Archive pour janvier, 2013

« NOI INVECE ANNUNCIAMO CRISTO CROCIFISSO » (2Cor, 12,15, ma il tema è il Crocifisso)

http://www.parrocchiapersiceto.it/parrocchia/eventi/decennale-crocefisso-2011/presentazione/

« NOI INVECE ANNUNCIAMO CRISTO CROCIFISSO »

(Articolo tratto dal numero speciale de « La Voce che chiama » dedicato alla Decennale del Crocefisso )

Alla luce di questa espressione forte di San Paolo ci siamo incamminati verso la Decennale del Crocifisso. E’ una tradizione antica a Persiceto che negli ultimi vent’anni non abbiamo avuto l’occasione di vivere. Ora l’occasione ci si presenta e non ci manca il desiderio di onorarla, nel tentativo di viverla in pienezza, cioè di celebrare i momenti di fede, di arte e di cultura (come leggerete nel programma) senza trascurare la contemplazione del Mistero di Cristo Crocifisso.
Contemplare Gesù crocifisso, per riflettere sulla sapiente stoltezza della croce, come unico criterio possibile del proprio stare nel mondo, facendo affidamento solo sulla potenza di Dio. Contemplare la più autentica e devastante debolezza per lasciarsi abbracciare dalla potenza della vita che sconfigge la morte.
Contemplare Gesù crocifisso per conoscere il vero volto di Dio, e il vero volto dell’uomo. Senza bellezza né splendore, anche se l’arte è eccelsa, mettersi in ginocchio davanti al Crocifisso per adorare la Verità. La Verità non ha né bellezza né splendore, la Verità non tollera attributi. Annunciamo Cristo crocifisso perché non c’è altra verità così eloquente eppure misteriosa. L’unico amore vero, difficilissimo eppure accessibile a tutti.
Noi che siamo abbagliati dalla potenza, attirati dalle infinite risorse della tecnologia, illusi dalle sconfinate possibilità della scienza, eppure sempre più poveri. Sedotti dalla grandezza per tutta la vita ma abbandonati quando ne avremmo più bisogno, quando il sipario si chiude e lo spettacolo della nostra vita ci appare in tutta la sua povertà, una illusione a termine, ecco che allora si rivela la debolezza di Dio come l’unica verità, la sua piccolezza così simile alla nostra da rendere la sua onnipotenza tutta per noi. E’ un gesto di verità adorare un crocifisso perché significa ammettere quanto noi rifiutiamo la debolezza e quanto Dio la faccia sua, è umano rifiutarla, ma divino assumerla. E’ inutile cercare Dio, vano tentare di conoscerlo escludendo la croce: solo essa ci rivela il volto di Dio. E solo alla luce di Cristo Crocifisso si illumina il volto dell’uomo. L’umanità ha bellezza e splendore solo ai piedi della croce, solo sotto lo sguardo di
Dio, di quel cuore trafitto da cui sgorga perdono , misericordia, amore, vita eterna. Solo Gesù Crocifisso dimostra che Dio è onnipotente: non esiste infatti amore più grande, né un Dio più potente nell’amare.
Contemplare il crocifisso è un grande gesto di verità, significa smascherare la nostra debolezza travestita da potenza e rivelare la vera potenza di Dio, cioè la sua grandezza nell’amore, smettendo di attribuirgli i tratti di una potenza che egli non ha mai voluto manifestare. Un Dio che si consegna agli uomini. Lasciare la parola alla croce. Al silenzio che solo rivela la Verità, chi è Lui e chi siamo noi.
Con questi sentimenti e quant’altri ancora il Signore ci vorrà donare in questo decennale ritrovato momento di Grazia, chiediamo la Grazia di saper contemplare Cristo Crocifisso per poi trovare in lui stesso la forza di annunciarlo a chi è Crocifisso dalla vita, ai malati nel corpo e nello spirito, a chi abbiamo vicino e porta grandi croci.
Chiediamo la Grazia di saperci incamminare dietro al Crocifisso sulla via maestra dell’Amore vero, che si adatta all’amato e non pretende, anche quando l’amato, cioè noi con la nostra cultura vuota e mortifera, sa trasformare la croce in un accessorio da stilisti di lusso o poco più.
Al Signore Crocifisso, che avremo la Grazia di celebrare e contemplare in abbondanza in questa Decennale, chiediamo di saperlo contemplare con coraggio, celebrare con fede e annunciare con gioia.
Don Marco Cristofori

CARLO MARIA MARTINI: TITOLO ORIGINALE: PAOLO NEL VIVO DEL MINISTERO (2Cor)

http://www.atma-o-jibon.org/english/martini_paul_ministry1.htm

(traduzione Google dall’inglese, è complicato tradurre dall’inglese! lascio a voi la traduzione di qualche parola… strana)

CARLO MARIA MARTINI

PAUL IN THE THICK OF HIS MINISTRY

ST PAUL PUBLICATIONS
TITOLO ORIGINALE: PAOLO NEL VIVO DEL MINISTERO, ANCORA, 1989
TRADOTTO DA QUELLO ITALIANO DA DINAH LIVINGSTONE

1. SOFFERENZA E COMFORT
In mezzo alla routine quotidiana
Risonanze della Seconda Lettera ai Corinzi
La lettura e la meditazione, il 2 Cor 1, :3-5
Comfort per le sofferenze
Metti alla prova  La lettura e la meditazione, il 2 Cor 1, :6-11
Comodità Apostolica
L’afflizione mortale
Un rapporto umano

PREFAZIONE
Il nucleo di queste riflessioni è lo studio di brani dalla Seconda Lettera ai Corinzi, in cui troviamo Paolo nel bel mezzo del suo ministero. « Qui troviamo Paolo nel duro slog del suo ministero. Dopo venti anni di esso, durante la quale ha passato attraverso tante prove, delusioni e difficoltà, parla come un servitore del Vangelo in mezzo alla routine quotidiana. » L’approccio crea collegamenti immediati con il suo pubblico, nel nostro caso erano giovani sacerdoti che lavorano in situazioni pastorali che richiedono un grande dispendio di energia per far fronte a tutti i tipi di problemi e difficoltà. Di qui le riflessioni del Cardinale sarà anche di interesse per chiunque altro lavora nel servizio del Vangelo e per questo abbiamo deciso di metterli a disposizione del pubblico.
Mentre andiamo più in profondità nel testo biblico ci viene mostrata la forza irrompente del Verbo. Questo è l’unico modo per descrivere l’approccio ad un passaggio che in un primo momento sembra trasmettere solo le sofferenze e le incomprensioni della vita dell’Apostolo, ma in realtà apre orizzonti inaspettati. Per esempio ci viene ricordato che per il servo del Vangelo disposti ad essere messa alla prova, il comfort viene dalla sofferenza. O in un altro paziente passo far fronte alle difficoltà di molte relazioni e varia dell’Apostolo dà origine a un’esperienza speciale e più maturo della paternità spirituale (vedi le meditazioni prima e la seconda).
A volte è il testo biblico in sé che suggerisce un orizzonte diverso. Parlando di un ministero « dello Spirito », che è superiore a quello della legge e descrivendolo come intrinsecamente un ministero di « riconciliazione », Paul introduce nuove prospettive. La devozione alla Parola che modella il nostro quotidiano servizio alla comunità offre il ministro con gli obiettivi precedentemente inimmaginabili al di là delle sue aspettative (meditazione terzo e quarto).
Infine, l’atmosfera familiare in cui le riunioni tra l’Arcivescovo ei sacerdoti giovani ha avuto luogo 100 a una forma ancora più immediato di comunicazione, negli ultimi due meditazioni. Il primo di questi riflette realisticamente su come consolidare i rapporti con coloro con i quali condividiamo l’opera di predicare il Vangelo in una comunità. La seconda è particolarmente preoccupato di come la vita frammentata di un pastore può ancora mantenere un rapporto profondo con Dio preghiera andare.
Così ci viene dato una buona immagine della vita del pastore servire il Vangelo nella comunità cristiana e aiutare a crescere nella fede. Ci viene mostrata la ricchezza e le possibilità in questa vita, anche se alcuni giorni può essere irto di « sofferenze » e « incomprensioni ».
Franco Brovelli
29 Giugno 1989
Festa dei Santi Pietro e Paolo

1 SOFFERENZA E COMFORT                                                   
« Donaci, Signore, per iniziare la nostra giornata ai tuoi occhi, per capire il vostro piano per noi. Donaci una visione ampia di ciò che chiamate a noi, in modo che possiamo cogliere ogni cosa che accade ai nostri giorni, nel contesto del mistero di amore per l’umanità.
Donaci, o Padre, per capire Cristo, centro della nostra vita e del lavoro pastorale « .

