Archive pour décembre, 2012

Maria modello di lectio divina

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Maria modello di lectio divina  

Attraverso la lectio divina ai credenti viene dato non solo il potere di divenire figli di Dio (Gv 1,12), ma che il Cristo, accolto prima da Maria e da lei nato, abiti per la fede nei nostri cuori (Ef 3,17-19).

La nostra riflessione oggi si rivolge a Maria come modello della lectio divina. Sarà così più facile intuire il coinvolgimento che l’ascolto della parola di Dio, mediante la lectio, esige dalla Chiesa e da ciascuno di noi.
Inoltre, potremo intuire come la lectio divina non è un esercizio speculativo o raziocinante, ma è prima di tutto accoglienza del progetto di Dio: «che Cristo sia tutto in tutti» (Col 3,11; cf Gal 3,28) e lo Spirito lo va attuando in coloro che gli si sottomettono.
In questa prospettiva del mistero della lectio è quindi indispensabile considerare la figura di Maria quale madre e modello della lectio.
La caduta e la cacciata dal giardino dell’Eden di Michelangelo (1509-10, Cappella Sistina, Vaticano).
L’uomo cede a se stesso

Diventiamo ciò che assimiliamo
L’uomo è per natura un essere in divenire e perciò un essere aperto e bisognoso di ricevere. Tutta la crescita umana è contrassegnata dalla legge del ricevere. Noi sviluppiamo la nostra intelligenza accogliendo delle nozioni. Sviluppiamo il nostro corpo e lo manteniamo in vita aprendoci all’aria che preme attorno a noi, assumendo il cibo che lo nutre. Non possiamo stare senza ricevere.
In fondo anche quando agiamo sulla realtà, la realtà stessa ci plasma. Un lavoro che facciamo con facilità è una espressione del nostro essere, ma è anche, di rimando, un plasmare e ampliare le nostre capacità.
La dinamica della crescita umana pone dunque una grande responsabilità di fronte a noi stessi: diventiamo ciò che assimiliamo.
La sapienza cristiana sta appunto nel selezionare quanto ci è giovevole: «Tutto è vostro!», dice san Paolo ai corinti, tutto però deve essere in funzione della nostra vera crescita, poiché «voi siete di Cristo» (1Cor 3,22).
La parola di Dio, dicevamo, ci propone il progetto che in modo personale dobbiamo realizzare: essere conformi all’immagine che è Cristo, Figlio di Dio (Rom 8,29).
L’uomo cede facilmente a un’altra parola, cede a se stesso. Eva ne è la figura esemplare. L’uomo era stato avvertito di non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male, perché sarebbe morto (Gen 2,16-17). L’uomo, cioè, non ha in se stesso la possibilità, un criterio per differenziarsi da se stesso, è chiuso nella sua limitata possibilità e, basandosi esclusivamente su ciò che sente, muore.
A livello psicologico il peccato di Adamo e di Eva è un individualismo infantile, tipico di ogni nevrotico: la paura di crescere e al tempo stesso il desiderio di conservare se stesso racchiuso nelle sue esperienze emozionali primitive. Di conseguenza Adamo ed Eva non accettano la limitazione proposta da Dio e del loro essere in divenire, bisognosi di una guida: il comando di Dio, la sua Parola. Non accolgono il dono della Parola, si chiudono e si basano sulle loro possibilità, non crescono più e muoiono: «quando tu ne mangiassi, certamente moriresti» (Gen 2,17).
Cristo dirà poi: «Chi perderà la propria vita a causa mia [...], la salverà» (Mc 8,35): se tu vuoi la vita, la devi perdere, non devi credere al progetto di te stesso stimolato solo da tuoi desideri, dal tuo essere creatura. Il tuo progetto è in te, ma non l’hai voluto e pensato tu. Lo puoi conoscere nella misura che cresci: per crescere devi ricevere e per ricevere devi aprirti all’accoglienza della Parola.

Una vita per l’accoglienza
Maria, al contrario, manifesta un altro atteggiamento. Apparentemente, la sua vita fino all’Annunciazione è insignificante, ha solo una disponibilità verso la parola di Dio. Crede che il modo migliore per accogliere la Parola sia non sposarsi, rimanere vergine. Il suo rimanere vergine non è principalmente un fatto biologico. È la verginità del cuore: l’unico suo desiderio, cioè, è rimanere aperta solo al Padre.
Tutto il resto, la realizzazione della sua vita secondo i parametri umani, è escluso. Rimane aperta solo per la Parola. E quando la Parola fu inviata, la accolse e la Parola «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).
Tutta la vita di Maria era stata preparata a questa accoglienza. Certamente lei non era cosciente di essere colei che doveva dare spazio nel suo grembo a Colui che era stato promesso (Gen 3,15; Is 7,14-15). Nel suo essere, Dio aveva preparato un posto per il Figlio suo. La parola dell’angelo fa emergere alla coscienza di Maria ciò che lo Spirito aveva già operato in lei.
Come in Maria, così in ciascuno di noi vi è un inconscio che non conosciamo. Ciò che dice san Paolo per la preghiera (Rm 8,26) vale anche per la nostra vita: noi non sappiamo cosa essa contenga nel suo progetto più vero.
Sono la parola di Dio e il suo Spirito che manifestano, fanno emergere al nostro spirito che siamo figli (Rm 8, 16).
La lectio divina dunque è il mezzo che il cristiano (guidato dallo Spirito del Signore) deve usare per rendersi cosciente di ciò che in realtà egli è.
Siamo realmente figli, dice Giovanni (1Gv 3,1-2), anche se non si è ancora manifestato ciò che siamo. Sono la Parola e lo Spirito che ci aiutano già da ora a intuire come di riflesso e in modo confuso (1 Cor 13,12) ciò che già siamo.
La lectio, in altre parole, è il mezzo di cui disponiamo per rendere cosciente la presenza non conosciuta dello Spirito che è in noi e lo Spirito ci manifesta la presenza del Signore (Gv 16,13-15).
Si possono intendere in questo senso le parole dell’Apocalisse (Ap 3,20). Ecco io sto alla porta della tua consapevolezza e busso. Con che cosa? Mediante lo Spirito che geme in noi (Rm 8,23), se tu mi apri questa porta della tua presa di coscienza, io entro. La chiave per aprire questa porta è la lectio divina e la teniamo noi.
Allora, se tu apri, io entrerò e cenerò con te e tu con me. Come? Cosa è questa cena? Ce lo spiega Cristo stesso: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23).
La lectio divina non è solo conoscenza, è vita in gestazione, in crescita. Ancora Giovanni (Gv 20,31) dice chiaramente: la Parola è stata scritta per suscitare la fede in Gesù Cristo, il Figlio di Dio e, credendo, avere la vita nel suo nome. La parola di Dio viva ed eterna è un seme immortale che ci ha rigenerati e ci rigenera continuamente (Pt 1,23). L’analogia della maternità con Maria, pur essendo totalmente diversa in quanto la maternità di Maria è ipostatica, come si dice, non è meno reale anche per noi.
«Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? [...] Coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8, 21; Mt 12,49). Luca pone questa frase dopo la parabola del seme, che è la parola di Dio. Il seme ha in sé un principio generativo di vita. Poiché il seme è la parola di Dio (Lc 8,11), genera figli di Dio, fratelli del Figlio, il quale è il primogenito tra molti fratelli (Rm 8,29).
La lectio dunque è per crescere nella somiglianza, conformarsi, modellarsi alla stessa forma di Cristo. In altre parole, è divenire fratello di Cristo e, di conseguenza, figli del Padre suo e Padre nostro (Gv 20, 17).

