GESÙ E LE DIECI PAROLE – FRÈRE JOHN DI TAIZÉ
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FRÈRE JOHN DI TAIZÉ
VERSO UNA TERRA DI LIBERTÀ
UNA RILETTURA DEI DIECI COMANDAMENTI
GESÙ E LE DIECI PAROLE
In queste pagine abbiamo letto il testo che chiamiamo i dieci comandamenti o le Dieci Parole, come definizione di uno spazio di libertà che proviene dall’ Alleanza con Dio. Il Dio della Bibbia è innanzitutto colui che chiama i suoi ad abbandonare una situazione di schiavitù e che apre davanti a loro un’ esistenza nuova, un’ esistenza che rende possibile una pienezza e una felicità per tutti. La parola di Dio non descrive in maniera esaustiva questa nuova società, ma ne indica semplicemente le linee principali, le cornici che dovranno poi essere riempite dalla creatività e dalla responsabilità di tutti coloro che ascoltano il messaggio. C’è dunque una certa logica nel fatto che, alla fine delle Dieci Parole, il centro d’interesse si sposta dagli atti specifici, che distruggono le relazioni con gli altri, per occuparsi invece delle attitudini interiori, dei meccanismi attraverso i quali gli esseri umani abbandonano la realtà per costruire un mondo parallelo che non è in armonia con le intenzioni del Creatore. L’insegnamento di Gesù, raccolto nei libri che formano ciòche per i cristiani è il Nuovo Testamento, prosegue questa riflessione indicando una via d’uscita dal vicolo cieco dove si smarriscono gli esseri umani che si creano un mondo irreale.
All’inizio del Vangelo secondo san Matteo, Gesù riassume l’essenziale del suo insegnamento, in ebraico la sua «Torah», in un lungo discorso generalmente chiamato il Discorso della Montagna (Mt 57). L’evangelista, molto probabilmente, ha utilizzato del materiale proveniente da tempi e luoghi differenti per riuscire a creare un insieme coerente, che funzionasse come una specie di programma o di manifesto. In questo discorso, Gesù si riferisce parecchie volte alle Dieci Parole. A prima vista, il suo modo di affrontare ciò che la tradizione gli ha trasmesso può sorprenderci, perfino scandalizzarci, tanto esso sembra rimettere in questione la nostra idea del figlio del falegname di Nazaret, uomo compassionevole, pieno di comprensione per le fragilità umane. Invece di voler relativizzare le Parole o minimizzare la loro importanza o la loro applicabilità, Gesù le radicalizza al di là del possibile:
Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna [...]. Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore (Mt 5,21-22.27 -28).
La nostra prima reazione a queste parole potrebbe ben essere simile a quella dei discepoli in un’ altra circostanza, «Chi si potrà dunque salvare?» (cfr. Mt 19,25). È possibile per un essere umano realizzare la Legge divina nella sua vita? Alcuni hanno creduto che era proprio quello il senso di tali parole. Secondo questa interpretazione, Gesù radicalizza le richieste della Legge per mostrare che nessuno è in grado di metterle in pratica nella giusta maniera. Di fronte ai richiami di Dio, nessuno è all’ altezza. I comandamenti servono solamente a convincerci del nostro radicamento nel peccato e del nostro bisogno di contare sul dono gratuito dell’ amore che perdona, quello che giunge a noi attraverso Cristo Gesù.
È indubbiamente vero che, agli occhi di Gesù, nessun essere umano può vivere secondo la volontà divina senza l’aiuto di Dio e solo con i propri sforzi, tuttavia non sembra del tutto esatto dire che Gesù interpreta le Dieci Parole in modo da renderne impossibile il compimento. li suo insegnamento a questo riguardo non è unicamente negativo; egli non cerca soltanto di farci scoprire i nostri limiti, vuole anche indicarci un cammino da seguire. In primo luogo, le parole di Gesù esprimono qualcosa che la nostra ricerca aveva già rivelato, cioè che non basta seguire «alla lettera» la Legge per essere fedeli alla sua intenzione profonda. li fatto che stamani non ho ucciso nessuno dei miei vicini, né rubato i loro beni, né ho commesso adulterio con le loro spose, non significa per questo che ho fatto tutto ciò che Dio pensava quando stabilì un’alleanza con gli esseri umani. Le Dieci Parole disegnano i confini di quello spazio di libertà definito dalla nostra relazione con Dio. Per vivere secondo 1′Alleanza, dobbiamo utilizzare la libertà che ci è concessa per costruire una società di giustizia e di solidarietà radicata in Dio attraverso le scelte concrete che facciamo. In questo senso, il testo delle Dieci Parole non rappresenta una fine bensì un inizio. Indica un orientamento e segnala dei limiti, inaugura un processo che, per sua stessa natura, si sviluppa fino a inglobare ogni dimensione della nostra vita. Secondo Gesù, anche il gesto più piccolo e apparentemente più insignificante che facciamo, può essere un modo per rendere concreta l’Alleanza con Dio.
