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SAN GIOVANNI DELLA CROCE: SALITA DEL MONTE CARMELO (selezione)

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SAN GIOVANNI DELLA CROCE (1542-1591) Dottore della Chiesa,

(citazioni da San Paolo)

SALITA DEL MONTE CARMELO, alcune selezioni del secondo libro

Al buio uscii e sicura, per la segreta scala, travestita, - oh felice ventura! -al buio e ben celata, stando già la mia casa addormentata.

1- In questa seconda strofa l’anima canta la sorte felice che ha avuto di liberare lo spirito da ogni imperfezione e da ogni desiderio di possedere beni spirituali. Ella stima questa sorte migliore della precedente, perché maggiore è stata la difficoltà per addormentare la casa della parte spirituale ed entrare in questa oscurità interiore, che consiste nello spogliarsi spiritualmente di tutti i beni, sensibili e spirituali, appoggiandosi unicamente sulla pura fede e salendo per essa a Dio. Questa virtù viene chiamata scala segreta perché tutti i gradi e gli articoli che essa comprende sono segreti e nascosti al senso e all’intelletto. L’anima dunque, resta all’oscuro completamente, abbandonando ogni lume della natura e della ragione perché vuole salire per questa divina scala della fede che ascende e penetra fino alla profondità di Dio. Perciò dice che camminava travestita perché, salendo per mezzo della fede, ella ha cambiato in divino l’abito e il portamento umano. A causa di questo travestimento ella non fu riconosciuta e trattenuta né dai beni temporali, né da quelli razionali, né dal demonio perché nessuno di questi ostacoli può arrecar danno a colui che cammina in fede.
Ma c’è qualcosa di più, poiché l’anima procede tanto coperta, nascosta ed esente dagli inganni del demonio da camminare veramente, secondo quanto ella dice in questo luogo, al buio e di nascosto, perché per il maligno la luce della fede è più che tenebre. Possiamo dunque conchiudere che l’anima, la quale procede per questa via, procede al buio e di nascosto al demonio, come si vedrà più chiaramente in seguito.
2 – Essa afferma di essere uscita al buio e sicura; colui infatti che ha la bella sorte di poter camminare in mezzo all’oscurità della fede, prendendola per guida come un cieco, liberandosi da tutti i fantasmi naturali e da tutti i ragionamenti spirituali, procede con molta sicurezza. L’anima aggiunge di essere uscita per questa notte dello spirito allorché la sua casa, eioè la parte spirituale e razionale, era già addormentata poiché, quando giunge all’unione con Dio, ella ha già posto in riposo le sue potenze naturali e gli impèti e le ansie del senso nella parte spirituale. Perciò qui ella non dice che uscì con ansia, come nella prima notte del senso; infatti per entrare in questa e spogliarsi una buona volta di ciò che appartiene al senso, le erano necessarie ansie di amore sensibile; mentre per addormentare la casa dello spirito si richiede solo la mortificazione in pura fede di tutte le potenze, di tutti i gusti e di tutti gli appetiti spirituali. Compiuto questo lavoro, l’anima si congiunge con l’Amato in unione di semplicità, di purezza, di amore e di somiglianza.
3 – Bisogna notare che nella prima strofa, parlando della parte sensitiva, si dice che l’anima uscì nella notte oscura; qui invece, dove si tratta della parte spirituale, si afferma che ella uscì nel buio. Invero le tenebre dello spirito sono maggiori di quelle del senso, come il buio è più tenebroso della notte, perché di notte, per quanto fonda essa sia, si può sempre vedere qualche cosa, mentre se è buio non si scorge niente. Nella notte del senso resta un po’ di luce perché rimangono, senza essere accecati, l’intelletto e la ragione, mentre la notte dello spirito, cioè la fede, priva di tutto, sia nell’intelletto che nel senso. Per questa ragione l’anima in questa notte, cosa che non faceva nell’altra, afferma di camminare al buio e sicura poiché quanto meno opera usando delle sue facoltà naturali tanto più cammina sicura, perché procede in fede. Di ciò parlerò per esteso in questo secondo libro; ma bisogna che il devoto lettore mi segua con attenzione perché dirò cose molto importanti per chi possiede il vero spirito. E, sebbene alcune di esse siano un po’ oscure, tuttavia sono certo che la conoscenza di una aprirà la via alla comprensione delle altre e in tal maniera egli capirà tutto.
CAPLTOLO 11
Si parla dell’impedimento e del danno che vi possono essere nelle percezioni dell’intelletto per mezzo di ciò che soprannaturalmente si rappresenta ai sensi esterni e si tratta del modo in cui l’anima deve comportarsi.
I – Al primo gruppo di notizie, di cui ho trattato nel capitolo precedente, appartengono quelle che l’intelletto riceve per via naturale. Poiché ne ho parlato nel primo libro, dove indirizzavo l’anima nella notte del senso, ora non ne farò parola, avendo là esposta una dottrina conveniente intorno ad esse. Perciò in questo capitolo mi occuperò soltanto delle apprensioni soprannaturali che l’intelletto riceve attraverso i sensi esterni, vista udito odorato gusto e tatto, intorno ai quali possono e sogliono nascere nelle persone spirituali immagini e oggetti soprannaturali. Circa la vista sogliono presentarsi loro figure e personaggi dell’altra vita, sembianti di santi e di angeli, buoni e cattivi, luci e splendori straordinari. Con l’udito possono percepire parole strane, ora pronunziate dalle figure loro apparse, ora senza vedere chi le proferisce. Con l’odorato avvertono talvolta odori soavissimi, senza sapere di dove provengano. Accade che anche con il gusto possono percepire qualche sapore molto piacevole e con il tatto un diletto che talvolta è cosi grande da sembrare che tutte le midolla e le ossa esultino e fioriscano e nuotino nel piacere. Tale è la così detta unzione dello spirito che da questo si diffonde nelle membra delle anime pure. Nelle persone spirituali è molto comune questo gusto sensibile il quale deriva in loro dall’affetto e dalla devozione sensibile dello spirito, in maggiore o minore abbondanza, a seconda della capacità di ciascuna di esse.
