http://www.cammino.it/maggio2001/articolo26.html
(domani Dan Daniele stilita, mf, messa biografia su « Incammmino verso… »)
UNA COLONNA TRA IL CIELO E LA TERRA
(Gli stiliti)
di Monica Vanin
Chi erano i monaci stiliti? Cos’ha di particolare il monachesimo di Siria? Ecco una buona occasione per capire meglio il difficile cammino del cristianesimo (orientale e non), tra testimonianze eroiche e tradimenti del Vangelo.
San Simeone alle prime luci del giorno. A un cristiano, neanche le rovine di Palmira possono trasmettere un’emozione così forte. Già da lontano, le gigantesche rovine in cima alla montagna fanno impressione. Ma una volta saliti, la maestosità del luogo appare addirittura sconcertante: ben dodicimila metri quadrati di spazio sacro, a colloquio col cielo. Non solo la grande basilica dedicata al santo, ma anche una chiesa più piccola, per le celebrazioni ordinarie, e i resti di un grande convento, con tanto di cimitero dei monaci.
Vicino all’ingresso, c’è poi il bellissimo battistero riservato agli adulti, dove si entrava in fila, ancora pagani, e si usciva cristiani, pronti a percorrere emozionati i duecento metri dalla vasca alla grande basilica, per partecipare alla prima, solenne eucaristia.
Quante migliaia di pagani, comprese molte tribù arabe, si saranno convertite quassù?
IL SOGNO DI TCHALENKO
Nessun rumore, in quest’ora magica: solo il vento, tra i pini, gli olivi e i mandorli che sembrano qui da sempre, tanto sono in armonia con le pietre. Invece, li ha fatti piantare quasi cinquant’anni fa Georges Tchalenko, l’archeologo che ha speso gran parte della vita al sole e al vento del massiccio calcareo, la regione più intensamente cristianizzata della Siria.
Solo qui, tra Antiochia, Aleppo e Hama, sono stati contati quasi ottocento villaggi e città cristiane, molti dei quali abbandonati, e migliaia tra edifici sacri e varie tracce della presenza dei monaci.
Povero Tchalenko! Oltre ad aver studiato a fondo questa zona e ad aver diretto i restauri di san Simeone, si è anche dato la pena di numerare e allineare tutte le pietre ancora fuori posto, sognando il miracolo: un restauro completo, che nel 2001 non è stato ancora finanziato da nessuno. Troppo caro, dicono. «Troppi soldi, per quello che forse è il più grande e importante complesso paleocristiano del mondo!» fa eco, sconsolato, Abdallah Hadjar, l’archeologo di Aleppo che insieme ai francescani Peña, Castellana e Fernandez è oggi uno dei massimi esperti in materia.
COME CADUTA DAL CIELO
L’oggetto misterioso è là, nel bel mezzo della basilica. È una gran pietra bianca, alta un paio di metri. Pare un monolito appena piovuto dal cielo, invece è ciò che rimane della reliquia cristiana più grande che sia mai esistita: la colonna sulla quale è vissuto per circa quarant’anni Simeone il Grande, il primo degli oltre cento monaci stiliti (cioè “delle colonne”) che hanno reso celebre questa zona.
Secoli di scalpelli devoti, di terremoti e di intemperie hanno contribuito a ridurre a un liscio moncone una colonna che arrivava a sedici o diciotto metri di altezza, e che quindi era visibile anche da lontano. Da quel balcone, il suo inquilino (che certo non soffriva di vertigini) poteva ben sentirsi “a metà strada tra la terra e il cielo”, come scrisse lo storico antico Evagrio.
MUOVERE LE MONTAGNE
Che la colonna fosse così alta, lo si è capito non solo da testimonianze serie, come quella del vescovo Teodoreto di Cirro (contemporaneo e ammiratore di Simeone), ma anche dalle dimensioni di questa basilica senza precedenti, che è nata proprio per contenerla tutta. Mai prima di allora i cristiani avevano costruito una chiesa così alta, complessa e a forma di croce, oltretutto.
Per scaricare il gran peso della struttura dai pilastri, i siriani hanno dovuto inventare i contrafforti, ma non solo: hanno saputo spianare il monte, vincere le pendenze e ogni tipo di ostacolo naturale. «Gesù ha detto che la fede muove le montagne» ci dice convinto Elia Kajmini, animatore del Centro archeologico di Aleppo e versatile uomo di cultura. «Bene, è proprio quello che hanno fatto migliaia di persone, quassù. Hanno lavorato come uomini di fede, non solo per guadagnarsi da vivere».