IN MEZZO ALLA ROUTINE QUOTIDIANA
Abbiamo preso Seconda lettera di Paolo ai Corinzi come testo di meditazione per il nostro ritiro. Ho riflettuto su di esso per molti anni e sono molto legato ad esso, perché ci mostra Paolo in mezzo del suo ministero. L’Apostolo non è sognare ad occhi aperti, lui non si fa illusioni, come ad esempio potremmo avere nei nostri anni di seminario, quando ci crea fantasie sul nostro futuro ministero. In questo testo troviamo Paolo nel duro slog del suo ministero. Dopo venti anni di esso, durante la quale ha passato attraverso tante prove, delusioni e difficoltà, parla come un servitore del Vangelo in mezzo alla routine quotidiana. Così ci sentiamo lui è molto dose a noi.
Mentre sta scrivendo la lettera di Paolo sta vivendo tre studi principali.
Il primo è sentirsi respinto dalla maggior parte dei suoi fratelli e sorelle ebrei. Pensava che prima intenzione di Gesù ‘è stato quello di dargli con la missione di predicare agli ebrei, come faceva quando andava di città in città predicazione nelle sinagoghe. Immaginò che, nonostante le difficoltà inevitabili, gli ebrei avrebbe capito, ma questo si è rivelato un’illusione e la sua missione a loro non è riuscito. Nella sua lettera ai Romani, datato a circa questo brina, troviamo che ha ancora qualche speranza, ma si sta rassegnarsi al fatto che una rottura è venuto, che lo porta dolore enorme. Nel nostro testo, è facile vedere che questa è stata la prima grande delusione del suo ministero: coloro a cui il Verbo è stato affrontato non rispondono. Per le sofferenze di Paolo si aggiungono le domande: Ma perché Dio ha permesso? Perché le cose accadono in questo modo? Perché la Parola ricevuta da coloro ai quali è stato direttamente e principalmente rivolta?
Questa prova mi ricorda l’angoscia espressa dal cardinale Montini alla alienazione del c1ass di lavoro, il golfo – lo chiamava – che si era creata tra la Chiesa e il mondo della gente comune, che avrebbero dovuto essere i primi ad avere il Vangelo predicato loro.
La seconda prova è sorta dalle dispute interne nelle comunità. L’Apostolo sognato di comunità unite, armoniose, entusiasta e unanime. Invece, la sua amara esperienza – già espresso nella sua prima lettera ai Corinzi, ma qui raggiunge il suo picco – è quello di trovare comunità in cui ci sono molti gravi spaccature. Non solo controversie interne, ma anche opinioni diverse su di lui.
Così la Seconda Lettera ai Corinzi è scritto per chiarire malintesi, mancanza di fiducia e pregiudizi su di lui nella comunità.
La terza prova è interno. Paolo si riferisce ad esso con discrezione, ma chiaramente. E ‘difficile capire che cosa queste sofferenze potrebbero essere. Tenendo conto temperamento di Paolo possiamo immaginare stati d’animo alto e basso, l’entusiasmo alternati a depressione, stanchezza, la noia con il superlavoro ministero,.
La Seconda Lettera ai Corinzi perché porta a noi questi tre studi l’Apostolo sta vivendo sembra più simile a noi e un testo utile per riflettere su durante una pausa nel nostro ministero. Il vostro ministero e la mia. Ognuno di noi ha problemi nella nostra vita ed è importante cercare il modo giusto di trattare con loro. Dire che Paolo è nel bel mezzo del suo ministero significa non solo nel bel mezzo di attività, ma anche di sofferenze.
Quando stavo pensando a questo incontro ho ascoltato di nuovo la lettera e certe cose emerse che io suggerisco a voi in due periodi di lettura della Bibbia. Suggerisco che nel tempo libero di leggere tutta questa lettera fino, al fine di cogliere l’intensità dei sentimenti Paul ‘s.

RISONANZE DELLA SECONDA LETTERA AI CORINZI
Tre stavano le cose quando ho letto tutta la lettera:
1. In primo luogo mi ha colpito l’estrema fiducia nel suo carisma espresso da Paolo in tutto.
In contrasto con le situazioni difficili che abbiamo citato, troviamo un uomo che è assolutamente certo che tutto intorno a lui può rompere, ma non il suo carisma. Anche quando dà sfogo alle sue sofferenze con più forza, emerge assolutamente certo del carisma che è stato dato a lui, la sua vocazione, la sua missione come un dono dello Spirito Santo. Alla luce di questo dono dello Spirito Santo, giudica tutto il resto e, in mezzo ai suoi studi il suo carisma diventa ancora più autentico e radiosa.
Questo è impressionante, perché i suoi guai avrebbe potuto fare lo indeboliscono e diventano paura. Avrebbero potuto si chiese: E ‘davvero questo il mio carisma? E ‘così forte? Devo affidati a l’ultimo?
Fede di Paolo nel suo carisma dà anche la forza per noi. Posso dire che ho spesso riacquistato la mia fede nel mio carisma, come sacerdote e vescovo, ruotando le parole di Paolo ‘s in questa lettera.
Tutto ciò che può fare a meno, ma il carisma rimane sicuro, come Paolo scrive nella Lettera ai Romani: « Chi ci separerà dall’amore di Cristo? » (Rm 8,35). Possiamo soffrire mali interni ed esterni, tante cose può fare a meno, ma niente può separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore, che mi ha scelto e mi ha chiamato.
2. Questa fede forte nella sua carisma persiste in umili, circostanze oscure e dolorose. Anche se ci sono circostanze, per confortare l’Apostolo, nel complesso la situazione è difficile. La sua missione è solo di arrivare a poche persone. Paul sperava di raggiungere un gran numero (almeno il popolo ebraico). Invece è solo raggiungere le comunità di piccole dimensioni con scarso effetto sull’opinione pubblica. Queste condizioni umili, oscuro e doloroso portare problemi quotidiani: malizia persone ‘s, incostanza, il tradimento degli amici, macchinazioni, decidendo che sono vere e che sono falsi apostoli, in un miscuglio di dottrine e rivendicazioni.
Tali circostanze, che normalmente hanno causato confusione, tristezza e sgomento, sono in contrasto con la sua forte fede nel suo carisma: tutto può fallire, ma non questa certezza.
3. Da molte pagine della lettera si nota che tutto questo sta accadendo, mentre al tempo stesso si sente un amore incrollabile per la sua comunità. Vediamo che le persone che sono piuttosto scortese e ostile a Paolo sono costantemente amato teneramente e in modo costruttivo. La comunità ha cercato di spingerlo fuori, di diffamare il suo nome, e lui sta lottando per presentarsi come un padre amorevole che non è né indignata, né amaro. Saluta la sua comunità con autorità e con affetto quasi violento.
C’è qualcosa di straordinario in amore Paul ‘s se si considera quanto sia facile si può chiudere se non sono i benvenuti, o solo da alcuni, mentre altri restano freddi, critica e riservato.
Nella lettera ci sentiamo sofferenza Paul ‘s, ma non troviamo una sola frase che può essere chiamato il ritiro. Infatti questa lettera è la medicina per l’apostolo nella sua difficoltà. È nutrimento, un tonico, perché le sue parole sono piene di forza. E per chi crede che provengono dallo Spirito Santo sono così apposita, ma anche ripristinare la nostra fiducia in noi stessi, il nostro ministero. Ci aiutano a mantenere una visione ampia in mezzo brutte piccole circostanze, e continuare ad amare nonostante tutto.
Si tratta di tre punti per lei a riflettere nella vostra rilettura o ri-audizione della lettera. Ho ascoltato di nuovo a chiedermi alla seguente domanda: come fa Paul affrontare le prove del suo ministero e come faccio a far fronte a situazioni come la sua? Questa domanda fa la lettera molto importante per noi.

LETTURA E LA MEDITAZIONE 2 COR 1:3-5
Con i punti di cui sopra in mente dobbiamo ora cominciare a leggere la prima pagina di questa lettera:
Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Timoteo.
Alla chiesa di Dio che è in Corinto, con tutti i santi che sono in tutta l’Acaia. [Quindi la lettera è scritta in una parrocchia, Corinto, una grande parrocchia urbana e anche a tutti coloro che non nella regione circostante.]
Grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo.
Benedetto sia il Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre delle misericordie e il Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione, con la consolazione con che noi stessi siamo consolati da Dio. Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo, così per mezzo di Cristo che condividiamo abundant1y anche la nostra consolazione. Quando siamo tribolati, è per la vostra consolazione e salvezza, e se siamo consolati, è per il vostro comfort, che si verificano quando si pazientemente sopportare le medesime sofferenze che soffriamo. La nostra speranza per voi è incrollabile, perché sappiamo che, come siete partecipi delle sofferenze, sarà anche condividere la nostra comodità.
Infatti, noi non vogliamo che tu sia ignorante, fratelli, di afflizione che abbiamo vissuto in Asia, perché eravamo così completamente, insopportabilmente schiacciato da giungere a disperare della vita stessa. Perché, ci siamo sentiti che avevamo ricevuto la sentenza di morte, ma che era per non farci affidamento su noi stessi, ma in Dio che risuscita i morti, ci ha liberato da un pericolo così mortale, ed egli ci libererà, su di lui ci sono posto la nostra speranza che ci libererà ancora. È inoltre necessario aiutarci con la preghiera, in modo che molti ringraziare per nostro conto per le benedizioni che ci ha concesso in risposta alle molte preghiere.

