Archive pour janvier, 2013

GIOBBE, CHI NON ERA COSTUI? – GAVRIEL LEVI

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GAVRIEL LEVI

GIOBBE, CHI NON ERA COSTUI?

La storia di Giobbe è conosciuta. Giobbe è un uomo intero, diritto che evita il male. Persino D-o lo porta come modello umano agli Angeli. Il Satàn provoca D-o:  » Se è così giusto, avrà la sua convenienza, perché Tu lo ripaghi benissimo; mettilo alla prova e vedremo se rimane integro verso Te « . D-o consegna Giobbe nelle mani del Satàn, che prima lo riduce in povertà, poi gli fa perdere figli e figlie ed infine lo colpisce gravemente nel corpo. Giobbe urla la sua protesta. I suoi amici tentano di consolarlo e di darsi, tutti assieme, una spiegazione:  » Se ti capitano tutte queste disgrazie, vuol dire che hai fatto qualcosa di male « . Giobbe rifiuta di ammettere una colpa inesistente e tempesta D-o, contestando l’ingiustizia del suo dolore. Arriva a maledire il giorno della sua nascita e poiché ritiene che il male non ha nessuna ragione di esistere, conclude che la vita e la creazione sono senza senso. D-o è costretto a rispondere:  » Dove eri tu, mentre Io creavo l’universo? Chi sei tu per comprendere la completezza delle mie azioni? « . Giobbe non si pronuncia sul contenuto della risposta, ma si accontenta del fatto che D-o gli abbia risposto in prima persona. D-o risarcisce Giobbe di tutti i danni che ha dovuto subire. Da notare: il Satàn non partecipa alla discussione di Giobbe con gli amici, e neppure a quella con D-o.
La trama di questa storia, che è parte fondamentale del Tanàkh, è provocatoria: è proprio vero che praticare la giustizia porta il bene e che praticare l’ingiustizia porta il male? E se fosse vero il contrario? D-o è capace di spiegare, superando le ipocrisie moralistiche degli uomini di troppa fede, il significato del dolore universale e delle catastrofi umane?
Secondo i maestri del midràsh:  » Moshè ha scritto la toràh, la vicenda di Bil’àm (il profeta che voleva maledire gli ebrei) ed il libro di Giobbe  » (TB.BB 15a). Contro la maggioranza dei maestri che ritengono Giobbe un personaggio storico reale, R. Shemuèl bar Nachmàni afferma che  » Giobbe non è mai esistito e tutta la sua storia è un’allegoria  » (TB. BB 15a).
Rabbi Iehudàh haNassì ritiene che:  » Se il libro di Giobbe è stato scritto soltanto per spiegare i fatti della generazione del Diluvio, sarebbe sufficiente  » ( Ber. R 26:18)
Con quale gioco di specchi il Talmud guarda il testo biblico? Le tre ipotesi midrashiche riferite sollevano, se considerate insieme, interrogativi speculari:
a) Moshè non aveva abbastanza da fare con la scrittura (sotto dettatura) della toràh? Per quale motivo si sarebbe messo a scrivere, mantenendosi anonimo, una tragedia su fatti che forse erano accaduti ma che lui non aveva visto o che forse non erano neppure avvenuti? Per quale motivo avrebbe scelto di scrivere proprio la storia di Giobbe? Aveva avuto una profezia o sosteneva, con una sua seconda identità, una protesta contro D-o? Perché la storia di Bil’àm, che è scritta dentro la toràh, viene presentata come una storia a sé, in qualche modo fuori della toràh? Quale rapporto esiste tra la storia di Bil’àm e quella di Giobbe? Di nuovo: perché Moshè viene presentato come uno scrittore free-lance ?
b) Il Talmud, per rafforzare l’ipotesi di R.Shemuèl bar Nachmàni che Giobbe è un personaggio immaginario, fornisce un esempio parallelo. Quando Davìd ha mandato a morire Uriàh e ha sposato Batshèva’, il profeta Natàn per potergli contestare la colpa, ha raccontato a David la storia di un pastore ricco che aveva rubato l’unica pecora di un pastore povero. Con rabbia, David ha condannato il pastore ricco ed il profeta Natan ha svelato a David che, fuori metafora, stava parlando di lui (Shem. 2°,12:1-8). Il Talmud sostiene che rispetto alla vicenda di David, non ha importanza se la storia dei due pastori è immaginaria o meno. Quale significato ha questa ipotesi talmudica su un parallelismo tra Moshè con il libro di Giobbe da una parte e Natàn con la storia dei due pastori dall’altra? In particolare, dove sta l’equivalente di David nella storia di Giobbe?
c) Rabbi Iehudàh haNassì è il compilatore della Mishnàh, il nucleo del Talmud. In un certo senso Rabbi Iehudàh sta alla Toràh orale come Moshè sta alla Toràh scritta. Percéè proprio Rabbi Iehudàh sostiene che la storia di Giobbe è una interpretazione esistenziale del Diluvio, il prototipo della catastrofe universale? Perché, anche secondo Rabbì Iehudàh, proprio Moshè, il redattore della toràh scritta, avrebbe sentito il bisogno esistenziale di dare la sua interpretazione sui fatti del Diluvio? La correlazione fra Giobbe ed il Diluvio vuol dire che D-o, con il Diluvio, ha consegnato il mondo nelle mani del Satàn? Oppure, più semplicemente, Rabbì Iehudàh mette sulla bocca di Giobbe la propria richiesta categorica di ottenere una spiegazione morale sull’esistenza del male? Ed in quale modo Rabbi Iehudàh collega Moshè con il Diluvio oltre che con Giobbe?
Forse non è possibile fornire una risposta punto per punto a questi interrogativi, ma certamente è necessario considerare la violenza morale di questo processo interpretativo.
I Maestri inquadrano il contesto politico in cui Moshè viene al mondo.  » Tre personaggi hanno partecipato alla decisione del Faraone di far buttare i bambini ebrei nel Nilo: Bil’am, Giobbe e Itrò « (TB Sotàh 11a). Bil’am, che diede l’idea, morì dopo 120 anni combattendo contro gli ebrei; Giobbe, che tacque, dopo 120 anni trovò le sue disgrazie; Itrò, che fuggì perché non voleva farsi complice, dopo 40 anni diventò suocero di Moshè e dopo 80 anni raggiunse il popolo d’Israele sotto il Sinai, suggerendo a Moshè come praticare un sistema giudiziario giusto.
Il concetto è chiaro: Bil’am, Giobbe e Itrò sono tre figure della responsabilità-solidarietà umana: quando la persecuzione è già decisa si può collaborare con i persecutori, oppure tacere, oppure rifiutarsi e fuggire.
Giobbe è il mezzo giusto che tace. Qualunque sia stato il suo cuore, Giobbe ha lasciato capire al Faraone di essere dalla sua parte ed è quindi incluso nella decisione della persecuzione.
Ma il discorso non è finito; Moshè è il bambino che la figlia del Faraone tira fuori dalle acque, spezzando la persecuzione. Nella storia di Moshè la toràh sviluppa un rovesciamento rispetto alla storia del Diluvio: a) la persecuzione è decisa da un tribunale umano; b) la persecuzione viene fermata da un gesto di solidarietà semplice e non eroica; c) Moshè dovrebbe morire imprigionato nella sua piccola culla-arca, se fuori della culla-arca qualcuno non fermasse il Diluvio.
Moshè diventerà un liberatore soltanto perché qualcuno lo ha salvato. La storia di Moshè ribalta la storia di Noach. D-o non salva Moshè e Moshè non si salva da solo. La sopravvivenza di Moshè dimostra che persino un singolo individuo si può costituire come Altro contro la decisione di un popolo di annichilire un altro popolo.
E se Nòach avesse costruito, anche contro D-o, un’Arca per tutta l’umanità? E se Nòach non avesse costruito nessuna Arca e fosse fuggito? Perché Nòach ha taciuto prima e durante il Diluvio?
Torniamo al primo Midrash da cui siamo partiti: Moshè ha scritto la parashà di Bil’am ed il libro di Giobbe per raccontare la sua storia e per interpretare, con la sua esperienza, la storia del Diluvio:
1) Bil’am è il persecutore segreto che consiglia il Faraone come portare il popolo ebraico al suicidio di massa e che, una generazione dopo, cercherà di maledire gli ebrei , fingendo di rispettare il volere di D-o.
2) Itrò è l’uomo che contrasta la persecuzione senza fare nessun gesto eroico; in un certo senso Itrò obbliga D-o a darsi da fare per salvare gli ebrei. Itrò tornerà ad avere un rapporto collettivo con gli ebrei soltanto dopo che D-o li ha salvati tutti, rompendo le acque del Mar Rosso.
3) Giobbe è l’uomo del silenzio che deve imparare ad urlare, quando riesce a comprendere in prima persona l’assurdità del dolore umano. Per il Midràsh il grido di Giobbe dopo lo svelamento della sua personale preistoria non è più un grido individuale; Giobbe ha scoperto che il suo dolore è il dolore di ogni essere umano e che il suo silenzio alla corte di Faraone è, in sostanza, la vera causa del dolore umano.
4) Moshe deve scrivere il libro di Giobbe. Il bambino che è stato salvato per un piccolo gesto di solidarietà umana è il prototipo vivente di come gli uomini possano salvare gli uomini. L’uomo che è stato perseguitato dentro la culla-arca, e che è stato tirato fuori dalle acque, deve dire in qualche modo a D-o che l’Arca di Nòach è stata un campo di sterminio dentro e fuori il Diluvio.
Nel Talmud è detto che Rabbì Iehudàh haNassì è stato piagato nel corpo perché non aveva capito ed aveva banalizzato la sofferenza di una mucca portata al macello. Rabbì Iehudàh ha capito, sulla sua pelle, che il libro di Giobbe collega il dolore dell’umanità con il dolore dei singoli individui, attraverso la presa di coscienza e l’assunzione di una doppia responsabilità.
E’ una coincidenza che non può essere casuale. Rabbì Iehudàh mette per iscritto la Mishnàh, contro il principio di mantenere la toràh orale nella sua forma orale, dopo il secondo massacro compiuto dai romani contro gli ebrei. La motivazione con cui Rabbì Iehudàh mette per iscritto la Mishnàh è la stessa che lui attribuisce all’autore del libro di Giobbe: protestare contro il Diluvio, annullandolo. Mentre scrive la toràh orale, Rabbì Iehudàh HaNassì continua a far parlare la toràh scritta.

