fuggi queste cose; tendi alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la bella battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni. Al cospetto di Dio che dà vita a tutte le cose e di Gesù Cristo che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti scongiuro di conservare immacolato e irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo,

che al tempo stabilito sarà a noi rivelata
dal beato e unico sovrano,
il re dei regnanti e signore dei signori,
il solo che possiede l’immortalità,
che abita una luce inaccessibile;
che nessuno fra gli uomini ha mai visto né può vedere.
A lui onore e potenza per sempre. Amen ».
(1 Tim 6,11-16)

[17] Marie Alain Couturier (1897-1954), domenicano, artista e critico d’arte (n.d.t.).

The Magi’s Journey

The Magi's Journey dans immagini sacre 8996BRBH

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Publié dans:immagini sacre |on 7 janvier, 2013 |Pas de commentaires »

I Salmi come libro: introduzione a una lettura continua del Salterio

http://www.dimensionesperanza.it/aree/formazione-religiosa/bibbia/item/6064-i-salmi-come-libro-introduzione-a-una-lettura-continua-del-salterio-tiziano-lorenzin.html

I Salmi come libro: introduzione a una lettura continua del Salterio (Tiziano Lorenzin)

Il libro più usato della Bibbia è il Salterio. Fino a prima del Concilio vaticano II ogni sacerdote e membro di un ordine monastico aveva l’obbligo di recitarlo integralmente ogni settimana. Eppure forse è il libro più difficile della sacra Scrittura.

I Salmi come libro:
introduzione a una lettura continua
del Salterio
di Tiziano Lorenzin