Publié dans:MARIA VERGINE |on 11 décembre, 2012 |Pas de commentaires »

San Daniele stilita sacerdote

San  Daniele stilita sacerdote dans immagini sacre Saint-Daniel-le-Stylite-Pr%C3%AAtre-au-Proche-Orient-%E2%80%A0-489

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Publié dans:immagini sacre |on 10 décembre, 2012 |Pas de commentaires »

UNA COLONNA TRA IL CIELO E LA TERRA (Gli stiliti)

http://www.cammino.it/maggio2001/articolo26.html

(domani Dan Daniele stilita, mf, messa biografia su « Incammmino verso… »)

UNA COLONNA TRA IL CIELO E LA TERRA

(Gli stiliti)

di Monica Vanin                      

Chi erano i monaci stiliti? Cos’ha di particolare il monachesimo di Siria? Ecco una buona occasione per capire meglio il difficile cammino del cristianesimo (orientale e non), tra testimonianze eroiche e tradimenti del Vangelo.

San Simeone alle prime luci del giorno. A un cristiano, neanche le rovine di Palmira possono trasmettere un’emozione così forte. Già da lontano, le gigantesche rovine in cima alla montagna fanno impressione. Ma una volta saliti, la maestosità del luogo appare addirittura sconcertante: ben dodicimila metri quadrati di spazio sacro, a colloquio col cielo. Non solo la grande basilica dedicata al santo, ma anche una chiesa più piccola, per le celebrazioni ordinarie, e i resti di un grande convento, con tanto di cimitero dei monaci.
Vicino all’ingresso, c’è poi il bellissimo battistero riservato agli adulti, dove si entrava in fila, ancora pagani, e si usciva cristiani, pronti a percorrere emozionati i duecento metri dalla vasca alla grande basilica, per partecipare alla prima, solenne eucaristia.
Quante migliaia di pagani, comprese molte tribù arabe, si saranno convertite quassù?

IL SOGNO DI TCHALENKO
Nessun rumore, in quest’ora magica: solo il vento, tra i pini, gli olivi e i mandorli che sembrano qui da sempre, tanto sono in armonia con le pietre. Invece, li ha fatti piantare quasi cinquant’anni fa Georges Tchalenko, l’archeologo che ha speso gran parte della vita al sole e al vento del massiccio calcareo, la regione più intensamente cristianizzata della Siria.
Solo qui, tra Antiochia, Aleppo e Hama, sono stati contati quasi ottocento villaggi e città cristiane, molti dei quali abbandonati, e migliaia tra edifici sacri e varie tracce della presenza dei monaci.
Povero Tchalenko! Oltre ad aver studiato a fondo questa zona e ad aver diretto i restauri di san Simeone, si è anche dato la pena di numerare e allineare tutte le pietre ancora fuori posto, sognando il miracolo: un restauro completo, che nel 2001 non è stato ancora finanziato da nessuno. Troppo caro, dicono. «Troppi soldi, per quello che forse è il più grande e importante complesso paleocristiano del mondo!» fa eco, sconsolato, Abdallah Hadjar, l’archeologo di Aleppo che insieme ai francescani Peña, Castellana e Fernandez è oggi uno dei massimi esperti in materia.

COME CADUTA DAL CIELO
L’oggetto misterioso è là, nel bel mezzo della basilica. È una gran pietra bianca, alta un paio di metri. Pare un monolito appena piovuto dal cielo, invece è ciò che rimane della reliquia cristiana più grande che sia mai esistita: la colonna sulla quale è vissuto per circa quarant’anni Simeone il Grande, il primo degli oltre cento monaci stiliti (cioè “delle colonne”) che hanno reso celebre questa zona.
Secoli di scalpelli devoti, di terremoti e di intemperie hanno contribuito a ridurre a un liscio moncone una colonna che arrivava a sedici o diciotto metri di altezza, e che quindi era visibile anche da lontano. Da quel balcone, il suo inquilino (che certo non soffriva di vertigini) poteva ben sentirsi “a metà strada tra la terra e il cielo”, come scrisse lo storico antico Evagrio.

MUOVERE LE MONTAGNE
Che la colonna fosse così alta, lo si è capito non solo da testimonianze serie, come quella del vescovo Teodoreto di Cirro (contemporaneo e ammiratore di Simeone), ma anche dalle dimensioni di questa basilica senza precedenti, che è nata proprio per contenerla tutta. Mai prima di allora i cristiani avevano costruito una chiesa così alta, complessa e a forma di croce, oltretutto.
Per scaricare il gran peso della struttura dai pilastri, i siriani hanno dovuto inventare i contrafforti, ma non solo: hanno saputo spianare il monte, vincere le pendenze e ogni tipo di ostacolo naturale. «Gesù ha detto che la fede muove le montagne» ci dice convinto Elia Kajmini, animatore del Centro archeologico di Aleppo e versatile uomo di cultura. «Bene, è proprio quello che hanno fatto migliaia di persone, quassù. Hanno lavorato come uomini di fede, non solo per guadagnarsi da vivere».

UNA FESTA DI SIMBOLI
Ma la tecnica sarebbe nulla senza la bellezza, e qui a san Simeone ne è stata versata a piene mani. Cornici stupende, tipicamente siriache, profilano le finestre; fregi incantevoli ricamano ovunque la pietra; capitelli con le foglie d’acanto che sembrano mosse dal vento sormontano le colonne: cose che devono aver strappato grida di meraviglia ai pellegrini di ogni tempo.
Che ricchezza di simboli, sulle pietre dorate dal sole! Non solo grappoli d’uva e fogliame corinzio, ma anche tante croci diverse: da quella latina a quella di Malta, dalla croce greca antica al disco solare dei siriaci, immagine pagana che qui era molto diffusa ed è stata ripresa con un significato del tutto nuovo (è Gesù il sole che non tramonta).
E poi la croce bizantina, naturalmente, con le sue allusioni alla maestà di Cristo. Non poteva mancare, anche perché è il sigillo dello sponsor di questo capolavoro: l’imperatore bizantino Zenone, che dopo quasi quindici anni di “fabbrica”, deve aver fatto appena in tempo a vederlo finito, nell’anno 490 o 491.