Settembre 1998 -

MUSICA, DIRE « GRAZIE » A DIO – CULTURA EBRAICA

http://www.hakeillah.com/4_08_06.htm

GIORNATA DELLA CULTURA EBRAICA – MUSICA

MUSICA, DIRE « GRAZIE » A DIO

DI A. S.

(non conosco la data, forse è quella nel link)

La musica costituisce una forma di espressione della cultura ebraica fin dalle origini. Nella Genesi (4,21) si attribuisce a Yuvàl la prima fabbricazione di strumenti musicali, in parallelo a Yavàl che istituì per primo la vita pastorale e a Tuval Qayin che cominciò ad affilare gli strumenti di lavoro: ciò significa che fin da antico la musica ebbe almeno altrettanta importanza delle varie attività produttive. Tuttavia, a differenza di altre culture che hanno lasciato una cospicua testimonianza scritta ed una riflessione teorica (trattati, ecc.) sulla propria attività musicale, nell’Ebraismo le testimonianze in proposito sono affidate in massima parte alla tradizione orale. Se si esclude l’epoca moderna, le uniche annotazioni musicali sono praticamente quelle di autori italiani del Rinascimento, ebrei (Salomone Rossi) e non ebrei (Benedetto Marcello) che si sono interessati di musica liturgica ebraica.
Nella Bibbia Ebraica il canto è una manifestazione spontanea di gratitudine all’Eterno in occasione di miracoli o interventi liberatori. Mosè e il suo popolo intonano la « Cantica del Mare » dopo l’attraversamento del Mar Rosso e così fa sua sorella Miriam accompagnata dalle donne con cembali (Esodo, 15). Parimenti Debora cantò quando ottenne la salvezza (Giudici, 5). David è chiamato « il dolce cantore d’Israele » (2 Samuele, 23,1) e a lui la tradizione attribuisce la stesura dei Salmi, una serie di 150 brani poetici ad uso liturgico. Non c’è dubbio che essi furono adoperati per accompagnare il culto sacrificale nel Santuario di Gerusalemme, cantati dai Leviti con l’accompagnamento di strumenti musicali (2 Cron., 5 e 29): la Bibbia stessa menziona 19 strumenti.
Si ritiene concordemente che nei Salmi sia attestata una terminologia musicale anche se il significato dei singoli termini può solo essere oggetto di congettura: non siamo in possesso di un’idea precisa di cosa fosse la musica ebraica nella fase più antica. È peraltro evidente che l’uso di strumenti musicali non era limitato all’ambito religioso: ne è attestato un uso pubblico, o più precisamente militare (Numeri 10, ma si pensi soprattutto alla presa di Gerico); è parimenti riconosciuto il valore terapeutico della musica (David suona l’arpa per il re Saul). La Mishnah fornisce descrizioni approfondite dell’uso del canto e della musica nell’ambito del secondo Tempio: l’affermazione secondo cui l’inizio del Sabato a Gerusalemme era annunciato da un suono di tromba al tramonto del venerdì ha trovato recenti conferme archeologiche.
Dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme (70 dell’E.V.) avvenne nell’Ebraismo una rivoluzione liturgica. Non potendosi celebrare i sacrifici in altro luogo, per disposizione biblica, il Santuario fu sostituito dalla Sinagoga, in cui il sacrificio lasciò il posto ad una preghiera comunitaria e allo studio dei Sacri Testi. Entro il primo millennio dell’Era Volgare si portò a compimento non solo la definizione del Canone Biblico e del testo ufficiale dei vari libri (testo masoretico), ma anche dell’interpunzione, adottando appositi segni grafici per la cantillazione, che sono tuttora alla base della tradizione cantoriale delle diverse comunità, le quali danno dei medesimi segni codici diversi di lettura musicata. Furono adottate melodie diversificate per il Pentateuco, per i libri profetici, per il libro di Ester (letto con tono giocoso in occasione di Purim) e per le Lamentazioni di Geremia, lette con tono luttuoso durante il digiuno del 9 di Av per commemorare la Distruzione del Tempio. Verso il VI secolo nacquero nuovi generi liturgici mutuati dalla cultura circostante, come il piyyut (dal greco poyètes), composizione poetica che fa uso di artifici letterari come il metro e l’acrostico. Questa produzione fu fervida almeno fino al XV secolo, allorché fu inventata la stampa che permise la produzione di formulari liturgici in serie.
Con il tempo si reimpostò una nuova tradizione musicale al servizio delle esigenze mutate. Il ricordo del Santuario distrutto impose un tabù sull’uso di strumenti musicali, con la sola parziale eccezione dei matrimoni. Per questo motivo, presumibilmente, la tradizione musicale antecedente fu accantonata e, in definitiva, dimenticata. Degli antichi strumenti sopravvisse soltanto lo Shofàr, in omaggio alla prescrizione biblica di suonarlo a Rosh ha Shanah. Tale suono evoca sentimenti di reverenza in questo periodo dell’anno particolarmente dedicato al pentimento e al perdono. La tradizione rabbinica, considerando l’ascolto della voce femminile una fonte di possibile distrazione per l’uomo, limitò parimenti la partecipazione attiva delle donne al culto sinagogale in genere.
Nelle Sinagoghe i diversi sentimenti religiosi furono per lo più affidati alla libera espressione vocale della Comunità. Con il tempo, tuttavia, emerse la figura del chazzan (ufficiante), l’ « inviato della Comunità » appositamente incaricato di fungere da « solista » nella conduzione della pubblica preghiera. Lo stile dei chazzanim rifletteva per lo più l’influenza dell’ambiente circostante, con punte assai raffinate: nella Mitteleuropa a partire dal Settecento si affermò la figura del « kantor » con impostazione operistica, non di rado accompagnato da un coro. Anche l’Ebraismo ebbe, a partire dall’Ottocento in Germania e poi in America, una sua Riforma che introdusse l’uso dell’organo e di cori femminili a deroga della tradizione. Il dibattito fu allora particolarmente acceso, in quanto gli Ortodossi addebitarono ai Riformati l’adozione di elementi tipici delle chiese cristiane.
Il movimento chassidico, nato in Polonia nel XVIII secolo, diede alla musicalità un’importanza grandissima come espressione della vita religiosa dell’Ebreo. In quanto mistici, i Chassidim ritenevano che il cuore umano avesse nei confronti del Divino sentimenti troppo profondi per essere espressi a parole e che solo la melodia avrebbe potuto farsene portavoce. La musica chassidica, fortemente legata nelle sue manifestazioni alla musica popolare dell’Europa dell’Est, ha dato origine a produzioni come la musica klezmer (espressione tratta dall’ebraico klì zèmer =strumento musicale), un genere considerato comunemente espressione della cultura ebraica.

A.S.

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO - STUDI |on 15 janvier, 2013 |Pas de commentaires »

Saint Macrina the elder

Saint Macrina the elder dans immagini sacre macrina-the-younger-the-teacherhttp://forallsaints.wordpress.com/2011/07/19/macrina-monastic-and-teacher-379/

 

Publié dans:immagini sacre |on 14 janvier, 2013 |Pas de commentaires »