Il libro più usato della Bibbia è il Salterio. Fino a prima del Concilio vaticano II ogni sacerdote e membro di un ordine monastico aveva l’obbligo di recitarlo integralmente ogni settimana. Eppure forse è il libro più difficile della sacra Scrittura. Proprio la moderna ricerca sui generi letterari, che ha molto contribuito alla comprensione dei salmi, ce li ha resi ancora più estranei. Gli studi di due grandi esegeti del secolo scorso, H. Gunkel (1862-1932) e S. Mowinckel (1884-1965), hanno permesso di stabilire la provenienza liturgica di molti salmi; ma era un altro culto, non il nostro.
E la classificazione dei salmi secondo il tipo (lamentazione, supplica, inno, salmo di ringraziamento, salmo sapienziale) ha rischiato spesso di mettere su uno stesso calderone tante preghiere, facendone perdere i colori originali. Gli studiosi erano più interessati al momento primitivo della produzione del testo e a ciò che lo rendeva simile ad altri testi sorti nella stessa situazione liturgica; molto meno al testo che abbiamo noi oggi, spesso considerato frutto di rimaneggiamenti peggiorativi.
Agli inizi degli anni Ottanta con i commentari di G. Ravasi e di L. Alonso Schokel si incominciò a tenere più in considerazione l’originalità poetica e teologica del singolo salmo. Il libro dei Salmi, tuttavia, era ancora considerato come un’antologia di poesie, una specie di archivio di testi senza alcun ordine oppure un cesto stupendo di frutti, salutari e nutrienti, da gustarsi però singolarmente. E questo tipo di considerazione sembra abbia influenzato anche il modo in cui sono distribuiti i salmi nell’attuale Liturgia delle Ore: salmi di supplica e di lode al mattino, di supplica e di rendimento di grazie la sera, salmi della torà nell’ ora media.
Tuttavia, già nel 1972 in Italia si era levata una voce controcorrente, quella di D. Barsotti. Egli scriveva:
Per vivere i salmi come nostra preghiera s’impone prima di tutto che noi consideriamo il Salterio nella sua unità. [ ...] La prima cosa che s’ impone per chi vuole affrontare il libro dei salmi, è rendersi conto che il Signore ha voluto che si presentasse a noi questo libro in una certa sua unità, che ci sfugge molto spesso, ma dà a noi la chiave migliore per l’interpretazione religiosa del Salterio.
Barsotti confessa candidamente di aver capito ben poco dei salmi, finché nell’introduzione al Salterio di Chouraqui non trovò questa proposta di una lettura unitaria e progressiva del libro dei Salmi.
È evidente che, se l’ordine dei salmi nel Salterio non è puramente casuale, ma è stabilito da un’intenzione precisa, allora è possibile che nei nostri studi abbiamo perso qualcosa. Da più di una decina d’ anni cresce sempre più il numero di esegeti convinti che «il più antico commento al senso dei salmi è la maniera stessa del loro arrangiamento nel Salterio» (M.D. Goulder). Si prende, cioè, sempre più in considerazione il titolo tradizionale, che si ritrova già a Qumran nella seconda metà del sec. I a.C.: sefer tehillîm, «libro dei salmi», ma anche nel Nuovo Testamento (biblos psalmõn: Lc 20,42; At 1,20). Il libro, con tutti i suoi elementi canonici, è così un orizzonte verso il quale guarda oggi l’interprete, con la convinzione che nell’assemblaggio finale ciascun salmo è divenuto l’ elemento di un tutto, da cui esso riceve senso e a cui pure dona senso.
Il Salterio: il  «libro dei canti» del secondo tempio?
Davanti al Salterio ci si potrebbe perciò domandare se noi abbiamo veramente in mano il «libro dei canti» in uso nelle liturgie del secondo tempio di Gerusalemme, come pensava la maggioranza degli esegeti del secolo scorso dopo Mowinckel. L’uso dei salmi al tempo di Gesù e nel cristianesimo primitivo sembra invece affermare il contrario. Sembra certo, infatti, che il Salterio in quel tempo non avesse alcun grosso ruolo liturgico. Alcuni salmi erano adoperati nel tempio all’ infuori delle grandi cerimonie: questo è tutto. E il Salterio non era neppure il «libro dei canti» della sinagoga. Anche quei pochi salmi che un tempo erano usati nel tempio non furono accettati subito dalla sinagoga (G. Stemberger).
Tuttavia, il Salterio a Qumran, negli scritti del Nuovo Testamento e nelle testimonianze del giudaismo ellenistico, era il libro dell’ Antico Testamento più conosciuto e più usato, più amato e più citato (N. Flueglister). La spiegazione più probabile potrebbe essere che il rotolo dei salmi fosse diventato quella torà che i fedeli del Signore – i poveri che non potevano entrare in possesso del grande rotolo del Pentateuco – meditavano «giorno e notte» come si dice nelle prime righe del Salterio (Sal 1,2). L’ambiente dove i salmi veni- vano recitati e cantati sembra essere stato piuttosto le haburot, fraternità di vita dei rabbini e dei loro scolari, e soprattutto la famiglia. Questo appare dal testo di 4 Maccabei, sorto nel I sec. d.C., dove i sette fratelli così dicono al loro padre:
«Quando egli era ancora presso di noi si preoccupava di insegnare la legge e i profeti… Egli cantava anche gli inni di Davide, che dice: «Molte sono le tribolazioni del giusto (Sal 34,20)» (4Mac 18,10.15).
Il Salterio torà di Davide
Il libro dei Salmi, forse già dal tempo della redazione di Lc 24,44 ( «Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mose, nei Profeti e nei Salmi» ), stava al vertice della terza parte del canone ebraico: gli Scritti. Era considerato, cioè, una Scrittura santa da meditare, per scoprire il piano di salvezza di Dio. Doveva essere letto come si leggeva la seconda parte del canone: i Profeti, il cui primo libro, secondo gli ebrei, è Giosuè:
Non si allontani dalla tua bocca il libro di questa legge, ma meditalo giorno e notte, perchè tu cerchi di agire secondo quanto vi è scritto; perchè allora tu porterai a buon fine le tue imprese e avrai successo (Gs 1,8).
Come Giosuè trovava nello studio della torà le indicazioni per poter entrare nella terra promessa, anche la comunità dei fedeli, andando, stando e fermandosi «con le parole del Signore» (D t 6,7; cf. Sal 1,1), non smarrirà la strada che porta alla vita. Il Salterio era considerato pertanto un rituale per una liturgia di santità da svolgersi nel grande tempio dell’ esistenza concreta di ogni giorno.
Un ulteriore indizio per intendere il libro dei Salmi come torà – una Scrittura da meditare – è la divisione del Salterio in cinque libri come la torà di Mosè.

È una divisione che probabilmente appartiene alla fase finale della redazione. Secondo il midrash, «Mosè diede a Israele i cinque libri, Davide diede a Israele cinque libri» (Midrash Tehillim al Sal 1,1 [III-IX sec. d.C.]).