LA DIFFICILE UNITÀ
Zenone ci teneva molto a rappresentare, sulle pietre di san Simeone, un impero cristiano unitario e pacificato. Ma la realtà era tutt’altra, e questa operazione rischia di apparire, ai nostri occhi, quasi come una spettacolare forzatura ideologica.
Nel 451, a Calcedonia, un grande Concilio dedicato al problema della natura di Cristo aveva seminato malumori e opposizioni, soprattutto in Egitto e in Siria. Quello che per noi ormai è un dato di fede (misterioso finché si vuole), e cioè la convivenza in Cristo di due nature distinte, l’umana e la divina, non era stato affatto accettato da tutti.
Per i siriani, in particolare, esse si erano fuse armoniosamente, in Gesù, a vantaggio della natura divina. Nemmeno il conciliante Editto di unità emanato proprio da Zenone aveva messo d’accordo i litiganti. Nasceva così il partito “monofisita” (cioè “dell’unica natura”), che è proprio un contrassegno della Chiesa d’Oriente.

CRISTIANI CONTRO CRISTIANI
Solo un bisticcio di parole, che sarebbe stato più o meno facile sbrogliare? Oggi è facile pensarla così, ma allora la posta in gioco era altissima. Dentro i confini dell’impero, i popoli di più antica tradizione premevano per guadagnare un’autonomia sempre maggiore. Le rivolte erano all’ordine del giorno. Il contrasto sugli articoli di fede corrispondeva pari pari a un contrasto politico. Così, dopo settant’anni di compromessi, gli imperatori bizantini (che avevano l’ultima parola anche in materia religiosa) decisero di imporre la tesi di Calcedonia con la forza.
Finito l’incubo dei circhi e dei leoni, insomma, i cristiani cominciarono a perseguitare i cristiani, tanto che i siriaci finirono per considerare prima i Persiani e poi le armate islamiche (nemici giurati di Costantinopoli) come dei liberatori. In un’atmosfera segnata dalla lotta contro le eresie, iniziò una catena di scismi interni, carica di conseguenze per il futuro del cristianesimo.

I MONACI, NUOVI PROFETI
Simeone è solo il “frutto” più celebre dell’esplosione di vita monastica avvenuta in Siria, soprattutto in questa zona e tra il IV e il VII secolo: fenomeno straordinario (anche rispetto all’esperienza dei monaci egiziani e palestinesi) e importantissimo segno dei tempi.
Finite le persecuzioni dell’impero romano, grazie agli editti di Costantino (nel 313 e 325), cresciuta l’importanza di Costantinopoli e messo il cristianesimo sotto la tutela e il controllo dell’impero, l’eroica religione messianica delle origini stava infatti diventando un fenomeno di massa, impregnato di cultura greca più che di giudaismo, ed esposto al rischio di compromettersi sempre di più con esigenze mondane e di potere.
L’esito tragico del dopo-Calcedonia lo avrebbe ampiamente dimostrato. Le anime più semplici e insieme più esigenti, non potevano accettare tutto questo. E la risposta non si fece attendere.

GLI ESTREMISTI DI DIO
Il monachesimo è particolarmente congeniale alla natura siriana (e agli orientali in genere). L’ardore affettivo e sensuale, in queste terre, è sempre pronto a rovesciarsi nel suo contrario: può diventare accesa disponibilità a mortificare il corpo e le passioni. L’amore per la preghiera e la contemplazione, poi, sono valori che questi uomini portano scritti dentro da sempre.
Qui sono sorte una miriade di comunità monastiche, che hanno rivestito il territorio di chiese e conventi, e soprattutto si sono moltiplicate le iniziative individuali (che magari facevano scuola e si trasformavano in tendenze), una più singolare e spettacolare dell’altra: anche questi caratteri, contraddistinguono l’anima siriana.
Alcuni monaci, i cosiddetti reclusi, corsero a segregarsi dentro torri e capanne, addirittura nelle tombe o in mezzo a rudimentali costruzioni di sassi.
Altri si rifugiavano nelle grotte di cui i monti erano pieni, e vivevano talvolta come animali selvatici.
Qualcuno si costringeva a restare immobile, seduto o in piedi, a volte legato a un palo; c’era chi quasi non chiudeva occhio per non interrompere la preghiera e chi viveva tra i rami di un albero, o nascosto dentro un tronco cavo.
Trascorrevano le giornate pregando e contemplando; qualcuno studiava o scriveva. Inutile dire che il mangiare e il bere erano la loro ultima preoccupazione.

I “CANDELABRI DELLA FEDE”
In realtà, però, questi campioni di ascetismo non si separavano del tutto dal mondo. Non sarebbe stato neppure possibile, perché queste zone erano molto popolate. E poi molti di loro non lo volevano neppure.
Gli stiliti, soprattutto, che per molti secoli seguirono l’esempio di Simeone il Grande, alzavano spesso le colonne a poca distanza dalle strade commerciali, alla portata dei viandanti e degli abitanti dei villaggi. Predicavano e dispensavano consigli, guidavano la gente nella preghiera. Erano perfettamente consapevoli di costituire un richiamo vivente, a vantaggio di tanti cristiani incerti e tiepidi.
Teodoreto li ha magnificamente definiti “candelabri della fede”: Gesù non aveva forse raccomandato di porre la luce della testimonianza cristiana sopra il lampadario, e non sotto? E i nostri asceti facevano una tale luce da essere consultati perfino dagli imperatori, conquistandosi, dopo le prime diffidenze, l’amore e la venerazione di tutti.

UN… CATTIVO ESEMPIO
Simeone era un povero pastore, nato a Nis, in Cilicia, intorno al 390. Da ragazzo, dopo avere ascoltato in chiesa le Beatitudini, si era sentito bruciare dentro il desiderio di una vita religiosa ardente e severa. Arrivò in un convento a Tel Ada (vicino alla montagna a cui era legato il suo destino) e visse per dieci anni in preghiera e in mortificazione assoluta, mangiando una volta alla settimana. Gli ottanta monaci del suo convento erano letteralmente sconcertati.
Quando arrivò a legarsi intorno al corpo un terribile cilicio in foglie di palma, che lo riempì di piaghe (e lui rifiutò di farle curare), il superiore lo invitò ad andare a far penitenza da un’altra parte, preoccupatissimo che il suo esempio potesse risultare deleterio per altri monaci meno robusti di lui.
Simeone obbedì e si spostò di poco, a Telanisso (oggi San Simeone), sul pendio del monte. Visse per tre anni sigillato in una minuscola cella, diventando un campione di digiuno. Si fece lasciare pane e acqua fuori dalla porta, e non toccò nulla per quaranta giorni, sfiorando la morte. Ma si riprese prestissimo. Da allora, le sue quarantene periodiche divennero una pratica abituale.

TORMENTO SULLA MONTAGNA
Anche qui, però, neanche a dirlo, venne messo alla porta. Si rassegnò allora a isolarsi sulla montagna, dietro un piccolo steccato, incatenato a un sasso per costringersi alla stanzialità. Evidentemente era già diventato celebre, perché ricevette la visita di un vescovo di Antiochia, che lo rimproverò. «Non è abbastanza severa la tua coscienza – gli disse – che hai bisogno di catene per sottomettere il tuo corpo?».
Colpito dall’osservazione, Simeone si sciolse dai ceppi, che già gli avevano inciso a fondo la carne e continuò a vivere sul monte, lodando Dio e pregando, tormentato dagli insetti, esposto alla pioggia, al sole e al vento.
Ma non erano solo questi i tormenti. Era anche perseguitato dalle donne con problemi di sterilità, che imploravano la sua intercessione per avere il sospirato figlio. Lui le teneva a distanza, si faceva riferire il problema da qualche parente e provvedeva puntualmente con la preghiera: con grande successo, a quanto pare.