2 – Si deve dunque ricordare che, sebbene tutti questi fenomeni possano accadere nei sensi per opera divina, l’anima non deve mai ritenersi sicura ed ammetterli; deve anzi assolutamente rifuggire da essi senza volere esaminarli se siano buoni o cattivi, poiché quanto più sono esteriori e corporei, tanto maggiore è il dubbio che essi provengano da Dio. Questo infatti ordinariamente e con maggior convenienza preferisce manifestarsi allo spirito, in cui v’è più sicurezza e più profitto per l’anima, che al senso, nel quale v’è in generale grande pericolo d’inganno, in quanto che il senso corporeo si fa giudice ed estimatore delle cose spirituali, pensando che esse siano così come egli le percepisce, mentre sono tanto diverse come lo sono il corpo dall’anima e la sensibibità dalla ragione. L’ignoranza del senso nei confronti delle cose della spirito è uguale e anche superiore a quella di un giumenta circa le cose razionali.
3 – Colui dunque che fa stima di queste cose erra molto e si espone al grande pericolo di essere ingannato o per lo meno, troverà in sé un grave impedimento a passare nella via dello spirito, perché tutte queste notizie corporee, come ho detto, non hanno alcuna proporzione con quelle spirituali. Perciò si deve sempre ritenere come cosa più probabile che tali notizie più che da Dio provengano dal demonio, il quale ha maggiore possibilità di agire e di tessere inganni in ciò che è esterno e corporeo che in quello che è interno e spirituale.
4 – Questi oggetti e queste forme corporee quanto più sono in sé esteriori, tanto meno giovano all’interiore e allo spirito, a causa della grande differenza e della sproporzione che vi è fra lo spirituale e il corporeo. Infatti, quantunque da queste immagini sensibili venga camunicata qualche cosa di spirituale, come sempre avviene quando esse provengono da Dio, tuttavia ciò è molto inferiore a quella che sarebbe se le stesse cose fossero più spirituali e interiori. In tal modo sono causa di errore, presunzione e vanità nell’anima poiché, essendo tanto palpabili e materiali, muovono molto il senso e così, proprio perché più sensibili, sembrano a quella qualcosa di grande. Perciò l’anima va dietro a loro, abbandonando la fede e credendo che quella luce sia la guida e il mezzo per raggiungere la mèta, cioè l’unione con Dio; invece quanto più ella fa conto di tali cose, tanto più smarrisce la vera via e il mezzo sicuro, che è la fede.
5 – Inoltre l’anima, appena si accorge che le accadono tali fenomeni straordinari, sente spesso nascere segretamente una certa opinione di sé credendo di esser qualcosa davanti a Dio, il che è contrario all’umiltà. Il demonio poi, da parte sua, riesce a far sorgere in essa un’occulta soddisfazione di sé, che talvolta diventa assai manifesta. A tale scopo egli presenta frequenternente ai sensi questi aggetti, mostrando alla vista figure di santi e bellissimi splendori, facendo risonare all’udito parole ingannatrici, presentando all’olfatto odori molto soavi, facendo assaporare al gusto dolcezze e diletto al tatto: con questi mezzi adesca i sensi per indurli al male. E dunque necessario rigettare sempre queste immagini e questi sentimenti poiché, dato il caso che qualcuna di esse provenga da Dio, agendo così non si fa oltraggio a Lui né si lascia di conseguire l’effetto e il frutto che per mezzo di tali fenomeni Egli vuole produrre nelle anime, anche se queste li disprezzano e non li cercano.
6 La ragione di ciò va ricercata nel fatto che la visione corporea e la percezione di ogni altro senso, come del resto ogni altra comunicazione fra le più interne, se provengono da Dio, producono il loro effetto nello spirito nello stesso tempo in cui avvengono, senza dar possibiltà all’anima di deliberare se volerle o no. Dio infatti, come le concede quei favori in maniera soprannaturale, senza che ella ponga in atto la propria capacità e diligenza, allo stesso modo produce l’effetto che Egli vuole operare con tali grazie poiché queste avvengono e si compiono passivamente nello spirito. Perciò non giova per niente alla loro realizzazione o meno, desiderare o no tali cose, come per nulla gioverebbe il desiderio di non bruciarsi alla persona nuda contro la quale fosse stato gettato del fuoco che necessariamente produrrebbe il suo effetto. Lo stesso accade con le visioni e le appariziani buone, le quali prima di tutto e in modo speciale non produrranno il loro effetto nel corpo, ma nell’anima, sebbene questa non ne voglia. Anche quelle che provengono dal demonio, senza che l’anima le desideri, producono in lei turbamento o aridità, vanità o presunzione di spirito. Esse però non hanno tanta efficacia nel male, come quelle divine l’hanno nel bene, poiché possono generare nella volontà i primi movimenti, ma non muoverla ulteriormente se ella vi si oppone. Possono inoltre causare un po’ di inquietudine che però non dura molto se il poco coraggio e la poca prudenza dell’anima non ne facciano aumentare la durata. Al contrario, le visioni e le rivelaziani che vengono da Dio penetrano nell’anima, spingono la volontà ad amare e producono il loro effetto a cui l’anima, pur volendolo, non può resistere più di quanto una vetrata non possa opporsi al raggio di sole dal quale è colpita.