UNA FESTA DI SIMBOLI
Ma la tecnica sarebbe nulla senza la bellezza, e qui a san Simeone ne è stata versata a piene mani. Cornici stupende, tipicamente siriache, profilano le finestre; fregi incantevoli ricamano ovunque la pietra; capitelli con le foglie d’acanto che sembrano mosse dal vento sormontano le colonne: cose che devono aver strappato grida di meraviglia ai pellegrini di ogni tempo.
Che ricchezza di simboli, sulle pietre dorate dal sole! Non solo grappoli d’uva e fogliame corinzio, ma anche tante croci diverse: da quella latina a quella di Malta, dalla croce greca antica al disco solare dei siriaci, immagine pagana che qui era molto diffusa ed è stata ripresa con un significato del tutto nuovo (è Gesù il sole che non tramonta).
E poi la croce bizantina, naturalmente, con le sue allusioni alla maestà di Cristo. Non poteva mancare, anche perché è il sigillo dello sponsor di questo capolavoro: l’imperatore bizantino Zenone, che dopo quasi quindici anni di “fabbrica”, deve aver fatto appena in tempo a vederlo finito, nell’anno 490 o 491.
LA DIFFICILE UNITÀ
Zenone ci teneva molto a rappresentare, sulle pietre di san Simeone, un impero cristiano unitario e pacificato. Ma la realtà era tutt’altra, e questa operazione rischia di apparire, ai nostri occhi, quasi come una spettacolare forzatura ideologica.
Nel 451, a Calcedonia, un grande Concilio dedicato al problema della natura di Cristo aveva seminato malumori e opposizioni, soprattutto in Egitto e in Siria. Quello che per noi ormai è un dato di fede (misterioso finché si vuole), e cioè la convivenza in Cristo di due nature distinte, l’umana e la divina, non era stato affatto accettato da tutti.
Per i siriani, in particolare, esse si erano fuse armoniosamente, in Gesù, a vantaggio della natura divina. Nemmeno il conciliante Editto di unità emanato proprio da Zenone aveva messo d’accordo i litiganti. Nasceva così il partito “monofisita” (cioè “dell’unica natura”), che è proprio un contrassegno della Chiesa d’Oriente.
CRISTIANI CONTRO CRISTIANI
Solo un bisticcio di parole, che sarebbe stato più o meno facile sbrogliare? Oggi è facile pensarla così, ma allora la posta in gioco era altissima. Dentro i confini dell’impero, i popoli di più antica tradizione premevano per guadagnare un’autonomia sempre maggiore. Le rivolte erano all’ordine del giorno. Il contrasto sugli articoli di fede corrispondeva pari pari a un contrasto politico. Così, dopo settant’anni di compromessi, gli imperatori bizantini (che avevano l’ultima parola anche in materia religiosa) decisero di imporre la tesi di Calcedonia con la forza.
Finito l’incubo dei circhi e dei leoni, insomma, i cristiani cominciarono a perseguitare i cristiani, tanto che i siriaci finirono per considerare prima i Persiani e poi le armate islamiche (nemici giurati di Costantinopoli) come dei liberatori. In un’atmosfera segnata dalla lotta contro le eresie, iniziò una catena di scismi interni, carica di conseguenze per il futuro del cristianesimo.
I MONACI, NUOVI PROFETI
Simeone è solo il “frutto” più celebre dell’esplosione di vita monastica avvenuta in Siria, soprattutto in questa zona e tra il IV e il VII secolo: fenomeno straordinario (anche rispetto all’esperienza dei monaci egiziani e palestinesi) e importantissimo segno dei tempi.
Finite le persecuzioni dell’impero romano, grazie agli editti di Costantino (nel 313 e 325), cresciuta l’importanza di Costantinopoli e messo il cristianesimo sotto la tutela e il controllo dell’impero, l’eroica religione messianica delle origini stava infatti diventando un fenomeno di massa, impregnato di cultura greca più che di giudaismo, ed esposto al rischio di compromettersi sempre di più con esigenze mondane e di potere.
L’esito tragico del dopo-Calcedonia lo avrebbe ampiamente dimostrato. Le anime più semplici e insieme più esigenti, non potevano accettare tutto questo. E la risposta non si fece attendere.