FUGA SULLA COLONNA
Dopo qualche tempo, infatti, questi e altri miracoli non si contarono più. La sua resistenza soprannaturale a ogni genere di fatica (era anche capace di flettersi in adorazione più di mille volte di seguito senza fermarsi), costrinsero all’ammirazione perfino i vescovi più sospettosi verso questo incredibile esibizionista di Dio.
Ma la gente era diventata troppa e Simeone, per difendersene senza dover fuggire ancora, si fece costruire una colonna di un paio di metri, con sopra una piattaforma di legno protetta da una balaustra. Più la folla aumentava, più la colonna diventava alta: a un certo punto, per parlare direttamente al sant’uomo, era necessario arrampicarsi su un’alta scala a pioli, senza guardar troppo di sotto. Ogni tanto, un custode (in genere, un monaco novizio: il rapporto col convento non era mai venuto meno) gli portava qualche dattero e una ciotola d’acqua. Anche le modeste necessità fisiologiche di Simeone venivano sbrigate da un buco sulla sommità della colonna, scanalata all’interno. Queste, probabilmente, erano tutte le sue comodità.
E RIMASE LA COLONNA

Nonostante le privazioni, Simeone morì all’incirca settantenne, nel 459. Il vescovo di Antiochia, la più vicina “capitale” del cristianesimo, riuscì a portarsi via le sue spoglie, nonostante le proteste della gente del luogo. L’anno prima, la città era stata devastata da un terribile terremoto: forse il santo corpo avrebbe potuto proteggerla, in futuro.
Ma Antiochia fu solo una breve tappa, perché il monaco Daniele, amico di Simeone e anche dell’imperatore Leone, riuscì a farlo arrivare presto a Costantinopoli e a trasferirlo in un martyrion, una chiesa fatta apposta per accogliere le reliquie di un martire. Era la prima volta che capitava una cosa del genere, ma ce n’era motivo: Simeone si era davvero comportato con l’eroismo di un “martire vivente”.
Agli abitanti di Telanisso e dintorni restava solo lei, la colonna, e quindi furono ben felici di vederle sorgere intorno il grande ottagono centrale, sormontato da una cupola arditissima (che fu la prima vittima dei terremoti). Dall’ottagono si dipartivano quattro chiese, che completavano una originalissima pianta a croce, tanto originale da avere il “braccio” orientale non in asse con gli altri, ma un po’ inclinato verso nord. “Come la testa di Cristo crocifisso!” dice la tradizione. Ma forse l’orientamento di questa parte della chiesa, coronata da una splendida abside, è stato determinato da altri motivi simbolici, mentre la posizione delle altre è stata maggiormente condizionata dal terreno e dalla colonna stessa.

L’ULTIMO MIRACOLO
Il flusso dei fedeli, assiepati intorno all’altissima reliquia, impegnati a pregare, a chiedere grazie, a deporre offerte e prendere con sé gli eulogia (piccole immaginette-reliquia), dev’essere stato imponente per secoli. Ancora oggi si vedono i resti di un arco trionfale sull’antica Via Sacra percorsa dai pellegrini. Solo la dinastia islamica degli Hamdanidi, nel decimo secolo, riuscì a mettere la parola fine a questa devozione di massa. L’imponente santuario sarebbe ufficialmente diventato la fortezza di Simeone (Qalaat Samaan), una cittadella ben munita di torri, e poco più.
Ma il “candelabro della fede” non ha mai smesso di splendere, su questa montagna. Qui, nel 1991, per i 1.500 anni della basilica, si è raccolta una folla traboccante, almeno cinquemila persone: cattolici dei vari riti, ortodossi, protestanti, venuti anche da lontano; cinque grandi cori hanno fatto risuonare i loro canti in tante lingue diverse: uno spettacolo grandioso, indimenticabile per chi ha avuto la fortuna di partecipare.
Simeone veglia ancora sui cristiani, specialmente sugli orientali. Forse, l’intercessione per l’unità dei fratelli in Cristo e per il risveglio del coraggio evangelico dovremmo chiederla soprattutto a lui (oltre che a san Francesco, naturalmente). Alle richieste serie, fatte davvero col cuore, questo ruvido “atleta di Dio” non ha mai saputo dire di no.

L’ANNO DELLA FEDE E IL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA (prediche di Avvento P. Cantalamessa)