7- Pertanto l’anima non si azzardi ad ammettere tali favori, quantunque siano divini, perche, se li accetta, va incontro a sei inconvenienti. In primo luogo le va diminuendo la fede, perché ciò che si sperimenta con i sensi toglie forza a quella virtù poiché, come ho già detto, essa è al di sopra di ogni senso. Perciò l’anima, non chiudendo gli occhi a tutte queste cose sensibili, si allontana dall’unico mezzo dell’unione con Dio. Il secondo inconveniente consiste nel fatto che tali favori, se non si rifiutano, sono d’impedimento allo spirito, perché l’anima si indugia in essi e quello non vola verso l’invisibile. Questa fu una delle cause per cui Gesù disse ai discepoli essere necessario che Egli se ne andasse perche potesse venire lo Spirito Santo; per lo stesso motivo, cioè perché ella si fondasse sulla fede, o lo stesso Nostro Signore, dopo la Resurrezione, non permise che Maria Maddalena gli toccasse i piedi. Il terzo è che l’anima va nutrendo lo spirito di proprietà in tali manifestaziani soprannaturali e non si incammina verso la vera rinuncia e nudità di spirito. Il quarto sta in ciò che a poco a poco ella perde per l’effetto prodotto da questi fenomeni e la devozione che essi producono nell’intimo, perché pone gli occhi su quanto vi è di sensibile in loro, cioè sull’elemento meno importante. E così ella non riceve in tanta copia di spirito che essi producono, il quale tanto più si imprime e si conserva se rinneghiamo tutto ciò che vi è di sensibile, che è molto diverso dal puro spirito. Il quinto è quello di perdere insensibilmente le grazie di Dio, perché l’anima le riceve con spirito di possesso e non sa trarne profitto. E prenderle con spirito di possesso e non trarne profitto, equivale a desiderare di riceverle, poiché Dio non le dà all’anima affinché ella desideri di averle; ella anzi non si deve risolvere a credere che esse provengano da Dio. Il sesto inconveniente è che l’anima, volendo ammetterle, apre la porta al demonio perché la inganni con altre simili che egli sa mascherare e camuffare così bene da farle sembrare buone poiché, come dice l’Apostolo, quello può trasformarsi in angelo di luce (2 Cor. II, 4). Col favore di Dio, parlerò di ciò nel bibro III, nel capitolo dedicato alla gola spirituale. 8 – Pertanto è necessario che l’anima rigetti a occhi chiusi tutti questi fenomeni, da qualunque parte essi provengano. Se non facesse così, ella porgerebbe l’occasione al demonio di ingannarla e lo aiuterebbe in maniera tale da ricevere insieme con i favori divini, anche le illusioni diabobiche, le quali anzi si moltiplicherebbero mentre gli altri diminuirebbero; così ella giungerebbe al punto in cui avrebbe tutto del diavolo e niente di Dio. Così accadde a un gran numero di anime imprudenti e poco sagge, le quali, ricevendo tali grazie, Si credettero tanto sicure che molte di esse dovettero impiegare grande fatica per ritornare a Dio in purità di fede e parecchie non poterono ritornarvi perché ormai il demonio aveva gettato in esse molte radici. Perciò è necessario chiudere loro il cuore e rifiutarle tutte; ciò facendo, nelle cattive si eludono gli inganni del demonio, nelle buone si evita l’impedimento alla fede e lo spirito ne coglie il frutto. Come se si accettano volentieri, Dio toglie tali grazie, perché l’anima nutre dell’attacco per queste, senza ricavarne generalrnente alcun vantaggio, mentre il demonio insinua e aumenta le sue, perché trova luogo e libero accesso per esse, così, se l’anima è umile e contraria a questi favori, il demonio, accorgendosi di non arrecarle danno, desiste dalla sua opera. Dio invece moltiplica e accresce le sue grazie in quell’anima umile e spoglia di tutto, facendola padrona di molti beni, come avvenne al servo rimasto fedele nel poco (Mt. 25, 21-23).
9 – Se in questi favori l’anima continuerà ad essere fedele e distaccata, Dio nan si arresterà finché di grado in grado non l’avrà elevata sino all’unione e trasformazione divina. Infatti Nostro Signore prova e innalza l’anima in modo tale che prima le concede grazie molto esteriori e ordinarie, conforme alla di lei poca capacità, poi, se essa si comporta come deve prendendo quei primi bocconi con sobrietà per rinforzarsi e sostenersi, Egli la eleva ad un cibo più abbondante e più sostanzioso. In tal mado l’anima, qualora vinca il demonio nel primo grado, passerà al secondo; se riuscirà vittoriosa anche in questo, passerà al terzo e così via per tutte e sette le mansioni che sono i sette gradi di amore, fino a che lo Sposo non la introdurrà nella cella vinaria (Cant. 2, 4) della sua perfetta carità.