In secondo luogo, il commento delle Dieci Parole proposto da Gesù, prolunga la parte finale di questo testo ponendo l’accento non sul comportamento esteriore, ma sulle sue radici all’interno dell’essere umano. Un aspetto fondamentale del suo insegnamento è che la vera religione non può ridursi al semplice conformarsi esteriormente a delle leggi scritte. L’essenziale sta nelle profondità dell’essere umano, nella sua attitudine di base, tradotta poi nelle scelte che, a loro volta, diventano azioni visibili. La Bibbia chiama questo nucleo della persona, sorgente dei suoi orientamenti fondamentali, il cuore. Nel suo insegnamento, Gesù mette spesso l’accento su questa struttura caratteristica dell’agire umano:
Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo [...]. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, [...]. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo» (Mc 7,14-15.21-23).
Ciò non significa, come potrebbero immaginare numerosi nostri contemporanei, che è soltanto la motivazione interiore ciò che conta, indipendentemente dalla maniera concreta in cui viviamo. Gesù non separa affatto l’interiorità dell’uomo dalla sua esteriorità; per lui, il nostro orientamento fondamentale è decisivo per determinare il modo in cui noi viviamo con gli altri nel mondo. Una semplice immagine gli permette di esprimere questa verità:
Non c’è albero buono che faccia frutti cattivi, né albero cattivo che faccia frutti buoni. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dalle spine, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male, perché la bocca parla dalla pienezza del cuore (Lc 6,43-45).
In un modo o in un altro, presto o tardi, l’albero porterà frutti per mostrare di che tipo d’albero si tratta. «Non c’è nulla di nascosto che non debba essere manifestato» (Lc 8,17). Se le radici nascoste sotto terra sono importanti, è perché hanno conseguenze visibili in superficie. La finalità rimane quella di costruire un mondo dove gli esseri umani vivano in armonia, fra di loro e con !’insieme della creazione, ma Gesù coglie con straordinaria chiarezza che questo progetto trova le proprie origini nei recessi segreti del cuore umano.
E arriviamo infine alla difficoltà fondamentale delle Dieci Parole, se non addirittura di tutti i comandamenti divini. Questa difficoltà è presente fin dall’inizio dell’autorivelazione di Dio, ma l’insegnamento di Gesù permette di vederla con piena chiarezza. La possiamo esprimere con una semplice frase: definire la società ideale non vuoi dire di per sé realizzarla. Non basta dire alla gente: «Se volete essere liberi e felici dovete fare questo o quello» perché ciò si avveri. Questa constatazione trova ampia conferma nella storia del genere umano, e ancora più specificamente nella storia d’Israele raccontata nelle Scritture ebraiche. Dio ha potuto rivelare le sue intenzioni a coloro che ha liberato dalla schiavitù e condotto verso una terra di felicità, ha potuto anche indicare loro la strada per arrivarci: tuttavia, fin dall’inizio, questi hanno trascurato l’insegnamento divino, preferendo seguire i loro disegni limitati che, alla fine, non portano da nessuna parte. Piuttosto che abbandonarli, Dio ha continuato a inviar loro uomini e donne che li richiamavano a tornare sulla via della salvezza, che ricordavano l’Alleanza e i suoi obblighi. Sono quelli che noi chiamiamo profeti, il cui compito essenziale non era quello di predire il futuro bensì ricordare l’Alleanza con Dio e far capire alla nazione le promesse in essa nascoste, come anche le conseguenze rispetto al suo abbandono. Tuttavia, la maggior parte delle volte, il loro messaggio non è stato per nulla ascoltato. I discepoli di Gesù hanno capito molto bene questa dinamica e, partendo da questo modo di leggere la storia, hanno tentato di suscitare nei loro contemporanei una comprensione più profonda della fede in Dio. Negli Atti degli Apostoli, un credente di nome Stefano, prima di essere giustiziato per aver reso testimonianza a Cristo, pronuncia un lungo discorso al Sinedrio nel quale disegna le tappe della storia della salvezza. Egli conclude con queste parole:
O gente testarda e pagana nel cuore e nelle orecchie, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo; come i vostri padri, così anche voi. Quale dei profeti non hanno perseguitato i vostri padri? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete divenuti traditori e uccisori; voi che avete ricevuto la legge per mano degli angeli e non l’avete osservata (At 7,51-53).