Quattro formule dossologiche, che si richiamano a vicenda mediante la ripetizione di alcuni termini, indicano la conclusione dei primi quattro libri:

- Sal 41,14: «Benedetto il Signore, Dio di Israele, da sempre e per sempre. Amen. Amen»;

- Sal 72,18-19: «Benedetto il Signore Dio, il Dio d’Israele, lui solo compie meraviglie. E benedetto il suo nome glorioso per sempre e tutta la terra sia piena della sua gloria! Amen, Amen!»;
- Sal 89,53: «Benedetto il Signore per sempre! Amen, Amen!»;
- Sal 106,48: «Benedetto il Signore, Dio d’Israele da sempre e per sempre! E tutto il popolo dica: Amen».
Le quattro formule nella loro sequenza concludono quattro salmi che costituiscono un arco tematico: persecuzione (Sal 41 ), promessa messianica (Sal 72), venire meno della promessa messianica (Sal 89), compimento della promessa mediante YHWH, il Dio dell’ alleanza (Sal 106). Al complesso dei Sal 107-150 manca una formula dossologica, che corrisponda alle quattro precedenti. Alcuni autori considerano il Sal 150 come la dossologia finale; altri, invece, nella composizione dei Sal 146-150 vedono la finale del quinto libro e anche di tutto il Salterio.
Il Salterio, una torà fatta preghiera
Anche le soprascritte che precedono molti salmi, pur essendo tardive e non canoniche, rappresentano un’ importante riflessione su come i salmi – in quanto collezione di Scrittura sacra – erano compresi già prima di Cristo. Queste soprascritte rappresentano in effetti l’esegesi più antica atte stata di alcuni salmi. Di particolare importanza è l’espressione spesso ripetuta: «Salmo di Davide», che aiuta a meditare e pregare il salmo con il cuore e la bocca del «soave cantore d’ lsraele» (2Sam 23,1), il poeta del Signore, che «cantò inni a lui con tutto il cuore e amò colui che l’aveva creato» (Sir 47,8). Soprattutto alcune soprascritte, che richiamano eventi della vita di Davide, invitano il lettore a rivivere gli stessi sentimenti che furono nel cuore dell’ antico re di Israele: paura, coraggio, amore, lamento, invocazione, lode e ringraziamento.
Il Davide con cui il pio fedele si deve identificare è il «servo del Signore», il sofferente esemplare, che anche da peccatore a motivo della sua preghiera è salvato dal suo Dio da tutte le sue difficoltà. Di fronte ai conflitti, alle crisi e vittorie della vita, il Salterio offriva ai suoi lettori un modello di una risposta personale al Signore.
Anche questo fenomeno di davidizzazione del Salterio è un indizio che la collezione dei salmi ha perduto la sua funzione liturgica originale e ora ha un nuovo ruolo, quello di sacra Scrittura sulla quale i figli di Israele meditano in preghiera.
È una torà fatta preghiera.
Posizione strategica dei salmi regali
Gli studiosi, poi, hanno notato che ci sono alcuni salmi che sono messi intenzionalmente nei punti strategici del Salterio e costituiscono delle specie di sutura tra varie collezioni già esistenti. Questi sono alcuni salmi regali. La distribuzione dei salmi regali alI’ interno del Salterio sembra corrispondere infatti a un principio deliberato di organizzazione dell’insieme del libro:
- il Sal 2 introduce la raccolta: introduce l’idea dell’alleanza davidica;
- il Sal 41 davidico, che alcuni commentatori classificano tra i salmi regali, conclude il primo libro: riprende la suddetta promessa; Davide parla infatti della protezione del Signore;
- il Sal 72 conclude il secondo libro: con le richieste in favore del figlio del re potrebbe rappresentare la preghiera di Davide per suo figlio Salomone in vista della sua accessione al trono;
- il Sal 89, anch’esso regale, conclude il terzo libro: in esso si popone una nuova prospettiva: si ricorda l’ alleanza davidica, ma essa è fallita; da qui il grido angosciato dei discendenti davidici. L’alleanza davidica introdotta nel Sal 2 è sfociata nel nulla, e il Signore tarda. Ma fino a quando? Con questo appello termina la prima parte del Salterio (libri I, Il, III).
La risposta si trova nel libro IV (Sal 90-106), al cui centro ci sono i salmi che celebrano la regalità del Signore. È vero – sembrano dire questi salmi – che non abbiamo più un re a Gerusalemme, ma il nostro Dio era re ancor prima di Davide, anzi ancor prima di Mosè, da sempre. Di che cosa abbiamo paura? Il nostro Signore tiene saldamente in mano le redini della storia.
Il Salterio, partitura poetica della vita