10- Felice l’anima che saprà lottare contro la bestia dell’Apocalisse (12, 3) che ha sette teste, contrarie ai sette gradi di amore, con le quali fa guerra a ciascuno di questi e combatte con l’anima in ognuna delle sette mansioni in cui ella si esercita guadagnando progressivamente tutti i gradi dell’amore di Dio. Se in ogni dimora ella combatterà fedelmente restandone vittoriosa, senza dubbio meriterà di passare di grado in grado e di mansione in mansione fino all’ultima, dopo avere mozzato le sette teste con le quali la bestia le faceva una guerra tanto spietata da far dire a San Giovanni nel luogo citato (Apoc. 13. 7) che le fu concesso di lottare centro i Santi e di poterli vincere in ognuno di questi gradi di amore, adoperando contro ciascuno armi e munizioni sufficienti. Perciò è cosa assai dolorosa che molti, i quali entrano in queste battaglie spirituali contro la bestia, non abbiano neppure il coraggio di tagliare la prima testa, rinunziando ai beni sensibili del mondo. Alcuni poi, sebbene si decidano finalmente a tagliare la prima testa, non mozzano la seconda, non rigettano cioè le percezioni del senso di cui sto parlando. Ma ciò che addolora maggiormente è il constatare come altri, dopo avere tagliata non solo la prima e la seconda, ma anche la terza testa, in cui sono simboleggiate le percezioni dei sensi interni, oltrepassando lo stato di meditazione e spingendosi molto più avanti, al momento di entrare nel puro dello spirito, si lasciano vincere da questa bestia spirituale, che torna a levarsi contro di loro e fa risuscitare perfino la prima testa. E poiché essa prende seco sette spiriti peggiori di lei, lo stato dell’anima, a causa della ricaduta, sarà peggiore di quella precedente.
11 – L’anima dunque deve rinnegare tutte le apprensioni e tutti i diletti temporali dei sensi esterni, se vuole troncare la prima e la seconda testa alla bestia, entrando nella prima stanza dell’amore e nella seconda della viva fede, senza volersi legare e imbarazzare con ciò che si presenta ai sensi, perché ciò nuoce più di ogni altra cosa alla fede.
12 – Dunque e chiaro che tali visioni e perceziani sensibii non possono essere mezzo per l’unione, perché non hanno alcuna proporzione con Dio. Questa era una delle cause per cui Gesù Cristo non volle che la Maddabena e S. Tommaso (Gv. 20, 17-29) lo toccassero. Perciò il demonio è molto soddisfatto allorché un’anima desidera ricevere rivelazioni o sente inclinazione per esse, poiché in tal caso gli si offrono molte accasioni e possibilità di insinuare errori e di distruggere in lei la fede. Infatti, come ho detto, grande grossolanità nei confronti di questa virtù e talvolta pesanti pastoie e terribili tentazioni sorgono nell’anima che desidera tali favori.

LIBRO 2 – CAPITOLO 16
2 – E da notare che con il termine di visioni immaginarie intendo indicare tutto quanto può rappresentarsi soprannaturalmente all’immaginazione, rivestito di immagini, di forme, di figure e di specie. Infatti tutte le apprensioni e le specie che, per via naturale, i cinque sensi corporei producono nell’anima, in cui trovano la loro sede, possono essere generate e trovare il loro posto in essa anche per via soprannaturale, senza cioè che i sensi esterni vi concorrano. Infatti la fantasia, congiunta alla memoria, è come un archivio e ricettacolo dell’intelletto in cui vengono accolte tutte le forme e immagini intelligibili. Essa inoltre, come uno specchio, le conserva dopo averle avute per mezzo dei sensi esterni o con un processo soprannaturale, per presentarle poi all’intelletto che riflette su di esse e di esse giudica. La fantasia poi può fare ancora di più, perché può elaborare e formare altre immagini simili a quelle che già conosce.
3 – È bene ricordare che come i cinque sensi esterni presentano le immagini e le specie dei propri oggetti a quelli interni, cosi Dio e il demonio, secondo quanto è stato detto, possono presentare loro soprannaturalmente, cioè senza l’aiuto dei sensi esterni, queste stesse immagini e specie e altre molto più belle e più perfette. Perciò Dio, servendosi di esse, spesso presenta all’anima molte verità e le comunica molta sapienza, come si legge in ogni pagina della Sacra Scrittura. Così Isaia vide il Signore in trono circondato dal fumo che copriva il tempio e dai Serafini i quali si nascondevano il volto e i piedi con le ali (6, 2); Geremia vide la verga che vegliava (1,11) e Daniele ebbe molte altre visioni (7, 10).
Anche il demonio cerca di ingannare le anime con le sue manifestazioni apparentemente buone, come si può vedere nel libro terzo dei Re (22, I I-23), dove si legge che egli trasse in inganno tutti di profeti di Acab, mostrando alla loro immaginazione le corna con cui volle far credere. ma era una menzogna, che gli Assiri sarebbero stati distrutti. Si possono aggiungere le visioni avute dalla moglie di Pilato (Mt. 27, 19) per impedire la condanna del Cristo e molte altre apparizioni dalle quali risulta come, nello specchio della fantasia, ai proficienti, quelle immaginarie si verifichino con maggiore frequenza di quelle corporee esterne. Sotto l’aspetto di immagini e specie le visioni immaginarie non si differenziano da quelle che provengono dai sensi esterni; ma sono invece molto diverse per l’effetto che producono e per la perfezione di cui sono dotate, essendo più sottili e più interne delle altre perché soprannaturali e più intime di quelle soprannaturali esterne. Tuttavia con ciò non si vuol negare che qualche visione corporea esterna possa produrre un effetto maggiore, ché, in fondo, l’intensità della comunicazione dipende dalla volontà di Dio; voglio soltanto dire che le interne, prese in se stesse, producono effetti maggiori perché più spirituali.
4 – Verso l’immaginazione e la fantasia ordinariamente si dirige il demonio con i suoi inganni, naturali e soprannaturali, perchè esse sono la porta d’ingresso dell’anima e ad esse, secondo quanto ho detto, come ad un porto o ad un mercato, ricorre l’intelletto per fare le sue provviste. Per questo Dio e anche il demonio si affrettano verso di loro, per offrire all’intelletto le pietre preziose delle loro immagini e forme soprannaturali, quantunque Nostro Signore per ammaestrare l’anima non usi soltanto questo mezzo ma, dimorando sostanzialmente in lei, può far ciò da sé o servendosi di altri mezzi.
