LA SAGGEZZA CRISTIANA ARTE DEL VIVERE – CHIAMATI ALLA LUCE
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LA SAGGEZZA CRISTIANA ARTE DEL VIVERE
Michel Quesnel
CHIAMATI ALLA LUCE
ELOGIO DELLA LUCIDITÀ
Secondo gli astrofisici l’universo è vecchio di circa quindici miliardi di anni. Alcuni lo stimano un poco più giovane, nell’ ordine di tredici miliardi di anni e mezzo. Diciamo che si tratta di ordini di grandezza. Se l’immensità della durata dà le vertigini, l’immensità dello spazio non ne dà di meno. Si parla oggi di mille miliardi di galassie. E, volendo citare solo la nostra, la Via lattea, che è, per così dire, la periferia del sistema solare, essa conterrebbe duecento miliardi di stelle e il suo diametro raggiungerebbe all’ incirca trecentomila anni luce. Le teorie attuali affermano inoltre che qùesto universo è in espansione, prima di raggiungere una sicura fase di regresso, alla fine di un tempo sulla durata del quale vi è molta meno unanimità.
Il Sole, la stella della nostra galassia, la cui luce e il cui calore sono essenziali per la nostra vita, si consuma a una velocità impressionante. Perde migliaia di tonnellate della sua massa, e, di conseguenza, della sua energia, al secondo. Di qui a qualche miliardo di anni si sarà raffreddato. Quando ciò avverrà, la Terra non sarà più abitabile già da molto tempo. L’umanità, per allora, sarà forse riuscita a costruire delle astronavi intersiderali che le permetteranno di insediarsi su di un pianeta più ospitale? Niente è meno sicuro, lo è piuttosto il contrario. Tutti i macchinari che ci permettono di passeggiare nello spazio attualmente si alimentano con energia terrestre, derivata essa stessa dall’energia solare. Forse ci manca l’immaginazione, ma l’astronave che permetterà a qualche miliardo di individui di insediarsi su una galassia lontana molti anni luce dalla nostra non è ancora costruita e nemmeno ancora concepita.
Perché, confrontata con le cifre che abbiamo appena evocato per misurare il tempo e lo spazio, la durata di una vita è molto breve. I tre miliardi di secondi già percorsi da una persona di circa novantacinque anni pesano leggeri sulla bilancia cosmica. La vita umana si allunga, certamente. Tuttavia non sempre sono invidiabili le condizioni nelle quali si trascorrono gli ultimi anni della vecchiaia e l’organismo non ha risorse infinite.
A quale scopo dunque tutte queste cifre? E quale rapporto hanno con la saggezza? Esprimono semmai ciò che l’uomo può conoscere « allo stato attuale della scienza », secondo un’espressione consacrata. E mancano terribilmente di poesia.
Dimentichiamole, se vogliamo, ma fissiamoci bene in mente quello che esse significano: sottolineano la sproporzione fra le dimensioni spazio-temporali del cosmo e quelle di una vita umana; l’infinitamente grande da una parte, gli individui appartenenti all’umanità dall’ altra, e questi ultimi, sulla scala dell ‘universo, sono infinitamente piccoli. Può darsi che ci prenda la vertigine, come succede quando, nelle limpide notti d’estate, veniamo sedotti dal cielo stellato e ci chiediamo se esistono dei « marziani » o dei « venusiani » che, da lassù, ci guardano.
Eppure, per piccolo che io sia, possiedo una ricchezza che la luna, umile astro morto e ghiacciato, non ha, e non ha nemmeno il signor Sole, prigioniero dell’ alta temperatura che lo abita. lo vivo e penso. Posso in parte conoscere il sole e pensarlo tutto intero. La mia vita dipende dalla sua energia ma esso è, in qualche modo, contenuto nel mio pensiero. Esso è sorgente di luce ma le mie capacità mentali sono sorgente di lucidità. Povero sole inintelligente! Capace di bruciarmi se mi espongo troppo ai suoi raggi e di congelarrni quando si nasconde, non ne sa nulla. Viene alla mente il celebre pensiero di Pascal: « Quando l’universo esploderà, l’uomo di nuovo sarà più nobile di quello che lo uccide, perché egli saprà che sta morendo ed il vantaggio che l’universo ha su di lui; l’universo non ne sa nulla » (Pascal, Pensieri, n. 200, nell’edizione Lafuma; n. 347, nell’ edizione Brunschvicg) (2).