SANTA MACRINA E GLI ANGELI – LA MEMORIA FACOLTATIVA DOVREBBE ESSERE OGGI 14 GENNAIO

http://www.dentrosalerno.it/web/2011/07/20/santa-macrina-e-gli-angeli/

SANTA MACRINA E GLI ANGELI – LA MEMORIA FACOLTATIVA DOVREBBE ESSERE OGGI 14 GENNAIO

don Marcello Stanzione

 Santa Macrina (328.ca-379/80) nacque a Cesarea di Cappodocia (oggi Turchia) in una famiglia di Santi. I suoi genitori, Basilio ed Emmelia, godevano fama di santità in tutta la regione per le loro opere caritative e sono commemorati dalla Chiesa il 30 maggio. Dei loro dieci figli, cinque si consacrarono a Dio, tra i quali ricordiamo il celebre S. Basilio Magno e S. Gregorio, vescovo di Nissa, che, colmo di ammirazione per la sorella maggiore Macrina, scrisse di getto in greco la sua vita. E’ una biografia, che può dirsi storica, perché l’autore attinge alla sua personale esperienza, narrando i fatti di cui è stato testimone. La vita di S. Macrina è segnata dall’inizio da un intervento angelico: un’annunciazione fatta alla madre in sogno mentre la figlia primogenita stava per venire alla luce. Ecco come narra l’episodio il fratello Gregorio : (Ad Emmelia) pareva di portare tra le braccia la creatura ancora chiusa tra le (sue) viscere e che un Essere, di bellezza e figura superiori alle umane, le apparisse e salutasse la neonata col nome di Tecla, di quella Tecla che gode grande fama presso le vergini. Le sembrava che la visione, ripetuto tre volte il nome, la liberasse dai dolori del parto, e quindi svanisse”. S. Gregorio allude, qui a S. Tecla d’Iconio, della quale non abbiamo alcuna sicura notizia storica, ma il cui culto ebbe una straordinaria diffusione in Oriente. Egli commenta: “ E’ mia opinione che l’Essere apparso (ad Emmelia) chiamasse la piccina Tecla non tanto per indurre la madre ad imporle questo nome – le fu dato infatti il nome della nonna – quanto per preannunciare quella che sarebbe stata la futura condotta di vita della neonata ed esprimere attraverso l’omonimia l’identità di propositi”. Macrina fu allevata e educata con amore dalla madre, che si preoccupò di darle un’istruzione seria e di iniziarla alla preghiera. La fanciulla amava specialmente il salmodiare che il giorno, nelle varie occupazioni, e di notte, “ovunque le era fedele, inseparabile compagno”. Fu istruita nella Sacra Scrittura, nelle opere dei padri della Chiesa ed anche nella dottrina dei filosofi greci. Colta ed insieme abile nell’azione, S. Macrina aveva particolari attitudini pure per i lavori domestici, soprattutto – ricorda il biografo – per quello “della lana”. Era avvenente e “nonostante la sua riservatezza, non riusciva a tenere nascosta la propria bellezza (tanto che sembrava) non fosse in tutta la patria terra- dichiara con enfasi il fratello- donna meravigliosa che potesse paragonarsi al fascino, alla leggiadria della sua persona. Ovviamente “un grande sciame di pretendenti l’attorniava”; perciò il padre le scelse un marito, ma prima delle nozze il giovane morì. Macrina allora fece il fermo proposito di mantenersi vergine per Cristo. Morto il padre, “persuase la madre a rinunziare all’abituale esistenza molto agiata e ai servizi delle domestiche e trasformò gradatamente la propria casa in asceterio, riunendo intorno a sé le proprie ancelle ed altre pie donne, vergini e vedove. Così tra il 355 e il 360 sorse ad Annesi un fiorente monastero, retto da regole di cui non abbiamo precise conoscenze, ma che dovevano ispirarsi a quelle raccolte dal fratello di Macrina, S. Basilio, l’ordinatore del monachesimo orientale, come S. Benedetto lo sarà, secolo dopo, del cenobitismo in Occidente. Preghiera e lavoro erano le colonne portanti di tutto l’edificio monastico. Il propositi di consacrazione verginale al Signore e la sua attuazione nella vita monastica fu ispirato a Macrina – possiamo chiederci- da quell’Essere di luce che alla sua nascita l’aveva preannunciata come un’emula di S. Tecla? Non lo sappiamo, ma è possibile. Gli Angeli, infatti, sono incaricati da Dio di venire in soccorso di “coloro che devono entrare in possesso della salvezza” (Eb 1,14). Ora la via più sicura e più breve per raggiungere non solo la salvezza, ma la santità, è, per quanti vi sono chiamati, quella dei consigli evangelici nella vita religiosa e monastica. La Comunità retta da Macrina, secondo la “descrizione” di S. Gregorio, aveva “un tenore di vita così bene disciplinato, così nobile l’ideale filosofico, cioè conforme ai precetti evangelici cui (le religiose) si informavano, così santo il comportamento sia il giorno sia di notte, che è impossibile trattarne a parole”. Con ammirazione crescente il Santo biografo paragona la vita di queste monache a quella delle “anime libere dai copri in seguito a morte…(tanto) la loro esistenza era distaccata dalle vanità terrene e regolata in modo da imitare la vita degli Angeli. Quindi S. Gregorio sottolinea i principali elementi di questo vivere non comune, tutto teso al conseguimento della perfezione evangelica, meta della vita monastica: “Era orgoglio (di Macrina e delle sue compagne) la temperanza, loro gloria la vita oscura, loro ricchezza la povertà… Stimavano vero