5 – Non v’è ragione che io mi dilunghi ora a parlare dei segni necessari per distinguere le visioni che provengono da Dio da quelle che provengono dal demonio e i modi diversi in cui esse avvengono. Mio unico scopo è quello di ammaestrare l’intelletto, affinché, nelle buone, non trovi un impedimento e un ostacolo all’unione con la Sapienza divina e, nelle cattive, qualche inganno.
6 – Dico dunque che l’intelletto non deve ingombrarsi e nutrirsi con tutte queste apprensioni e visioni immaginarie e con altre forme e specie, di qualunque genere siano, allorché esse gli si offrono sotto l’aspetto di forme, di immagini o di qualche conoscenza particolare, siano false perché da parte del demonio, sia che si riconoscano vere perché da parte di Dio. L’anima poi non le ammetta né le ritenga, onde possa rimanere distaccata e nuda, pura e semplice, senza modo alcuno di percezione, come si richiede per l’unione.
7 – La ragione di ciò va ricercata nel fatto che tutte queste forme, secondo quanto è stato detto, nel momento in cui vengono apprese si rappresentano sempre sotto qualche maniera e modo limitato, mentre la sapienza divina, alla quale l’intelletto deve unirsi, non ha modo e maniera, né cade sotto il dominio del limite e della cognizione distinta e particolare, perché è completamente pura e semplice. Se è necessario che due estremi, quali sono l’anima e la sapienza increata, perché si possano unire, debbano avere in comune qualche mezzo di somiglianza, è chiaro che l’anima, nel caso presente, deve essere pura e semplice, non limitata e attaccata a nessuna conoscenza particolare, né modificata da alcuna circoscrizione di forma, di specie e di immagine. Dio non cade sotto il dominio di una una immagine o di una forma, né è contenuto da una cognizione particolare; perciò l’anima, per unirsi a Lui, non deve cadere sotto una forma o una conoscenza distinta.
8 – Che in Dio non vi sia forma né somiglianza alcuna lo fa ben capire lo Spirito Santo, quando dice nel Deuteronomio (4, 12): Vocem verborum eius audistis, et formam penitus non vidistis – Udiste il suono delle sue parole, ma non vedeste per niente alcuna forma in Dio. Soggiunge poi che sul monte Oreb vi erano tenebre, nubi e oscurità, simbolo della notizia confusa e oscura della quale ho parlato, in cui l’anima si unisce con Dio. Più avanti ancora dice Non vidistis aliquam similitudinem in die, qua locutus est vobis Dominus in Horeb de medio ignis (4, 15), che, tradotto, vuol dire: Voi non vedeste in Dio nessuna somiglianza il giorno in cui Egli vi parlò, di mezzo al fuoco, sul monte Horeb.
9 – Inoltre, volendo affermare che l’anima, servendosi di forme e figure, non può pervenire alle altezze di Dio, per quanto è possibile sulla terra, nel libro dei Numeri (12, 6-8) lo Spirito Santo dice che l’Altissimo rimproverò Aronne e Maria perché avevano mormorato contro il fratello Mosè, per far loro capire a qual grado di unione e di amicizia con Lui egli era stato elevato: Si quis inter vos fuerit pro pheta Domini, in visione apparebo ez, vei per somnzum loquar ad ilium. At non taiis servus meus Moyses, qui in omni dome mea fidelissimus est: ore enim ad os loquar ei, et palam et non per aenigmata et figuras Dominum videt, cioè: Se vi sarà fra voi un profeta del Signore, io gli apparirò in qualche visione o immagine e gli parlerò in sogno; ma non così con il mio servo Mosè, che in tutta la mia casa è fedelissimo: a lui parlerò faccia a faccia, ed egli mi vedrà apertamente e non per mezzo di comparazioni, di analogie e di figure. In questo passo il Signore fa chiaramente intendere come, nel sublime stato dell’unione di cui stiamo parlando, Egli Si comunica all’anima non sotto i veli di visioni immaginarie, di somiglianze o di figure, ma apertamente, cioè nella nuda e pura sua essenza, che è la faccia di Dio, unendosi per amore con la vuota e pura essenza dell’anima, che è la faccia dell’anima in amore divino.
13 – Ma ora nasce un dubbio: se è vero che Dio concede all’anima le visioni soprannaturali non perché ella le desideri, vi si attacchi o le stimi, per quale altro motivo gliele elargisce, dal momento che nei loro confronti essa può andare incontro a molti errori e pericoli o, per lo meno, agli inconvenienti già descritti che le impediscono di progredire, tanto più che il Signore potrebbe comunicarle spiritualmente e in sostanza ciò che le dà per mezzo dei sensi nelle visioni e forme suddette?
14 – Risponderò a questo dubbio nel capitolo seguente con una dottrina ricca e, a mio parere, molto necessaria alle persone spirituali e a coloro che le dirigono, poiché vi si insegna il modo con cui Dio si comporta e il fine che in esse si prefigge, per la cui ignoranza molti non si sanno governare e non sanno dirigere né se stessi né altri all’unione. Costoro credono che sia sufficiente il semplice fatto di conoscere che tali visioni siano vere e provengano da Dio, per ammetterle e rassicurarsi in esse, dimenticando che l’anima potrà trovarvi spirito di proprietà, attaccamento e impaccio, come in quelle del mondo, se anche in questo caso non sa rinunciarvi. Allo stesso modo sembra loro che sia bene ammetterne alcune e rifiutarne altre, gettando se stessi e le anime in preda ad una grande angustia e ad un grande pericolo quando si tratta di discernere quali siano vere e quali false. Dio invece non comanda loro di mettersi in tale impaccio e di esporre le anime umili e semplici a pericoli e incertezze. Possiedono una dottrina sana e sicura, quella della fede; camminino per questa via.