GLI ESTREMISTI DI DIO
Il monachesimo è particolarmente congeniale alla natura siriana (e agli orientali in genere). L’ardore affettivo e sensuale, in queste terre, è sempre pronto a rovesciarsi nel suo contrario: può diventare accesa disponibilità a mortificare il corpo e le passioni. L’amore per la preghiera e la contemplazione, poi, sono valori che questi uomini portano scritti dentro da sempre.
Qui sono sorte una miriade di comunità monastiche, che hanno rivestito il territorio di chiese e conventi, e soprattutto si sono moltiplicate le iniziative individuali (che magari facevano scuola e si trasformavano in tendenze), una più singolare e spettacolare dell’altra: anche questi caratteri, contraddistinguono l’anima siriana.
Alcuni monaci, i cosiddetti reclusi, corsero a segregarsi dentro torri e capanne, addirittura nelle tombe o in mezzo a rudimentali costruzioni di sassi.
Altri si rifugiavano nelle grotte di cui i monti erano pieni, e vivevano talvolta come animali selvatici.
Qualcuno si costringeva a restare immobile, seduto o in piedi, a volte legato a un palo; c’era chi quasi non chiudeva occhio per non interrompere la preghiera e chi viveva tra i rami di un albero, o nascosto dentro un tronco cavo.
Trascorrevano le giornate pregando e contemplando; qualcuno studiava o scriveva. Inutile dire che il mangiare e il bere erano la loro ultima preoccupazione.
I “CANDELABRI DELLA FEDE”
In realtà, però, questi campioni di ascetismo non si separavano del tutto dal mondo. Non sarebbe stato neppure possibile, perché queste zone erano molto popolate. E poi molti di loro non lo volevano neppure.
Gli stiliti, soprattutto, che per molti secoli seguirono l’esempio di Simeone il Grande, alzavano spesso le colonne a poca distanza dalle strade commerciali, alla portata dei viandanti e degli abitanti dei villaggi. Predicavano e dispensavano consigli, guidavano la gente nella preghiera. Erano perfettamente consapevoli di costituire un richiamo vivente, a vantaggio di tanti cristiani incerti e tiepidi.
Teodoreto li ha magnificamente definiti “candelabri della fede”: Gesù non aveva forse raccomandato di porre la luce della testimonianza cristiana sopra il lampadario, e non sotto? E i nostri asceti facevano una tale luce da essere consultati perfino dagli imperatori, conquistandosi, dopo le prime diffidenze, l’amore e la venerazione di tutti.
UN… CATTIVO ESEMPIO
Simeone era un povero pastore, nato a Nis, in Cilicia, intorno al 390. Da ragazzo, dopo avere ascoltato in chiesa le Beatitudini, si era sentito bruciare dentro il desiderio di una vita religiosa ardente e severa. Arrivò in un convento a Tel Ada (vicino alla montagna a cui era legato il suo destino) e visse per dieci anni in preghiera e in mortificazione assoluta, mangiando una volta alla settimana. Gli ottanta monaci del suo convento erano letteralmente sconcertati.
Quando arrivò a legarsi intorno al corpo un terribile cilicio in foglie di palma, che lo riempì di piaghe (e lui rifiutò di farle curare), il superiore lo invitò ad andare a far penitenza da un’altra parte, preoccupatissimo che il suo esempio potesse risultare deleterio per altri monaci meno robusti di lui.
Simeone obbedì e si spostò di poco, a Telanisso (oggi San Simeone), sul pendio del monte. Visse per tre anni sigillato in una minuscola cella, diventando un campione di digiuno. Si fece lasciare pane e acqua fuori dalla porta, e non toccò nulla per quaranta giorni, sfiorando la morte. Ma si riprese prestissimo. Da allora, le sue quarantene periodiche divennero una pratica abituale.
TORMENTO SULLA MONTAGNA
Anche qui, però, neanche a dirlo, venne messo alla porta. Si rassegnò allora a isolarsi sulla montagna, dietro un piccolo steccato, incatenato a un sasso per costringersi alla stanzialità. Evidentemente era già diventato celebre, perché ricevette la visita di un vescovo di Antiochia, che lo rimproverò. «Non è abbastanza severa la tua coscienza – gli disse – che hai bisogno di catene per sottomettere il tuo corpo?».
Colpito dall’osservazione, Simeone si sciolse dai ceppi, che già gli avevano inciso a fondo la carne e continuò a vivere sul monte, lodando Dio e pregando, tormentato dagli insetti, esposto alla pioggia, al sole e al vento.