lavoro, l’esercizio delle cose divine, la continua preghiera, l’incessante salmodiare, equamente ripartito nel corso del giorno tra le ore diurne e le notturne”. Era un’esistenza, conclude l’autore, sospesa a mezzo tra l’umana natura e l’angelica. (Quelle monache) erano da una parte superiori alla natura terrena, in quanto libere dagli affetti mondani, dall’altra, per il loro manifestarsi in forma umana, per l’essere racchiuse nei corpi e dotate di sensi, erano inferiori alla natura angelica, immateriale. Forse qualcuno non privo di audacia, potrebbe dire che neppure fossero ad esso, inferiori. Infatti vivevano nella carne, eppure non erano appesantite dal corpo: lievi, levandosi in alto, spaziavano per il firmamento in compagnia degli Angeli”. Queste affermazioni possono sembrare iperboliche, ma bene chiarificano ed evidenziano l’ideale della vita anacoretica e cenobitica, com’è sempre stato inteso dalla Chiesa fino dai primordi, anche se non sempre vissuto con l’intensità e la perfezione di vita delle monache di Annesi. E’ la condizione di vita che più d’ogni altra assimila gli Angeli, perché nel distacco assoluto dalle cose materiali, e nella continua tensione verso degli Incorporei ed è già un’anticipazione della vita eterna. La Chiesa nel passato, tramite Papi, Concili, Vescovi e Dottori l’ha sempre considerata così e proclamata quale “vita angelica”. Pio XII , parlando della vocazione alla vita monastica, l’ha definita : “Angelica Vocativo”. Il Concilio Vaticano II, invece, preferisce mettere l’accento, non sull’angelicità, ma sulla “misteriosa fecondità apostolica della vita contemplativa”, che “pur nell’urgente necessità di apostolato attivo, conserva sempre un posto assai eminente nel Corpo mistico di Cristo”. Quando il fratello Gregorio potè effettuare – com’egli stesso riferisce – il suo “vivo desiderio” di visitare Macrina, che “realizzava ad Annesi un tenore di vita angelico, celeste, (questa) era in preda a grave morbo”. Fu introdotto nella cella di lei che giaceva a terra su di una tavole ricoperta di un sacco ed ebbero insieme alcuni colloqui. “Nel corso della conversazione – ricorda il Santo – accennammo al grande Basilio” (il comune fratello, vescovo di Cesarea, morto recentemente) e Macrina per consolare il dolore manifestato da Gregorio, “tenne elevati discorsi sulla natura umana, sulla divina Provvidenza, che si cela nelle avversità di questo mondo, sulla vita futura. Argomenti tutti che trattava quasi persava dalla Spirito Santo. Intanto la sua malattia progrediva, “la febbre le consumava le forze… (ma essa) aveva libera la mente, completamente assorbita nelle cose divine, niente affatto menomata dal male tanto grave”. Il giorno seguente – aveva trascorso la notte in preghiera – “non dava segni di turbamento nell’imminenza del trapassato, di timore per il distacco dalla vita. Con mente sublime fino all’ultimo si intratteneva in dotte riflessioni su quelli che erano sempre stati i suoi convincimenti circa l’esistenza terrena. Appariva assolutamente estranea alle cose del mondo. Gregorio, che pure aveva una profonda conoscenza delle realtà spirituali ed era facondo scrittore tanto da essere poi annoverato tra i Padri della Chiesa, rimase stupito ed “entusiasta innanzi allo spettacolo che si offriva ai (suoi) occhi”. Gli sembrava che la sorella moribonda avesse “varcato i confini della natura umana”. E la paragonava ad un “Angelo che avesse assunto forma umana”, spiegando : “Niente di inverosimile che un Angelo, la cui natura non ha alcun rapporto, alcuna affinità con l’umana, fosse imperturbabile, non avendo la carne il potere di trascinarlo alle passioni che sono di essa peculiari… Macrina “manifestava chiaramente il desiderio di raggiungere l’Amato per essere con Lui, libera dai vincoli corporei”. Così trascorse il suo ultimo giorno di vita. “Il sole volgeva ormai al tramonto…l’inferma aveva cessato di conversare con i presenti (e) rivolgeva a Dio soltanto la parola”. Il Santo biografo riporta la preghiera che sgorgò allora spontanea dal cuore di Macrina morente : una preghiera ardente e fiduciosa, intessuta di reminescenze scritturistiche, testimonianza sicura del suo quotidiano meditare la parola di Dio. Nella seconda parte di questa supplica, Macrina, dopo avere ricordato che era stata “consacrata” a Dio alla nascita ed a Lui aveva dedicata tutta se stessa, amandolo “con tutte le forze fino dalla giovinezza”, giunta ora all’estremo momento, così prega: “O Dio eterno…ponimi accanto il fido Angelo che mi guidi verso il luogo del refrigerio, dov’è l’acqua della quiete, nel grembo dei Santi Padri”. L’invocazione degli Angeli, guide delle anime al giudizio divino, è consueta, cara alla Chiesa, che l’ha inserita nelle preghiere liturgiche per i moribondi. Accompagnata dal celeste Custode, Macrina si prepara a comparire davanti al suo Signore, ricordandogli : “…anch’io fui crocifissa con te, inchiodando le mie carni per timore di te…” La “vita angelica”, vissuta come la visse S. Macrina, è, infatti, una crocifissione, un martirio prolungato, una testimonianza perfetta di fede e d’amore per Dio e per i fratelli.