Facendo una «lectio continua» dei salmi, si è notato poi una tensione all’ interno del Salterio. Nella loro composizione i salmi sono disposti in modo tale da formare un cammino di preghiera – o un procedimento di preghiera – , mediante il quale essi vogliono trasformare gli oranti. L’ io che parla alla fine nel Sal 150, è un io diverso da quello all’inizio nel Sal 3.
Si è fatto corrispondere in modo suggestivo i diversi libri del Salterio ai diversi momenti di una giornata, che secondo il costume ebraico comincia con la sera o con la notte.
- Il primo libro (Sal 3-41) descrive la notte; il tono dominante è quello della supplica dell’innocente ingiustamente perseguitato.
- Il secondo libro (Sal 42- 72) descrive il mattino e introduce una nota di maggiore fiducia e un ardente desiderio di vedere Dio.
- Il terzo libro (Sal 73-89) descrive il mezzogiorno, in cui il tono dominante è quello del lamento per le grandi sciagure storiche del popolo ebraico, che però non uccidono mai la speranza in un futuro intervento di Dio.
- Il quarto libro (Sal 90-106) descrive invece la sera, in cui si incomincia a sperimentare la potenza del regno glorioso di Dio.
- Il quinto libro (Sal 107-150) descrive infine il nuovo mattino in cui sgorga dal cuore del popolo un rendimento di grazie e il canto di lode finale alla fedeltà di Dio (A. Chouraqui).
Altri – sempre riconoscendo il carattere redazionale e quindi non accidentale dei cinque libri del Salterio – tentano di rintracciare un percorso lineare di vita spirituale nella lettura continua e contestuale dei 150 salmi. A. Mello, per esempio, nel susseguirsi dei cinque libri riconosce delle preghiere, che, per il fatto di essere suggerite dallo Spirito, hanno la capacità di sostenere l’ orante nelle varie fasi del suo cammino spirituale:
- la vocazione (primo libro);
- la giovinezza (secondo libro);
- la crisi (terzo libro);
- l’uscita dalla crisi o la percezione del regno (quarto libro);
- la maturità spirituale (quinto libro).
Alcuni autori, poi, si soffermano a domandarsi perché la tradizione ebraica antica abbia chiamato tutti i 150 tehillîm «lodi», quando in realtà nella prima parte del Salterio fino al Sal 89 troviamo soprattutto una lunga serie di suppliche individuali e collettive, in cui è espressa tutta l’angoscia di uomini e di donne avvolti nelle tenebre del dubbio, del pericolo, dell’oppressione, della morte e della lontananza di Dio. In una lettura contestuale, tuttavia, questi salmi sono interpretati come grida nella notte, che svegliano l’ aurora, da cui sorgerà il Sole di giustizia. E di fatto, dal quarto al quinto libro il tono cambia, fino a trasformarsi nella lode di ogni uomo e donna, anzi, di ogni creatura che respira, nel fortissimo del salmo finale. Questa disposizione dei salmi non è certo casuale. L’editore voleva suggerire alla sua comunità di poveri e perseguitati il vero senso e scopo della vita: la lode al proprio signore.
Evidentemente può lodare il Signore chi ha gli occhi del cuore per riconoscere nella storia della propria esistenza, in quella della comunità e in quella del mondo, le orme dell’agire amoroso di Dio. Questi occhi del cuore possono sbocciare e essere continuamente rischiarati meditando, o meglio, sussurrando notte e giorno uno dopo l’ altro i salmi imparati a memoria, come suggerisce il Sal 1 nell’ introduzione al Salterio.
Alcune tecniche di collegamento tra i salmi
È una meditazione favorita da alcune importanti relazioni linguistiche e tematiche esistenti tra salmi immediatamente successivi: richiami non casuali, ma intesi dai redattori. Mentre  l’ orante o lettore passa di salmo in salmo, può cogliere un intreccio di particolarità significative tipiche di un testo unitario. Il pensiero semitico, infatti, rifugge dal cambiamento improvviso della situazione, preferendo superare uno iato con collegamenti di contenuto e di forma con il testo vicino. Questo procedimento ha come effetto di creare una continuità tra i salmi, che non sono più da leggersi come una successione di pezzi eterogenei, ma come lo sviluppo di una preghiera o lo sviluppo di un dramma. Le parole di un salmo risuonano come in un’eco nel seguente e si crea così l’impressione che sia la stessa voce a esprimersi lungo tutti i salmi. Colui che dice nel Sal 3,2: «Signore, quanti sono i miei oppressori», è lo stesso che dice: «Quando ti invoco, rispondimi, Dio, mia giustizia» (Sal 4,2), «Porgi l’orecchio, Signore, alle mie parole» (Sal 5,2), «Pietà di me, Signore: vengo meno» (Sal 5,3), e così di seguito.