http://www.zenit.org/article-34375?l=italian

L’ANNO DELLA FEDE E IL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA

Prima Predica di Avvento 2012 di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 7 dicembre 2012 (ZENIT.org).- Riprendiamo di seguito il testo della Prima Predica di Avvento 2012, tenuta questa mattina in Vaticano da padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., predicatore della Casa Pontificia.
***
L’ANNO DELLA FEDE,
e il catechismo della Chiesa Cattolica
1. Il libro “mangiato”
Nella predicazione alla Casa Pontificia, cerco di farmi guidare, nella scelta dei temi, dalle grazie o dalle ricorrenze speciali che la Chiesa vive in un dato momento della sua storia. Di recente abbiamo avuto l’apertura dell’anno della fede, il cinquantesimo anniversario del concilio Vaticano II e il Sinodo per l’evangelizzazione e la trasmissione della fede cristiana. Ho pensato perciò di svolgere in Avvento una riflessione su ognuno di questi tre eventi.
Comincio con l’anno della fede. Per non smarrirmi in un tema, la fede, che è vasto come il mare,  mi concentro su un punto della lettera “Porta fidei” del Santo Padre, precisamente là dove esorta caldamente a fare del  Catechismo della Chiesa Cattolica (di cui, tra l’altro, ricorre quest’anno il ventesimo anniversario di pubblicazione) lo strumento privilegiato per vivere fruttuosamente la grazia di questo anno. Scrive il papa nella sua lettera:
“L’Anno della fede dovrà esprimere un corale impegno per la riscoperta e lo studio dei contenuti fondamentali della fede che trovano nel Catechismo della Chiesa Cattolica la loro sintesi sistematica e organica. Qui, infatti, emerge la ricchezza di insegnamento che la Chiesa ha accolto, custodito ed offerto nei suoi duemila anni di storia. Dalla Sacra Scrittura ai Padri della Chiesa, dai Maestri di teologia ai Santi che hanno attraversato i secoli, il Catechismo offre una memoria permanente dei tanti modi in cui la Chiesa ha meditato sulla fede e prodotto progresso nella dottrina per dare certezza ai credenti nella loro vita di fede”[1].
Non parlerò certo del contenuto del CCC, delle sue ripartizioni, criteri informativi; sarebbe come voler spiegare la Divina Commedia a Dante Alighieri.  Piuttosto vorrei sforzarmi di mostrare come fare perché questo libro, da strumento muto, come un violino di pregio posato su un panno di velluto, si trasformi in strumento che suona e scuote i cuori. La passione secondo Matteo di Bach rimase per quasi due secoli una partitura scritta, conservata in archivi musicali, finché nel 1829 Felix Mendelssohn  ne allestì a Berlino una esecuzione  magistrale e da quel giorno il mondo seppe che melodie e cori sublimi erano racchiusi in quelle pagine rimaste fino allora mute.
Sono realtà diverse, è vero, ma qualcosa del genere avviene con ogni libro che parla della fede, compreso il CCC: si deve passare dalla partitura all’esecuzione, dalla pagina muta a qualcosa di vivo che fa vibrare l’anima. La visione di Ezechiele della mano tesa che porge un rotolo ci aiuta a capire cosa si richiede perché questo avvenga:
“Io guardai, ed ecco una mano stava stesa verso di me, la quale teneva il rotolo di un libro; lo srotolò davanti a me; era scritto di dentro e di fuori, e conteneva lamentazioni, gemiti e guai. Egli mi disse: «Figlio d’uomo, mangia ciò che trovi; mangia questo rotolo, e va’ e parla alla casa d’Israele». Io aprii la bocca, ed egli mi fece mangiare quel rotolo. Mi disse: «Figlio d’uomo, nùtriti il ventre e riempiti le viscere di questo rotolo che ti do». Io lo mangiai, e in bocca mi fu dolce come del miele” (Ez 2,9-3,3).
Il Sommo Pontefice è  la mano che, in quest’anno, porge di nuovo alla Chiesa il CCC, dicendo a ogni cattolico: “Prendi questo libro, mangialo, riempitene le viscere”. Che significa mangiare un libro? Non solo studiarlo, analizzarlo, memorizzarlo, ma farlo carne della propria carne e sangue del proprio sangue, “assimilarlo”, come si fa materialmente con il cibo che mangiamo. Trasformarlo da fede studiata in fede vissuta.
Questo non è possibile farlo con tutta la mole del libro, e con tutte e singole le cose in esso contenute. Non è possibile farlo analiticamente, ma solo sinteticamente. Mi spiego. Bisogna cogliere il principio che informa e unifica il tutto, insomma il cuore pulsante del CCC. E cos’è questo cuore? Non è un dogma, o una verità, una dottrina o un principio etico; è una persona: Gesù Cristo! “Pagina dopo pagina –scrive il Santo Padre a proposito del CCC, nella stessa lettera apostolica – si scopre che quanto viene presentato non è una teoria, ma l’incontro con una Persona che vive nella Chiesa”.
Se tutta la Scrittura, come afferma Gesù stesso, parla di lui (cf. Gv 5,39), se essa è gravida di Cristo e si riassume tutta quanta in lui, potrebbe essere diversamente per il CCC che, della stessa Scrittura, vuole essere una esposizione sistematica, elaborata dalla Tradizione, sotto la guida del Magistero?
Nella Parte prima, dedicata alla fede, il CCC ricorda il grande principio di san Tommaso d’Aquino secondo cui “l’atto di fede del credente non si ferma all’enunciato, ma raggiunge la realtà” (Fides non terminatur ad enunciabile sed ad rem”)[2]. Ora, qual è la realtà, la “cosa” ultima della fede? Dio, certamente! Non, però, un dio qualsiasi che ognuno si raffigura a suo gusto e piacimento, ma  il Dio che si è rivelato in Cristo, che si “identifica” con lui al punto di poter dire: “Chi vede me vede il Padre” e “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18).
Quando diciamo fede “in Gesù Cristo” non stacchiamo il Nuovo dall’Antico Testamento, non facciamo iniziare la vera fede con la venuta in terra di Cristo. Se così fosse, escluderemmo dal numero dei credenti lo stesso Abramo che chiamiamo “nostro padre nella fede” (cf. Rom 4,16). Identificando il Padre suo con “il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe” (Mt 22, 32) e  con il Dio “della legge e dei profeti” (Mt 22, 40), Gesù ha autenticato la fede ebraica, ne ha mostrato il carattere profetico, affermando che è di lui che essi parlavano (cf. Lc 24, 27. 44; Gv 5, 46). È questo che rende la fede ebraica diversa, agli occhi dei cristiani, da ogni altra fede e che giustifica la statuto speciale di cui gode, dopo il Concilio Vaticano II, il dialogo con gli ebrei rispetto a quello con altre religioni.
2. Kerygma e didachè