Ma non erano solo questi i tormenti. Era anche perseguitato dalle donne con problemi di sterilità, che imploravano la sua intercessione per avere il sospirato figlio. Lui le teneva a distanza, si faceva riferire il problema da qualche parente e provvedeva puntualmente con la preghiera: con grande successo, a quanto pare.
FUGA SULLA COLONNA
Dopo qualche tempo, infatti, questi e altri miracoli non si contarono più. La sua resistenza soprannaturale a ogni genere di fatica (era anche capace di flettersi in adorazione più di mille volte di seguito senza fermarsi), costrinsero all’ammirazione perfino i vescovi più sospettosi verso questo incredibile esibizionista di Dio.
Ma la gente era diventata troppa e Simeone, per difendersene senza dover fuggire ancora, si fece costruire una colonna di un paio di metri, con sopra una piattaforma di legno protetta da una balaustra. Più la folla aumentava, più la colonna diventava alta: a un certo punto, per parlare direttamente al sant’uomo, era necessario arrampicarsi su un’alta scala a pioli, senza guardar troppo di sotto. Ogni tanto, un custode (in genere, un monaco novizio: il rapporto col convento non era mai venuto meno) gli portava qualche dattero e una ciotola d’acqua. Anche le modeste necessità fisiologiche di Simeone venivano sbrigate da un buco sulla sommità della colonna, scanalata all’interno. Queste, probabilmente, erano tutte le sue comodità.
E RIMASE LA COLONNA
Nonostante le privazioni, Simeone morì all’incirca settantenne, nel 459. Il vescovo di Antiochia, la più vicina “capitale” del cristianesimo, riuscì a portarsi via le sue spoglie, nonostante le proteste della gente del luogo. L’anno prima, la città era stata devastata da un terribile terremoto: forse il santo corpo avrebbe potuto proteggerla, in futuro.
Ma Antiochia fu solo una breve tappa, perché il monaco Daniele, amico di Simeone e anche dell’imperatore Leone, riuscì a farlo arrivare presto a Costantinopoli e a trasferirlo in un martyrion, una chiesa fatta apposta per accogliere le reliquie di un martire. Era la prima volta che capitava una cosa del genere, ma ce n’era motivo: Simeone si era davvero comportato con l’eroismo di un “martire vivente”.
Agli abitanti di Telanisso e dintorni restava solo lei, la colonna, e quindi furono ben felici di vederle sorgere intorno il grande ottagono centrale, sormontato da una cupola arditissima (che fu la prima vittima dei terremoti). Dall’ottagono si dipartivano quattro chiese, che completavano una originalissima pianta a croce, tanto originale da avere il “braccio” orientale non in asse con gli altri, ma un po’ inclinato verso nord. “Come la testa di Cristo crocifisso!” dice la tradizione. Ma forse l’orientamento di questa parte della chiesa, coronata da una splendida abside, è stato determinato da altri motivi simbolici, mentre la posizione delle altre è stata maggiormente condizionata dal terreno e dalla colonna stessa.
L’ULTIMO MIRACOLO
Il flusso dei fedeli, assiepati intorno all’altissima reliquia, impegnati a pregare, a chiedere grazie, a deporre offerte e prendere con sé gli eulogia (piccole immaginette-reliquia), dev’essere stato imponente per secoli. Ancora oggi si vedono i resti di un arco trionfale sull’antica Via Sacra percorsa dai pellegrini. Solo la dinastia islamica degli Hamdanidi, nel decimo secolo, riuscì a mettere la parola fine a questa devozione di massa. L’imponente santuario sarebbe ufficialmente diventato la fortezza di Simeone (Qalaat Samaan), una cittadella ben munita di torri, e poco più.
Ma il “candelabro della fede” non ha mai smesso di splendere, su questa montagna. Qui, nel 1991, per i 1.500 anni della basilica, si è raccolta una folla traboccante, almeno cinquemila persone: cattolici dei vari riti, ortodossi, protestanti, venuti anche da lontano; cinque grandi cori hanno fatto risuonare i loro canti in tante lingue diverse: uno spettacolo grandioso, indimenticabile per chi ha avuto la fortuna di partecipare.
Simeone veglia ancora sui cristiani, specialmente sugli orientali. Forse, l’intercessione per l’unità dei fratelli in Cristo e per il risveglio del coraggio evangelico dovremmo chiederla soprattutto a lui (oltre che a san Francesco, naturalmente). Alle richieste serie, fatte davvero col cuore, questo ruvido “atleta di Dio” non ha mai saputo dire di no.