Le sue parole sono qui come una ripresa delle parole di Gesù stesso quando si rivolgeva verso la capitale, simbolo della classe dirigente della società: «Gerusalemme, uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati» (Mt 23,37). Coloro che vengono nel nome di Dio, non incontrano, di solito, un’ accoglienza calorosa, anche se poi, in un secondo tempo, vengono onorati e si costruiscono per loro mausolei straordinari (Mt 23,29). In breve, non è assolutamente sufficiente dire alle persone come fare per seguire Dio perché ciò diventi una realtà vissuta.
Fra tutti i profeti, è Geremia che con i suoi scritti ci mostra in maniera più chiara la resistenza al messaggio profetico così come le conseguenze di tale ostilità per il profeta stesso. Di temperamento dolce, egli riceve la chiamata divina a proclamare parole forti che sono come un fuoco che brucia il suo cuore e che egli si sente costretto a rivelare (Ger 20,9). Il suo invito alla nazione a convertirsi lo porta solo ad esserne escluso (Ger 15,17) e perseguitato (Ger 11,19.21). Finisce per rendersi conto che le sue parole, da sole, non convinceranno mai i suoi contemporanei a tornare verso Dio ed esprime questa sua intuizione attraverso un’immagine spaventosa:
Il peccato di Giuda è scritto
con uno stilo di ferro,
con una punta di diamante
è inciso sulla tavola del loro cuore
(Ger 17,1).
Se il peccato, l’infedeltà verso Dio, è scritto sui cuori delle persone, è inutile immaginare che le parole incise su tavole di pietra o proclamate sulle pubbliche piazze possano in qualche modo modificare il loro comportamento. In fin dei conti, è sempre più facile seguire i propri impulsi interiori piuttosto che accogliere un invito che proviene da una realtà esterna. Questa constatazione suscita in lui una sorta di disperazione:
Più fallace di ogni altra cosa è il cuore
e difficilmente guaribile;
chi lo può conoscere?
(Ger 17,9)
A causa di questo aspetto della condizione umana, la Parola di Dio in generale – e le Dieci Parole in particolare – diventano «legge» nel senso negativo e comune di questo termine, sono come una diga che si sforza di contenere il dinamismo spontaneo della persona umana e crea, a lungo andare, una situazione intollerabile. Si cerca di obbedire alla legge, al prezzo di sentirsi obbligati e frustrati, finché, cadendo finalmente nella tentazione, la si trasgredisce, permettendo il formarsi di un senso di colpa e l’impressione di un fallimento. Alla fine, può succedere che si reagisca contro questo stato di cose cercando di sbarazzarsi completamente dal gioco della legge. Secondo questo modo di vedere, a differenza di quanto viene proposto fin dall’inizio di questo libro, la libertà e la felicità della persona appaiono incompatibili con un’esistenza che vuole prendere sul serio la Parola di Dio.
Il ragionamento appena descritto riprende a sua volta il tema principale della Lettera di san Paolo ai Romani. L’apostolo afferma che, data la condizione umana in quanto tale, gli uomini non possono ottenere la salvezza (per noi, la libertà e la felicità) seguendo una legge scritta. Ciò che rende impossibile questo tentativo non è qualche difetto nella Legge stessa, piuttosto una falla all’interno dell’essere umano. Il nostro cuore è diviso:
Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. lo non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. [...] io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio [...]. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’ altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra (Rm 7,14-15.19.22-23).