All’inizio della Chiesa era chiara la distinzione tra kerygma e didaché. Il kerygma, che Paolo chiama anche “il vangelo”, riguardava l’opera di Dio in Cristo Gesù, il mistero pasquale di morte e risurrezione, e consisteva in formule brevi di fede, come quella che si deduce dal discorso di Pietro il giorno di Pentecoste: “Voi l’avete crocifisso, Dio l’ha risuscitato e lo ha costituito Signore” (cf. Atti 2, 23-36), oppure: “Se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato” (Rom 10,9).
La didaché indicava invece l’insegnamento successivo alla venuta alla fede, lo sviluppo e la formazione completa del credente.  Si era convinti (Paolo soprattutto) che la fede, come tale, sbocciava solo in presenza del kerygma. Esso non era un riassunto della fede o una parte di essa, ma il seme da cui nasce tutto il resto. Anche i 4 Vangeli furono scritti dopo, precisamente per spiegare il kerygma.
Anche il più antico nucleo del credo riguardava Cristo, di cui metteva in luce la duplice componente, umana e divina. Un esempio di esso è ritenuto il versetto della Lettera ai Romani che parla di Cristo “nato dalla stirpe di Davide secondo la carne,  dichiarato Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità mediante la risurrezione dai morti” (Rom 1,3-4). Ben presto questo nucleo primitivo, o credo cristologico, venne inglobato in un contesto più ampio, come il secondo articolo del simbolo di fede. Nascono, anche per esigenze legate al battesimo, i simboli trinitari giunti fino a noi.
Questo processo fa parte di quello che Newman chiama “lo sviluppo della dottrina cristiana”; è un arricchimento, non un allontanamento dalla fede originaria. Sta a noi oggi –in primo luogo ai vescovi, ai predicatori, ai catechisti – far risaltare il carattere “a parte” del kerygma come momento germinativo della fede. In un’opera lirica, per riprendere l’immagine musicale, c’è il recitativo e c’è il cantato e nel cantato ci sono gli “acuti” che scuotono l’uditorio e provocano emozioni forti, a volte anche brividi.  Ora sappiamo qual è l’acuto di ogni catechesi.
La nostra situazione è tornata ad essere la stessa del tempo degli apostoli. Essi avevano davanti a sé un mondo precristiano da evangelizzare; noi abbiamo davanti a noi, almeno per certi versi e in certi ambienti, un mondo post-cristiano da rievangelizzare. Dobbiamo ritornare al loro metodo, riportare alla luce “la spada dello Spirito” che è l’annuncio, in Spirito e potenza, di Cristo morto per i nostri peccati e risorto per la nostra giustificazione (cf. Rom 4,25).
Il kerygma non è però solo l’annuncio di alcuni fatti o verità di fede ben precisi; è anche un certo clima spirituale che si può creare qualunque cosa si dica, uno sfondo sul quale tutto si colloca.  Sta all’annunciatore, mediante la sua fede, permettere allo Spirito Santo di creare questa atmosfera.
Qual è allora, ci chiediamo, il senso del CCC? Lo stesso di quello che nella chiesa apostolica era la didachè: formare la fede, darle un contenuto, mostrarne le esigenze etiche e pratiche, portare la fede a rendersi “operante nella carità” (cf. Gal 5,6). Lo mette bene in luce un paragrafo dello stesso CCC. Dopo aver ricordato il principio tomistico che “la fede non termina nelle formulazioni, ma nella realtà”, esso aggiunge:
“Tuttavia, queste realtà noi le accostiamo con l’aiuto delle formulazioni della fede. Esse ci permettono di esprimere e di trasmettere la fede, di celebrarla in comunità, di assimilarla e di viverne più intensamente”[3].
In questo appare l’importanza della terza “C” del titolo “Catechismo della Chiesa Cattolica”, cioè dell’aggettivo “cattolica”. La forza di alcune Chiese non cattoliche è di puntare tutto sul momento iniziale, la venuta alla fede, l’adesione al kerygma e l’accettazione di Gesù come Signore, visto come un “nascere di nuovo”, o come “seconda conversione”. Ma questo può divenire un limite se ci si ferma ad esso e tutto continua a ruotare intorno ad esso.
Noi cattolici abbiamo da imparare qualcosa da tali chiese, ma abbiamo anche tanto da dare. Nella Chiesa cattolica tutto ciò è l’inizio, non la fine della vita cristiana. Dopo quella decisione, si apre il cammino verso la crescita e la pienezza della vita cristiana e, grazie alla sua ricchezza sacramentale, al magistero, all’esempio di tanti santi, la chiesa cattolica è in una situazione privilegiata per condurre i credenti alla perfezione della vita di fede. Scrive il papa nella citata lettera “Porta fidei”:
“Dalla Sacra Scrittura ai Padri della Chiesa, dai Maestri di teologia ai Santi che hanno attraversato i secoli, il Catechismo offre una memoria permanente dei tanti modi in cui la Chiesa ha meditato sulla fede e prodotto progresso nella dottrina per dare certezza ai credenti nella loro vita di fede”.
3. L’unzione della fede
Ho parlato del kerygma come dell’”acuto” della catechesi. Ma per produrre questo acuto non basta alzare il tono della voce, occorre altro. “Nessuno può dire: ‘Gesù è il Signore!’ [è questo l’acuto per eccellenza!] se non nello Spirito Santo” (1 Cor 15,3). L’evangelista Giovanni fa una applicazione del tema dell’unzione che si rivela particolarmente attuale in questo anno della fede. Scrive:
“Quanto a voi, avete ricevuto l’unzione dal Santo e tutti avete conoscenza […]. L’unzione che avete ricevuta da lui rimane in voi, e non avete bisogno dell’insegnamento di nessuno; ma siccome la sua unzione vi insegna ogni cosa ed è veritiera, e non è menzogna, rimanete in lui come essa vi ha insegnato” (1 Gv 2, 20.27).
L’autore di questa unzione è lo Spirito Santo, come si deduce dal fatto che altrove la funzione di “insegnare ogni cosa” è attribuita al Paraclito come “Spirito di verità” (Gv 14, 26). Si tratta, come scrivono diversi Padri, di una “unzione della fede”: “L’unzione che viene dal Santo –scrive Clemente Alessandrino – si realizza nella fede”; “L’unzione è la fede in Cristo”, dice un altro scrittore della stessa scuola[4].
Nel suo commento, Agostino rivolge, a questo proposito, una domanda all’evangelista. Perché, dice, hai scritto la tua lettera, se quelli ai quali ti rivolgevi avevano ricevuto l’unzione che insegna ogni cosa e non avevano bisogno che alcuno li istruisse?  Perché questo stesso nostro parlare e istruire i fedeli? Ed ecco la sua risposta, basata sul tema del maestro interiore:
“Il suono delle nostre parole  percuote l’orecchio, ma il vero maestro sta dentro […] Io ho parlato a tutti, ma coloro dentro i quali non parla quell’unzione, quelli che lo Spirito non istruisce internamente, se ne vanno via senza avere nulla appreso […]. È dunque  interiore il maestro che veramente istruisce; è Cristo, è la sua ispirazione ad istruire”[5].
