Archive pour janvier, 2013

GESÙ E LE DIECI PAROLE – FRÈRE JOHN DI TAIZÉ

http://www.atma-o-jibon.org/italiano8/br_john_comandamenti10.htm

FRÈRE JOHN DI TAIZÉ

VERSO UNA TERRA DI LIBERTÀ

UNA RILETTURA DEI DIECI COMANDAMENTI

GESÙ E LE DIECI PAROLE

In queste pagine abbiamo letto il testo che chiamiamo i dieci comandamenti o le Dieci Parole, come definizione di uno spazio di libertà che proviene dall’ Alleanza con Dio. Il Dio della Bibbia è innanzitutto colui che chiama i suoi ad abbandonare una situazione di schiavitù e che apre davanti a loro un’ esistenza nuova, un’ esistenza che rende possibile una pienezza e una felicità per tutti. La parola di Dio non descrive in maniera esaustiva questa nuova società, ma ne indica semplicemente le linee principali, le cornici che dovranno poi essere riempite dalla creatività e dalla responsabilità di tutti coloro che ascoltano il messaggio. C’è dunque una certa logica nel fatto che, alla fine delle Dieci Parole, il centro d’interesse si sposta dagli atti specifici, che distruggono le relazioni con gli altri, per occuparsi invece delle attitudini interiori, dei meccanismi attraverso i quali gli esseri umani abbandonano la realtà per costruire un mondo parallelo che non è in armonia con le intenzioni del Creatore. L’insegnamento di Gesù, raccolto nei libri che formano ciòche per i cristiani è il Nuovo Testamento, prosegue questa riflessione indicando una via d’uscita dal vicolo cieco dove si smarriscono gli esseri umani che si creano un mondo irreale.
All’inizio del Vangelo secondo san Matteo, Gesù riassume l’essenziale del suo insegnamento, in ebraico la sua «Torah», in un lungo discorso generalmente chiamato il Discorso della Montagna (Mt 57). L’evangelista, molto probabilmente, ha utilizzato del materiale proveniente da tempi e luoghi differenti per riuscire a creare un insieme coerente, che funzionasse come una specie di programma o di manifesto. In questo discorso, Gesù si riferisce parecchie volte alle Dieci Parole. A prima vista, il suo modo di affrontare ciò che la tradizione gli ha trasmesso può sorprenderci, perfino scandalizzarci, tanto esso sembra rimettere in questione la nostra idea del figlio del falegname di Nazaret, uomo compassionevole, pieno di comprensione per le fragilità umane. Invece di voler relativizzare le Parole o minimizzare la loro importanza o la loro applicabilità, Gesù le radicalizza al di là del possibile:
Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna [...]. Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore (Mt 5,21-22.27 -28).
La nostra prima reazione a queste parole potrebbe ben essere simile a quella dei discepoli in un’ altra circostanza, «Chi si potrà dunque salvare?» (cfr. Mt 19,25). È possibile per un essere umano realizzare la Legge divina nella sua vita? Alcuni hanno creduto che era proprio quello il senso di tali parole. Secondo questa interpretazione, Gesù radicalizza le richieste della Legge per mostrare che nessuno è in grado di metterle in pratica nella giusta maniera. Di fronte ai richiami di Dio, nessuno è all’ altezza. I comandamenti servono solamente a convincerci del nostro radicamento nel peccato e del nostro bisogno di contare sul dono gratuito dell’ amore che perdona, quello che giunge a noi attraverso Cristo Gesù.
È indubbiamente vero che, agli occhi di Gesù, nessun essere umano può vivere secondo la volontà divina senza l’aiuto di Dio e solo con i propri sforzi, tuttavia non sembra del tutto esatto dire che Gesù interpreta le Dieci Parole in modo da renderne impossibile il compimento. li suo insegnamento a questo riguardo non è unicamente negativo; egli non cerca soltanto di farci scoprire i nostri limiti, vuole anche indicarci un cammino da seguire. In primo luogo, le parole di Gesù esprimono qualcosa che la nostra ricerca aveva già rivelato, cioè che non basta seguire «alla lettera» la Legge per essere fedeli alla sua intenzione profonda. li fatto che stamani non ho ucciso nessuno dei miei vicini, né rubato i loro beni, né ho commesso adulterio con le loro spose, non significa per questo che ho fatto tutto ciò che Dio pensava quando stabilì un’alleanza con gli esseri umani. Le Dieci Parole disegnano i confini di quello spazio di libertà definito dalla nostra relazione con Dio. Per vivere secondo 1′Alleanza, dobbiamo utilizzare la libertà che ci è concessa per costruire una società di giustizia e di solidarietà radicata in Dio attraverso le scelte concrete che facciamo. In questo senso, il testo delle Dieci Parole non rappresenta una fine bensì un inizio. Indica un orientamento e segnala dei limiti, inaugura un processo che, per sua stessa natura, si sviluppa fino a inglobare ogni dimensione della nostra vita. Secondo Gesù, anche il gesto più piccolo e apparentemente più insignificante che facciamo, può essere un modo per rendere concreta l’Alleanza con Dio.
In secondo luogo, il commento delle Dieci Parole proposto da Gesù, prolunga la parte finale di questo testo ponendo l’accento non sul comportamento esteriore, ma sulle sue radici all’interno dell’essere umano. Un aspetto fondamentale del suo insegnamento è che la vera religione non può ridursi al semplice conformarsi esteriormente a delle leggi scritte. L’essenziale sta nelle profondità dell’essere umano, nella sua attitudine di base, tradotta poi nelle scelte che, a loro volta, diventano azioni visibili. La Bibbia chiama questo nucleo della persona, sorgente dei suoi orientamenti fondamentali, il cuore. Nel suo insegnamento, Gesù mette spesso l’accento su questa struttura caratteristica dell’agire umano:
Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo [...]. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, [...]. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo» (Mc 7,14-15.21-23).
Ciò non significa, come potrebbero immaginare numerosi nostri contemporanei, che è soltanto la motivazione interiore ciò che conta, indipendentemente dalla maniera concreta in cui viviamo. Gesù non separa affatto l’interiorità dell’uomo dalla sua esteriorità; per lui, il nostro orientamento fondamentale è decisivo per determinare il modo in cui noi viviamo con gli altri nel mondo. Una semplice immagine gli permette di esprimere questa verità:
Non c’è albero buono che faccia frutti cattivi, né albero cattivo che faccia frutti buoni. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dalle spine, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male, perché la bocca parla dalla pienezza del cuore (Lc 6,43-45).
In un modo o in un altro, presto o tardi, l’albero porterà frutti per mostrare di che tipo d’albero si tratta. «Non c’è nulla di nascosto che non debba essere manifestato» (Lc 8,17). Se le radici nascoste sotto terra sono importanti, è perché hanno conseguenze visibili in superficie. La finalità rimane quella di costruire un mondo dove gli esseri umani vivano in armonia, fra di loro e con !’insieme della creazione, ma Gesù coglie con straordinaria chiarezza che questo progetto trova le proprie origini nei recessi segreti del cuore umano.
E arriviamo infine alla difficoltà fondamentale delle Dieci Parole, se non addirittura di tutti i comandamenti divini. Questa difficoltà è presente fin dall’inizio dell’autorivelazione di Dio, ma l’insegnamento di Gesù permette di vederla con piena chiarezza. La possiamo esprimere con una semplice frase: definire la società ideale non vuoi dire di per sé realizzarla. Non basta dire alla gente: «Se volete essere liberi e felici dovete fare questo o quello» perché ciò si avveri. Questa constatazione trova ampia conferma nella storia del genere umano, e ancora più specificamente nella storia d’Israele raccontata nelle Scritture ebraiche. Dio ha potuto rivelare le sue intenzioni a coloro che ha liberato dalla schiavitù e condotto verso una terra di felicità, ha potuto anche indicare loro la strada per arrivarci: tuttavia, fin dall’inizio, questi hanno trascurato l’insegnamento divino, preferendo seguire i loro disegni limitati che, alla fine, non portano da nessuna parte. Piuttosto che abbandonarli, Dio ha continuato a inviar loro uomini e donne che li richiamavano a tornare sulla via della salvezza, che ricordavano l’Alleanza e i suoi obblighi. Sono quelli che noi chiamiamo profeti, il cui compito essenziale non era quello di predire il futuro bensì ricordare l’Alleanza con Dio e far capire alla nazione le promesse in essa nascoste, come anche le conseguenze rispetto al suo abbandono. Tuttavia, la maggior parte delle volte, il loro messaggio non è stato per nulla ascoltato. I discepoli di Gesù hanno capito molto bene questa dinamica e, partendo da questo modo di leggere la storia, hanno tentato di suscitare nei loro contemporanei una comprensione più profonda della fede in Dio. Negli Atti degli Apostoli, un credente di nome Stefano, prima di essere giustiziato per aver reso testimonianza a Cristo, pronuncia un lungo discorso al Sinedrio nel quale disegna le tappe della storia della salvezza. Egli conclude con queste parole:
O gente testarda e pagana nel cuore e nelle orecchie, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo; come i vostri padri, così anche voi. Quale dei profeti non hanno perseguitato i vostri padri? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete divenuti traditori e uccisori; voi che avete ricevuto la legge per mano degli angeli e non l’avete osservata (At 7,51-53).
Le sue parole sono qui come una ripresa delle parole di Gesù stesso quando si rivolgeva verso la capitale, simbolo della classe dirigente della società: «Gerusalemme, uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati» (Mt 23,37). Coloro che vengono nel nome di Dio, non incontrano, di solito, un’ accoglienza calorosa, anche se poi, in un secondo tempo, vengono onorati e si costruiscono per loro mausolei straordinari (Mt 23,29). In breve, non è assolutamente sufficiente dire alle persone come fare per seguire Dio perché ciò diventi una realtà vissuta.
Fra tutti i profeti, è Geremia che con i suoi scritti ci mostra in maniera più chiara la resistenza al messaggio profetico così come le conseguenze di tale ostilità per il profeta stesso. Di temperamento dolce, egli riceve la chiamata divina a proclamare parole forti che sono come un fuoco che brucia il suo cuore e che egli si sente costretto a rivelare (Ger 20,9). Il suo invito alla nazione a convertirsi lo porta solo ad esserne escluso (Ger 15,17) e perseguitato (Ger 11,19.21). Finisce per rendersi conto che le sue parole, da sole, non convinceranno mai i suoi contemporanei a tornare verso Dio ed esprime questa sua intuizione attraverso un’immagine spaventosa:

Il peccato di Giuda è scritto
con uno stilo di ferro,
con una punta di diamante
è inciso sulla tavola del loro cuore
(Ger 17,1).

Se il peccato, l’infedeltà verso Dio, è scritto sui cuori delle persone, è inutile immaginare che le parole incise su tavole di pietra o proclamate sulle pubbliche piazze possano in qualche modo modificare il loro comportamento. In fin dei conti, è sempre più facile seguire i propri impulsi interiori piuttosto che accogliere un invito che proviene da una realtà esterna. Questa constatazione suscita in lui una sorta di disperazione:

Più fallace di ogni altra cosa è il cuore
e difficilmente guaribile;
chi lo può conoscere?
(Ger 17,9)

A causa di questo aspetto della condizione umana, la Parola di Dio in generale – e le Dieci Parole in particolare – diventano «legge» nel senso negativo e comune di questo termine, sono come una diga che si sforza di contenere il dinamismo spontaneo della persona umana e crea, a lungo andare, una situazione intollerabile. Si cerca di obbedire alla legge, al prezzo di sentirsi obbligati e frustrati, finché, cadendo finalmente nella tentazione, la si trasgredisce, permettendo il formarsi di un senso di colpa e l’impressione di un fallimento. Alla fine, può succedere che si reagisca contro questo stato di cose cercando di sbarazzarsi completamente dal gioco della legge. Secondo questo modo di vedere, a differenza di quanto viene proposto fin dall’inizio di questo libro, la libertà e la felicità della persona appaiono incompatibili con un’esistenza che vuole prendere sul serio la Parola di Dio.
Il ragionamento appena descritto riprende a sua volta il tema principale della Lettera di san Paolo ai Romani. L’apostolo afferma che, data la condizione umana in quanto tale, gli uomini non possono ottenere la salvezza (per noi, la libertà e la felicità) seguendo una legge scritta. Ciò che rende impossibile questo tentativo non è qualche difetto nella Legge stessa, piuttosto una falla all’interno dell’essere umano. Il nostro cuore è diviso:
Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. lo non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. [...] io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio [...]. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’ altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra (Rm 7,14-15.19.22-23).
Per l’apostolo, non si tratta di un ragionamento puramente astratto. Paolo analizza la storia dell’umanità e conclude che non sono soltanto i pagani ad essere incapaci di vivere secondo la volontà divina nel corso dei secoli, ma anche gli ebrei, loro che hanno beneficiato di una rivelazione diretta e avrebbero dovuto, di conseguenza, saper condurre una vita più retta (cfr. Rm 2,1-3,20). Tuttavia, secondo Paolo, ciò non significa affatto che la Torah, la Parola rivelata da Dio, sia errata:
Che diremo dunque? Che la legge è peccato? No certamente! Però io non ho conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non desiderare [...]. Così la legge è santa e santo e giusto e buono è il comandamento [...]. Invece il peccato, per rivelarsi peccato, mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene, perché il peccato apparisse oltre misura peccaminoso per mezzo del comandamento (Rm 7,7.12.13).
Rivelando la sua volontà attraverso la Torah, Dio ha fatto all’umanità un dono inestimabile. Anche se tale dono non ha di fatto trasformato la società nell’ideale cui mirava, questo «insuccesso» aveva un lato provvidenziale perché ha permesso di cogliere con estrema chiarezza il problema in tutta la sua portata, indicando così un passo supplementare nell’ autorivelazione di Dio, un passo che si rivelerà necessario. Dio aveva già permesso al suo servo Geremia di intravedere questo attraverso una rivelazione avvenuta in un momento di disperazione. Quando il profeta si lamentava che il cuore umano era perverso e domandava chi avrebbe potuto scrutarlo, la risposta alla sua stessa domanda scaturiva dentro di lui:

Io, il Signore, scruto la mente
e saggio i cuori,
per rendere a ciascuno secondo la sua condotta,
secondo il frutto delle sue azioni.
(Ger 17,10)