Il più ignorante fra gli uomini è dotato di capacità intellettuali che il più grande corpo celeste non possiede. Noi siamo piccoli e deboli in confronto agli astri, ma abbiamo sapere ed intelligenza come fattori di superiorità su di loro. La nostra nobiltà, che è allo stesso tempo esigenza fondamentale del vivere bene, risiede in questo: aprire gli occhi sul mondo, cercare di comprendere gli avvenimenti, eventualmente discuterne e, tenendo conto ciascuno delle condizioni particolari in cui si trova, scegliere i nostri comportamenti.
Più siamo lucidi, più siamo in grado di situarci armoniosamente nel mondo che ci circonda. Alzandoci la mattina, guardiamo spontaneamente dalla finestra per sapere che tempo fa, per prevedere almeno un poco quello che farà, e vestirci di conseguenza. Vale la pena di estendere la stessa capacità al di là del tempo meteorologico: ampliare al massimo la nostra comprensione del mondo come è stato, è, e sarà, ed agire di conseguenza.
Tale modalità di conoscenza costituisce sempre solo un’ anticipazione imperfetta di quanto, nella fede, siamo chiamati ad essere dopo la morte. Un’espressione cristiana classica per definire la situazione dei defunti è di dire che si trovano « nella luce » o, per essere più completi, « nella luce di Dio ». Perché « Dio è luce, e in lui non ci sono tenebre »: questo è il messaggio con cui si apre la prima lettera di Giovanni (1 Gv 1,5). Il Dio dei cristiani ci destina a beneficiare della sua propria luce, della sua chiaroveggenza, della sua lucidità. La persona umana, creata a sua immagine, è fatta per partecipare alla luce divina, sebbene possa comprenderla da quaggiù solo in modo imperfetto.
La scienza medica e le tecniche dell’ottica sanno ormai correggere la miopia. Disponiamo anche di molte risorse per correggere la nostra miopia mentale e giungere alla lucidità. È un primo passo necessario sul cammino della saggezza.
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« Diceva ancora alle folle: Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto? » (Lc 12,54-57).
[2] Due delle tre edizioni francesi principali dei Pensieri: la prima, che intende classificare i testi in modo da permetterne una lettura sistematica, venne fatta poco dopo la morte del filosofo dagli amici di Port Royal: è l’Edizione Brunschvicg; l’edizione Lafuma, successiva, è prevalentemente di carattere filologico. La terza, tra queste storiche edizioni, la Chevalier, intenderebbe ricostruire il procedimento logico di Pascal stesso (n.d.t.).
CHIAMATI ALLA LUCE
ELOGIO DELLA MERAVIGLIA
La lucidità, che tiene conto della sproporzione fra l’immensità del mondo e i limiti dell’esistenza umana, non è realista se non onora in ciascuno la capacità di meraviglia. Superbo è un cielo stellato. Superbo è anche il più piccolo fiore. Anch’esso ci supera e siamo incapaci di fabbricarlo. Perché le cose si sono molto evolute dalla scintilla primordiale, anche se il processo evolutivo non è ancora terminato. Ci si può fidare di Darwin e dei suoi successori, ammettere le leggi della selezione e dell’evoluzione come il processo meno improbabile per spiegare il mondo così com’è oggi. Ma, se si è onesti, si deve anche dire con il poeta mistico che « la rosa è senza perché » (3).
Quale necessità selettiva ha disposto con tanta armonia le macchie di colore sulle ali delle farfalle, o gli occhi verde smeraldo, tracciati in modo tanto perfetto sulla coda di un pavone? I creazionisti ci vedono direttamente la mano di Dio; ignorano le cause seconde. Gli evoluzionisti duri e puri ne fanno il risultato di un processo naturale di selezione; ma, non essendo nessun essere vivente la brutta copia di tale perfezione, la loro spiegazione pare monca. Se il creazionismo è un’ingenua miopia, l’evoluzionismo totalitario replica con la pretesa, essa pure assolutamente ingenua, di spiegare tutto razionalmente. Rifiutare di capire e proibirsi metodicamente la meraviglia sono due facce della medesima meschinità.
E qui siamo ancora nel campo della natura osservabile. Lo stupore dinanzi all’infinitamente piccolo cosìcome lo svelano i microscopi più sofisticati non fa che confermare le meraviglie della materia: un corpo umano fatto di cento miliardi di cellule, ciascuna di esse con le sue ventitré paia di cromosomi, ciascuno di questi cromosomi composto da circa mille molecole di DNA… L’uomo potrà giungere a conoscere l’estremità della catena, ma non è certo se un giorno arriverà a riprodurre il meccanismo che fa sì che tutto ciò viva.