15 – Ma non è possibile procedere su questa via, se non si chiudono gli occhi a tutto ciò che appartiene al senso e che è cognizione chiara e particolare. Per questo S. Pietro, pur essendo certo della visione della gloria di Gesù Cristo avuta sul Tabor, dopo aver narrato l’episodio nella sua seconda lettera canonica, vuole che i fedeli non la prendano come argomento principale di certezza nella fede, ma per incamminarli sulla via di questa virtù, scrive: Et ha be-mus firmiorem pro pheticum sermonem, cui benefacitis at ten-dentes, quasi lucernae ardenti in caliginoso bce, donec dies elucescat (2 Pietro. I, 19). Abbiamo un argomento più solido di questa visione del Tabor, cioè i detti e le parole dei profeti, che rendono testimonianza a Cristo, ai quali fate bene a prestare attenzione come a lucerna che risplende in luogo oscuro. Se esaminiamo questa comparazione, vi troviamo tutta la dottrina che andiamo spiegando. Invitandoci a guardare alla fede, di cui parlano i profeti, come a lucerna che arde in luogo oscuro, S. Pietro vuole indicarci che dobbiamo rimanere al buio, chiudendo gli occhi a ogni altra luce, e che solo la fede, in queste tenebre, deve essere il lume a cui dobbiamo affidarci. Se preferiremo appoggiarci a gualche altra luce di conoscenze distinte, ci allontaneremo da quella oscura della fede, la quale cesserà di illuminarci nel luogo oscuro di cui parla l’Apostolo. Questo luogo poi, che è simbolo dell’intelletto, il quale è il candelabro su cui viene collocata la lucerna della fede, deve restare all’oscuro fino al momento in cui non albeggi per lei nell’altra vita il giorno della chiara visione di Dio e, in questa, quello della trasformaziane ed unione divina.

CAPITOLO 17
Si parla dello scopo che Dio si prefigge e del modo che tiene nel comunicare all’anima i beni spirituali per mezzo del senso, dottrina con la quale si risponde al dubbio proposto nel capitolo precedente.
5 – In questo modo dunque Dio istruisce e rende spirituale l’anima, incominciando a comunicarle lo spirituale delle cose esteriori, palpabili e accomodate al senso, secondo la piccolezza e la poca capacità di essa, affinché, mediante la corteccia di quelle cose sensibili, che sono buone di suo, lo spirito faccia a poco a poco atti particolari e riceva successivamente tante piccole comunicazioni spirituali da farsene un abito e giungere all’attuale sostanza dello spirito, che è aliena da ogni senso; a questa l’anina non può arrivare che progressivamente e secondo il suo modo di agire, cioè per il senso, a cui è stata sempre attaccata. E così a mano a mano che si avvicina allo spirito circa il tratto con Dio, l’anima si spoglia e si vuota delle vie del senso, che sono quelle del discorso e della meditazione immaginanria. Perciò quando ella giungerà a intrattenersi con Dio in modo perfetto, si sarà spogliata necessariamente di tutto ciò che intorno a Lui può cadere sotto il dominio dei sensi. Infatti quanto più una cosa si avvicina ad un estremo, tanto più si allontana da quello opposto; anzi la sua vicinanza assoluta all’uno, comporta la sua lontananza ugualmente assoluta dall’altra, secondo il proverbio spirtuale molto diffuso: Gustato spiritu, desipit omnis caro, che vuel dire: assaporato lo spirito, tutto ciò che è carne diventa insipido, cioè, tutte le vie della carne, che simboleggiano ogni tipo di relazione del senso con lo spirito, non giovano e non producono alcun diletto. Ciò è chiaro perché se è spirito, non cade sotto il senso, e se è tale da essere cempreso dal senso, non è più puro spirito. Infatti quanto più il senso e l’apprensione naturale possono conoscere di questo, tanto meno spirito soprannaturale esso pessiede.
6 – Pertanto la persona spirituale che ha raggiunto la perfezione non fa caso del senso né riceve alcuna cosa per mezzo di esso; inoltre nelle sue relazioni con Dio non si serve né ha bisogno di servirsi precipuamente di esso come faceva prima, quando ancora non era perfetta. È quanto vuole insegnare S. Paolo nel seguente brano della lettera ai Corinti (1 Cor. 13,11): Cum essem parvulus, loquebar ut parvulus, sapiebam ut parvulus, cogitabam ut parvulus. Quando autem factus sum vir, evacuavi quae erant parvuli – Quando ero fanciullo parlavo come un fanciullo, conoscevo come un fanciullo, pensavo come un fanciullo; ma quando diventai uomo mi liberai dalle cose proprie di un fanciullo.
Ho già dimostrato come le cose del senso e la conoscenza che lo spirito può raggiungere per mezzo di esse, siano esercizio da fanciulli; perciò se l’anima vorrà rimanervi sempre attaccata senza mai distogliersene, non cesserà mai di essere un fanciullo e quindi parlerà sempre di Dio come un fanciullo, conoscerà Dio come un fanciullo e penserà a Dio came un fanciullo. Infatti attaccandosi alla corteccia del senso, che è il fanciullo, mai parverrà alla sostanza della spirito, che è l’uomo perfetto. L’anima, dunque, se vuole progredire non deve ammettere le rivelazioni, quantunque le siano offerte da Dio, simile al bimbo il quale per assuefare il palato a cibo più sostanzioso e più solido, ha bisogno di staccarsi dal petto materno.