Dio, creatore del cuore umano, è il solo capace di scrutarne le profondità e, dunque, il solo capace di trasformarlo. Un giorno, Geremia, annuncia questa trasformazione in arrivo che risolverà per sempre il problema dell’ Alleanza e della Legge:
«Ecco verranno giorni – dice il Signore – nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò una alleanza nuova. Non come l’alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto, una alleanza che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore. Parola del Signore. Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato» (Ger 31,31-34).
Di fatto, l’unica soluzione al dilemma di una legge scritta, che di per se non può salvare, è un’iniziativa divina che renda possibile una ri-creazione del cuore umano, d’ora in avanti docile alle sollecitazioni provenienti da Dio. Piuttosto che il peccato scritto nel loro cuore, essendo ciò in fondamentale contrasto al desiderio di Dio, in questa nuova disposizione la parola di Dio sarà una fonte interiore di attività, in modo tale che gli esseri umani seguiranno spontaneamente il cammino per il quale sono stati creati. Non ci sarà più alcuna dicotomia fra ciò che Dio vuole per le sue creature e i loro intendimenti e aspirazioni. Il problema della libertà saràanch’esso risolto, poiché i comandamenti divini verranno identificati con il dinamismo interiore che costituisce l’essere umano e dunque non susciteranno più sentimenti di costrizione o di obbligo.
Geremia descrive questa nuova situazione come un tempo in cui la Torah di Dio, il suo insegnamento o la sua Legge, sarà scritto sul cuore umano. Nella generazione successiva, un profeta di nome Ezechiele riprenderà la stessa idea modificandone l’immagine:
Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio (Ez 36,25-28).
Da parte sua, questo profeta descrive il cambiamento come il dono di un cuore completamente nuovo, un cuore pienamente umano al posto di quello incapace di ascoltare e di agire con coerenza. Egli parla di questa trasformazione come di una nuova creazione, l’opera dello Spirito Santo, del Soffio divino, ormai presente nella persona umana. Come per Geremia, il risultato di questa nuova iniziativa creatrice da parte di Dio, sarà quello di eliminare ogni disarmonia fra Dio e il suo popolo. D’ora in poi entrambi cammineranno mano nella mano: «voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio». Per i discepoli di Gesù, quelli che hanno riconosciuto in lui «il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16; cfr. Mc 1,1), questa armonia fra Dio e l’umanità non era solamente una speranza per l’avvenire, era diventata una realtà presente. Innanzitutto lo era in Gesù stesso, venuto «non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 6,38; cfr. 8,29). Lo era anche per i suoi discepoli, come si vede soprattutto nella prima Pentecoste cristiana, descritta da Luca al capitolo 2 degli Atti degli Apostoli. I cristiani celebrano la Pentecoste come una delle loro principali feste religiose ma forse non sanno che questa era – ed è ancora – una festa ebraica. Chiamata anche la Festa delle Settimane (Shavuot), è uno dei tre giorni principali del calendario religioso ebraico (cfr. Es 23,14-17). Con ogni probabilità, in origine era una festa del raccolto celebrata cinquanta giorni dopo la Pasqua; essa venne poi associata al ricordo d’Israele circa gli avvenimenti dell’Esodo. In Es 19,1, leggiamo che «il terzo mese dall’uscita dal paese d’Egitto, gli israeliti arrivarono al deserto del Sinai». Di conseguenza, per i rabbini, la Pentecoste segna il giorno in cui il popolo arriva al Sinai: i cinquanta giorni comprendono la fine del primo mese, il secondo mese e l’inizio del terzo. Questa festa diventa allora la celebrazione di quello che avvenne sulla montagna santa: l’Alleanza con Dio che si concretizza con il dono della Torah. Essendo la festa dell’ Alleanza, il memoriale del dono della Torah, la Pentecoste è dunque il giorno per eccellenza delle Dieci Parole.
A motivo della risurrezione di Gesù, questo giorno per ricordarsi del passato e renderlo presente, subì una trasformazione: per i discepoli di Cristo diventò un compimento di quanto lo aveva preceduto e un nuovo inizio. Delle lingue di fuoco, identificate con lo Spirito Santo di Dio, scendono sui discepoli riuniti nel cenacolo. Ora, nel modo di raccontare gli avvenimenti sul Sinai, il popolo ebraico aveva l’abitudine di aggiungere degli elementi al brano biblico. In certi racconti si dice che Dio scrisse le Dieci Parole sulle tavole di pietra con il suo dito, spesso interpretato dai rabbini come il suo Spirito; per altri si trattava di lingue di fuoco. Questi dettagli rilevano ancora più chiaramente la continuità fra la Pentecoste ebraica e la Pentecoste cristiana. La differenza è che, ora, Dio non scrive la sua Parola sulle tavole di pietra ma sul cuore dei fedeli. La profezia di Geremia, ripresa poi da Ezechiele, diventa una realtà. Gesù, per mezzo del dono di sé e della sua risurrezione, rinnova l’Alleanza da cima a fondo. Questa non passa più attraverso la mediazione di una realtà esteriore, in se stessa buona ma estranea al dinamismo più profondo dell’ essere umano, ma si incarna per la presenza dello Spirito di Dio che trasforma l’attività umana dall’interno.
Inoltre, per comprendere pienamente il significato della Pentecoste cristiana, è essenziale rendersi conto che non si tratta di un evento successo una volta per tutte, qualcosa che si è verificato duemila anni fa in Palestina. Dopo la manifestazione dello Spirito e la spiegazione di Pietro alla folla che assisteva, tutti gli domandano cosa devono fare. E Pietro risponde:
Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito Santo. Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro (At 2,38-39).
Ciò che successe a Gerusalemme è l’epicentro di un terremoto che continua a propagare le sue onde attraverso i secoli. L’esperienza della Pentecoste non smette di risuonare, attraverso i secoli e in molteplici luoghi, nella vita di donne e uomini che ascoltano la buona novella di Gesù Cristo e la prendono a cuore. La vita nuova nella quale entrano è riassunta nell’atto del battesimo.
Ciò propone un’ultima domanda di non facile risposta. Molti cristiani potrebbero fare questo ragionamento: «lo sono battezzato e mi sforzo di vivere la mia fede il meglio possibile. Ma non ho l’impressione di compiere la volontà di Dio in maniera spontanea. Provo sempre dentro di me una tensione, quella lotta interiore che san Paolo descrive al capitolo 6 della sua Lettera ai Romani, fra il bene che voglio fare e il modo in cui vivo concretamente. Allora, cosa ha cambiato la venuta di Cristo? Cosa significa aver ricevuto il dono dello Spirito Santo come « legge interiore »?».
È una domanda da prendere molto sul serio. È ovvio che, se non ci sono cambiamenti osservabili nel comportamento di coloro che hanno aperto la loro vita alla novità portata dal Cristo, diventa difficile cogliere a cosa si riferisca il linguaggio del Nuovo Testamento. Gesù aveva già detto che, dall’ amore di cui i cristiani avrebbero dato prova, gli altri potevano riconoscere la verità del suo messaggio (cfr. Gv 13,35; 17,21-23). Cosa potrebbe significare, di fatto, «una legge scritta sui nostri cuori» se la nostra vita fosse in tutto uguale a quella di persone che non conoscono questa legge e che si sforzano di vivere il meglio possibile secondo i valori che hanno ricevuto dalla società circostante? I cristiani hanno spesso parlato come se fossero moralmente superiori ai credenti di altre religioni, anche (o forse soprattutto) quando il loro comportamento concreto non traduceva affatto una tale superiorità. A loro insaputa, danno prova di quella stessa attitudine che san Paolo biasima nei suoi contemporanei:
Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose [...]. Ora, se tu ti vanti di portare il nome di Giudeo e ti riposi sicuro sulla legge, e ti glori di Dio, del quale conosci la volontà e, istruito come sei dalla legge, sai discernere ciò che è meglio, e sei convinto di essere guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, educatore degli ignoranti, maestro dei semplici, perché possiedi nella legge l’espressione della sapienza e della verità [...] ebbene, come mai tu, che insegni agli altri, non insegni a te stesso? [...] Tu che ti glori della legge, offendi Dio trasgredendo la legge? (Rm 2,1.17-21.23)
Per trovare una via d’uscita a questo dilemma bisogna esaminare più da vicino la logica dell’ attività divina. A causa di una comprensione troppo umana della «onnipotenza» divina, abbiamo la tendenza a immaginare che Dio possa o debba agire come un mago che, con un colpo di bacchetta magica, trasformi radicalmente la nostra realtà umana in un batter d’occhio. In questo caso, il fatto di accogliere lo Spirito Santo nella nostra vita attraverso il battesimo dovrebbe condurre a un cambiamento immediato e totale del nostro stile di vita e del nostro comportamento. Tuttavia, guardando più da vicino, osserviamo che le cose non vanno in quel modo. Al contrario, Dio rispetta la struttura e i ritmi del mondo che lui stesso ha creato. Altrimenti avremmo una sorta di contraddizione da parte sua. Con una pazienza infinita, Dio lavora dall’interno, chiamando gli esseri umani a una comunione sempre più grande e intima con lui.
Un’immagine del Vangelo che ci può aiutare a cogliere questo processo è quella del seme. In una parabola-chiave utilizzata per spiegare il suo messaggio, Gesù paragona la venuta del Regno di Dio a un contadino che semina il suo campo; i semi cadono dappertutto e la loro crescita varia secondo la qualità del terreno che essi incontrano (Mc 4,2-9). In un altro passaggio ancora, descrive il Regno come un piccolissimo seme che cresce fino a diventare una pianta enorme (Mt 13,31-32). A sua volta l’apostolo Pietro, scrivendo a dei nuovi cristiani, dice loro:
[...] essendo stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna (1Pt 1,23).
In altri termini, possiamo considerare la «Legge interiore», cioè la presenza dello Spirito Santo nei nostri cuori, come un piccolo seme piantato in noi dal giorno del nostro battesimo, un seme che deve crescere e svilupparsi fino a trasformare l’insieme della nostra esistenza. I discepoli del Cristo non sono dunque necessariamente migliori di coloro che trovano la loro identità cercando di mettere in pratica dei comandamenti scritti; è la logica del modo di agire che è differente. Le manifestazioni esteriori, per esempio la parola di Dio incontrata nella Bibbia, non regolano il loro comportamento, bensì riflettono ciò che Dio sta per compiere in loro. Utilizzano l’insegnamento che viene dall’esterno come una specie di specchio che li aiuta a cogliere meglio in che modo siano trasformati sotto l’impulso dello Spirito Santo. È per questo motivo che san Giovanni può scrivere ai suoi discepoli:
Ora voi avete l’unzione ricevuta dal Santo e tutti avete la scienza. [...] l’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri; ma come la sua unzione vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce, così state saldi in lui, come essa vi insegna (1 Gv 2,20.27).
Naturalmente, i cristiani devono ricevere una catechesi da coloro che li hanno preceduti. Scrivendo queste parole, Giovanni stesso sta istruendo coloro che gli sono stati affidati. Questo insegnamento, pertanto, non serve a dare loro qualcosa di nuovo, bensì, piuttosto, a risvegliare in essi ciò che, implicitamente, hanno già «fin dall’inizio» (cfr. 1Gv 1,1; 2,7.24; 3,11), a partire dal momento della loro chiamata da Dio e del loro ingresso nella comunità. Il suo ruolo è quello di far emergere ogni implicazione della scelta che hanno fatto – e del dono che hanno ricevuto – accettando di seguire Cristo. Questo è, d’altronde, uno dei temi principali della lettera di Giovanni: il compito essenziale dei credenti è quello di restare fedeli a ciò che hanno ricevuto all’inizio. Tutto, cioè una comunione con il Padre in Cristo attraverso la presenza interiore dello Spirito Santo, è stato donato fin dal principio ed è ricapitolato nel sì del battesimo. È restando fedeli a questo sì che riceveranno tutto ciò che serve loro per affrontare le sfide e le prove di ogni nuovo giorno. E, secondo san Giovanni, il segno principale della loro fedeltà a quanto hanno ricevuto dal principio è la loro appartenenza attiva alla comunità dei credenti.
Così le Dieci Parole non smettono di essere valide per i discepoli di Gesù Cristo. Tuttavia, il centro di gravità si è spostato da una legge o da un comandamento esteriore a una parola interiore ascoltata e custodita nel cuore. Questa parola interiore indica una direzione che deve essere seguita in un processo continuo d’approfondimento. Essa diventa ciò che san Giacomo chiama la Legge perfetta di libertà, da lui identificata con la Parola che è stata seminata in voi, riprendendo a sua volta l’immagine della semina (Gc 1,21.25).
Ciò che maggiormente importa ai discepoli di Gesù Cristo, è dunque dare fiducia a quello che lo Spirito compie in loro. Per noi la domanda principale non è «Cosa dobbiamo fare?» e neppure «Come bisogna vivere?», ma «Come nutrire il seme che è stato deposto in noi?». Con la lettura e la meditazione della Scrittura, con la preghiera personale e comunitaria, che culmina nella celebrazione dell’ eucaristia, sostenendosi vicendevolmente come fratelli e sorelle in Cristo, attraverso un’ esistenza basata sul dono di sé, i credenti permettono a questa vita nuova deposta in loro di sbocciare e di portare frutti in abbondanza. Entrati in questo cammino, potranno scoprire qualcosa che i maestri d’Israele avevano già notato da lungo tempo. Nella lingua ebraica, un’ingiunzione negativa non si esprime con l’imperativo, ma con un tempo che corrisponde all’indicativo futuro: non si dice «Non uccidere!» ma piuttosto «Tu non ucciderai!». Domandandosi perché è così, i rabbini hanno risposto che le Dieci Parole erano soprattutto una promessa e non una serie di ordini. Meditando la Torah e prendendola a cuore, i credenti diventano, a poco a poco, a vera immagine del loro Creatore, persone che vivono come Dio desidera: «Tu non ucciderai!». Qui siamo agli antipodi di una visione ristretta e legalista, così spesso, e a torto, attribuita al popolo ebraico. La parola di Dio è una promessa di vita che apre a un mondo di libertà e di felicità, dove regnano la giustizia e la pace. Per chi pone fiducia in Cristo, questa promessa non è solo l’obiettivo di una attesa futura. Attraverso la venuta di Gesù, la sua morte, la sua risurrezione e il dono del suo Spirito senza misura (Gv 3,34), essa è diventata una possibilità permanente nel nostro quotidiano: «tutte le promesse di Dio in lui sono divenute « sì »» (2Cor 1,20).
Così: il Vangelo si trova potenzialmente nella Legge e i Vangeli si comprendono posati sul fondamento della Legge. Non le do il nome di Vecchio Testamento se la considero spiritualmente. La Legge diventa un Vecchio Testamento solo per quelli che vogliono capirla secondo la carne [...]. Ma per noi, che la comprendiamo e la spieghiamo nello Spirito e nella linea del Vangelo, è sempre nuova; entrambi i Testamenti sono per noi un Nuovo Testamento,
non secondo la cronologia ma secondo la novità della comprensione.