Può darsi che questa somiglianza di parole o di motivi fosse stata per i redattori un buon motivo per mettere i salmi uno dopo l’altro (iuxtapositio). Ma può anche darsi il caso che questa concatenazione di parole e di motivi ( concatenatio ) sia dovuta alI’ opera stessa dei redattori, che hanno composto o riscritto i salmi proprio perchè avessero la posizione in cui si trovano ora nel Salterio. Questi richiami si trovano di solito alla fine dei salmi e ai loro inizi.
Faccio un esempio. Il Sal 7 conclude con la promessa di lode: «Loderò il signore per la sua giustizia e canterò il nome di Dio, l’Altissimo» (v. 18). Il Sal 8 viene recitato come proseguimento di questa lode, come sottolinea il suo inizio: «O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra» (v. 2). Questa frase termina pure il Sal 8, preparando la promessa di lode finale del Sal 9,2-3: «Loderò il Signore con tutto il cuore e annunzierò tutte le tue meraviglie. Gioisco in te ed esulto, canto inni al tuo nome, o Altissimo». In questo modo, mediante la concatenazione attraverso la ripetizione del temine chiave «nome» nei tre salmi, il Sal 8 è espressamente considerato un inno di lode del perseguitato (Sal 7) e del povero (Sal 9), che nonostante le loro tribolazioni conservano in se stessi la «vera immagine di Dio» (cf Sal 8,6-9).
Un esempio di giustapposizione può essere il collegamento tra i Sal 1, 2 e 3: il Messia che spezza le nazioni con scettro di ferro e le frantuma come vasi d’argilla in Sal 2,9 è in realtà un sapiente che realizzerà tutto questo con le sole armi della saggezza (Sal 1), e questa sarà la sapienza della croce, in quanto vincerà le genti mettendosi alloro servizio come un servo del Signore (Sal 3).
A volte, poi, due salmi successivi sono strutturalmente e linguisticamente così simili, da essere giustamente chiamati «salmi gemelli». Un esempio chiaro sono i due salmi alfabetici 111 e 112.
Altre volte, più salmi sono messi uno dopo l’altro secondo uno schema liturgico o di genere letterario, in modo che la loro sequenza porti un messaggio teologico. Ad esempio, i tre Sal 90, 91, 92 guadagnano a essere letti senza discontinuità, perchè sono organizzati secondo la sequenza: supplica – oracolo di salvezza – azione di grazie (i tre elementi del genere letterario della supplica). Il lamento sulla brevità della vita umana (Sal 90,3-12), che è «come l’erba» (vv. 5-6), e la domanda dei servi di YHWH, di essere «saziati» da lui (vv. 13-17), non restano senza risposta. A chi si aggrappa a lui, Dio promette di «saziarlo di lunghi giorni e di manifestargli la sua salvezza» (Sal 91,16). Il Sal 92, poi, spiega che questo uomo è simile a una palma (sempre verde) e al cedro (simbolo di longevità), che «nella vecchiaia portano ancora frutti» (vv. 13-15), mentre i malfattori sono come l’erba che viene falciata (v. 8). Questi tre salmi sviluppano un’antropologia teologica disposta su tre gradini: dal lamento davanti alla caducità dell’ uomo (90,3-6), attraverso la confidenza nella protezione dell’ Altissimo nel Sal 91, fino alla ringraziamento per il governo di Dio su empi e giusti (Sal 92).
Un altro esempio è l’unità di composizione parziale dei Sal 3-7: cinque salmi collegati tra loro da uno schema temporale, che li rende la preghiera per tutti i tempi. Il Sal 3 è una preghiera del mattino (v. 4), il Sal 4 una preghiera della sera (v. 9), il Sal 5 ancora una preghiera del mattino (v. 6), il Sal 6 una preghiera della notte (v. 7), il Sal 7 una preghiera del giorno (v. 12). La notte richiama la morte, la sofferenza, la paura del nemico, l’insonnia di una malattia. In ogni situazione, soprattutto in quelle difficili, il giusto trascorre il tempo in preghiera: è l’uomo fatto preghiera, come si diceva di Francesco di Assisi.
Conclusione. Con l’ espressione programmatica: «Lettura continua del Salterio» s’intende dire che la nuova prospettiva della ricerca esegetica considera  il libro dei Salmi non come un ripostiglio di testi singoli o un’antologia di poesie raccolte a caso, ma una composizione formata da raccolte successive di collezioni parziali, sorta con l’ aiuto di specifiche tecniche di composizione e con un programma teologico particolare.
I redattori e gli editori hanno posto i singoli salmi uno dopo l’ altro secondo determinati concetti, in modo che i singoli salmi in questo modo ricevessero un ‘ulteriore dimensione di significato e di importanza.