7- Mi domanderete ora: non sarà necessario che l’anima, finché è piccola, desideri di ricevere tali favori e li abbandoni solo quando sarà cresciuta, com’è necessario che un bambino prenda il latte per nutrirsi, finché non sia divenuto grande e possa farne a meno? Per quanto riguarda la meditazione e il discorso naturale in cui l’anima incomincia a cercare Dio, rispondo dicendo che in verità ella non deve abbandonare il petto materno del senso per nutrirsi e sostentarsi altrimenti fino al momento in cui possa staccarsene, cioè sino a quando il Signore la porrà nello stato più perfetto della contemplazione, di cui ho parlato al capitolo undecimo di questo libro. Affermo invece che l’anima non deve ammettere visioni immaginarie e altre apprensioni soprannaturali, che possono cadere nel senso, indipendentemente dalla libertà dell’uomo, in qualunque tempo e stato esse avvengano, sia in quello perfetto che in quello imperfetto, anche se provengono da Dio. Le ragioni sono due. La prima è perché Egli produce il suo effetto nell’anima senza che costei riesca ad impedirglielo, anche se, come spesso avviene, ostacoli o possa ostacolare la visione. In conseguenza di ciò l’effetto che tale visione dovrebbe produrre nell’anima viene causato in essa molto più sostanzialmente, quantunque in maniera diversa. Ella infatti non può né è capace di allontanare quei beni che Dio le vuol cemunicare, se non a causa di qualche imperfezione e spirito di proprietà, il che non si verifica quando ella rinuncia a tali cose con umiltá e diffidenza di sé. La seconda è quella di liberarsi dal pericolo e dalla difficoltà che_vi_è_nel discernere le cattive dalle buone e nel conoscere se sono prodotte dall’angelo della luce o da quello delle tenebre. In questo lavoro non vi è alcun giovamento, ma vi si perde tempo, vi si imbarazza lo spirito e, non collocando l’anima in ciò che le gioverebbe liberandola dalle piccolezze di apprensioni e di conescenze particolari, secondo quanto è stato detto a proposito delle visioni corporee e quanto si dirà relativamente a queste immaginarie, ci si pone nell’occasione di commettere molte imperfezioni e di non fare un passo avanti.
8 – Ci si convinca che se Nostro Signore non dovesse condurre l’anima a seconda della natura di essa, non le comunicherebbe mai l’abbondanza del suo spirito mediante questi canali così angusti di forme, figure e cognizioni particolari, dei quali Egli si serve per darle il nutrimento a briciole. Per questo David afferma: Mittit crystallum suam sicut buccellas (Sal. 147, 17), come se volesse dire: Comunica alle anime la sua sapienza quasi a bocconi. È cosa veramente dolorosa di dover constatare come l’anima, dotata di capacità infinita, venga nutrita con i bocconi del senso a causa del suo poco spirito e della sua poca sensibilità. Anche S. Paolo si mostra addolorato da questa meschinità e inettitudine dell’aniina a ricevere lo spirito, quando scrive ai Corinti (1 Cor. 3, 1-2): Et ego, fratres, non potui vobis loqui quasi spiritualibus, sed quasi carnalibus. Tanquam parvulis in Christo, lac vobis potum dedi, non escam: nondum enim poteratis; sed et nunc quidem non potestis. Adhuc enim carnales estis – Fratelli miei, quando venni da voi, non potei parlare come a spirituali, ma come a gente carnale. Come a bambini in Cristo vi detti del latte da bere e non del cibo solido.
9 – È bene dunque ricordare che l’anima non deve porre attenzione su quella corteccia di figure e di oggetti che le vengono posti dinanzi soprannaturalmente e che riguardano i sensi esterni, come sono per esempio, locuzioni e parole che risuonano all’udito, visioni di santi e splendori luminosi che si presentano agli occhi, odori che vengono percepiti dall’olfatto, gusti e soavità del palato e altri diletti del tatto, cose che precedono in generale dallo spirito e che ordinariamente accadono alle persone spirituali. Inoltre non deve posare lo sguardo su qualsiasi visione dei sensi interni, come sono quelle immaginative, ma deve rinunciare a tutte.

CAPITOLO 21
Si dichiara come, pur rispondendo talvolta a quanto Gli si domanda, Dio non è contento e si dimostra che, sebbene Egli qualche volta accondiscenda e risponda, spesso però si sdegna.
1- Alcune persone spiritali ritengono tranquillamente per buone le curiosità di cui talvolta usano onde sapere qualche cosa per via soprannaturale, credendo che questo loro modo di fare sia buono e piaccia a Dio, perché questi risponde qualche volta alla loro domanda. Invece è vero che, quantunque il Signore li esaudisca, questo modo di procedere non è buono ed Egli non è contento; anzi è vero il contrario, cioé che Dio spesso se ne sdegna e se ne offende molto. Ciò accade perché a nessuna creatura è lecito evadere dai termini che Dio le ha naturalmente imposto per sua norma. L’uomo, per governarsi, ha ricevuto dal Signore dei mezzi naturali e razionali: non gli è quindi permesso di volersene liberare; indagare e raggiungere alcunché per via soprannatunale è pretendere sottrarsi ad essi. Dunque non è cosa lecita e non può piacere a Dio, giacché si offende di tutto ciò che è illecito. Conosceva bene questa verità il re Acaz il quale, sebbene Isaia da parte di Dio lo spingesse a chiedere qualche segno, se ne schernì dicendo: Non petam et non tentabo Daminum (Is. 7, 12) – Non io chiederò, né tenterò il Signore, perché pretendere di trattare con Dio per vie straordinarie come sono quelle soprannaturali è tentare il Signore.