Per l’apostolo, non si tratta di un ragionamento puramente astratto. Paolo analizza la storia dell’umanità e conclude che non sono soltanto i pagani ad essere incapaci di vivere secondo la volontà divina nel corso dei secoli, ma anche gli ebrei, loro che hanno beneficiato di una rivelazione diretta e avrebbero dovuto, di conseguenza, saper condurre una vita più retta (cfr. Rm 2,1-3,20). Tuttavia, secondo Paolo, ciò non significa affatto che la Torah, la Parola rivelata da Dio, sia errata:
Che diremo dunque? Che la legge è peccato? No certamente! Però io non ho conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non desiderare [...]. Così la legge è santa e santo e giusto e buono è il comandamento [...]. Invece il peccato, per rivelarsi peccato, mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene, perché il peccato apparisse oltre misura peccaminoso per mezzo del comandamento (Rm 7,7.12.13).
Rivelando la sua volontà attraverso la Torah, Dio ha fatto all’umanità un dono inestimabile. Anche se tale dono non ha di fatto trasformato la società nell’ideale cui mirava, questo «insuccesso» aveva un lato provvidenziale perché ha permesso di cogliere con estrema chiarezza il problema in tutta la sua portata, indicando così un passo supplementare nell’ autorivelazione di Dio, un passo che si rivelerà necessario. Dio aveva già permesso al suo servo Geremia di intravedere questo attraverso una rivelazione avvenuta in un momento di disperazione. Quando il profeta si lamentava che il cuore umano era perverso e domandava chi avrebbe potuto scrutarlo, la risposta alla sua stessa domanda scaturiva dentro di lui:
Io, il Signore, scruto la mente
e saggio i cuori,
per rendere a ciascuno secondo la sua condotta,
secondo il frutto delle sue azioni.
(Ger 17,10)
Dio, creatore del cuore umano, è il solo capace di scrutarne le profondità e, dunque, il solo capace di trasformarlo. Un giorno, Geremia, annuncia questa trasformazione in arrivo che risolverà per sempre il problema dell’ Alleanza e della Legge:
«Ecco verranno giorni – dice il Signore – nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò una alleanza nuova. Non come l’alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto, una alleanza che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore. Parola del Signore. Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato» (Ger 31,31-34).
Di fatto, l’unica soluzione al dilemma di una legge scritta, che di per se non può salvare, è un’iniziativa divina che renda possibile una ri-creazione del cuore umano, d’ora in avanti docile alle sollecitazioni provenienti da Dio. Piuttosto che il peccato scritto nel loro cuore, essendo ciò in fondamentale contrasto al desiderio di Dio, in questa nuova disposizione la parola di Dio sarà una fonte interiore di attività, in modo tale che gli esseri umani seguiranno spontaneamente il cammino per il quale sono stati creati. Non ci sarà più alcuna dicotomia fra ciò che Dio vuole per le sue creature e i loro intendimenti e aspirazioni. Il problema della libertà saràanch’esso risolto, poiché i comandamenti divini verranno identificati con il dinamismo interiore che costituisce l’essere umano e dunque non susciteranno più sentimenti di costrizione o di obbligo.
Geremia descrive questa nuova situazione come un tempo in cui la Torah di Dio, il suo insegnamento o la sua Legge, sarà scritto sul cuore umano. Nella generazione successiva, un profeta di nome Ezechiele riprenderà la stessa idea modificandone l’immagine:
Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio (Ez 36,25-28).