Chi dice meraviglia dice domanda, interrogazione infinita, perché ogni risposta data pone nuove domande. Così nacque la filosofia. Filosofare non dovrebbe essere il privilegio dei filosofi, ma il bene comune di ogni persona che applichi il proprio pensiero a penetrare la complessità del reale e a inventare, partendo di lì, i propri comportamenti. Ciò presuppone che si guardi un po’ più lontano e un po’ più a fondo di quanto pare sufficiente per la soddisfazione dei bisogni elementari.
Eppure, tra gli esseri umani, coloro che si accontentano di vivere la propria vita così come viene, sembrano essere i più numerosi. Lavoro, famiglia, sentimenti, svaghi, preoccupazioni di ogni giorno, corpi da curare, denaro da guadagnare a sufficienza bastano, sembrerebbe, a occupare un’esistenza. L’età, la misura, la bellezza e le ragioni d’essere dell’universo non si pongono immediatamente come domande da chiarire. In ogni tempo coloro che hanno posato sul mondo uno sguardo che va oltre la superficie delle cose sono stati una minoranza. Questi sono gli artisti, i profeti, i mistici, i filosofi patentati e i saggi. Profeti e saggi biblici furono scherniti dai loro contemporanei. Il « banco degli stolti », per parlare come l’autore del primo Salmo è più affollato di quello degli uomini di fede e di legge. « La brava gente non ama che qualcuno segua una strada diversa dalla sua », cantava George Brassens.
Inventare, sondare, riflettere rende inevitabilmente la vita più complicata. Da qui a pretendere che questo costituisca il privilegio di un’élite pensante non c’è che un passo, un passo che potrebbe sembrare che anche il vangelo abbia fatto. Gesù pensava che il Regno dei Cieli restasse nascosto ai sapienti. Almeno, è quanto rivela in una formula di benedizione che esalta i cuori semplici: « Ti ringrazio, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai svelate ai piccoli » (Mt 11,25). Si imbocca dunque una strada sbagliata non accontentandosi dell’immediato e del quotidiano? Ma lo stesso Gesù non esitava, sulle orme dei profeti e dei saggi di Israele, a denunciare coloro che accumulano con l’unico scopo del profitto materiale. Allora senza dubbio è legittimo guardare il mondo al di là delle apparenze e tenere conto di questo orizzonte per orientare il proprio modo di vivere.
Già Voltaire si meravigliava dell’immenso meccanismo che presiedeva al movimento degli astri. Ne attribuiva fabbricazione e funzionamento a un grande orologiaio, cosa che lo fece classificare tra i deisti. Questo influenzava il suo modo di comportarsi? La risposta appartiene agli specialisti del signore di Fernay. L’ammirazione al cospetto dell’universo non conduce per forza al deismo e, ancora meno necessariamente, alla fede cristiana. Può favorire il panteismo o l’adorazione del cosmo, può accontentarsi di un agnosticismo aperto o di un ateismo sereno.
Senza pretendere che tutto sia bello e affogare il tragico dell’ esistenza in un oceano di ottimismo beato, apriamo tuttavia uno spazio preliminare all’attitudine religiosa, meravigliandoci del mondo e sviluppando la sua capacità di stupirci. Approfondiamo in noi stessi un interrogativo, interrogativo che si apre sulla possibilità di accogliere quello o Colui che non si impone; prepariamo, in altri termini, il terreno per la fede, che divenga o no cristiana. Il salmi sta ne è l’eco.
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« Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissate,
che cosa è l’uomo perché te ne ricordi
e il figlio dell’uomo perché te ne curi? » (Sal 8,4-5).
[3] Celebre espressione di Angelo Silesio, pseudonimo di Johann Scheffler (1624-1677), mistico e poeta tedesco, autore de Il pellegrino cherubico (n.d.t.).
CHIAMATI ALLA LUCE
ELOGIO DELLA DISCUSSIONE
La ricchezza e la bellezza della terra sono in parte dovute alla diversità. Diversità di paesaggi, di vegetazione, di climi e, allo stesso modo, diversità di temperamenti e di culture. Se la meraviglia è un atteggiamento da raccomandare dinanzi a tale splendore, si deve tuttavia riconoscere che la gestione delle differenze non è semplice. La lucidità non è ingenuità.
Per tutti lo straniero è immediatamente un estraneo, cioè un sospetto. Alimentati dal desiderio di potere, i conflitti fra gruppi o individui si rivelano inevitabili. Gli avvenimenti più costanti della storia sono le guerre. Esse, d’altra parte, non sono un privilegio della specie umana; gli animali fanno la loro parte, anche se le loro ostilità cominciano senza dichiarazioni ufficiali e si concludono senza quei trattati di pace la cui solennità, spesso, ne eguaglia soltanto l’ipocrisia.