COMFORT PER LE SOFFERENZE
Quindi, quale titolo possiamo dare a questa sezione nel suo complesso? L’edizione Bibbia che sto usando è un eccellente: Sofferenza e comfort. Questo titolo parla da sé, perché non dice: La sofferenza e la gioia, che è la nostra esperienza ordinaria della vita. Nella nostra vita sperimentiamo sofferenze e le gioie, e cercare di trovare un equilibrio tra i due, perché non possiamo immaginare la vita di essere altro che gioia e non abbiamo potuto resistere se fosse nient’altro che sofferenza.
L’atteggiamento di Paolo è molto diverso, non cerca un equilibrio tra la sofferenza e la gioia, ma sperimenta la sofferenza e la comodità e dalla sofferenza. Penso che questa sia una visione rara del suo: non sofferenza e gioia, come elementi costitutivi della vita umana, ma la sofferenza e il comfort che viene dalle prove che sta vivendo.
Lo vediamo chiaramente nel testo: « Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione » (cfr vv 3-4). Non è una gioia generale ma un comfort che è nella sofferenza. E viene da dentro di esso. E il verso successivo ci porta ulteriormente in questa relazione tra la sofferenza e la comodità: « W parti e in abbondanza nella sofferenza di Cristo ‘s ». Non sono più di Paolo sofferenze, ma di Cristo, e abbiamo capito che l’Apostolo vive istintivamente le sue sofferenze non come un destino solitario personale, ma come sofferenze di Cristo in lui, perché si verificano all’interno del ministero che il Signore Gesù ha affidato a lui. In questo modo la sua vita è unita a quella di Cristo. Egli li chiama le sofferenze di Cristo in se stesso, perché la loro causa è che egli è entrato il ministero per amore del Signore.
E come tali sofferenze abbondano – sono molti e frequenti, non pochi e sporadici – « così per mezzo di Cristo abbondano anche la nostra consolazione » (v. 5). Vi è una stretta connessione tra la sofferenza di Gesù ‘in lui e la comodità per mezzo di Gesù in lui. Paolo trova il mistero della morte e risurrezione nelle prove personali e comunitarie. Per entrare nel mistero della morte, egli condivide anche abbondantemente nel mistero della risurrezione di Cristo, conforto e consolazione.

METTI ALLA PROVA
Passando a meditare sui versetti 3-5, possiamo chiederci: qual è la connessione tra la sofferenza e la comodità nel lavoro pastorale, che permette la comodità di entrare e dalla sofferenza?
Ciò significa che il comfort viene da essere messo alla prova. Comfort non è qualcosa di accessorio, o una ricompensa per la sofferenza. Si tratta in realtà di essere messo alla prova.
Quando siamo messi alla prova, siamo in grado di andare in esso fisicamente, anche psicologicamente e tuttavia non esistenzialmente. In questo modo ci dose di fuori dalla comodità di Cristo. Se non gioco la nostra stessa esistenza, non godere di comfort all’interno di sofferenza.
Si tratta di un fenomeno molto interessante, mi sento che succede a me e cerco di spiegarlo. Le prove del ministero sono vari: esaurimento fisico e nervoso, cattivo umore, la routine quotidiana, stati di ripugnanza, stati negativi in cui si voglia respingere persone e situazioni. Questi stati ci riguardano fisicamente e psicologicamente, eppure ci si può trattenere da loro, perché non li guardi in faccia, li nega, li abbiamo messi da parte, forse perché abbiamo paura che non possiamo affrontare apertamente. In un modo o nell’altro li consideriamo come effetti collaterali della nostra vita, che non dovrebbe accadere, e che sono più ri-assimilato inconsciamente. Si inietta una sorta di anestetico psicologico in queste prove.
Penso che spesso ci priva della forza che può ottenere di entrare in sofferenze di Cristo, perché di fronte a loro tratteniamo il fiato, la dose i nostri occhi, andare avanti lo stesso. Noi non li affrontare in preghiera o in una conversazione con Cristo. Noi non li prende in noi stessi e quindi le nostre prove rimangono come corpi estranei, non sono integrate nella nostra esperienza e quindi non può essere trasformato in comfort.
Ho incontrato molti consigli pastorali parrocchiali e trovo che sperimentano un bel po ‘di questi problemi, forse piccole divisioni interne, difficoltà nel loro rapporto con il parroco, in particolare tensione e pericolo in loro solitudine nella comunità nel suo insieme (la comunità non conoscerci, non ci apprezza, non dà valore il nostro lavoro). Tutto ciò sembra richiedere uno spirito missionario. In realtà io credo che sopportare queste prove con una certa insofferenza istintiva e inconscia, malumore, anche irritazione con se stessi e gli altri. Loro non li sopportano come test di Cristo ‘s, la sofferenza che Cristo e il cristiano deve affrontare, entrando in loro, prendendoli su di sé e poi sentire la forza di Cristo in loro. Perché se sono accettati in questo modo è molto più facile parlare liberamente e coraggiosamente su di loro, quasi imparziale, con il fuoco e la vita del Vangelo tipico di tono Paul ‘s proprio nella seconda Lettera ai Corinzi. L’Apostolo non si la colpa, non recrimina, non si blocca, come comunità fanno molti che sono anche buono e generoso e voglia di servire Cristo. Non hanno ancora capito quello che costano gli apostoli stessi un sacco di fatica a capire: che solo entrando in sofferenza e la croce di Cristo, possiamo condividere la sua comodità. Queste comunità sembrano assumere l’atteggiamento di Pietro: « Dio non voglia, Signore! » (Cfr Mt 16,22). Come può accadere questo? Non dovrebbe accadere. Non hanno raggiunto la seconda fase di Marco ‘s Vangelo, accogliendo Cristo’ s prove, di essere confortato per loro da lui con il suo conforto forte, con la grazia del conforto dello Spirito, che è solo versato quando queste prove sono ha accolto con favore.
Fin dall’inizio della lettera troviamo istruzioni eccellenti per la nostra vita quotidiana e che delle nostre comunità. I versetti 4 e 5, ci hanno offerto un primo pensiero: il conforto delle sofferenze di Cristo in noi. E ‘molto significativo che parla delle sofferenze di Cristo in noi, perché non si tratta di mie debolezze, i miei fallimenti, la mia personale sconfitte (ho pensato che ero un buon predicatore del Vangelo, un apostolo buona, un leader, e in circostanze dei fatti hanno dimostrato il torto, anche se ho ancora un paio di gioie!). Si tratta della sofferenza di Cristo in me e questo rende le cose un aspetto diverso. Capisco che la sofferenza è un modo in cui Cristo opera in me, e che è lui stesso che soffre la mia debolezza nelle difficoltà del ministero e dei problemi a relazionarsi con le persone.

LETTURA E LA MEDITAZIONE 2 COR 1: 6-11
I VERSETTI 6 E 7 DELLO STRESS PRIMO CAPITOLO CHE QUESTO CONFORTO È PER GLI ALTRI.
COMODITÀ APOSTOLICA
Il comfort apostolica generato dallo Spirito nella fedele servitore del Vangelo, il che significa così tanto, non è per se stesso. Questi non sono gioie che potremmo pensare come ricompensa per la sofferenza. E ‘il comfort apostolico per gli altri.
« Quando siamo tribolati, è per la vostra consolazione e salvezza, e se siamo confortati, è per la vostra consolazione » (v. 6).
Paolo vede questa sofferenza seguita da momenti luminosi come un aspetto del suo servizio. La sua afflizione è per gli altri, non è un incidente nel suo ministero, ma un ingrediente di esso. I fallimenti non sono semplicemente incidenti, ma gli ingredienti di istruzione, perché attraverso di loro, raggiungere Dio ‘s educazione e di lavoro d’amore.
Quindi, la comodità per gli altri. Nel versetto 7 ho letto qualcosa che mi ha fatto vergognare: « La nostra speranza per voi è incrollabile, perché sappiamo che, come siete partecipi delle sofferenze, sarà anche condividere la nostra comodità. »
Penso a certi incontri che a volte mi irritano, quando la gente è meschina e gretta perché sono chiuse in se stesse. Incontri straziante con alcuni consigli pastorali, perché non riescono a vedere i segni del Vangelo, o molto pochi di loro. E ‘tutto pesante farlo, frustrazione. Quanto è difficile tutto! Che cosa si deve fare?
Confrontando la mia tentazione con le parole di Paolo ‘s mi rendo conto che non sarei in grado di dire istintivamente: « La nostra speranza per voi è incrollabile, perché sappiamo che, come siete partecipi delle sofferenze, sarà anche condividere la nostra comodità. » Ha bisogno di una forte fede per vedere problemi e difficoltà nella comunità – blocchi, divisioni, pregiudizi – come una sofferenza che porta la libertà. Come riesco a dire a un gruppo di giovani che mi dicono i loro problemi, la mancanza di spirito nel loro gruppo, i loro fallimenti: « In ogni caso la mia speranza per voi è incrollabile, perché sappiamo che, come siete partecipi delle sofferenze , potrete anche condividere il nostro comfort.  »
Stiamo cercando di aiutare una comunità, un gruppo di giovani e questo tipo di lettura ci aiuta a dire queste cose a loro.