(da Parole di Vita, n. 1, 1995)

LA SAGGEZZA CRISTIANA ARTE DEL VIVERE – (anche Paolo)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/quesnel_saggezza_cristiana1.htm

(è una serie di 12 studi – metto il primo dove ci sono riferimenti a Paolo, in particolare Colossesi e Filippesi, gli altri li devo leggere, ma il link per vedere di che si tratta è lo stesso che ho messo sopra!)

Michel Quesnel

LA SAGGEZZA CRISTIANA ARTE DEL VIVERE – (anche Paolo)

INTRODUZIONE

Considerato che dobbiamo morire…

Non dobbiamo avere paura delle parole. Considerato che dobbiamo morire sarebbe stupido – sì, semplicemente, totalmente stupido – vivere come se la vita presente dovesse prolungarsi all’infinito.
Governare – si dice – è prevedere. Governare la propria vita significa prevedere che essa un giorno finirà, almeno nelle forme che conosciamo. Morire è l’unico avvenimento del nostro futuro del quale siamo certi. È così, semplicemente, così. La morte fa parte del programma. Che non è né allegro né triste.
Chi se ne rallegrasse sarebbe sadico o masochista, anche sospettabile di trarre piacere dalla tragedia o dalle sconfitte dell’ esistenza, avido di ricondurre, ad ogni buon conto, i suoi contemporanei nei ranghi della consolazione a buon mercato nell’aldilà. Chi se ne rattrista si proietta troppo in fretta nel futuro, perché la morte non è necessariamente in arrivo in un batter d’occhio. Se tutto va bene, ci vengono donati lunghi anni per gustare la vita, per amare ed essere amati, per fare festa. E sarebbe stupido non approfittarne. A pensarci bene, allora, rattristarsi del dover morire è davvero ragionevole? La morte non porta forse in se stessa anche una dimensione di liberazione? Chi sarebbe felice di una vecchiaia che si prolungasse all’infinito?
Dobbiamo vivere, dunque, consapevoli di dover morire, noi e i nostri cari. Questo significa che ci saranno delle soglie da varcare, delle rotture da accettare. E che, nell’immediato, dobbiamo organizzare il nostro quotidiano tenendo conto del nulla da cui veniamo e dell’ignoto verso cui andiamo. Questo si definisce saggezza o anche arte di vivere: un invito che comprendiamo quando prendiamo coscienza della nostra fragilità; un bene che molti cercano e che non è privilegio di nessuno, ma che alcuni, poiché avvertono più di altri il piacere di scrivere, cercano di esprimere in parole.
Compatibile con tutte le convinzioni, la saggezza riceve da loro colore e vivacità. Esistono saggezze cristiane, saggezze buddiste, saggezze atee. In parte coincidono, non c’è dubbio, ma non si sovrappongono del tutto. La cosa peggiore sarebbe pensare che una fede religiosa non abbia nulla a che fare con la saggezza, come se il riferimento alla trascendenza la dispensasse.
Certo, san Paolo opponeva la sapienza degli uomini alla follia della Croce. Non esitava a mostrarsi severo di fronte alla saggezza totalmente umana alla quale aspiravano i Corinti. Esiste una ragione per diffidare dall’ essere saggi? Egli stesso non esitò ad offrire ai suoi corrispondenti dei consigli che non sono nient’ altro se non esortazioni alla saggezza. E potremmo dire lo stesso del profeta di Nazareth, che fu anche un saggio. Questa, almeno, è l’immagine che i vangeli danno di lui.
La saggezza che propongo qui è una saggezza cristiana, la mia, nutrita di Bibbia e di riflessioni sul mondo nel modo in cui mi s’impone e cerco di comprenderlo. Essa è contrassegnata dalla mia cultura, dalla mia età – già avanzata -, dalle mie attività ecclesiali ed universitarie, dal mio carattere, dai miei interessi.
È descritta in trentatre corti « elogi » raggruppati per tre, va da Gesù Cristo all’umorismo, passando per il silenzio, per la ricchezza, per l’orgia, per la compassione… li si può leggere come si vuole, indipendentemente gli uni dagli altri. Perché trentatre? È il numero degli anni vissuti da Gesù Cristo, secondo la tradizione. Non pratico la numerologia, ma non mi ripugna mettere in rilievo la simbologia dei numeri. Perché a tre per tre? Perché così si ottengono undici insiemi di tre capitoli. Undici è dodici meno uno, cifra simbolo di incompletezza; tre è la perfezione divina. Ora, la saggezza cristiana tiene conto di questa doppia dimensione della persona umana, imperfetta e limitata, ma destinata a raggiungere, mediante la santità, il Dio perfetto che la chiama.
Consapevolmente ho intitolato ogni capitolo: « Elogio di… » La parola elogio deriva dal latino elogium, derivante a sua volta dal greco eulogia, che significa « benedizione ». Perché il fondamento del mio pensiero è che, nel suo complesso, vivere è una benedizione, cosa che non nega in alcun modo il tragico – amo molto, d’altra parte, il libro di Qohélet -, e che la saggezza mal si concilia con l’asprezza.