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UFFICIO DELLE LETTURE 14 GENNAIO 2013

UFFICIO DELLE LETTURE 14 GENNAIO 2013

PRIMA LETTURA         

Dal libro del Siracide 1, 1-18
Il mistero della sapienza divina

Ogni sapienza viene dal Signore
ed è sempre con lui.
La sabbia del mare, le gocce della pioggia
e i giorni del mondo chi potrà contarli?
L’altezza del cielo, l’estensione della terra,
la profondità dell’abisso chi potrà esplorarle?
Prima di ogni cosa fu creata la sapienza
e la saggia prudenza è da sempre.
A chi fu rivelata la radice della sapienza?
Chi conosce i suoi disegni?
Uno solo è sapiente, molto terribile,
seduto sopra il trono.
Il Signore ha creato la sapienza;
l’ha vista e l’ha misurata,
l’ha diffusa su tutte le sue opere,
su ogni mortale, secondo la sua generosità,
l’ha elargita a quanti lo amano.
Il timore del Signore è gloria e vanto,
gioia e corona di esultanza.
Il timore del Signore allieta il cuore
e dà contentezza, gioia e lunga vita.
Per chi teme il Signore andrà bene alla fine,
sarà benedetto nel giorno della sua morte.
Principio della sapienza è temere il Signore;
essa fu creata con i fedeli nel seno materno.
Tra gli uomini essa ha posto il nido,
fondamento perenne;
resterà fedelmente con i loro discendenti.
Pienezza della sapienza è temere il Signore;
essa inebria di frutti i propri devoti.
Tutta la loro casa riempirà di cose desiderabili,
i magazzini dei suoi frutti.
Corona della sapienza è il timore del Signore;
fa fiorire la pace e la salute.
Dio ha visto e misurato la sapienza;
ha fatto piovere la scienza e il lume dell’intelligenza;
ha esaltato la gloria di quanti la possiedono.
Radice della sapienza è temere il Signore;
i suoi rami sono lunga vita.

RESPONSORIO         Sir 1, 5. 7. 8. 1

R. A chi è rivelata la radice della sapienza? Chi conosce i suoi disegni? Il Signore l’ha diffusa su ogni vivente, * e la dona a quanti lo amano.
V. Ogni sapienza viene dal Signore: è sempre con lui
R. e la dona a quanti lo amano.

SECONDA LETTURA         

Dalla «Lettera ai Corinzi» di san Clemente I, papa
(Capp. 59, 2 – 60, 4; 61, 3; Funk 1, 135-141)
Il Verbo di Dio che abita i cieli altissimi è fonte di sapienza

    Gesù Cristo, Figlio diletto di Dio, ci ha chiamati dalle tenebre alla luce, dall’ignoranza alla conoscenza del suo nome glorioso; perché possiamo operare nel suo nome, che è all’origine di ogni cosa creata.
    Per mezzo suo il creatore di tutte le cose conservi intatto il numero dei suoi eletti, che si trovano ovunque per il mondo. Ascolti la preghiera e la supplica che ora noi di cuore gli innalziamo:
    Tu hai aperto gli occhi del nostro cuore perché conoscessimo te solo, Altissimo, che abiti nei cieli altissimi, Santo tra i santi. Tu abbatti l’arroganza dei presuntuosi, disperdi i disegni dei popoli, esalti gli umili e abbatti i superbi, doni la ricchezza e la povertà, uccidi e fai vivere, benefattore unico degli spiriti e Dio di ogni carne (cfr. Is 57, 15; 13, 1; Sal 32, 10, ecc.).
    Tu scruti gli abissi, conosci le azioni degli uomini, aiuti quanti sono in pericolo, sei la salvezza di chi è senza speranza, il creatore e il vigile pastore di ogni spirito. Tu dai incremento alle nazioni della terra e tra tutte scegli coloro che ti amano per mezzo del tuo Figlio diletto Gesù Cristo, per opera del quale ci hai istruiti, santificati, onorati.
    Ti preghiamo, o Signore, sii nostro aiuto e sostegno. Libera quelli tra noi che si trovano nella tribolazione, abbi pietà degli umili, rialza i caduti, vieni incontro ai bisognosi, guarisci i malati, riconduci i traviati al tuo popolo. Sazia chi ha fame, libera i nostri prigionieri, solleva i deboli, da’ coraggio a quelli che sono abbattuti.
    Tutti i popoli conoscano che tu sei il Dio unico, che Gesù Cristo è tuo Figlio, e noi «tuo popolo e gregge del tuo pascolo» (Sal 78, 13).
    Tu con la tua azione ci hai manifestato il perenne ordinamento del mondo. Tu, o Signore, hai creato la terra e resti fedele per tutte le generazioni. Sei giusto nei giudizi, ammirabile nella fortezza, incomparabile nello splendore, sapiente nella creazione e provvido nella sua conservazione, buono in tutto ciò che vediamo e fedele verso coloro che confidano in te, o Dio benigno e misericordioso. Perdona a noi iniquità e ingiustizie, mancanze e negligenze.
    Non tener conto di ogni peccato dei tuoi servi e delle tue serve, ma purificaci nella purezza della tua verità e guida i nostri passi, perché camminiamo nella pietà, nella giustizia e nella semplicità del cuore, e facciamo ciò che è buono e accetto davanti a te e a quelli che ci guidano.
    O Signore e Dio nostro fa’ brillare il tuo volto su di noi perché possiamo godere dei tuoi beni nella pace, siamo protetti dalla tua mano potente, liberati da ogni peccato con la forza del tuo braccio eccelso, e salvati da coloro che ci odiano ingiustamente.
    Dona la concordia e la pace a noi e a tutti gli abitanti della terra, come le hai date ai nostri padri, quando ti invocavano piamente nella fede e nella verità. Tu solo, o Signore, puoi concederci questi benefici e doni più grandi ancora.
    Noi ti lodiamo e ti benediciamo per Gesù Cristo, sommo sacerdote e avvocato delle nostre anime. Per mezzo di lui salgano a te l’onore e la gloria ora, per tutte le generazioni e nei secoli dei secoli. Amen.