L’AFFLIZIONE MORTALE
I versetti 8 e 9 possono essere sottotitolato L’afflizione mortale « Io non voglio che tu sia ignorante, fratelli, della sofferenza che abbiamo vissuto in Asia, perché eravamo così completamente, insopportabilmente schiacciato da giungere a disperare della vita stessa ‘(v. 8 ).
Paolo rivela una crepa nella sua forza, che in altre pagine sembra così inespugnabile.
Ho già detto che in questa lettera Paolo esprime una forte fede nel suo carisma. Qui egli confessa che il processo ha subito in Asia (probabilmente causata dalla persecuzione, litigi, profonda delusione nella comunità, forse guasti temporanei in forza psicologica) lo fece « così completamente, insopportabilmente schiacciato da giungere a disperare della vita stessa ‘.
A volte anche noi possiamo sentire insopportabile schiacciato, oltre le nostre forze. Ma quando facciamo una vera analisi della situazione ci rendiamo conto che potrebbe essere peggio e che il Signore ci ha ancora risparmiato.
Ma anche se non arriva al punto di dire che siamo « assolutamente, insopportabilmente schiacciato » ci sarebbe allora come l’Apostolo « dubitare anche della vita ‘:. Che è, le cose non possono andare avanti, siamo finiti » W e sentire che abbiamo ricevuto la sentenza di morte, ma che è per non farci affidamento su noi stessi, ma Dio che risuscita i morti « (v. 9) Vediamo come il mistero pasquale non è un’astrazione per Paolo Dio che risuscita.. i morti salva anche me da una situazione senza via d’uscita, un vicolo cieco.
Dovremmo meditare ancora e ancora su questi versi alla presenza di Dio ‘s: Signore, qual è il senso della forza del carisma che mi hai dato?
Carisma Paul ‘s è in me attraverso l’imposizione delle mani. Non è un carisma di quelli che si pensa di avere e quindi seguire un certo percorso. Il nostro è un sicuro carisma apostolico, assolutamente garantiti dal gesto fisico della imposizione delle mani, e ci unisce alla grazia che era in Paolo. Grazia di Paul ‘s proprio è venuto a me attraverso l’imposizione delle mani apostoliche.

UN RAPPORTO UMANO
Il tema di versi 10 e 11 è la condivisione della comunità. Paolo dice: (se) ho superato questo momento che, lo confesso, era molto molto difficile (è) anche grazie a voi e le vostre preghiere. Continuate a pregare per me e ringrazio Dio per me.
Mi chiedo: ho mai avuto un rapporto di fiducia con la comunità? Avere uno mai arrivato al punto di dire: Pregate per me, perché mi trovo in una situazione molto difficile? Guarda, 1 era in una situazione molto difficile e l’ho superato grazie alla vostra preghiera e il sostegno?
Quando riusciamo ad avere questo tipo di rapporto, la comunità reagisce molto forte e scuote la loro idea del ministero in cui il ministro è o irraggiungibile e infallibile o criticato come infedele e incompetenti.
La comunità viene ripristinato un rapporto più umano. Il ministro ordinato, il servo di Dio, ha la sua grazia, ma anche la sua debolezza e il bisogno della preghiera. Ha bisogno di sentire che le persone sono unite nella sua lotta e gli sforzi.
Naturalmente è difficile trovare le parole giuste, soprattutto perché la comunità non è abituato a tale confessione e può essere scandalizzati. Ma perché? Non dovremmo essere confortato e rassicurato dal vescovo e il sacerdote? Immagine People ‘s del vescovo o il sacerdote è di qualcuno che mai vacilla mai, non dubita mai, ha problemi, che dovrebbero rassicurare gli altri. Se ha problemi, deve rivolgersi a Dio.
Naturalmente l’immagine opposta è anche sbagliato di un uomo che mostra debolezza ed esigente pietà. Quello di destra si trova da qualche parte tra i due: che la comunità dovrebbe condividere sofferenze del prete, così come il sacerdote partecipa in propria comunità l’.
Leggendo le parole di Paolo ci sono sbalordita per la sua apertura. « Egli ci ha liberato da un pericolo così letale e ci libererà, su di lui abbiamo posto la nostra speranza che ci libererà ancora » (v. 10).
Forse avrete notato che tutto diventa più facile quando questa situazione di sofferenza mortale assume la forma di sofferenza fisica, perché poi si riesce a parlare al riguardo e si ottenere immediatamente la simpatia della comunità. In effetti ci sono comunità che riconciliarsi con il loro pastore, quando diventa gravemente o addirittura mortalmente malato. Le persone si trasformano e la relazione diventa più umano.
Ricordo con commozione un esempio di grave sofferenza fisica in un Vescovo, che è morto recent1y: Filippo Franceschi, vescovo di Padova. Quando la comunità diocesana sentito sul suo stato di salute e ha chiesto di ricevere l’unzione degli infermi pubblicamente, davanti ai sacerdoti, una grande folla raccolte durante le celebrazioni Giovedì Santo, perché le persone erano molto al corrente dello stato loro pastore ‘s debole di salute e la sua sofferenza nella malattia. Si sentivano coinvolti con il loro vescovo. Il loro atteggiamento per lui è diventato più umano e più genuina, hanno smesso di criticare lui e chiedere tutto da lui.
Questo accade spesso. Naturalmente non dobbiamo lo accada, ma è un simbolo di quel rapporto più umano e genuino Paolo sta parlando qui. Ora dobbiamo riflettere su di esso in silenzio davanti a Dio chiedendo:
Signore, come faccio a reagire alle prove Paul ha avuto esperienza? Non riesco a dire lo stesso di lui. Mi sento lo stesso di lui? Quanto io sono di questo atteggiamento? Signore, dammi il conforto del tuo Spirito!

Calling of Matthew, Hendrick Terbrugghen, c. 1616

Calling of Matthew, Hendrick Terbrugghen, c. 1616 dans immagini sacre Calling-of-Matthew-_Hendrick-Terbrugghen-c1616
http://freechristimages.org/biblestories/calling_of_st_matthew.htm

Publié dans:immagini sacre |on 28 janvier, 2013 |Pas de commentaires »

ECUMENISMO, LA VIA DELLA BIBBIA DI ENZO BIANCHI (2011)

http://bibbiaeteologia.myblog.it/archive/2011/09/07/ecumenismo-la-via-della-bibbia-di-enzo-bianchi.html#more