Da parte sua, questo profeta descrive il cambiamento come il dono di un cuore completamente nuovo, un cuore pienamente umano al posto di quello incapace di ascoltare e di agire con coerenza. Egli parla di questa trasformazione come di una nuova creazione, l’opera dello Spirito Santo, del Soffio divino, ormai presente nella persona umana. Come per Geremia, il risultato di questa nuova iniziativa creatrice da parte di Dio, sarà quello di eliminare ogni disarmonia fra Dio e il suo popolo. D’ora in poi entrambi cammineranno mano nella mano: «voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio». Per i discepoli di Gesù, quelli che hanno riconosciuto in lui «il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16; cfr. Mc 1,1), questa armonia fra Dio e l’umanità non era solamente una speranza per l’avvenire, era diventata una realtà presente. Innanzitutto lo era in Gesù stesso, venuto «non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 6,38; cfr. 8,29). Lo era anche per i suoi discepoli, come si vede soprattutto nella prima Pentecoste cristiana, descritta da Luca al capitolo 2 degli Atti degli Apostoli. I cristiani celebrano la Pentecoste come una delle loro principali feste religiose ma forse non sanno che questa era – ed è ancora – una festa ebraica. Chiamata anche la Festa delle Settimane (Shavuot), è uno dei tre giorni principali del calendario religioso ebraico (cfr. Es 23,14-17). Con ogni probabilità, in origine era una festa del raccolto celebrata cinquanta giorni dopo la Pasqua; essa venne poi associata al ricordo d’Israele circa gli avvenimenti dell’Esodo. In Es 19,1, leggiamo che «il terzo mese dall’uscita dal paese d’Egitto, gli israeliti arrivarono al deserto del Sinai». Di conseguenza, per i rabbini, la Pentecoste segna il giorno in cui il popolo arriva al Sinai: i cinquanta giorni comprendono la fine del primo mese, il secondo mese e l’inizio del terzo. Questa festa diventa allora la celebrazione di quello che avvenne sulla montagna santa: l’Alleanza con Dio che si concretizza con il dono della Torah. Essendo la festa dell’ Alleanza, il memoriale del dono della Torah, la Pentecoste è dunque il giorno per eccellenza delle Dieci Parole.
A motivo della risurrezione di Gesù, questo giorno per ricordarsi del passato e renderlo presente, subì una trasformazione: per i discepoli di Cristo diventò un compimento di quanto lo aveva preceduto e un nuovo inizio. Delle lingue di fuoco, identificate con lo Spirito Santo di Dio, scendono sui discepoli riuniti nel cenacolo. Ora, nel modo di raccontare gli avvenimenti sul Sinai, il popolo ebraico aveva l’abitudine di aggiungere degli elementi al brano biblico. In certi racconti si dice che Dio scrisse le Dieci Parole sulle tavole di pietra con il suo dito, spesso interpretato dai rabbini come il suo Spirito; per altri si trattava di lingue di fuoco. Questi dettagli rilevano ancora più chiaramente la continuità fra la Pentecoste ebraica e la Pentecoste cristiana. La differenza è che, ora, Dio non scrive la sua Parola sulle tavole di pietra ma sul cuore dei fedeli. La profezia di Geremia, ripresa poi da Ezechiele, diventa una realtà. Gesù, per mezzo del dono di sé e della sua risurrezione, rinnova l’Alleanza da cima a fondo. Questa non passa più attraverso la mediazione di una realtà esteriore, in se stessa buona ma estranea al dinamismo più profondo dell’ essere umano, ma si incarna per la presenza dello Spirito di Dio che trasforma l’attività umana dall’interno.
Inoltre, per comprendere pienamente il significato della Pentecoste cristiana, è essenziale rendersi conto che non si tratta di un evento successo una volta per tutte, qualcosa che si è verificato duemila anni fa in Palestina. Dopo la manifestazione dello Spirito e la spiegazione di Pietro alla folla che assisteva, tutti gli domandano cosa devono fare. E Pietro risponde:
Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito Santo. Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro (At 2,38-39).
Ciò che successe a Gerusalemme è l’epicentro di un terremoto che continua a propagare le sue onde attraverso i secoli. L’esperienza della Pentecoste non smette di risuonare, attraverso i secoli e in molteplici luoghi, nella vita di donne e uomini che ascoltano la buona novella di Gesù Cristo e la prendono a cuore. La vita nuova nella quale entrano è riassunta nell’atto del battesimo.
Ciò propone un’ultima domanda di non facile risposta. Molti cristiani potrebbero fare questo ragionamento: «lo sono battezzato e mi sforzo di vivere la mia fede il meglio possibile. Ma non ho l’impressione di compiere la volontà di Dio in maniera spontanea. Provo sempre dentro di me una tensione, quella lotta interiore che san Paolo descrive al capitolo 6 della sua Lettera ai Romani, fra il bene che voglio fare e il modo in cui vivo concretamente. Allora, cosa ha cambiato la venuta di Cristo? Cosa significa aver ricevuto il dono dello Spirito Santo come « legge interiore »?».