C’è dunque bisogno di istruzione dall’esterno, c’è bisogno di maestri; ma la loro voce penetra nel cuore solo se ad essa si aggiunge quella interiore dello Spirito. “Noi siamo testimoni di queste cose e anche lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli ubbidiscono” (Atti 5, 32). Con queste parole, pronunciate davanti al sinedrio, l’apostolo Pietro non solo afferma la necessità della testimonianza interiore dello Spirito, ma indica anche qual è la condizione per riceverla: la disponibilità a obbedire, a sottomettersi alla Parola.
È l’unzione dello Spirito che fa passare dalle enunciazioni di fede alla loro realtà. È un tema caro all’evangelista Giovanni quello del credere che è anche conoscere: “Noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore  che Dio ha per noi” (1 Gv 4,16). “Noi abbiamo conosciuto e creduto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6, 69). “Conoscere”, in questo caso, come in genere in tutta la Scrittura, non significa quello che significa per noi oggi e cioè avere l’idea o il concetto di una cosa. Significa sperimentare, entrare in relazione con la cosa o con la persona [6]. L’affermazione della Vergine: “Non conosco uomo”, non voleva certo dire non so cos’è un uomo…
Fu un caso di evidente unzione della fede quello che Pascal sperimentò nella notte del 23 Novembre 1654 e che fissò con brevi frasi esclamative in uno scritto trovato dopo la morte cucito all’interno della sua giacca:
“Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti. Certezza. Certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo […]. Lo si trova soltanto per le vie del Vangelo. […]. Gioia, gioia. Gioia, lacrime di gioia. […] Questa è la vita eterna, che essi conoscano te, solo vero Dio e colui che hai mandato: Gesù Cristo”[7].
L’unzione della fede avviene di solito quando, su una parola di Dio o su una affermazione di fede, cade improvvisamente l’illuminazione dello Spirito Santo, accompagnata di solito da una forte emozione. Ricordo che un anno, nella festa di Cristo Re, ascoltavo nella prima lettura della Messa la profezia di Daniele sul Figlio dell’uomo:
“Io guardavo, nelle visioni notturne, ed ecco venire sulle nuvole del cielo uno simile a un figlio d’uomo; egli giunse fino al vegliardo e fu fatto avvicinare a lui; gli furono dati dominio, gloria e regno, perché le genti di ogni popolo, nazione e lingua lo servissero. Il suo dominio è un dominio eterno che non passerà, e il suo regno è un regno che non sarà distrutto” (Dan 7,13-14).
Il Nuovo Testamento, si sa, ha visto realizzata la profezia di Daniele in Gesù; lui stesso davanti al sinedrio la fa sua (cf. Mt 26, 64); una frase del testo è entrata perfino nel credo (“cuius regnum non erit finis”). Io conoscevo, dai miei studi, tutto questo, ma  in quel momento era un’altra cosa. Era come se la scena si svolgesse lì, sotto i miei occhi. Sì, quel figlio dell’uomo che si avanzava era proprio lui, Gesù. Tutti i dubbi e le spiegazioni alternative degli studiosi, che pure conoscevo, mi sembravano, in quel momento, semplici pretesti per non credere. Sperimentavo, senza saperlo, l’unzione della fede.
Un’altra volta (credo di aver condiviso già in passato questa esperienza che però aiuta a capire) assistevo alla Messa di Mezzanotte presieduta da Giovanni Paolo II in San Pietro. Arrivò il momento del canto della Kalenda, cioè la solenne proclamazione della nascita del Salvatore, presente nell’antico Martirologio e reintrodotta nella liturgia natalizia dopo il Vaticano II:
“Molti secoli dalla creazione del mondo…
Tredici secoli dopo l’uscita dall’Egitto…
Nella centonovantacinquesima Olimpiade,
Nell’anno 752 dalla fondazione di Roma…
Nel  quarantaduesimo anno dell’impero di Cesare Augusto,
Gesù Cristo, Dio eterno e Figlio dell’eterno Padre, essendo stato concepito per opera dello Spirito Santo, trascorsi nove mesi, nasce a Betlemme di Giudea dalla Vergine Maria, fatto uomo”.
Giunti a queste ultime parole provai una improvvisa chiarezza interiore, per cui ricordo che dicevo tra me: “È vero! È tutto vero questo che si canta! Non sono soltanto parole. L’eterno entra nel tempo. L’ultimo avvenimento della serie ha rotto la serie; ha creato un “prima” e un “dopo” irreversibili; il computo del tempo che prima avveniva in relazione a diversi avvenimenti (olimpiade tale, regno del tale), ora avviene in relazione a un unico avvenimento”: prima di lui, dopo di lui. Una commozione improvvisa mi attraversò tutta la persona, mentre potevo solo dire: “Grazie, Santissima Trinità, e grazie anche a te, Santa Madre di Dio!”.
L’unzione dello Spirito Santo produce anche un effetto, per così dire, “collaterale” nell’annunciatore: gli fa sperimentare la gioia di proclamare Gesù e il suo Vangelo. Trasforma l’evangelizzazione da incombenza e dovere, in un onore e un motivo di vanto. È la gioia che conosce bene il messaggero che reca a una città assediata l’annuncio che l’assedio è stato tolto, o l’araldo che nell’antichità correva avanti a portare al popolo l’annuncio di una vittoria decisiva ottenuta sul campo dal proprio esercito. La “lieta notizia”, prima ancora che chi la riceve, rende lieto chi la reca.
La visione di Ezechiele del rotolo mangiato si è realizzata una volta nella storia in senso anche letterale e non solo metaforico. È stato quando il rotolo delle parole di Dio si è racchiuso in una sola Parola, il Verbo. Il Padre l’ha porto a Maria; Maria lo ha accolto, se ne è riempita, anche fisicamente, le viscere, e poi l’ha dato al mondo, lo ha “proferito” partorendolo. Lei è il modello di ogni evangelizzatore e di ogni catechista. Ci insegna a riempirci di Gesù per darlo agli altri. Maria ha concepito Gesù “per opera dello Spirito Santo” e così deve essere anche di ogni annunciatore.
Il Santo Padre conclude la sua lettera di indizione dell’anno della fede con un richiamo alla Vergine: “Affidiamo, scrive, alla Madre di Dio, proclamata “beata” perché “ha creduto” (Lc 1,45), questo tempo di grazia”[8]. A lei chiediamo di ottenerci la grazia di sperimentare, in questo anno, tanti momenti di unzione della fede. “Virgo fidelis, ora pro nobis”. Vergine credente, prega per noi.
*
NOTE
[1] Benedetto XVI, Lett. apost. “Porta fidei”, n.11
[2] S. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, 1,2,ad 2; cit. in CCC, n.170.
[3] CCC, n. 170
[4] Clemente Al. Adumbrationes in 1 Johannis (PG 9, 737B); Homéliies paschales (SCh 36, p.40): testi citati da  I. de la Potterie, L’unzione del cristiano con la fede, in Biblica 40, 1959, 12-69.
[5] S. Agostino, Commento alla Prima Lettera di Giovanni 3,13  (PL  35, 2004 s).
[6] Cf. C.H. Dodd, L’interpretazione del Quarto Vangelo, Brescia, Paideia1974, pp. 195 s.
[7] B. Pascal, Memoriale, ed. Brunschvicg.
[8] “Porta fidei”, nr. 15.