ORIGENE*

* Pensatore greco cristiano del terzo secolo nelle sue Omelie sui Numeri, IX, 4 (Sources chrétiennes 415).

NOAH AND HIS WINE (molti studi/articoli sul vino, domani forse)

 NOAH AND HIS WINE  (molti studi/articoli sul vino, domani forse) dans immagini sacre 11%20NOAH%20AND%20HIS%20WINE

http://www.artbible.net/1T/Gen0601_Noah_flood/pages/11%20NOAH%20AND%20HIS%20WINE.htm

Publié dans:immagini sacre |on 19 janvier, 2013 |Pas de commentaires »

L’AUTOCOMPRENSIONE DEL GESÙ STORICO ALLA LUCE DELLO SHEMA’ YISRA’EL

http://www.zenit.org/article-35112?l=italian

L’AUTOCOMPRENSIONE DEL GESÙ STORICO ALLA LUCE DELLO SHEMA’ YISRA’EL

Un contributo teologico-esegetico per ricostruire la figura del Nazareno

Robert Cheaib

ROMA, Saturday, 19 January 2013 (Zenit.org).
Nella ormai lunga e travagliata vicenda della «Ricerca del Gesù Storico», la «Third Quest» si presenta come il paradigma con lo strumentario il più moderato. Lungi dalle posizioni a fondo anti-semitico che ricostruivano la figura di Gesù a partire dal criterio di dissimilitudine con il suo ambiente giudeo, la Third Quest colloca decisamente il Nazareno all’interno del giudaismo del suo tempo. J.P. Meier, nella sua celeberrima opera A Marginal Jew riassume così la prospettiva della Terza Ricerca: «Il Gesù storico è il Gesù halakhico, cioè il Gesù preoccupato e impegnato a discutere della Legge mosaica e delle questioni pratiche che ne scaturiscono».
Ma quale tipo di giudeo era il Gesù storico, più esattamente? In quale direzioni ha compreso e rivolto la sua missione? Le risposte dei ricercatori variano. Alcuni ne sottolineano la dimensione socio-politica, altri lo associano ai farisei della scuola moderata di Hillel, altri ancora evidenziano la sua affinità con gli elleni, etc.
La proposta di Daniele Fortuna entra nel solco di questi tentativi di risposta e ricostruzione della figura storica di Gesù. Nel suo libro pubblicato presso le Edizioni San Paolo, intitolato: Il figlio dell’ascolto. L’autocomprensione del Gesù storico alla luce dello Shema‘ Yisra’el, l’autore sviluppa un’ipotesi geniale già enunciata dall’esegeta B. Gerhardsson, secondo cui lo Shema‘ Yisra’el, cuore pulsante della spiritualità giudaica, era il fulcro della spiritualità del Nazareno e il centro attorno a cui si possono unificare i vari fili del tessuto evangelico.
L’autore argomenta che il Credo di Israele, lo Shema‘, recitato da Gesù quotidianamente due volte sin dall’infanzia, ha impresso in lui «un’autentica spiritualità dell’ascolto, lo ha accompagnato nel suo cammino vocazionale e lo ha preparato a compiere ogni giorno la volontà del Padre fino al dono estremo di sé nella morte di croce» (462).
L’opera, frutto di una tesi di dottorato presso la Pontificia Università Gregoriana, gira intorno all’intreccio di due fulcri ermeneutici: lo Shema‘ Yisra’el e l’autocomprensione di Gesù. Essa considera, alla luce del piccolo credo recitato da ogni ebreo osservante, l’evolversi e il dispiegarsi dell’autocomprensione di Gesù, ossia «ciò che lui stesso riteneva di essere (cristologia gesuana), alla luce della singolare conoscenza di Dio come suo abbà (teologia gesuana) e in funzione della missione di cui si credeva investito, quella, cioè, di inaugurare l’avvento del Regno di Dio (escatologia gesuana)» (3).
Come accennato sopra, la tesi sviluppa un’intuizione interpretativa di Gerhardsson riassunta da lui medesimo così: «Gesù di Nazaret ha preso sul serio la confessione delle sue labbra… ogni sera ed ogni mattina Gesù s’impegnava ad ascoltare la parola di Dio, ad amare Dio con tutto il suo cuore, con tutta la sua anima, con tutta la sua potenza, a porre queste parole nel suo cuore, a pensarvi, a insegnarle ai suoi figli (ai suoi discepoli), a ripeterle sia quando era seduto in casa sua, sia camminando sulla via…» (11).
Analizzando il rapporto di Gesù con la Legge, Fortuna mostra il pieno riconoscimento di Gesù che la Torah sia rivelazione di Dio (117), ma anche e soprattutto «la consapevolezza più che messianica» in quanto «Gesù sa di impersonare il Dio d’Israele nel suo amore misericordioso verso ognuno dei suoi figli. Nella sua prossimità incondizionata ai poveri, agli ultimi, alle donne e ai peccatori, nella sua potenza di guarigione dalle infermità e di liberazione da Satana, nella sua commensalità aperta, che non teme alcuna contaminazione e non fa alcuna discriminazione, Gesù si presenta implicitamente come il luogo escatologico della presenza salvifica di yhwh, l’atteso Messia sommo sacerdote, «Il santo di Dio» (Mc 1,24 e Gv 6,69)» (133).
Anche la riflessione sul duplice comandamento dell’amore mostra come la risposta di Gesù nasca da una partecipazione attiva e ponderata di Gesù al dibattito che agitava il giudaismo del I secolo riguardo ai principi fondanti della vita d’Israele. La sua risposta riprende il passo iniziale dello lo Shema‘ Yisra’el (cf. Dt 6,4-5)– sull’amore di Dio – e la prescrizione di Lv 19,18b sull’amore del prossimo. Questo duplice comandamento dell’amore, mostra dunque la centralità dello Shema‘ e il suo ruolo riassuntivo della Legge nella visione di Gesù.
Nel passaggio successivo, Fortuna mostra come lo Shema‘ fosse il motivo di fondo di tutta la sinfonia dell’insegnamento di Gesù, della prassi successiva dei suoi discepoli e anche di quella dei primi cristiani che hanno saputo «comporre testi ispirandosi a questo antico credo d’Israele, coniugandolo sapientemente con le tradizioni di e su Gesù» (352).
L’ultimo passaggio della riflessione di Fortuna è quello di mostrare come lo Shema‘ non fosse solo un insegnamento di Gesù, ma soprattutto e prima di tutto una sua attitudine fondamentale: Gesù era fondamentalmente un «figlio dell’ascolto». Egli che «ha succhiato lo Shema‘ Yisra’el insieme al latte di sua madre» ha fatto dell’«ascolto del Padre» la sua attitudine fondamentale, il suo pane quotidiano. Lo Shema‘ lo ha incamminato sulla via dell’accoglienza incondizionata della volontà del Padre e si è tradotta in un amore incondizionato e obbediente verso il Padre fino alla fine (cf. Gv 13,1) fino alla morte e la morte di croce (Fil 2,8).
L’opera di Daniele Fortuna è un geniale contributo alla Leben-Jesu-Forschung che permette a questa Ricerca di effettuare un passo ulteriore, mostrando e offrendo nello Shema‘ Yisra’el una luminosa chiave interpretativa che raccoglie i vari fili del materiale evangelico su Gesù volta a una comprensione maggiore della sua figura e a un’intuizione più acuta del fulcro portante della sua autocomprensione.

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« NON C’È UNITÀ DEI CRISTIANI SE NON C’È UNITÀ IN DIO » (SECONDA PARTE)

http://www.zenit.org/article-35085?l=italian

« NON C’È UNITÀ DEI CRISTIANI SE NON C’È UNITÀ IN DIO » (SECONDA PARTE)

Alla vigilia della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, monsignor Bruno Forte riflette sui temi dell’ecumenismo