BATTESIMO DEL SIGNORE – sito vietnamita..non ci capisco niente

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IL FRUTTO DELLO SPIRITO SANTO – molto da Paolo

http://www.unionecatechisti.it/Catechesi/Corsi/C02_03/R030601/R030601.htm

IL FRUTTO DELLO SPIRITO SANTO

1-6-2003

Don Mauro Agreste

INDICE

1) Convincere qualcuno a lasciarsi guidare da Dio
2) Comunicare il nostro incontro personale con Gesù
3) La dottrina ed il cuore: ci vogliono entrambi
4) Galati 5: i frutti della carne, il frutto dello Spirito
5) Si sta manifestando in me il frutto dello Spirito? Amore, pace …
6) La pazienza
7) Benevolenza ( Rm 12,14 )
8) Bontà
9) Mitezza
10) Carità e umiltà
11) La tua lingua usa la parola di Dio? ( Gc 3 )
12) Deserto: tempo con Dio, da soli.

1) CONVINCERE QUALCUNO A LASCIARSI GUIDARE DA DIO
Tu non sei colui che riceve, ma colui che porta, devi fare in modo che chi riceve sia invogliato a ricevere ciò che tu dai.
Però tu non puoi mangiare il cibo al posto di un altro, è vero?
Vi immaginate la scena di un cameriere che viene a portarvi la roba nel piatto e poi ve la mangia? No!
Però il cameriere ti convince: assaggia questa roba è veramente speciale, perché ti convince?
Perché prima l’ha assaggiata lui, perché ha fatto l’esperienza.
Come fai tu a convincere una persona che è bello lasciarsi guidare da Dio?
Fatevi venire in mente nella vostra giornata una persona che conoscete e che secondo voi veramente dovrebbe lasciarsi guidare da Dio, ma non lo conosce.
Come fate a convincerlo? Dipende dalla nostra convinzione, dipende dalla nostra esperienza.
Se noi abbiamo fatto un’esperienza della struttura religiosa non convinceremo nessuno, se noi abbiamo incontrato Cristo sì, perché non siamo noi a convincerla, è la nostra gioia: « Sono venuto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena » ( Gv 15,11 ).
Questo vuol dire che tutto quello che fa parte della tua vita, puoi essere tribolato in molti modi, ma se tu hai incontrato Cristo, tutte le tua tribolazioni non sono capaci di toglierti la gioia.
Bene adesso restate immobili come siete e a due a due guardatevi, ma senza cambiare espressione.
Eh!, avete cambiato espressione!
Lo sapete che certe volte evangelizza di più uno sguardo che non cento discorsi, come pure scandalizza di più uno sguardo che non cento discorsi.

2) COMUNICARE IL NOSTRO INCONTRO PERSONALE CON GESÙ
Gesù lo ha detto, l’occhio è la lanterna dell’anima, se il tuo occhio sarà limpido tutta la tua anima sarà nella luce.
Questo ci fa capire che tutto di te è comunicazione di un incontro di una intimità che c’è, oppure che non c’è.
Ve l’ho già detto: certe volte vedo delle persone che vengono a fare la comunione che io dico: anima mia, se ti fa così paura io non te la do; non ti sto facendo un dispetto a darti la comunione.
Perché si vede quando una persona è innamorata di Gesù, si vede persino come viene a fare la comunione, si vede, voi non ci credereste, ma vorrei che certe volte poteste fare quest’esperienza.
Arriva la persona disinteressata, oppure scrupolosa, oppure la persona timorosa, oppure la persona innamorata di Gesù.
Sì, tutti ti dicono amen, ma come sono diversi questi amen!
Allora tu potresti fare un discorso dottissimo, con tutte le tue capacità, con tutte le tue fantasie, con tutte le tue efficienze, cartelloni e pongo, tutto quello che vuoi e alla fine dell’anno i tuoi ragazzi non hanno ancora incontrato Gesù!
Oppure tu puoi parlare di Gesù, facendo una passeggiata con una persona.
E nessuno immagina che tu stia facendo catechismo in quel momento; e quella persona ti dice, a distanza di anni: quello che tu mi hai detto, mi è entrato nel cuore.
Allora capite che cosa è importante?
Che nel comunicare la verità devi essere come il vino genuino: un’autentica spremuta di uva.
E quindi quello che voi comunicate deve essere un’autentica spremuta d’amore, deve venire direttamente dal cuore.
Nell’esperienza di preghiera c’è un’esperienza molto famosa, che per fortuna in questi ultimi anni si sta rivalutando fortemente, che è l’esperienza dell’adorazione.
La stessa parola ad os che viene dal latino significa portare alla bocca ciò che c’è nel cuore; questo vuol dire che quando tu fai catechesi in teoria si potrebbe quasi dire che tu stai facendo adorazione, se porti alla bocca l’abbondanza del cuore.
La domanda è che cosa c’è nel mio cuore?