El Greco, Giovanni Battista

El Greco, Giovanni Battista dans immagini sacre 16%20EL%20GRECO%20ST.%20JOHN%20THE%20BAPTIST

http://www.artbible.net/3JC/-Mat-03,01-John%20the%20baptist_Jean%20Baptiste/index5.html

Publié dans:immagini sacre |on 8 décembre, 2012 |Pas de commentaires »

commento alla seconda lettura, Fil 1, 4-6. 8-11 – di Marie Noëlle Thabut

http://www.eglise.catholique.fr/foi-et-vie-chretienne/commentaires-de-marie-noelle-thabut.htmlhttp://www.eglise.catholique.fr/foi-et-vie-chretienne/commentaires-de-marie-noelle-thabut.html

(traduzione Google dal francese, non è buona – anzi – però i commenti di Marie Noëlle sono molto precisi ed approfonditi)

Domenica 9 dicembre: commento di Marie Noëlle  Thabut

SECONDA LETTURA – Filippesi 1, 4-6. 8-11

Paolo fondò la comunità di Filippi appena prima di Tessalonica abbiamo parlato la scorsa settimana, ma a Filippi, è stato in grado di rimanere un po ‘lungo. Paul è stato accompagnato da Sila e Luca dice che questo viaggio negli Atti degli Apostoli, ha detto, « Abbiamo passato un po ‘di tempo in questa città. « (Atti 16). Presto una piccola comunità si è formata intorno a loro una certa Lidia, una venditrice di porpora era una, e trova in essa. Ma Paolo compì un miracolo che non era di gradimento di tutti, Luca ci dice:
 Un giorno, quando sono andato al luogo di preghiera, incontrarono un giovane servo che era chiaroveggente (al tempo si è detto che aveva uno spirito di divinazione), ovviamente, dai suoi doni di chiaroveggenza e le sue previsioni, è stato guadagnare un sacco di soldi per i suoi padroni. Ma si sa che qualsiasi forma di chiaroveggenza, magia, divinazione era vietato dalla legge ebraica.
 Ma, a Filippi, ovviamente, non c’è stato ebraico. Ma quel giorno, il servo-avvistato in questione ha iniziato a seguire Paolo, Sila e Luca gridando: « Questi uomini sono servi del Dio Altissimo, e vi annunziano la via della salvezza. » E di nuovo lo stesso gioco per diversi giorni. Alla fine, Paolo è stato superato, e Luca dice: « Paul alla fine ritornò e disse allo spirito: Nel nome di Gesù Cristo, io ti comando: Fuori di questa donna! Al momento lo spirito sinistra. ‘
 Ma ora, se l’agente non la sua chiaroveggenza attività, questo non era il caso per i suoi padroni! Così hanno reagito e denunciato Paolo ei suoi compagni alle autorità romane con il pretesto che hanno gettato il disordine in città e che interferivano con la morale!
 E allora che Paolo e Sila sono stati picchiati e gettati in prigione, ma miracolosamente la notte seguente da un terremoto: i giudici visto questo come un segno dal cielo e il preferito scatenare chiedendo loro gentilmente di andarsene.
 Gli Atti degli Apostoli non reparleront la città di Filippi, quindi non si sa nulla di lei, tranne ciò che Paolo stesso dice in questa lettera. E ‘chiaro che c’è solo quella di sinistra del suo cuore: « Dio è testimone del mio affetto per voi tutta la tenerezza di Gesù Cristo. « E la parola » tenerezza « qui in greco dovrebbe essere tradotto come » viscere « . Ancora, ancora una volta, Paul è molto vicino al vocabolario ebraico. Si noti qui di passaggio, che parla di tenerezza (viscere) di Gesù Cristo. È lui, Gesù Cristo, e non ogni sentimentalismo, che è la fonte di relazioni fraterne all’interno della comunità cristiana.
 Tornando alla nostra lettera nessuno non sa dove Paolo scrive ai amati Filippesi, dice di essere in prigione, ma fu imprigionato più volte, soprattutto in Cesarea e Roma, e forse essere in Efeso, si possono specificare né il luogo né la data.
 In ogni caso, anche se in carcere, Paolo è nella gioia: « Anche se il mio sangue deve essere versato in libagione sul sacrificio e sul servizio della vostra fede, sono contento e ne godo con tutti voi; Allo stesso modo, è anche gioioso e gioite con me. « (2, 17-18). E la gioia permea la sua lettera: « Ogni volta che prego per tutti voi, è sempre con gioia. »
 E Paolo descrive il contenuto della preghiera è forse una lezione per noi, quando preghiamo per i nostri cari: « Nella mia preghiera, vi chiedo di rendere il vostro amore crescere sempre più nella conoscenza reale e previsione perfetta si discernere ciò che è più importante. « Hai notato: l’amore è in primo luogo, è lui che sta avanzando nella conoscenza: » Vi chiedo di rendere il vostro amore crescere sempre più nella conoscenza reale « , e quando Paolo parla della conoscenza, la ‘significato biblico. Inoltre, non usa il termine usuale in greco (gnosi), ha inventato un termine (epignosis) ha detto che la conoscenza di ordine superiore intelligenza. Userà esattamente la stessa parola nella prima lettera a Timoteo: « Dio i nostri desideri Salvatore tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1 Tm 2, 4). Ed è ben noto per essere tradotto: « Dio nostro Salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati a dire, giungano alla conoscenza della verità. »
 Per quanto riguarda la « visione » che Paolo parla qui, dobbiamo anche capire il senso biblico: non c’è un ragionamento intellettuale, ma gli occhi del cuore, si potrebbe dire che gli occhi della fede. Vi è un aspetto simbolico che si sviluppa nella Bibbia che inizia con Adamo, i cui occhi sono distorte dal discorso del serpente, e non vi è ogni figlio di Adamo, che hanno occhi per vedere e non vedere, secondo espressione dei profeti, ma c’è anche il figlio di Abramo, che sa « guardare al Signore », come un salmo, vale a dire, l’amore, l’amore, la fiducia in lui.
 Così, gli occhi aperti, i credenti camminare senza inciampare al giorno di Cristo qui, come nella lettera ai Tessalonicesi leggiamo Domenica scorsa, la prospettiva di Paolo, questo è il giorno di Cristo. Il cristiano è l’uomo in attesa … Si attende il giorno di Cristo, vale a dire, il giorno del trionfo dell’amore. La storia umana e della storia personale tutti gli uomini attingono il loro significato.
 La crescita in questo nuovo mondo non sarà costruita sull’amore, abbiamo il nostro ruolo da svolgere come l’opera di Dio e l’opera dell’uomo non è in concorrenza! Invece, è una collaborazione. Vale a dire, stiamo facendo del nostro piccolo possibile, Dio fa il resto.

Publié dans:Lettera ai Filippesi |on 8 décembre, 2012 |Pas de commentaires »

Omelia sulla prima lettura, Bar 5, 1-9: Rivestìti di splendore

http://www.qumran2.net/dvd/dvd-b-altro/commenti/commento_8790.htm

Rivestìti di splendore

II Domenica di Avvento (Anno C) (10/12/2006)

Brano biblico: Bar 5,1-9

La prima lettura è la conclusione del libro di Baruc, nel quale un anonimo autore, qualche secolo dopo il ritorno di Israele dall’esilio babilonese, richiamandosi al segretario del profeta Geremia, rilegge quel lieto evento per attingervi consolazione e speranza per l’oggi. In particolare, il brano che leggiamo oggi è intessuto di richiami a Isaia.
Splendide le espressioni che il Signore rivolge al suo popolo in affanno, rappresentato da Gerusalemme vestita a lutto. Basta con quella veste! Il nuovo vestito che Dio offre e invita ad indossare, è sfolgorante: lo splendore della gloria, il manto della giustizia, il diadema di gloria (vv. 1-2).
La nuova salvezza che il Signore sta realizzando nel suo popolo è anche rappresentata dalla metafora del nome nuovo: « Sarai chiamata da Dio: ‘Pace della giustizia e gloria della pietà’ » (v. 4).
Giustizia e pace, pietà e gloria: elementi importanti e ricchi di significato nell’Antico Testamento, che in sostanza richiamano una situazione di armonia sia orizzontale (nei rapporti tra gli uomini) che verticale (nel rapporto tra l’uomo e Dio). Le due dimensioni – le stesse della croce – sono sempre strettamente connesse e interdipendenti: ‘ama Dio’ e ‘ama il prossimo’ formano un solo comandamento. Le relazioni giuste tra gli uomini generano l’armonia della pace. La relazione giusta con Dio diventa « gloria », manifestazione chiara e « pesante » di Dio nella concreta esperienza umana.
Promessa e meta perennemente attuale. La liturgia dell’avvento ci chiama a deporre le vesti di lutto nelle quali tendiamo sempre continuamente e nuovamente a nasconderci: sfiducia, amarezza, chiusura, pessimismo. Al di là di ogni musoneria personale o ecclesiale, sentiamo rivolto a noi l’invito a rivestire l’abito della speranza, tutta fondata su ciò che Dio sta realizzando, sulla sua promessa. Per questo è essenziale mantenere viva la gioiosa « memoria Dei », il continuo ricordo di Dio (v. 5), senza il quale la nostra speranza manca di fondamento e rischia continuamente di deragliare nell’euforia di chi rimane abbagliato da false promesse di salvezza o nella disperazione di chi ne vive la delusione.
Con nuovo vigore e consapevolezza preghiamo che la gloria del Signore abiti la nostra terra e « sia santificato il Nome di Dio »; nell’impegno – sereno ma determinato – a dare a Dio il posto che merita (il primo) e a stabilire, nelle piccole e nelle grandi questioni, relazioni giuste tra i suoi figli.

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