Luca Marcolivio
ROMA, Friday, 18 January 2013 (Zenit.org).
La prima parte dell’intervista a monsignor Bruno Forte è stata pubblicata ieri, giovedì 17 gennaio.
Strumenti come l’ordinariato, scelto dal Santo Padre per il reintegro dei fedeli anglicani, potranno essere utili anche per altre comunità acattoliche?
Mons. Forte: Alla base di questo c’è un’intuizione di Giovanni Paolo II che, nella Ut unum sint, si era dichiarato disposto a rivedere l’esercizio del primato, perché potesse essere accolto da battezzati di altre tradizioni cristiane. L’idea è che bisogna distinguere tra un contenuto di verità teologica di unità della Chiesa, affidato al vescovo di Roma, e le modalità del suo esercizio, che possono essere naturalmente diversificate come l’esperienza storica dimostra.
Ci può essere uno spirito di unità che ha fatto maturare la Chiesa latina e ci può essere uno spirito di unità come quello che lega le Chiese orientali cattoliche e la Santa Sede. Inoltre ci potranno essere altre modalità come queste ultime forme sperimentali dell’ordinariato per gli anglicani. Esso sta avendo qualche segnale di accoglienza anche se non nei numeri che forse astrattamente si potevano pensare; attenzione, però, questo non vuol dire che l’intuizione non sia felice: significa, invece, che molti anglicani, che sono di fatto entrati nella Chiesa cattolica, tra cui tantissimi sacerdoti, vogliono vivere questa piena comunione con Roma, sentendosi a tutti gli effetti cattolici. Dunque la formula dell’ordinariato potrà valere per quegli anglicani che sono particolarmente legati allo specifico della tradizione anglicana nella liturgia, nella forma della preghiera, senza per questo compromettere la piena comunione dottrinale e pastorale con la Chiesa di Roma. Dobbiamo quindi essere aperti ad una pluralità di possibilità, cioè ad una comunione che si realizzi, come per gli anglicani, in una semplice e piena comunione con la Chiesa cattolica, senza rinnegare il bene ricevuto nella comunione anglicana ma portando questo bene a pieno compimento nella Chiesa cattolica. Potranno esserci anglicani che vorranno trovare una comunione con Roma che passi attraverso un visibile mantenimento di alcuni elementi caratteristici della loro identità e tradizione. Benedetto XVI, con le sue scelte, ha dimostrato di essere aperto a tutte le possibilità, sostenendole e incoraggiandole perché si realizzi la preghiera di Gesù per l’unità di tutti i cristiani.
Come si spiegano i “successi ecumenici” di Benedetto XVI?
Mons. Forte: Il Papa, rispondendo a questa domanda, direbbe che se ci sono dei successi, questi sono unicamente opera dello Spirito Santo e che ciò che si è raggiunto è probabilmente ancora troppo poco rispetto a ciò che il Signore si aspetta dalla sua Chiesa. Questa è una delle sue caratteristiche di uomo di fede che vede le cose nell’orizzonte ultimo e non esalta mai troppo i traguardi raggiunti nel penultimo. In altre parole c’è ancora tanto da fare. L’ecumenismo è ancora una grande promessa e una grande chiamata, per certi aspetti anche una grande sfida. La tentazione peggiore sarebbe quella dello scoraggiamento, di pensare che questa unità non possa mai essere raggiunta. Su questo il Papa chiama a reagire con una grande fiducia nell’opera di Dio e nella sua volontà. La tentazione opposta potrebbe essere quella di affrettare a tutti i costi l’unità con passi che potrebbero essere giustificati più dall’irenismo che non dall’obbedienza alla verità. Su questo il magistero di Benedetto XVI ci mette in guardia: non si potrà costruire l’unità se non nella verità. D’altra parte, la verità cristiana è inseparabile dalla verità, quindi unità-verità-carità sono i tre poli di un unico cammino che vanno tenuti insieme.
Che valore ha, invece, il tentativo di riconciliazione con la Fraternità San Pio X?
Mons. Forte: Anche su questo papa Benedetto ha dimostrato grande carità e grande apertura. La Sommorum Pontificum e le sue norme applicative rendono possibile a chi, in maniera aperta alla pienezza cattolica, voglia vivere quello che è stato il patrimonio liturgico del passato. Personalmente sono convinto che la liturgia del Vaticano II sia davvero ricca e “tradizionale”, quindi non comprendo come mai queste nostalgie possano nascere; tuttavia ci sono e il Papa ha dimostrato grande rispetto ed accoglienza. C’è però un punto irrinunciabile con cui la comunità fondata da mons. Lefevre dovrà misurarsi: l’accettazione piena e convinta del Concilio Vaticano II nei suoi contenuti dottrinali. Il rifiuto del Concilio non è il rifiuto di un singolo momento della vita della Chiesa: la sua accettazione è parte integrante dell’accettazione della Chiesa Cattolica nel suo complesso.
Come va vissuto il dialogo ecumenico a livello diocesano e parrocchiale?
Mons. Forte: L’ecumenismo è certamente entrato nella Chiesa Cattolica come una dimensione irrinunciabile. Naturalmente ogni comunità lo vive in modo differente: ci sono chiese che devono confrontarsi quotidianamente con ortodossi o evangelici sul loro territorio ed altre che vivono di meno questa realtà. Ci sono comunque dei principi base che vanno seguiti da tutti. La Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, ad esempio, andrebbe sempre più valorizzata, a mio avviso. Anche nella pastorale giovanile e per gli adulti e nelle catechesi va attribuita sempre più importanza alla preghiera per l’unità.
Nella mia diocesi di Chieti-Vasto, essendoci numerosi ortodossi, ho aderito ad una richiesta del metropolita Dervos, a seguito della quale ho affidato una chiesa a un parroco ortodosso. In una comunità avventista, il pastore è venuto ad accogliermi con un’attenzione e un amore commoventi, invitandomi poi a parlare alla loro facoltà teologica a Firenze, sulla Parola di Dio. A livello di vissuto, le esperienze ecumeniche sono molto serene: lo stesso vale per le comunità valdesi che da secoli sono in mezzo a noi.
C’è solo qualche comunità fondamentalista come i testimoni di Geova, con i quali non è possibile alcun dialogo perché non lo vogliono e lo fuggono, specie se hanno davanti persone con una buona formazione cristiana. In quel caso è la maturazione della vita cristiana che deve essere più eloquente di ogni parola. Vedo, ad esempio, che in alcune parrocchie si assiste al ritorno di molti ex testimoni di Geova o alla loro conversione tout court. Quando, in occasione di un corso prematrimoniale, ho chiesto a degli ex testimoni di Geova come mai fossero tornati, la riposta è stata: “perché nella Chiesa sentiamo liberi”. Il Dio cristiano non è un Dio che ci spaventa o che ci impone la sua volontà ma è un Dio che ci chiama con vincoli d’amore e questo ci dà molta gioia.
Qual è il significato profondo del tema della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani di quest’anno?
Mons. Forte: Quest’anno il tema della preghiera per l’unità dei cristiani è basato su una frase dal libro del profeta Michea: Quel che Dio esige da noi (Mi 6,6-8). Il fondamento di questa riflessione, scelta da una commissione mista di cattolici, ortodossi e protestanti è la volontà di realizzare quello che il Signore vuole per noi. Tre sono le indicazioni fondamentali: la prima è l’indicazione della pietà, il Signore chiede misericordia ai suoi. La pietà è quell’atteggiamento profondo di abbandono in Dio ed affidamento al suo assoluto primato. Michea chiede di riconoscere questo primato del Signore come sorgente e riferimento di tutte le nostre scelte. Questo punto è l’idea fondamentale su cui insiste tanto il Pontefice. In Michea l’affidamento alla misericordia è il segno della ricerca continua di misurarsi sulla volontà di Dio.
In secondo luogo c’è la giustizia. Come mostrano i commenti ecumenici, la giustizia viene intesa anche nella sua dimensione fortemente sociale. Vengono riconosciuti i diritti dei poveri e dei deboli. Spesso una cooperazione a servizio dei poveri e finalizzata ad una giustizia più forte è possibile, dove non si possa portare avanti una comunione dottrinale, perché mancano gli strumenti.
Infine l’umiltà: non siamo noi i protagonisti dell’unità ma essa viene da Dio e ciò che viene chiesto a noi è soprattutto invocare l’opera di Dio. Credo che senza umiltà non sarà mai possibile realizzare l’unità che il Signore ci chiede. Ecco perché il testo di Michea diventa un’importante programma ecumenico, soprattutto in un’epoca in cui alcuni parlano di “inverno ecumenico”, quando invece bisognerebbe guardare con occhi di fede, perché, alla vigilia della primavera, il seme sta morendo per dare il suo frutto.