3) LA DOTTRINA ED IL CUORE: CI VOGLIONO ENTRAMBI
Al termine di questo anno o di questi anni la cosa fondamentale sarà di scoprire se dentro il nostro cuore c’è veramente un legame affettivo con il Signore o se c’è solo un legame dottrinale, che per carità è una cosa buonissima, meno male che c’è.
Qualche tempo fa si parlava nella sede di S. Barnaba, sulla questione della catechesi a memoria o non a memoria come si faceva un tempo, vi ricordate?
Qual era il valore di tutto questo? È come chi ha la dottrina, ma non ha il cuore, almeno hai la dottrina, poi verrà anche il cuore.
Però non può esserci solo l’una o solo l’altra, anche il tuo cuore non è sufficiente a coprire la dottrina e io posso essere innamoratissimo del Signore, ma non sapere niente di Lui, come i discepoli che erano stati battezzati però non sapevano che ci fosse uno Spirito Santo.
Ricevuto da Paolo e Barnaba il dono dello Spirito Santo tutta la loro vita è cambiata completamente.
Eppure erano affascinati dalla vicenda storica di Gesù e già si davano molto da fare per l’evangelizzazione.
Voi capite che le due cose non sono indipendenti l’una dall’altra, ma sono fortemente legate tra di loro.

4) GALATI 5: I FRUTTI DELLA CARNE, IL FRUTTO DELLO SPIRITO
L’ultima cosa che vorrei dirvi oggi, ci viene dalla lettera ai Galati 5.
Questo è un criterio di discernimento.
Prima si parla dal versetto 18 in poi dei frutti della carne e se ne parla in forma plurale; e dopo che si è fatto tutto l’elenco dei frutti della carne si parla del frutto dello spirito e c’è un lungo elenco.
Allora qualcuno potrebbe domandarsi come mai prima parla al plurale e dopo parla al singolare.
La ragione è un insegnamento che ci può giungere adesso.
I frutti della carne provocano dentro di noi divisione, ci dividono da Dio e ci dividono anche in noi stessi.
Operano dei tagli, come possiamo dire è una specie di schizofrenia; quindi è giusto che anche ortograficamente sia indicato con un plurale.
Il frutto dello spirito invece è un frutto che ha molti sapori, ma che conduce all’unità: unità con te stesso, unità con i Fratelli, unità con il mondo, unità con Dio.
Ecco perché il frutto dello spirito è uno solo, ti conduce all’unità, ma ha molte sfaccettature.
Come per esempio un brillante è sempre un solo diamante, ma ha molte sfaccettature e se non ha quelle sfaccettature non è un brillante, continua ad essere un diamante, ma non è un brillante!
Così il frutto dello spirito ti permette di essere veramente come devi essere: amore, gioia pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé.
Questi sono i criteri fondamentali che ci servono per capire se lo spirito di Dio dentro di noi comincia ad agire oppure no.

5) SI STA MANIFESTANDO IN ME IL FRUTTO DELLO SPIRITO? AMORE, PACE …
Allora prendetevi questa citazione, il frutto dello spirito Gal 5,22 perché nel deserto voi dovrete leggervi questa parte, dovrete soffermarvi e domandarvi non per dare una risposta a me, ma per dare una risposta a voi stessi.
Nella mia vita si sta manifestando il frutto dello Spirito?
Do delle semplici definizioni.
Amore: volere e fare la felicità dell’altro.
Pace: realizzazione delle promesse di Dio.
La pace non è la quiete, la pace è attività.
Dio ha promesso certe cose, se io sono una persona di pace le realizzo.
Ditemi qualche promessa di Dio.
La verità vi farà liberi, dunque se io sono un uomo di pace sono un uomo di verità, è facile?
Questo è un esempio, quindi pensiamoci un po’ seriamente.
Cerchiamo le promesse di Dio, ne troveremo qualcuna nella Bibbia; nella Bibbia ci sono circa ottomila promesse di Dio, vi bastano?
Spero che la leggiamo la Bibbia, vero? Non possiamo portare Gesù agli altri se non lo conosciamo, vero? Quindi pensiamoci un po’ seriamente.
Lui è la verità che ti porta alla verità e se necessario va dal tuo direttore spirituale e fatti aiutare.
Su questo punto continuo a battere, non è possibile fare un cammino cristiano autentico senza direttore spirituale, siamo d’accordo? Il fai da te è molto pericoloso.

6) LA PAZIENZA
Pazienza non vuol dire rassegnazione.
Pazienza da patior, un verbo latino deponente che ha la forma passiva, ma il significato attivo, e che vuol dire: io condivido, sento la medesima cosa di …
La pazienza è la capacità di vivere la medesima cosa.
Dio è paziente perché si è fatto carne ed è venuto a condividere la nostra situazione e condizione umana.
Quindi la pazienza è ciò che troviamo nella lettera ai Romani di Paolo: gioite con chi è nella gioia, piangete con chi è nel pianto; quindi pazienza vuol dire proprio coloro che si fanno carico gli uni degli altri, si mettono nei panni di, non per giustificare ma per elevare.
Tu ti trovi con una persona che vuole abortire, ti metti nei panni di quella persona e dici è vero ha tante difficoltà, mi metto nei suoi panni, la capisco la giustifico, no!
Mi metto nei suoi panni, la capisco e l’aiuto.
Se non posso aiutarla in un altro modo, apro il borsellino e l’aiuto in quel modo, perché se la situazione è veramente una mancanza economica, allora tu che lo sai non puoi dire: io metto il mio gruzzolo in banca, perché tanto sono a posto.
Che male faccio? Lavoro, è giusto ecc. ecc.
Tu sai che sta per compiere un sacrilegio, oltre che un assassinio e stai tranquillo?
Sto facendo degli esempi paradossali.
A volte ci sono altre motivazioni che non sono quelle economiche e proprio per questo motivo tu ancora di più sei chiamato a vivere la pazienza, la pazienza nella condivisione per elevare non per giustificare!

7) BENEVOLENZA ( RM 12,14 )
Benevolenza, Rm 12,14 e seguenti: per quanto vi riguarda cercate di andare d’accordo con tutti, ma se non vi fosse possibile, rispondete al male che ricevete con il bene.
Benevolenza significa volere il bene, volere il bene di tutti, anche del nemico; volere il bene è faticoso, impegnativo ed esigente, perché volere il bene significa anche essere disposti a dire tanti no.
Ti rendi impopolare a dire no, però se tu vuoi il bene del prossimo devi anche essere capace di dire no.
Dire sì quando è si e no quando è no.
Quando negli anni ’60 alcuni pedagogisti hanno pensato che un’educazione in cui fossero presenti le privazioni, fossero presenti i no, fosse un’educazione di tipo deleterio, molte persone vi hanno creduto.
Il risultato è che in quegli anni andava di voga un certo tipo di educazione molto permessivista, non esisteva il no!
Quali sono i frutti che abbiamo raccolto? Persone traumatizzate; poiché la vita continua ad essere difficile per tutti, anche per quelli che si sono abituati fin da sempre ad avere dei sì.
Ad un certo momento la vita ti pone di fronte a delle situazioni in cui è no, anche se tu vorresti che fosse si e questo crea dei traumi, crea delle depressioni, crea delle persone incapaci di affrontare la realtà, crea persone immature.
E, a seconda dello stato che stanno vivendo, cadono nella depressione o cadono nella esasperazione.