07/09/2011

ECUMENISMO, LA VIA DELLA BIBBIA DI ENZO BIANCHI

AVVENIRE, 7.9.11

LA SCRITTURA NELLA VITA SPIRITUALE

Inizia oggi a Bose il XIX Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa che si protrarrà fino a sabato. A tema, “La parola di Dio nella vita spirituale”.Tra gli argomenti in dibattito, le ermeneutiche della Bibbia elaborate dai padri della Chiesa, la dimensione ecclesiale della Parola di Dio, l’oggi delle diverse chiese, la realtà della presenza della Scrittura nella vita dei credenti grazie anche alla testimonianza del monachesimo contemporaneo. Nella giornata inaugurale interverranno il priore di Bose, Enzo Bianchi (del quale pubblichiamo qui a lato una sintesi della relazione) e il metropolita Chrysostomos di Messenia (Chiesa ortodossa di Grecia). Concluderanno i lavori il metropolita Elpidophoros di Bursa del Patriarcato di Costantinopoli e il metropolita Ilarion di Volokolamsk, presidente del Dipartimento per le relazioni esterne del Patriarcato di Mosca. Saranno presenti come relatori anche esponenti dei Patriarcato di Antiochia, delle chiese ucraina, serba e bulgara, i cardinali Angelo Sodano e Achille Silvestrini, il vescovo di Pistoia Mansueto Bianchi presidente della Commissione ecumenismo e dialogo interreligioso della Cei.
«La Parola di Dio è simile a un grano di senape, sembra ben piccola prima d’essere coltivata. Ma quando è stata coltivata abbraccia il significato di tutti gli esseri»: così Massimo il Confessore applica alla Parola di Dio la similitudine che il Vangelo usa per indicare la realtà del regno di Dio. È con questa convinzione che la Chiesa indivisa ha saputo cogliere nella Parola di Dio contenuta nelle Scritture sante la fonte viva della vita spirituale del credente, l’autentica vita secondo lo Spirito. Spirito che, entrato nel credente attraverso il battesimo, nutre e fa crescere la vita divina nel cristiano alimentato dalla Parola. Gregorio Magno aveva espresso questa verità spirituale con una formula icastica: Scriptura crescit cum legente, la comprensione della Scrittura si accresce con la maturazione spirituale di colui che la legge e la interpreta. Ma la lettura della Scrittura, soprattutto nella tradizione delle Chiese d’Oriente, è sempre una lettura nello Spirito, e quindi anche nella comunità dei credenti radunata dallo stesso Spirito, in unità vivente tra adempimento dei comandamenti, preghiera e rendimento di grazie nella liturgia. La lectio divina è l’incontro con una persona viva, con Dio stesso che parla, per questo, secondo i padri, presuppone un certo grado di maturità spirituale e non può essere svincolata da una vita di ascesi interamente orientata a Dio: «Qualunque cosa tu faccia, appoggiati sulla testimonianza delle sante Scritture», diceva Antonio, il padre dei monaci. Se le parole della Scrittura sono “spirito e vita” (Gv 6,63), la conoscenza che scaturisce dalla Scrittura è “insegnamento dello Spirito”, è conoscenza rivelata ai “piccoli” (cf. Mt 11,25-27) ed è frutto di interpretazione spirituale. La Scrittura stessa rimanda il lettore allo Spirito santo come proprio principio ermeneutico. «È in essa che si comprende lo Spirito», scrive Massimo il Confessore indicando la Scrittura come principio di trasfigurazione, di divinizzazione. Dal canto suo, Gregorio Magno afferma che la Scrittura è “interprete di se stessa”, riprendendo un adagio caro alla tradizione co­mune all’Oriente e all’Occidente che Pietro Damasceno ben sintetizza: «Chi cerca il fine della Scrittura, ha come maestro, come dicono il grande Basilio e san Giovanni Crisostomo, la Scrittura stessa». Guglielmo di Saint-Thierry (1075 ca.-1148), monaco d’Occidente abbeverato alle fonti dell’Oriente, fa sua un’esortazione propria di Gerolamo che il concilio Vaticano II riprenderà nella costituzione dogmatica Dei Verbum: «occorre leggere le Scritture con quello Spirito con cui furono scritte, e con il medesimo Spirito occorre anche comprenderle » (cf. DV 12). S e questo è l’approccio che ogni battezzato è chiamato ad avere nei confronti della Scrittura, vi è anche una indispensabile dimensione ecclesiale della Parola di Dio. Lo Spirito santo, fecondando le Scritture nel grembo della Chiesa, svela il volto del Cristo, guida all’incontro con lui e orienta le esistenze personali e comunitarie a una vita in obbedienza alla Parola emersa dallo “sta scritto”. «Per mezzo della Parola di Dio, tutta la santa Chiesa rimane nella fede, è confermata e salvata per l’aiuto di Colui che ha parlato per mezzo dei profeti e degli apostoli», affermava san Tichon di Zadonsk. Del resto è nell’assemblea liturgica e non altrove che la Parola di Dio risuona e giunge alle orecchie e al cuore dei credenti. È lì, dove la Chiesa si ritrova convocata dall’unico Signore che la Parola stessa edifica la comunità, plasmandola secondo il volere di Dio. Ed è perciò determinante adottare come criterio ermeneutico per comprendere la Scrittura la vita concreta della comunità cristiana. Esegesi in ecclesia significa innanzitutto questo: vivere concretamente la vita comunitaria, ecclesiale. È da questa reale vita in koinonia che possono nascere quell’esperienza umana e spirituale, quella sensibilità e quel discernimento che consentono una penetrazione della vita di cui i testi sono, appunto, i testimoni. La vita comune può così diventare esperienza della Parola, come afferma Giovanni Cassiano in una delle sue Conferenze: «Le Scritture si rivelano a noi più chiaramente e ci aprono il loro cuore e quasi il loro midollo, quando la nostra esperienza non solo ci permette di conoscerle, ma fa sì che ne preveniamo la stessa conoscenza, e il senso delle parole non ci è rivelato da qualche spiegazione, ma dall’esperienza viva che ne abbiamo fatto». In questo senso la Scrittura è sottratta alla “privata spiegazione” (2Pt 1,20) trovando nella liturgia e nella quotidiana, concreta vita cristiana due “luoghi esegetici” fra loro complementari. Questa ecclesialità costitutiva della Scrittura fa sì che tutti i membri della Chiesa, dimore dello Spirito santo, siano chiamati a essere soggetto della sua interpretazione spirituale. La frequentazione assidua delle Scritture, l’immersione quotidiana in esse diviene così per ogni battezzato occasione di rinnovamento dell’immersione battesimale e di consolidamento della propria vocazione cristiana. È il primato della Parola allora che deve trasfigurare il volto della Chiesa, rendendolo luminoso come quello del suo Signore. Se le nostre comunità cristiane sapranno essere docili al magistero della Parola, anche il faticoso cammino verso l’unità dei cristiani conoscerà nuovo slancio e la nostra comune testimonianza ecclesiale sarà il più eloquente e credibile annuncio del Vangelo per gli uomini e le donne del nostro tempo.

PAPA: IL RICORDO DELL’OLOCAUSTO MONITO A RISPETTARE LA DIGNITÀ DELLA PERSONA

http://www.asianews.it/notizie-it/Papa:-il-ricordo-dell’Olocausto-monito-a-rispettare-la-dignit%C3%A0-della-persona-26976.html

27/01/2013

VATICANO

PAPA: IL RICORDO DELL’OLOCAUSTO MONITO A RISPETTARE LA DIGNITÀ DELLA PERSONA

All’Angelus Benedetto XVI parla delle odierne Giornate della memoria, dei malati di lebbra e di intercessione per la pace in Terra santa. Il Vangelo di oggi « ci fa pensare al nostro modo di vivere la domenica: giorno del riposo e della famiglia, ma prima ancora giorno da dedicare al Signore ».

Città del Vaticano (AsiaNews) – Il ricordo dell’Olocausto, celebrato nella odierna Giornata della memoria, « deve rappresentare per tutti un monito costante affinché non si ripetano gli orrori del passato, si superi ogni forma di odio e di razzismo e si promuovano il rispetto e la dignità della persona umana ».
Le « vittime del nazismo » e della « immane tragedia, che colpì così duramente soprattutto il popolo ebraico » sono state evocate da Benedetto XVI in occasione di un Angelus che lo ha visto ricordare anche le odierne Giornate per i malati di lebbra e di intercessione per la pace in Terra santa.
« Si celebra oggi – le parole del Papa – la sessantesima Giornata mondiale dei malati di lebbra. Esprimo la mia vicinanza alle persone che soffrono per questo male e incoraggio i ricercatori, gli operatori sanitari e i volontari, in particolare quanti fanno parte di organizzazioni cattoliche e dell’Associazione Amici di Raoul Follereau. Invoco per tutti il sostegno spirituale di san Damiano de Veuster e di santa Marianna Cope, che hanno dato la vita per i malati di lebbra. In questa domenica ricorre anche una speciale Giornata di intercessione per la pace in Terra Santa. Ringrazio quanti la promuovono in molte parti del mondo e saluto in particolare quelli qui presenti ».
Pace, quella « che viene da Dio », anche nelle parole dei due ragazzi dell’Azione Cattolica della diocesi di Roma che, accanto al Papa, hanno letto il messaggio della loro « Carovana della Pace », seguito dal tradizionale lancio di due colombe.
Un invito a « pensare al nostro modo di vivere la domenica » è stato invece al centro della riflessione del Papa prima della recita della  preghiera mariana. Rivolgendosi alle 30mila persone presenti in piazza san Pietro, Benedetto XVI ha commentato, come di consueto, il Vangelo del giorno,  che questa domenica ci presenta anche Gesù che in sinagoga « si alzò a leggere e trovò un passo del profeta Isaia che inizia così: «Lo Spirito del Signore Dio è su di me, / perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; / mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri» (61,1-2) ». E « Gesù, terminata la lettura, in un silenzio carico di attenzione, disse: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» ».
« Questo brano – ha commentato – interpella «oggi» anche noi. Anzitutto ci fa pensare al nostro modo di vivere la domenica: giorno del riposo e della famiglia, ma prima ancora giorno da dedicare al Signore, partecipando all’Eucaristia, nella quale ci nutriamo del Corpo e Sangue di Cristo e della sua Parola di vita. In secondo luogo, nel nostro tempo dispersivo e distratto, questo Vangelo ci invita ad interrogarci sulla nostra capacità di ascolto. Prima di poter parlare di Dio e con Dio, occorre ascoltarlo, e la liturgia della Chiesa è la « scuola » di questo ascolto del Signore che ci parla. Infine, ci dice che ogni momento può diventare un «oggi» propizio per la nostra conversione. Ogni giorno (kathēmeran) può diventare l’oggi salvifico, perché la salvezza è storia che continua per la Chiesa e per ciascun discepolo di Cristo. Questo è il senso cristiano del «carpe diem»: cogli l’oggi in cui Dio ti chiama per donarti la salvezza! »,