SOTTO IL SEGNO DEL FIGLIO

Elogio di Gesù Cristo

Una sola persona, nella storia umana, è apparsa di nuovo viva dopo essere morta pochissimo tempo prima, appartenendo già al mondo dell’ aldilà: un profeta ebreo del I secolo della nostra era, chiamato Gesù. È resuscitato, non ritornando alla vita che aveva lasciato, così da dover morire di nuovo, ma vivendo un’altra forma di vita le cui caratteristiche oltrepassano le possibilità dell’immaginazione umana. Si può pensare che questa pretesa resurrezione non sia che una favola, una storia inventata da discepoli incapaci di rassegnarsi alla morte del loro maestro, tanto più per il fatto che questi era morto in un modo particolarmente tragico: crocifisso dall’ autorità romana occupante – un supplizio riservato ai popolani e agli schiavi – in seguito alle pressioni di alcuni grandi sacerdoti di Gerusalemme. Ritenere che la resurrezione di Gesù sia una pura invenzione è un’ipotesi sostenibile; in ogni caso, non possiamo averne le prove. Ugualmente, non possiamo provare il contrario: la convinzione che Gesù sia risorto non è dell’ordine della ragione. Nessuna persona neutrale ha potuto verificare il fatto: quelle che lo hanno testimoniato poco tempo dopo la sua morte erano tutte, in un modo o nell’altro, legate a lui. La loro testimonianza può essere rifiutata come priva di obiettività.
Tuttavia la qualità di una convinzione non si misura soltanto in base alle prove che se ne possono dare; essa mostra il suo buon fondamento anche attraverso la sua fecondità. I cristiani non hanno la prova che Gesù sia risorto. Lo credono fermamente e costruiscono la propria esistenza su questa certezza. Si sforzano di vivere la propria fede e di prendere Gesù come maestro. Questo non significa che ce la facciano, perché l’obiettivo è particolarmente alto.
L’immagine di Gesù così come la tramandano i vangeli è quella di un profeta e di un saggio dalle qualità umane eccezionali. Profeta, annuncia l’imminenza del Regno di Dio nel cuore degli uomini e nella storia: un regno di giustizia e di pace la cui sola regola di vita è l’amore. Egli stesso dimostrò, attraverso l’esempio, che ciò era possibile. Taumaturgo attento a tutte le forme di miseria, messaggero di speranza per i poveri, accusatore dei ricchi e dei profittatori, appaga le aspirazioni profonde sia dei giusti che dei peccatori. Saggio tra i saggi d’Israele, dà fiducia alla libertà di ciascuno a tal punto da non imporre nulla. Chiama, suggerisce, esorta, illustra con esempi, utilizzando con abilità esemplare una specifica forma di breve racconto nel quale l’uditore è invitato a sentirsi coinvolto e grazie al quale può essere portato a trasformarsi: la parabola. Ispirarsi all’insegnamento e alla condotta di Gesù costituisce una completa arte di vivere.
L’espressione consacrata dall’uso spirituale è L’imitazione di Cristo. È anche il titolo di un’opera renana del XIV secolo i cui emuli furono notevoli. È opportuno tuttavia non confondere « imitazione » con « mimetismo ». Oggi noi viviamo in condizioni assai diverse da quelle del vicino Oriente del I secolo; noi non siamo
Gesù Cristo; sarebbe illusorio e stupido pretendere di agire come egli ha agito cercando di scimmiottarlo. Imitare permette di prendere la distanza rispetto al modello. Gesù fu attento al poveri e ai piccoli; noi siamo invitati a fare altrettanto, ispirandoci al suo modo di essere. Gesù manifestò ai suoi contemporanei un amore senza limiti, fino ad accettare di morire per mano di coloro che rifiutavano questo amore; si tratta, per ogni cristiano, di un ideale da non perdere mai di vista; ma non vuol dire che si debba ricercare il martirio. Dobbiamo, al contrario, inventare i nostri comportamenti tenendo conto delle condizioni in cui viviamo, con una libertà tanto grande quanto la sua.
Attraverso la Resurrezione, che apparve loro come la risposta divina alla morte ingiusta che gli era stata inflitta, i primi cristiani hanno finito col riconoscere in Gesù qualcosa di più che un profeta e un saggio. Nel tempo, si sono convinti che egli fosse il vero Messia di Israele, cioè il re unto incaricato da Dio di presiedere all’instaurazione di quel Regno di Dio che aveva annunciato, Figlio di Dio egli stesso, Dio incarnato, parola e immagine di Dio Padre. La sua persona trascende la storia: fin dalle origini del mondo egli presiedeva alla creazione del cosmo; e, alla fine, ritornerà a conc1uderne i destini.
Gli avvenimenti del I secolo in Galilea e in Giudea assunsero una dimensione nuova: la vita, la morte e la resurrezione di Gesù non sono solo un momento chiave della storia ebraica; sono il fulcro della storia universale perché, attraverso questi avvenimenti, Dio si è compromesso nei confronti della propria creazione al punto di farsi uomo tra gli uomini. Un inno liturgico, di qualche decennio posteriore alla morte di Gesù, accosta i due aspetti della sua filiazione divina, la filiazione originale e la filiazione mediante la Resurrezione:

Egli è immagine del Dio invisibile,
generato prima di ogni creatura;
poiché per mezzo di lui
sono state create tutte le cose,
quelle nei cieli e quelle sulla terra,
quelle visibili e quelle invisibili:
Troni, Dominazioni,
Principati e Potestà.
Tutte le cose sono state create
per mezzo di lui e in vista di lui.
Egli è prima di tutte le cose
e tutte sussistono in lui.
Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa;
il principio, il primogenito di coloro
che risuscitano dai morti,
per ottenere il primato su tutte le cose.
Perché piacque a Dio
di fare abitare in lui ogni pienezza
e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose,
rappacificando con il sangue della sua croce,
cioè per mezzo di lui,
le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli.
(Col 1, 15-20)

Più noto è tuttavia l’inizio del prologo di Giovanni, che completa, per Gesù, la realtà del fatto che egli è immagine di Dio, affermando che ne è la Parola o il Verbo (il logos).

In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
(Gv 1,1-3)

Queste due affermazioni maggiori della teologia cristiana – Gesù Immagine e Gesù Parola di Dio – meritano tuttavia di essere completate da un’ altra. Attraverso la morte di Gesù in croce l’Onnipotente è diventato il debole per eccellenza e l’anni-Amante. Si è sottomesso alla volontà umana e si è fatto sorprendentemente vulnerabile, accettando una « discesa » sconosciuta alle altre religioni. Si può scrivere del Padre chiamandolo Il Dio crocifisso, come fece il teologo protestante Jürgen Moltmann. In Gesù Cristo, in effetti, Dio piange, Dio soffre, Dio si cancella per non opprimere con la sua presenza, Dio si fa ombra per non accecare con la sua luce. Dio si fa silenzio per non imporre la sua parola. Durante la scena della lavanda dei piedi riportata dal vangelo di Giovanni, si è addirittura inginocchiato davanti ai discepoli, immagine di un Dio che si mette in ginocchio davanti a me ed accetta di guardarmi dal basso in alto, quando, essendo il mio creatore, potrebbe essere il mio padrone. Per togliermi, nel medesimo tempo, qualsiasi voglia di diventare orgoglioso per questo, egli si inginocchia anche davanti a Giuda, proprio colui che sta per tradirlo. Un inno primitivo consacrato al Cristo, conosciuto da san Paolo e riportato in una delle sue lettere, sottolinea l’originalissima prospettiva cristiana, quella del Dio che compie in Gesù Cristo un vero cammino di de-divinizzazione.

* * *

« Egli, pur essendo di natura divina,
non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso,
assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e alla morte di croce.
Per questo Dio l’ha esaltato
e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni altro nome;
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra;
e ogni lingua proclami
che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre »
(Fil 2,6-11).

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