The Wedding at Cana Mircale On the Gothic Altarpiece

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Domenica 20 Gennaio: COMMENTI DI MARIA Noelle THABUT – prima e seconda lettura

http://www.eglise.catholique.fr/foi-et-vie-chretienne/commentaires-de-marie-noelle-thabut.html

Domenica 20 Gennaio: COMMENTI DI MARIA Noelle THABUT

PRIMA LETTURA – Isaia 62: 1-5

(Traduzione Google dal francese)

Il profeta Isaia non mancava di audacia! In due occasioni, in questi pochi versi, ha usato il verbo « desiderare » (ai sensi del desiderio amoroso) di tradurre i sentimenti di Dio verso il suo popolo. Le parole « il mio preferito » e « preferenza » è troppo debole, dovrebbe essere tradotto: Il tuo nome non è più « abbandonati » non è più chiamare la « terra del deserto » paese, ma si nomina « il mio desiderato » ( letteralmente il mio desiderio sei tu), la tua terra si chiamerà « mia moglie », perché il Signore è il suo desiderio in voi e la vostra terra sarà sposato.
 Perché quello che abbiamo sentito qui è una vera e propria dichiarazione d’amore! Fidanzato non dire di più alla sua amata. Tu sarai il mio preferito, mia moglie … Sarai bella come una corona, come un diadema d’oro tra le mani … tu sei la mia gioia … E questa affermazione, si nota la bellezza della lingua, la poesia che emana da questo testo. Troviamo le frasi parallele, così caratteristica dei salmi. « Per amore di Gerusalemme non sarò in silenzio / di Sion non mi darò pace … Sarete una corona splendente tra le dita della / Signore (sei) un diadema regale nella palma del tuo Dio. … si nominerà « il mio preferito » / la tua terra si chiamerà « mia moglie ».
 Cinque secoli prima di Cristo, già, il profeta Isaia è stato finora! Perché si potrebbe davvero chiamare questa « poesia d’amore di Dio ». Testo E Isaia non è il primo ad avere questa audacia.
 E ‘vero che all’inizio della rivelazione biblica, i primi testi dell’Antico Testamento non utilizza la lingua. Eppure, se Dio ama l’umanità un tale amore, che è stato vero fin dall’inizio. Ma era l’umanità non era pronta ad ascoltare. La Rivelazione di Dio come Sposo, come quella di Dio Padre non poteva fare che, dopo secoli di storia biblica, l’inizio dell’alleanza tra Dio e il suo popolo, che il concetto era troppo ambiguo. Altre persone non troppo facilmente concepito i loro dèi a immagine di uomini e delle loro storie familiari, in una prima fase della Rivelazione, per cui avevamo già scoperto il Dio Onnipotente Oltre l’uomo e entrare nella sua alleanza .
 Il profeta Osea, nel VIII secolo aC, che fu il primo a confrontare il popolo di Israele a una moglie, e ha trattato adulterio infedeltà del popolo, vale a dire, il suo impatto nell’idolatria. Seguendolo Geremia, Ezechiele, Isaia, il secondo e il terzo Isaia (quello che abbiamo letto oggi) hanno sviluppato questo tema del matrimonio tra Dio e il suo popolo, e li tutti nel vocabolario del fidanzamento e del matrimonio: il teneri nomi, l’abito da sposa da sposa, la corona, la fedeltà, ma la gelosia, adulterio, reunion. Ecco alcuni estratti, per esempio in Osea: « Tu mi chiami mio marito … Ti fidanzerò a me per sempre … in amore, la tenerezza, la fedeltà. »(Os 2,18.21). E nel secondo Isaia, « Suo marito è il tuo creatore … Ha ripudia la moglie della sua giovinezza? … nel mio amore eterno, mi fai pena. « (Is 54, 5 … 8). Il testo della più impressionante su questo argomento, è ovviamente il Cantico dei Cantici: si presenta come un lungo dialogo amoroso, costituito da sette poesie, a dire il vero, in nessun luogo i due amanti sono stati identificati, ma per gli ebrei come una parabola dell’amore di Dio per l’umanità, e la prova è che hanno letto soprattutto durante la celebrazione della Pasqua, che è per loro la grande festa del patto di Dio con il suo popolo .
 Per tornare al testo di oggi, uno dei passatempi preferiti, a quanto pare, l’amato è quello di dare nuovi nomi alla sua amata. Tu sai l’importanza delle relazioni umane in nome: qualcuno o qualcosa che non riesco a nome non esiste per me … In grado di nominare qualcuno sta già conoscono, e quando il nostro rapporto con una persona si approfondisce, non è raro che abbiamo sentito il bisogno di dargli un soprannome, a volte farci conoscere. Nella vita di coppie, o famiglie, diminutivi e soprannomi occupano un posto importante. Quando abbiamo scelto il nome di un bambino, per esempio, è molto rivelatrice: ci si concentra su di lui molte speranze, spesso, se si guarda con attenzione, si tratta di un programma.
 La Bibbia esprime questa esperienza fondamentale della vita umana, e il nome è molto importante, ha detto il mistero interiore della persona, la sua vocazione, la sua missione, molto spesso, ci viene detto il significato dei caratteri del nome chiave. Ad esempio, l’angelo che annuncia la nascita di Gesù aggiunge subito che questo nome significa « Dio salva », vale a dire che il bambino che porta questo nome salverà l’umanità in nome di Dio. E a volte Dio dà un nuovo nome a una persona allo stesso tempo gli dà una nuova missione: Abram diventa Abraham, Sarai divenne Sara, Giacobbe diventa Israele e Simon Pietro diventa.
 Ecco, allora, è Dio che dà nuovi nomi a Gerusalemme: « abbandonato » è una « preferita », la « terra del deserto » diventa « mia moglie », in realtà, il popolo ebraico potrebbe avere la sensazione di essere abbandonato da Dio. Questo capitolo di Isaia 62 è stata scritta nel contesto del ritorno di Exile. Siamo tornati dall’esilio (Babilonia) nel 538 e il Tempio cominciò ad essere ricostruita nel 521: è in questo periodo che l’oscurità si deposita e l’impressione di abbandono. Se Dio ha cura di noi, pensa che, le cose sarebbero andate meglio e più rapidamente (si può ben dire la stessa cosa: « Se ci fosse un Dio, queste cose non arrivano non « …). Questo è quello di combattere la disperazione Isaia, ispirato da Dio, il coraggio questo bellissimo testo: No, Dio non ha dimenticato il suo popolo e la sua città preferita, e tra breve sarà! « Come un giovane sposa una ragazza, uno che ha costruito sposarti. Come la sposa è la gioia del marito, e tu sarai la gioia del tuo Dio. ‘