È una domanda da prendere molto sul serio. È ovvio che, se non ci sono cambiamenti osservabili nel comportamento di coloro che hanno aperto la loro vita alla novità portata dal Cristo, diventa difficile cogliere a cosa si riferisca il linguaggio del Nuovo Testamento. Gesù aveva già detto che, dall’ amore di cui i cristiani avrebbero dato prova, gli altri potevano riconoscere la verità del suo messaggio (cfr. Gv 13,35; 17,21-23). Cosa potrebbe significare, di fatto, «una legge scritta sui nostri cuori» se la nostra vita fosse in tutto uguale a quella di persone che non conoscono questa legge e che si sforzano di vivere il meglio possibile secondo i valori che hanno ricevuto dalla società circostante? I cristiani hanno spesso parlato come se fossero moralmente superiori ai credenti di altre religioni, anche (o forse soprattutto) quando il loro comportamento concreto non traduceva affatto una tale superiorità. A loro insaputa, danno prova di quella stessa attitudine che san Paolo biasima nei suoi contemporanei:
Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose [...]. Ora, se tu ti vanti di portare il nome di Giudeo e ti riposi sicuro sulla legge, e ti glori di Dio, del quale conosci la volontà e, istruito come sei dalla legge, sai discernere ciò che è meglio, e sei convinto di essere guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, educatore degli ignoranti, maestro dei semplici, perché possiedi nella legge l’espressione della sapienza e della verità [...] ebbene, come mai tu, che insegni agli altri, non insegni a te stesso? [...] Tu che ti glori della legge, offendi Dio trasgredendo la legge? (Rm 2,1.17-21.23)
Per trovare una via d’uscita a questo dilemma bisogna esaminare più da vicino la logica dell’ attività divina. A causa di una comprensione troppo umana della «onnipotenza» divina, abbiamo la tendenza a immaginare che Dio possa o debba agire come un mago che, con un colpo di bacchetta magica, trasformi radicalmente la nostra realtà umana in un batter d’occhio. In questo caso, il fatto di accogliere lo Spirito Santo nella nostra vita attraverso il battesimo dovrebbe condurre a un cambiamento immediato e totale del nostro stile di vita e del nostro comportamento. Tuttavia, guardando più da vicino, osserviamo che le cose non vanno in quel modo. Al contrario, Dio rispetta la struttura e i ritmi del mondo che lui stesso ha creato. Altrimenti avremmo una sorta di contraddizione da parte sua. Con una pazienza infinita, Dio lavora dall’interno, chiamando gli esseri umani a una comunione sempre più grande e intima con lui.
Un’immagine del Vangelo che ci può aiutare a cogliere questo processo è quella del seme. In una parabola-chiave utilizzata per spiegare il suo messaggio, Gesù paragona la venuta del Regno di Dio a un contadino che semina il suo campo; i semi cadono dappertutto e la loro crescita varia secondo la qualità del terreno che essi incontrano (Mc 4,2-9). In un altro passaggio ancora, descrive il Regno come un piccolissimo seme che cresce fino a diventare una pianta enorme (Mt 13,31-32). A sua volta l’apostolo Pietro, scrivendo a dei nuovi cristiani, dice loro:
[...] essendo stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna (1Pt 1,23).
In altri termini, possiamo considerare la «Legge interiore», cioè la presenza dello Spirito Santo nei nostri cuori, come un piccolo seme piantato in noi dal giorno del nostro battesimo, un seme che deve crescere e svilupparsi fino a trasformare l’insieme della nostra esistenza. I discepoli del Cristo non sono dunque necessariamente migliori di coloro che trovano la loro identità cercando di mettere in pratica dei comandamenti scritti; è la logica del modo di agire che è differente. Le manifestazioni esteriori, per esempio la parola di Dio incontrata nella Bibbia, non regolano il loro comportamento, bensì riflettono ciò che Dio sta per compiere in loro. Utilizzano l’insegnamento che viene dall’esterno come una specie di specchio che li aiuta a cogliere meglio in che modo siano trasformati sotto l’impulso dello Spirito Santo. È per questo motivo che san Giovanni può scrivere ai suoi discepoli:
Ora voi avete l’unzione ricevuta dal Santo e tutti avete la scienza. [...] l’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri; ma come la sua unzione vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce, così state saldi in lui, come essa vi insegna (1 Gv 2,20.27).