8) BONTÀ
La bontà è quella caratteristica che ti fa amare il buono e vedere il buono e far riferimento al buono che trovi intorno a te, per farlo crescere.
Quindi come educatori, voi lo sapete, fa parte del metodo preventivo ideato da don Bosco, quello di trovare ciò che c’è di positivo in quella persona e fare riferimento a quello per farlo crescere; insieme alla capacità di correggere per eliminare ciò che non è positivo.
Quello che vi dico semplicemente per la vostra praticità nell’attività catechetica, però vedere il buono.
Incontri una persona, nella tua situazione, nella tua famiglia ecc. ecc.. occorre fare riferimento a ciò che è buono, cercare ciò che unisce, evitare ciò che divide.
Ecco non significa mistificare la verità, non ho detto compromesso.
Cercare ciò che è buono non vuol dire cercare il compromesso, vuol dire essere sempre servi della verità, ma dando particolare rilevanza a ciò che è buono.

9) MITEZZA
Mitezza: una persona mite non è una persona mansueta, non è una persona senza spina dorsale; una persona mite è una persona che sa usare bene delle proprie energie, che sono dono di Dio.
Quindi la decisione, la perseveranza, la temperanza, il dominio di sé: è una persona che è profondamente libera e che difende la propria libertà, che ha ricevuto in dono da Gesù Cristo e proprio a causa della Redenzione, Passione, morte e risurrezione.
La persona che è capace di dominare se stessa, è una persona che desidera essere libera, cioè una persona che non vuole farsi dominare da niente e da nessuno, solo da Gesù Cristo, perché essere dominati da Gesù Cristo significa vivere veramente nella pienezza dell’essere umano, non solo in qualche sua parte.
Su tutto poi deve troneggiare la carità.

10) CARITÀ E UMILTÀ
La carità è fatta proprio di un’intimità con il Signore, Dio mi ama, io lo amo per cui c’è questo frutto dello Spirito che si esercita in un modo imprescindibile che è quello dell’umiltà.
Senza la virtù dell’umiltà tutto quello che abbiamo detto fino adesso è assolutamente inutile.
L’umiltà non è il senso di inferiorità, ma la docilità assoluta allo Spirito di Dio.
La persona umile è la persona che è completamente disponibile, che ha il cuore aperto; la persona umile è la persona che riesce a trovare la via di Dio, anche quando le strade sono molto intricate.
Il discorso dell’umiltà esige più tempo e più discernimento, però tenete presente: sono umile?
Sono docile? Volete un piccolo sistema per scoprire se siamo abbastanza umili o no?
È molto banale, in certi casi è utile, non si può generalizzare però, c’è quello slogan che l’ho già detto tante volte: un cuore pieno di io non ha posto per Dio.
Esaminiamo il nostra modo di parlare.
Noi non siamo anglosassoni, noi non siamo inglesi, non siamo delle persone che devono continuamente usare il pronome personale io all’inizio di ogni frase, se lo usiamo alt!
C’è qualche ferita che non va, c’è qualche cosa che deve guarire e allora pensiamoci.

11) LA TUA LINGUA USA LA PAROLA DI DIO? ( GC 3 )
Il nostro modo di essere si esprime anche con la parola e vi lascio quest’ultima citazione.
La lettera di Gc 3 ci dice questo: chi domina la lingua domina tutto il resto del corpo.
Leggetevi questo capitolo e vedrete che è un gioiello, qualcosa di meraviglioso, è pieno di insegnamenti; e vi ricordo che i neurologi hanno confermato questa scrittura di S. Giacomo, perché hanno scoperto che quando noi parliamo usiamo del cervello la quantità maggiore che per fare qualsiasi altra cosa.
Una persona che corre, che fa delle attività particolari usa meno cervello di una persona che parla, perché per far muovere la lingua entrano in funzione moltissimi centri nervosi all’interno del cervello, quindi equivale a dire che la lingua ha un posto preponderante nella persona umana.
Perché? Perché la persona umana è una persona fatta di relazione e la lingua è il modo con cui noi entriamo in relazione con gli altri, la capacità di comunicare.
Allora, se la tua lingua usa le parole di Dio e il pensiero di Dio, se dalla tua bocca esce ciò che è dentro il tuo cuore e ciò che esce è amore per e in Dio allora vuol dire che stai camminando docilmente, seguendo il Signore con la potenza dello Spirito.

12) DESERTO: TEMPO CON DIO, DA SOLI
Ma in questo tempo di deserto abbiamo la possibilità di riflettere di pensare su tanti temi che oggi ho riassunti, ma sono cose che abbiamo toccato durante il corso dell’anno.
Il consiglio pratico è questo: siate un pochino gelosi di questo momento.
Appena abbiamo terminato sapete che avete mezz’ora tutta per voi, però questo per voi dev’essere assoluto, proprio silenzio monastico, siamo d’accordo?
Come se foste diventati tutti dei frati trappisti.
State distanti l’uno dall’altro, perché non vi venga la tentazione di parlare tra di voi.
Vi portate la vostra Bibbia, vi portate il vostro taccuino, vi scrivete le vostre impressioni, vi fate una meditazione scritta, vi sedete sulla collina, guardate il panorama, guardate i fiori, fate quello che volete, ma create dentro di voi questo spazio che dovete difendere gelosamente solo per voi stessi, mi correggo, non per voi stessi ma con Dio da soli, voi due, tu e Lui.
Fate la passeggiata, avete mezz’ora di tempo, riflettete sulle cose che ho richiamato, già trattate durante l’anno e poi dopo ci troveremo insieme per la condivisione, per dire se il Signore vi ha comunicato qualche cosa, se vi è ritornato alla mente qualcosa di importante trattato nel corso dell’anno, per sottolineare qualcosa di edificante e anche per fare qualche domanda, ma non solo per fare delle domande, perché oggi non è una giornata di lezione, va bene?
Vi auguro che questo tempo di silenzio sia vissuto davvero bene.
Di solito quando le persone lo fanno veramente, ritornano molto edificate dentro.
Vi consiglio di iniziare con una invocazione personale alla Madonna, cominciate facendovi un bel segno di Croce.
Se volete, potete passare nella cappellina, anche se andate tutti in gruppo, silenzio assoluto, fate cinque secondi di preghiera e partite.

Sia lodato Gesù Cristo.

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