 SECONDA LETTURA – 1 Cor 12, 4-11

Il Corinthians oggi venti secoli e non è invecchiato un po ‘! Al contrario, è del tutto valida: come rimanere cristiana in un mondo che valorizza tutti gli altri? Come ordinare le idee in circolazione, quelli che sono compatibili con la fede cristiana? Come vivere con i non cristiani, senza mancare alla carità? Ma senza perdere la nostra anima, come si dice? In tutto il mondo di sesso e denaro … Come evangelizzare? Queste erano le domande cristiani di Corinto di recente conversione, in un mondo prevalentemente pagano, sono la nostra oggi, ceppo cristiani o no, ma in una società che non favorisce di più i valori cristiani.
 Paolo risponde in tal modo si riferiscono quasi tutti. Egli parla delle divisioni nella comunità, i problemi della vita coniugale, soprattutto quando entrambi i coniugi non condividono la stessa fede, il corso di essere in mezzo a tutte le idee nuove commercianti: su tutti questi punti, dà la le cose al loro posto. Ma, come sempre, quando parla di cose molto concrete, ricorda prima il fondamento delle cose, che è il nostro Battesimo: come Jean-Baptiste, mediante il Battesimo, siamo stati immersi nel fuoco dello Spirito (Mt 3, 11), e ora è lo Spirito che si rifrange attraverso di noi secondo la nostra propria diversità. Paolo dice la stessa cosa: « Colui che è in tutto questo è uno e medesimo Spirito: egli distribuisce i suoi doni a ciascuno secondo la sua volontà. ‘
 A Corinto, come in tutto il mondo ellenistico, abbiamo apprezzato l’intelligenza abbiamo sognato di scoprire la saggezza, abbiamo parlato tutta la filosofia. A quelle persone che sognavano di saggezza scoprire da loro stessi e dal rigore delle loro argomentazioni, Paul rispose: vera sapienza, la conoscenza che conta, non è la fine del nostro discorso: è un dono di Dio . « A uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza di Dio, e ad un altro, sempre nello Spirito, il linguaggio della conoscenza di Dio. « Non c’è nulla di cui andare fieri, tutto è dono. Il « dono » parola è ripetuta sette volte! Nella Bibbia, questa non è una novità! Qui Paolo ripete semplicemente in termini cristiani che il suo popolo aveva da tempo scoperto, che solo Dio conosce e può trovare la vera saggezza. La novità del discorso di Paolo è altrove: è parlare dello Spirito come Persona.
 Deeper, Paul si distingue completamente dalle indagini filosofiche di ogni altro: non propone una nuova scuola di filosofia, di più … Qualcuno ha annunciato. Per i regali che sono ben distribuiti ai membri della comunità cristiana non sono di potere o di conoscenza, sono una presenza all’interno del nome dello Spirito è citato otto volte in questo passaggio. Infine, il testo si rivolge ai Corinzi, ma lui non parla di loro, parla solo dello Spirito all’opera nella comunità cristiana, e che con pazienza, senza stancarsi, ci rivolgiamo al nostro Padre (che respiriamo dire « Abba » – Padre) e ci rivolgiamo ai nostri fratelli.
 Per le cose per essere chiari, Paolo dice: « Ognuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune di tutti ». Sappiamo che i Corinzi erano desiderosi di straordinari fenomeni spirituali, ma san Paolo ricorda loro che l’unico obiettivo è il bene di tutti. Ai fini dello Spirito non è altro come è l’amore personificato. E poi, nelle sue mani, per così dire, diventiamo strumenti di una varietà infinita per la grazia di Dio che è Uno: « I doni della grazia sono molteplici, ma sempre lo stesso Spirito . Le funzioni nella Chiesa sono molteplici, ma il Signore stesso. Le attività sono molteplici, ma tutti lo stesso Dio, che è in tutti. ‘
 Tale è la meraviglia della nostra diversità: ci permettono, a loro modo, a manifestare l’amore di Dio. Una delle lezioni di questo testo di St. Paul è certamente imparare a celebrare le nostre differenze. Sono le molteplici sfaccettature di amore che ci permette di fare secondo l’originalità di ciascuno. Rallegriamoci dunque la varietà di razze, colori, lingue, regali, arti, invenzioni … Questo è ciò che rende la ricchezza della Chiesa e del mondo a vivere nella condizione dell’amore.
 E ‘come un’orchestra: la stessa ispirazione … espressioni diverse e complementari, strumenti diversi e che una sinfonia … fornito una sinfonia giocare tutti nella stessa chiave … è quando non si gioca tutto con lo stesso tono che vi è una cacofonia! La sinfonia in questione qui è la canzone d’amore che la Chiesa è responsabile per il canto nel mondo dicono « inno alla carità », come si suol dire « Inno alla gioia » di Beethoven. Complementarità nella nostra Chiesa non è una questione di ruoli, funzioni, per la Chiesa a vivere con una organizzazione in atto … Questo è molto più grave e più bello di questo: è la missione affidata alla Chiesa per rivelare l’amore di Dio è la nostra unica ragione di essere.

OMELIA (20-01-2013) – II DOMENICA DEL T.O. : UNA EPIFANIA ‘FUORI PROGRAMMA’

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/27397.html

OMELIA (20-01-2013) – II DOMENICA DEL T.O.

MONS. ROBERTO BRUNELLI

UNA EPIFANIA ‘FUORI PROGRAMMA’

Questa domenica cade nel bel mezzo dell’annuale Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che a sua volta si colloca nell’Anno della fede. Queste coincidenze conferiscono alla festa odierna una valenza particolare: invitano per esempio a riflettere sulla fede che insieme si professa nel corso della Messa, confrontata con quella dei « fratelli separati » (ortodossi, anglicani, valdesi, protestanti delle varie denominazioni). Per secoli si è battuto e ribattuto su quello che ci separa; da qualche tempo invece si preferisce mettere in evidenza quello che ci accomuna, scoprendo con gioia che è molto, molto di più. Siamo tutti cristiani, e lo siamo perché condividiamo non solo i capisaldi dottrinali del cristianesimo (Dio Uno e Trino; Gesù vero Dio e vero uomo, redentore di tutti; il battesimo; la vita eterna; la Bibbia quale Parola di Dio: eccetera) ma anche, nei suoi tratti basilari, lo stile di vita che ci dovrebbe caratterizzare, derivante dal precetto dell’amore per Dio e per il prossimo. Riconoscere reciprocamente quanto c’è di bello e di buono nel modo di vivere la fede promuove la piena unità e già ora rende gloria a Dio, perché lo riconosce Autore di ogni bene, come richiama la seconda lettura (1Corinzi 12,4-11): « Fratelli, vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti ».
Il vangelo odierno (Giovanni 2,1-11) torna, come già nelle due scorse domeniche, a celebrare l’Epifania, cioè il fatto che Gesù si manifesta per come è e non solo per come appare. Con una singolarità: questa Epifania è stata, per così dire, un « fuori programma ». Si tratta del primo miracolo compiuto da Gesù nel corso del suo ministero pubblico: invitato con sua madre e alcuni discepoli a un matrimonio nel villaggio di Cana, egli non disdegna di mantenere viva la festa cambiando l’acqua nel vino venuto a mancare. Nell’episodio si distingue la figura di Maria: è lei ad accorgersi della difficoltà in cui stanno per incorrere gli sposi, e subito, prima che il problema si manifesti, se ne fa carico, segnalandolo a chi sa che lo può risolvere. « Non hanno più vino », dice al Figlio. Questi le risponde in modo a prima vista duro: « Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora ». Quell’accenno alla sua « ora » sottintende che Gesù aveva un programma da seguire nella sua auto-rivelazione, un piano d’azione in cui un intervento a Cana non era compreso; tuttavia la sollecitazione della Madre basta a farglielo cambiare.
Anche in base a questo episodio si è diffuso nei secoli il ricorso a Maria da parte dei cristiani, fiduciosi che ella possa continuare ad ottenere il benefico intervento del suo Figlio. Inoltre dovrebbe far riflettere quanti hanno del cristianesimo una cupa visione di penitenze e rinunce. Gesù compie un miracolo – e per di più il primo, che è in certo modo programmatico – per un motivo apparentemente futile: fornire altro vino a chi pure ne aveva già bevuto. Dovrebbe far riflettere: quel gesto la dice lunga su come Gesù intenda la vita degli uomini. Egli non li vuole certo tristi: guarisce i malati perché siano in buona salute; nei suoi insegnamenti indica come vivere in armonia; e non è affatto contrario alla festa di chi banchetta in compagnia. Una gioia perseguita senza malizia dà agli uomini la percezione di come sarà la vita eterna, la felicità piena e senza fine che Dio assicura agli eletti. Già Isaia (25,6) l’aveva annunciata con l’esempio di un banchetto: il Signore preparerà per tutti i popoli « un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati ». E lo stesso Gesù ha ripreso il concetto, come si legge in Matteo 8,11: « Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli ».

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