Naturalmente, i cristiani devono ricevere una catechesi da coloro che li hanno preceduti. Scrivendo queste parole, Giovanni stesso sta istruendo coloro che gli sono stati affidati. Questo insegnamento, pertanto, non serve a dare loro qualcosa di nuovo, bensì, piuttosto, a risvegliare in essi ciò che, implicitamente, hanno già «fin dall’inizio» (cfr. 1Gv 1,1; 2,7.24; 3,11), a partire dal momento della loro chiamata da Dio e del loro ingresso nella comunità. Il suo ruolo è quello di far emergere ogni implicazione della scelta che hanno fatto – e del dono che hanno ricevuto – accettando di seguire Cristo. Questo è, d’altronde, uno dei temi principali della lettera di Giovanni: il compito essenziale dei credenti è quello di restare fedeli a ciò che hanno ricevuto all’inizio. Tutto, cioè una comunione con il Padre in Cristo attraverso la presenza interiore dello Spirito Santo, è stato donato fin dal principio ed è ricapitolato nel sì del battesimo. È restando fedeli a questo sì che riceveranno tutto ciò che serve loro per affrontare le sfide e le prove di ogni nuovo giorno. E, secondo san Giovanni, il segno principale della loro fedeltà a quanto hanno ricevuto dal principio è la loro appartenenza attiva alla comunità dei credenti.
Così le Dieci Parole non smettono di essere valide per i discepoli di Gesù Cristo. Tuttavia, il centro di gravità si è spostato da una legge o da un comandamento esteriore a una parola interiore ascoltata e custodita nel cuore. Questa parola interiore indica una direzione che deve essere seguita in un processo continuo d’approfondimento. Essa diventa ciò che san Giacomo chiama la Legge perfetta di libertà, da lui identificata con la Parola che è stata seminata in voi, riprendendo a sua volta l’immagine della semina (Gc 1,21.25).
Ciò che maggiormente importa ai discepoli di Gesù Cristo, è dunque dare fiducia a quello che lo Spirito compie in loro. Per noi la domanda principale non è «Cosa dobbiamo fare?» e neppure «Come bisogna vivere?», ma «Come nutrire il seme che è stato deposto in noi?». Con la lettura e la meditazione della Scrittura, con la preghiera personale e comunitaria, che culmina nella celebrazione dell’ eucaristia, sostenendosi vicendevolmente come fratelli e sorelle in Cristo, attraverso un’ esistenza basata sul dono di sé, i credenti permettono a questa vita nuova deposta in loro di sbocciare e di portare frutti in abbondanza. Entrati in questo cammino, potranno scoprire qualcosa che i maestri d’Israele avevano già notato da lungo tempo. Nella lingua ebraica, un’ingiunzione negativa non si esprime con l’imperativo, ma con un tempo che corrisponde all’indicativo futuro: non si dice «Non uccidere!» ma piuttosto «Tu non ucciderai!». Domandandosi perché è così, i rabbini hanno risposto che le Dieci Parole erano soprattutto una promessa e non una serie di ordini. Meditando la Torah e prendendola a cuore, i credenti diventano, a poco a poco, a vera immagine del loro Creatore, persone che vivono come Dio desidera: «Tu non ucciderai!». Qui siamo agli antipodi di una visione ristretta e legalista, così spesso, e a torto, attribuita al popolo ebraico. La parola di Dio è una promessa di vita che apre a un mondo di libertà e di felicità, dove regnano la giustizia e la pace. Per chi pone fiducia in Cristo, questa promessa non è solo l’obiettivo di una attesa futura. Attraverso la venuta di Gesù, la sua morte, la sua risurrezione e il dono del suo Spirito senza misura (Gv 3,34), essa è diventata una possibilità permanente nel nostro quotidiano: «tutte le promesse di Dio in lui sono divenute « sì »» (2Cor 1,20).
Così: il Vangelo si trova potenzialmente nella Legge e i Vangeli si comprendono posati sul fondamento della Legge. Non le do il nome di Vecchio Testamento se la considero spiritualmente. La Legge diventa un Vecchio Testamento solo per quelli che vogliono capirla secondo la carne [...]. Ma per noi, che la comprendiamo e la spieghiamo nello Spirito e nella linea del Vangelo, è sempre nuova; entrambi i Testamenti sono per noi un Nuovo Testamento,
non secondo la cronologia ma secondo la novità della comprensione.
ORIGENE*
* Pensatore greco cristiano del terzo secolo nelle sue Omelie sui Numeri, IX, 4 (Sources chrétiennes 415).