Freud ci ha comunque insegnato che la diversità non è l’unica causa di guerra. Anche l’uguaglianza lo è. Se l’altro mi somiglia, il mio desiderio mi porta a voler possedere tutto ciò che egli ha. Le rivalità tra fratelli sono spesso le più aspre. Le guerre civili possono raggiungere un grado di crudeltà raramente eguagliato dai conflitti fra i popoli che abitano al di là dei due opposti versanti di una frontiera. La violenza costitutiva di ogni vita è universale. Ma costituisce una giustificazione sufficiente a prendere le armi?
Un buon uso dell’intelligenza può aiutare a far sì che avvenga altrimenti. Solo gli sciocchi pensano di avere sempre ragione o reclamano ostinatamente il loro buon diritto. La realtà è più complessa di quanto ciascuno possa percepire. Tutte le opinioni e tutte le rivendicazioni sono condizionate dal punto di vista di colui che le esprime. La diversità esistente, se vogliamo che il pianeta non divenga una giungla, può diventare un fattore per relativizzare quanto pensiamo. Ogni convinzione merita di essere sottoposta alla discussione.
Discutere significa precisamente riconoscere che non possediamo la verità, che l’altro ne possiede la sua parte, ed essere convinti che dal confronto può scaturire la luce. I Dialoghi di Platone ne costituiscono una notevole espressione filosofica. Certo, succede che gli interlocutori di Socrate rivestano il ruolo di valorizzare il maestro. Ma, considerate in profondità, queste opere sottolineano che la ricerca della verità non è soltanto un cammino individuale. Essa comporta anche la dimensione dell’ opera comune.
Non è lontano il tempo in cui i cristiani, di qualunque confessione fossero, pensavano di trovare la spiegazione ultima del mondo nel loro solo Credo. La religione del vicino era, nel migliore dei casi, il regno dei balbuzienti, nel peggiore, quello di Satana. I rimescolamenti culturali dei quali siamo parte fin dalla fine del XX secolo disegnano un altro paesaggio. « lo sono il cammino, la verità e la vita », pretende Gesù nel vangelo di san Giovanni (14,6). Interpretare questa frase come affermazione dell’ esistenza di una Verità ultima identica al- Figlio di Dio, al di là di qualsiasi dogma e di qualsiasi formulazione, non significa cadere nel relativismo.
Nessuna persona e nessun gruppo detiene l’ultima parola sul reale. Una strada utile per illuminare la propria ricerca è allora quella di entrare in dialogo con fedeli di altre religioni, con filosofi, astrofisici, biologi, agnostici, atei che abbiano riflettuto sul loro ateismo, con tutte le persone che si interrogano sulle origini del mondo, sul suo divenire e sul suo significato ultimo. Il dialogo interreligioso iniziato dai cristiani costituisce una tappa, ma l’utopia cristiana di oggi è ancora più ambiziosa. Predica un’umanità che sia una comunità di ricercatori di senso in dialogo, inventori di modi di agire coerenti con i loro ideali.
A proposito della scelta di comportamento da effettuare all’interno della stessa corrente di fede sono rimaste celebri le discussioni che animarono le prime comunità cristiane dopo la morte di Gesù. Ci si è talvolta compiaciuti nel fare di Pietro e di Paolo dei rivali o degli avversari. È vero che loro spesso si scambiarono delle opinioni forti. Uno sguardo, che non sia partigiano, ai testi del Nuovo Testamento può tuttavia portare a fame una lettura diversa: essendo Gesù ebreo ed essendolo ugualmente i suoi primi discepoli, bisognava decidere se circoncidere o meno i pagani che a quel tempo si convertivano alla fede cristiana. La posta in gioco non era piccola. Il cristianesimo doveva rimanere una corrente particolare all’interno dell’ebraismo oppure aprirsi più ampiamente all’universale?
Fra Pietro e Paolo nessuno aveva ragione a priori rispetto all’altro. Giacomo e Giovanni, ugualmente citati dai testimoni, non erano d’altra parte attestati obbligatoriamente sulla medesima posizione dei due esponenti di primo piano. Le discussioni che essi sostennero a Gerusalemme su questa questione sfociarono, se vogliamo credere al racconto che ne fa Paolo, in un compromesso fecondo.
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« Visto che a me era stato affidato il vangelo per i non circoncisi, come a Pietro quello per i circoncisi poiché colui che aveva agito in Pietro per fame un apostolo dei circoncisi aveva agito anche in me per i pagani – e riconoscendo la grazia a me conferita, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani ed essi verso i circoncisi. Soltanto ci pregarono di ricordarci dei poveri: ciò che mi sono proprio preoccupato di fare » (Gal 2,7-10).