Veronica Fausti, Bambina piangente dietro filo spinato

Veronica Fausti, Bambina piangente dietro filo spinato dans EBRAISMO: SHOAH
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PER IL 27 GENNAIO, IL GIORNO DELLA MEMORIA – PRIMO LEVI E HANNAH ARENDT

http://www.filosofico.net/auschwitz/ausch8.htm

PRIMO LEVI E HANNAH ARENDT

Quella di Adorno, secondo cui Auschwitz è l’unico vero orizzonte della filosofia, è la posizione estrema, a tal punto che egli arriva a chiedersi « se dopo Auschwitz si possa ancora vivere ». Ma questa non è l’unica posizione sostenibile: diametralmente opposta è, a tal proposito, quella che potremmo definire la « strategia in due tempi », così detta perché, subito dopo Auschwitz, si occupa del problema shoà in maniera « radicale », e, in un secondo tempo, lo esamina invece in maniera « banale ». Vessilliferi di questa posizione sono Primo Levi e, soprattutto, Hannah Arendt. In un primo tempo, ci si chiede come possa la cultura farsi carico del disastro rappresentato dalla shoà; e, secondariamente, ammessa l’intrinseca fragilità della cultura e il suo ineliminabile nesso con la barbarie, si finisce per riconoscere che la barbarie stessa ha – per quanto ciò possa sembrare assurdo – una sua normalità o, per dirla con Arendt, una sua « banalità ». Ciò ben emerge in due scritti di Primo Levi – Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati -, risalenti il primo al periodo immediatamente successivo ad Auschwitz, il secondo a diversi anni dopo. In Se questo è un uomo impera la radicalità del male: l’autore, appena giunto nel lager, chiede a tutti con insistenza disperata « Warum? » (Perché?) e un compagno gli risponde « Hier ist kein Warum » (qui non c’è alcun perché). Da ciò affiora la tematica portante dell’opera: forse quanto avvenuto nei lager non si può comprendere, poiché comprendere è giudicare e mettersi al posto dell’autore che ha vissuto sulla propria pelle la catastrofe, ma ciò è assolutamente impossibile. Il male, così inteso, è radicale e colui che lo compie è un essere disumano, un mostro il cui agire non può essere in alcun caso compreso, perché, per comprenderlo, occorrerebbe entrare nella sua personalità. A distanza di vent’anni da Se questo è un uomo, Levi affronta il problema del male in una mutata prospettiva, secondo quella che potremmo definire la « zona grigia » e che possiamo facilmente comprendere leggendo alcuni passaggi de I sommersi e i salvati in cui parla dei carnefici: « erano infatti della nostra stessa stoffa […], erano esseri umani medi […] non erano mostri […] avevano un viso come il nostro ». Chi compie il male non è più inteso come un mostro, come una persona assolutamente diversa da chi lo subisce; viceversa, è un essere umano come gli altri e, proprio in ciò, sta la banalità del male, il fatto che chiunque altro avrebbe potuto compierlo. A tal proposito, Levi adduce l’esempio dei « comandi speciali » con cui era affidato agli ebrei stessi l’ingrato compito di uccidere gli altri ebrei per ottenere in cambio qualche mese di « non morte »: questo è, secondo Levi, il crimine più spaventoso che si possa commettere, poiché si fanno diventare colpevoli le vittime stesse. Centrale nell’opera è la scena della partita di calcio disputata tra i prigionieri del lager e i guardiani: per un momento è come se si tornasse alla normalità, benché si tratti di una partita disputata « davanti alle porte dell’inferno ». Con la prospettiva della « zona grigia » subentra un elemento di inquietudine che, fino ad ora, non avevamo incontrato: nel nostro itinerario, infatti, abbiamo preso in considerazione la drammatica possibilità di finire noi stessi vittime di un lager e, oltre a questa, quella di diventare spettatori indifferenti del male; ora si aggiunge l’altrettanto tragica possibilità di diventare noi stessi i carnefici, e ciò in base alla teoria della banalità del male, secondo la quale a compiere il male sono persone « normali » e non mostri. Hannah Arendt stessa si colloca su posizioni di questo tipo: ella rilascia nel 1965 un’importante intervista in cui confessa di non sentirsi più una filosofa ormai da diversi decenni; ella si sente, piuttosto, una « scienziata politica », con lo sguardo sgombro da quell’impaccio che è la filosofia; verso di essa Arendt nutre grande sfiducia soprattutto da quando – nel ’33 – ha constatato che pressoché tutti i filosofi si allineavano al regime (Heidegger in primis) e ciò non benché fossero filosofi, ma per il fatto stesso che lo erano. Decisivo fu poi, nel suo itinerario, Auschwitz, un « vero trauma » con il quale si spalancò un abisso sotto i suoi piedi: di fronte a ciò, ella si sforza in ogni modo di addivenire ad una comprensione: « io voglio comprendere e provo appagamento se altri comprendono come me ». Ma, nel caso di Arendt, comprendere non equivale né a dimenticare né, tanto meno, a perdonare, bensì a portarsi consapevolmente sulle spalle il fardello del nostro tempo. Da ciò nasce la sempre rinnovatesi esigenza di spazzare il campo dai pregiudizi, in maniera tale da poter affrontare la realtà nella maniera più obiettiva e per venire a capo della realtà del male, del perché lo compiamo. Tre sono i tre grandi momenti della riflessione arendtiana sul male: a) normalità e incommensurabilità del male; b) radicalità del male; c) banalità del male. Sono tre modi di concepirlo in base a tre questioni: 1) qual è la natura del male?; b) qual è il suo rapporto con la modernità?; c) come può la filosofia resistere ad esso? Nell’immediato dopoguerra tende a prevalere la concezione della radicalità del male: Heidegger, che di Arendt fu l’amante, si sbarazza di lei e la invia a Heidelberg da Karl Jaspers, a cui ben presto – a causa del suo dichiarato antinazismo e a causa del fatto che sua moglie era ebrea – sono tolte la cattedra e la possibilità di pubblicare, cosicché egli finisce per vivere una sorta di esilio interno alla Germania. Nel dopoguerra – esattamente nel 1945 – egli torna in cattedra e tiene un corso sulla Schuldfrage, ossia sulla « domanda inerente la colpa »: di che colpa si sono macchiati i Tedeschi? Per rispondere a questa domanda, Jaspers elabora una casistica con quattro tipi di colpa: 1) colpa criminale è la trasgressione della legge; 2) colpa politica è quella che riguarda diversamente i cittadini a seconda della loro posizione (sudditi, capi, ecc), benché resti vero che chi obbedisce e non si oppone è comunque corresponsabile; 3) colpa morale è quella che si commette quando si violano le leggi prescritte dalla propria coscienza (come nel caso in cui si uccide una persona benché la coscienza ci inviti a non farlo); 4) colpa metafisica è quella per cui, in quanto uomini, siamo tutti corresponsabili di ogni torto perpetrato nel mondo, cosicché Jaspers può affermare che « il fatto di essere ancora vivi [dopo Auschwitz] è una colpa ». Arendt, attenta lettrice e grande amica di Jaspers, intende la sua nozione di « colpa metafisica » equivalente a quella di « colpa collettiva » e obietta al filosofo tedesco che dire che tutti sono colpevoli è, in fin dei conti, come dire che nessuno lo è, quasi come se, dalla colpevolezza generalizzata, risultasse una altrettanto generalizzata assoluzione. Si tratta invece – prosegue Arendt – di accertare i singoli gradi di responsabilità nei singoli casi. Sulla base di questi presupposti, esaminiamo ora le tre maniere – corrispondenti a tre momenti della sua vita – in cui Arendt concepisce il male. La prima maniera – quella della normalità e dell’incommensurabilità del male – si afferma specialmente nel carteggio che la filosofa tiene con Jaspers nel 1946 sul problema della colpa: alla tesi jasperiana della colpevolezza collettiva, ella contrappone la nozione di « colpa organizzata ». Come è noto, nel processo di Norimberga, i nazisti cercavano di discolparsi presentandosi come meri ingranaggi della macchina dello sterminio, cioè come semplici esecutori degli ordini che di volta in volta erano loro impartiti: pertanto Arendt – alla stregua di Levi – ne evince che i capi erano dei mostri, mentre gli esecutori erano uomini come noi, ingranaggi in quelle « fabbriche della morte » che erano i lager. Questi ultimi – nota Arendt – sono caratterizzati da tre elementi essenziali: a) l’impersonalità tipica delle grandi burocrazie; b) la parcellizzazione tayloristica, quasi come se si trattasse di una catena di montaggio finalizzata a dare la morte; c) la gerarchicità più totale, come in un esercito. Il lager – nota Arendt – applica tutti i tratti fondamentali delle istituzionalità della modernità e, in particolare, quello che Weber definiva l’agire razionale rispetto allo scopo, intendo – con tale espressione – un agire mirante esclusivamente al fine (lo sterminio degli ebrei) e incurante dei valori e delle conseguenze. Non appena a quegli « onesti padri di famiglia » era dato agire con quello sgravio di impunità morale, il gioco era fatto: diventavano carnefici a tutti gli effetti. La grande modernità di Auschwitz sta allora, secondo Arendt, nel fatto che, oltre a poggiare sulle istituzionalità tipiche del moderno, il male è compiuto da persone come le altre, da « onesti padri di famiglia », gentili ed educati con i propri figli e con le proprie mogli. Dal canto suo, Jaspers propone come terapia ad Auschwitz un ritorno generale all’umanesimo di Goethe e si spinge anche più in là della Arendt, forse in virtù del fatto che egli era psicologo ancor prima che filosofo: « la colpa […] assume un connotato di satanica grandezza »; egli avverte tuttavia il rischio che, parlando come fa Arendt di male incommensurabile, si finisca per farne una velata esaltazione, quasi come se ella trasformasse « l’orrore in mito », cosicché – egli conclude – « mi pare che si debbano ricondurre le cose alla loro banalità »: per spiegare questo punto scivoloso, egli ricorre all’immagine dei batteri che, pur così piccoli e insignificanti, sono in grado di produrre mali immensi; tale è ciò che è accaduto coi nazisti. Ma Arendt rifiuta risolutamente la proposta di Jaspers e lo fa in nome del paqoV: « ad Auschwitz non si è commesso un male superficiale, si è tentato di estirpare dal mondo il concetto stesso di uomo ». Quale strategia di resistenza propone allora la Arendt, di contro al ritorno (forse anacronistico) a Goethe prospettato da Jaspers? Ella propone semplicemente una strategia tanto classica quanto inefficace: un’etica della responsabilità che muti il male in un fardello di cui l’umanità è chiamata a farsi carico, una sorta di vergogna che ciascuno deve provare all’idea di far parte di quell’umanità che ha commesso quel male. E’ una proposta che sicuramente suona bene e, a livello teorico, pare davvero potente; tuttavia, se tradotta in pratica, fa acqua da tutte le parti. Con la stesura de Le origini del totalitarismo, del 1951, si volta pagina: Arendt passa dall’incommensurabilità alla radicalità del male, identificando Auschwitz col male assoluto, icasticamente tratteggiato in questi termini:

« il male assoluto, impunibile e imperdonabile, che non poteva più essere compreso e spiegato, coi malvagi motivi dell’interesse egoistico, dell’avidità, dell’invidia, del risentimento e che quindi la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l’amicizia perdonare, la legge punire ».

Da ciò si evince come l’eziologia e la terapia siano messe entrambe fuori gioco: con la shoà il filo della tradizione è stato per sempre reciso e si è concretato quello che già Kant – in La religione entro i limiti della sola ragione – definiva il « male radicale ». Tuttavia Arendt non indica quale sia la reale natura di tale male, ma si limita a indicarne i luoghi in cui esso è nato: i lager. Ella è altresì convinta che, per capire il totalitarismo (e questo è l’obiettivo della sua opera del ’51), si debbano innanzitutto capire i lager, ossia quei luoghi in cui la logia del male radicale si è sviluppata appieno. Ma usare i lager per capire il totalitarismo equivale, naturalmente, a chiedersi quale fosse la funzione dei lager: a tal proposito, Arendt esclude in blocco tutte le possibili risposte utilitaristiche, secondo le quali i lager sarebbero serviti a qualcosa; al contrario – ella nota – essi non sono fabbriche finalizzate alla produzione di qualche cosa, né volte a creare cadaveri. Certo, quella che nei lager si compiva era una forma di annichilimento dell’uomo, giacché egli era in primo luogo annullato come individuo non appena, nel lager, gli erano negate una nazione e una giuridicità, e, in secondo luogo, era azzerato sul piano morale, nella misura in cui – nel lager – i classici problemi morali perdevano ogni significato (tale è il caso in cui alla madre è chiesto quale dei suoi figli preferisce che muoia per primo). Sicchè Arendt addiviene in fine alla conclusione che il vero scopo dei lager era la trasformazione della natura umana, la quale, così com’è, si oppone per sua natura al totalitarismo: il lager plasma un’umanità perversamente nuova e diversa, e questo è il sogno di tutti i pensatori moderni (dal Faust di Goethe fino a Marx). Nei lager quel sogno si è capovolto in incubo, l’utopia si è fatta distopia (è l’immagine del « giardiniere » in altre forme): dopo poche settimane di reclusione, persone tra loro diversissime sotto ogni profilo diventano una sola persona che non ha più umanità né diritti, ma a cui restano esclusivamente le funzioni primarie. Il passo successivo compiuto dalla Arendt è di chiedersi quale sia il ruolo svolto dalla cultura nei lager intesi come laboratori per cambiare la natura umana. A tal proposito, ella confessa a Jaspers: « ho il sospetto che la filosofia non sia monda e priva di macchia in tutto ciò ». Come disciplina, la filosofia ha innanzitutto responsabilità di tipo politico/dirette: è questo il caso in cui essa si mette al servizio di una certa linea politica, con un coinvolgimento diretto (è il caso di Gentile e il fascismo italiano); ma c’è anche una responsabilità di tipo intellettuale/indiretta, quando – come nel caso di Nietzsche e del nazismo – si precorrono filosoficamente posizioni che altri percorreranno fraintendendole. Abbiamo qui succintamente delineato le possibili responsabilità della filosofia in generale, ma dobbiamo ora chiederci quando si debba parlare di responsabilità riferita ai singoli filosofi: quand’è che un filosofo può essere qualificato come nazista? Sicuramente quando egli teorizza la superiorità della presunta razza ariana e quando assegna ad un dato popolo una missione particolare. Tre sono le possibili interpretazioni della responsabilità individuale: 1) si può essere nazisti a prescindere dalla propria filosofia (è il caso di chi aderì al nazismo benché fosse kantiano); 2) si può essere nazisti perché la propria filosofia non presenta elementi di opposizione a ciò (compromissione debole); 3) si può essere nazisti perché la propria filosofia spinge in quella direzione (compromissione forte). Nel caso di Arendt, si preferisce comunemente parlare di « responsabilità indiretta »: quando ella scrive a Jaspers circa la complicità della filosofia col male estremo, pensa ad una prospettiva in cui ciò che accade all’interno dei lager – e che a tutta prima pare del tutto assurdo e ineccepibile – diventa di una chiarezza imbarazzante se visto attraverso le lenti dell’ideologia, le quali finiscono per dare fin « troppo senso » al male. Il termine chiave a cui far riferimento per capire a questo punto il pensiero della Arendt diventa allora quello di ideologia: che cosa intende ella con esso? L’ideologia per Marx era una forma di « falsa coscienza » poggiante su quegli interessi di classe che spingono a pensare in una maniera involontariamente favorevole alla propria classe sociale (tale è il caso della borghesia che finisce col considerare il capitalismo come eterno anziché come frutto di un determinato momento storico); spetta ai critici dell’ideologia smascherare tale falsa coscienza, mettendone in luce la falsità. Con Arendt il termine « ideologia » si colora di significati nuovi e diversi: esso si riferisce ad una corrispondenza totale quanto impossibile tra teoria e prassi; è, in altri termini, la pretesa di far diventare in tutto e per tutto reale la teoria, senza accorgersi che le due sfere – quella reale e quella teorica – fanno a pugni. Lo slogan degli « ideologi » è, in questo senso, il seguente: « ciò che vale per la teoria, deve necessariamente valere anche per la prassi »; o anche quello latino: « fiat veritas ac pereat mundus ». E’ esattamente questo che si è verificato ad Auschwitz, dove i nazisti hanno tentato di concretare la loro perversa teoria: per mettere in evidenza ciò, Arendt si sente in dovere di dimostrare come l’orrore nazista si sia realizzato in virtù del fatto che il mondo è svanito, ossia è caduta quella pluralità che garantiva resistenza, giacché l’ideologia, per funzionare, non ha bisogno dell’io e del mondo: essa è, piuttosto, un parto della mente, un monologo paranoico, un’evasione dal reale. E tale rimozione della pluralità in tutte le sue sfaccettatura – rimozione su cui, come abbiamo detto, trova il suo terreno più fertile l’ideologia – affetta sempre più la filosofia, che tende sempre più a capovolgersi essa stessa in ideologia e a diventare preda di un folle pensare l’unità, riducendo l’umanità ad un solo uomo (nei lager, come abbiamo precedentemente rilevato, le pluralità e le differenze erano azzerate: si era una sorta di unico uomo ridotto alle funzioni primarie). Tuttavia Arendt si accorge ben presto che questo modello, se applicato al nazismo, funziona poco: e, per salvarlo, decide di estenderne l’applicabilità anche allo stalinismo, consapevole di come sia stato, più di ogni altro, Marx (che, nella lettura della Arendt, dello stalinismo è, in certo senso, l’antesignano) a tentare di far diventare prassi la teoria (rendere « filosofico » il mondo, com’egli amava dire), teorizzando la priorità della vita activa su quella contemplativa. Con Marx la filosofia diventa supporto politico del totalitarismo, anche se – come Arendt stessa rileva – « il filo che lega Marx ad Aristotele è assai più robusto di quello che lega Marx a Stalin ». Mostrata la validità della sua tesi per cui si procede sempre più in direzione di un’ideologia, cosicché si perde la pluralità in nome dell’unità, Arendt estende il modello – risultato valido nell’analisi dello stalinismo – anche al nazismo: la teoria della razza è diventata prassi nei lager (questa è l’ideologia). Come antidoto a questa inquietante marcia verso l’ideologia, ella propone di distinguere, all’interno della storia, una « tradizione principale », che rimuove la pluralità e le differenze, e – ad essa contrapposta – una « tradizione alternativa » che, viceversa, valorizza ed esalta il pluralismo in ogni ambito, lottando contro ogni totalitarismo: appuntare l’attenzione su questa tradizione minoritaria è il compito che Arendt si assume a partire dal suo scritto Vita activa. Si tratta dunque di ripensare l’intera tradizione storica e filosofica tentando di valorizzare quegli elementi pluralizzanti che la « tradizione principale » ha eliminato o, nel migliore dei casi, messo a tacere: siamo pertanto di fronte a quello che potremmo definire un « contravveleno anti-ideologico ». Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 il pensiero di Arendt subisce una nuova svolta in concomitanza con l’arresto di Eichmann, uno dei pezzi grossi della milizia nazista, fuggito in Argentina – con l’appoggio del Vaticano – dopo la disfatta tedesca: si cattura e si processa quello che, nell’immaginario collettivo, è il mostro per antonomasia. Israele, diventato Stato, vuole mostrare al mondo che, da quel momento in poi, chi oserà attaccarlo non si salverà; e il fatto stesso che lo Stato vada a prelevare Eichmann in Argentina è una prova lampante di ciò. Subito sorge un problema non da poco: chi ha il diritto di processare Eichmann? Per la prima volta si parla di crimini contro l’umanità: in tale occasione, Jaspers sostiene che tutto il mondo deve processare Eichmann (e Arendt condivide tale posizione), ma Israele si rivela sordo e decide di processarlo a Gerusalemme, anche quando molti (fra cui Arendt stessa) fanno notare che i lager non hanno riguardato esclusivamente gli ebrei, ma anche i comunisti, gli omosessuali, i minorati mentali e, in fin dei conti, l’intera umanità. A questo punto, Arendt decide di seguire di persona il processo a Gerusalemme e di vedere « in carne e ossa » quello che a quei tempi ancora definiva « il male radicale »: sicché si fa mandare da un giornale americano come inviata speciale e da quest’esperienza esce un libro – La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme – attraversato da cima a fondo da un costante senso di spaesamento che traspare fin da quando Arendt scende dall’aereo. Con la pubblicazione di quel libro, inoltre, ella perderà tutti i suoi più cari amici (tra cui Hans Jonas) e sarà ripetutamente accusata di « insensibilità ». Ciò può essere facilmente compreso fin dalle prime pagine, dove ella scrive che, alla vigilia del processo, Israele si stava organizzando come la Germania nazista: espressione, questa, che suonò assai sgradita alle orecchie di molti. Le prime domande che si sollevarono furono le seguenti: perché Eichmann non è processato da una corte universale? Perché non in Germania, dove compì i suoi crimini? La risposta – destinata a suscitare grande scalpore – che Arendt, sconcertata, forniva era che Israele aveva bisogno di legittimarsi e il processo ad Eichmann era un’eccellente occasione. Ancora più sconcertata ella fu allorché vide in persona Eichmann in tribunale; appena due giorni dopo, essa riferì a suo marito dell’incontro e così descrisse icasticamente Eichmann: « è un uomo grigio, piccolo, un coglione ». Ma ciò che più la colpì fu l’assoluta normalità di Eichmann: quello che, nell’immaginario collettivo, era un mostro efferato, si presentava ora come una persona qualunque, del tutto sana, che non uccise mai nessuno con le sue mani e che addirittura svenne alla vista del sangue; egli era, in altri termini, semplicemente un « funzionario delle fabbriche della morte » e, di fronte a lui, la teoria del « male radicale » girava a vuoto. A questo punto, Arendt comincia a mutare prospettiva e ad elaborare una teoria simile a quella della « zona grigia » di Levi. L’avvenuto mutamento di prospettiva è da Arendt comunicato a Scholem (che, fino a quel momento, fu suo amico) in una lettera del 1963:

« ho cambiato idea e non parlo più di « male radicale ». […] Quel che ora penso veramente è che il male non è mai « radicale », ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso « sfida » […] il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e, nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua « banalità ». Solo il bene è profondo e può essere radicale ».

La spaesante conclusione cui ella perviene è che Eichmann non è un mostro orripilante, un essere « non umano » che uccide per il gusto di uccidere: al contrario, egli né uccide né odia gli ebrei, bensì si limita ad organizzare il trasporto ferroviario degli ebrei nei campi di sterminio, ossia si preoccupa solamente che i treni arrivino in orario, senza curarsi minimamente del loro carico. Addirittura, si scopre che il suo progetto era di invadere il Madagascar e di mandare lì in esilio tutti gli ebrei: il loro sterminio esulava del tutto dalla sua volontà. Ne emerge, allora, la figura di un Ponzio Pilato che non giudica mai e che è sconvolto quando i nazisti optano per la « soluzione finale »: da tutto ciò, Arendt sostiene che « Eichmann non pensa » ed è perciò un uomo malvagio, quasi l’incarnazione del totalitarismo e dell’ideologia, pensa e agisce in modo meccanico, è « obbediente come un cadavere ». Chiamato a difendersi, egli arriva a dire di aver agito « kantianamente » e di aver seguito la volontà di Hitler: non sa ergersi a giudicare quel che fa, si limita ad obbedire ai comandi che gli sono impartiti; così rileva Arendt e, di seguito, si domanda se quello di Eichmann fosse un comportamento obbligato. A questa domanda risponde negativamente: non è assolutamente vero che in ogni uomo si nasconde e latita un potenziale mostro come Eichmann; al contrario, basta saper pensare ed essere giudici del proprio agire perché ciò non si verifichi. Per chiarire questo punto, Arendt adduce l’esempio della Danimarca, l’unico Paese che si era fermamente opposto all’invasione della Germania e delle sue idee aberranti. In fin dei conti, Arendt rileva che Eichmann ha compiuto un male immenso e incommensurabile ma credendo di fare del bene (in ciò risiede quella che ella chiama la « banalità del male »), non ha saputo opporsi poiché non è stato in grado di pensare e giudicare: perciò deve essere punito dalle leggi. Sicché la pena che gli fu inflitta a Gerusalemme (l’impiccagione) fu giusta secondo Arendt, benché ella non condividesse affatto la sentenza per cui Eichmann era un criminale contro gli ebrei: in realtà – ella nota – Eichmann fu un criminale contro l’umanità e perciò deve morire. Il concetto di obbedienza va bene solo quando si ha a che fare coi bambini o coi credenti, ma mai in politica, dove obbedire equivale ad appoggiare. Certo, non tutti possono essere eroi e intraprendere una resistenza attiva, poiché – come giustamente notava don Abbondio – il coraggio non ce lo possiamo auto-infondere, e tuttavia, ciò non di meno, tutti possono rifiutarsi di obbedire, intraprendendo per questa via una resistenza passiva.

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