2 – Mi direte: se Dio non ha piacere di tali richieste, perché qualche volta risponde? Dico che spesso è il diavolo che risponde; quando è Dio, questo si accomoda alla debolezza dell’anima che vuole andare per questa via. Perché dunque ella non si lasci vincere dallo sconforto e non torni indietro e perché non soffra in modo eccessivo pensando che il Signore sia irritato con lei, o per qualche altro fine a Lui noto e fondato sulla debolezza di quell’anima, Dio crede opportuno risponderle e accondiscendere per tale via. È questo il metodo che Egli adopera anche con numerose anime fiacche e delicate concedendo loro, secondo quanto è stato detto sopra, gusti e soavità sensibli quando esse trattano con Lui. Avviene così non perché Egli voglia e provi piacere che si adoperi questo mezzo e questa via nel trattare con Lui, ma perché dà a diascuno secondo la propria natura. Dio infatti è come una fonte, dalla quale ciascuno attinge a seconda della capacità del proprio vaso. Talvolta Egli permette che l’acqua sia raccolta usando di quei canali straordinari, ma da ciò non segue che sia lecito attingerla per mezzo di essi se non a Dio stesso, il quale la può concedere quando, come e a chi vuole e per il fine da Lui inteso, senza che l’uomo possa avanzare alcuna pretesa. Perciò, come ho detto, alcune volte viene incontro al desiderio e alle preghiere di alcune anime che Egli intende esaudire, non perché si compiaccia delle lore richieste, ma perché sone buone e semplici.
3 – Tale affermazione si comprenderà meglio per mezzo della seguente cemparaziene. Un padre di famiglia ha sulla tavola numerosi e diversi cibi, alcuni dei quali sono più delicati che altri. Un suo bimbo, gli chiede, non la pietanza migliore, ma quella contenuta nel piatto a lui più vicino e gliela chiede perché mangia più volentieri quella che un’altra. E poiché il padre vede che il figlio non prenderà il cibo più delicato, che vorrebbe dargli, ma quello di cui ha fatto richiesta, il solo che sia di suo gusto, affinché non si affligga e non resti senza mangiare, glielo concede sebbene contro voglia. Così vediamo che Dio fece con i figli di Israele quando gli chiesero un re; lo concesse ma a malincuore, perché per loro non era un bene. Disse perciò a Samuele: Audi vocem populi in omnibus quae loquuntur tibi: non anim te abiacerunt, sed me (I Re 8, 7) – Ascolta la voce di questo popolo e concedi lore il re che chiedono, poiché me, non te hanno rigettato, affinché non io regni su di loro. Allo stesso modo Dio accondiscende ai desideri di alcune anime, accordando loro ciò che non è più utile, non volendo esse o non sapendo camminare per altra via. E così alcune ottengono persino dolcezze e soavità dello spirito a del senso, che Dio accorda loro perché non saprebbero mangiare il cibo più forte e più solido della croce di suo Figlio, verso la quale più che verso altro oggetto vorrebbe che tendessero la mano.
4 – Tuttavia io ritengo sia molto peggio voler saper qualche cosa per via soprannaturale che cercare altri gusti spirituali del senso, poiché non vedo come l’anima che lo pretende possa essere esente da peccato almeno veniale, per quanto siano buoni gli scopi che ella si propone, e grande la perfezione a cui è giunta. Lo stesso vale per chi glielo comandasse o vi acconsentisse. Infatti non v’é alcuna necessità di ciò, perchè abbiamo la ragione naturale e la legge e la dottrina evangelica con cui ci possiamo sufficientemente regolare e non v’é difficoltà che non possa essere risolta e necessità a cui non si possa rimediare in maniera molto gradita a Dio e vantaggiosa per le anime. Dobbiamo anzi servirci della ragione e della dottrina evangelica in modo tale che se, volendo o no, ci fossero rivelate soprannaturalmente alcune cose, dovremmo accettare solo quelle conformi alla ragione e alla legge evangelica. Però anche in tal caso le dovremmo ricevere, non perché rivelate, ma perché razionali, lasciando da parte ogni senso di rivelazione. Anzi allora conviene guardare ed esaminare quella ragione molto di più che se non vi fosse intessuta qualche rivelaziane perché il demonio per ingannare dice molte cose che sono vere, che accadranno e che sono conformi a ragione.
5- Deriva da ciò che in tutte le nostre necessità e difficoltà e in tutti i nostri travagli noi non abbiamo altro aiuto migliore e più sicuro della preghiera e della speranza che il Signore provvederà con quei mezzi che a Lui piaceranno. Tale consiglio ci viene dato dalla Sacra Scrittura in cui si legge che il santo Re Giosaffatte, molto afflitto perché circondato dai nemici, si mise in orazione e disse a Dio: Cum ignoramus quid facere debeamus, hoc solum habemus residui, ut oculos nostros dirigamus ad te (2 Cron. 20, 12), come se dicesse: Quando mancano i mezzi e la ragione nan arriva a provvedere nelle necessità, ci resta solo di elevare i nostri occhi a te, perché tu provveda come meglio ti piace.
6 – Quantunque ne sia già stato parlato, sarà bene provare con testimonianze desunte dalla Sacra Scrittura come, pur venendo incontro a tali ingiuste richieste, il Signore qualche volta si sdegna. Nel primo libro dei Re (28, 15) Si narra come la richiesta che Saul fece di parlare con Samuele ormai morto fu esaudita con l’apparizione del profeta; Dio però si adirò perché Samuele poi rimproverò il re di averlo costretto a ciò: Quare inquietasti me ut suscitarer? – Perché mi hai disturbato facendomi risuscitare? Sappiamo inoltre che Dio, anche se concesse ai figli di Israele le carni da essi richieste, si sdegnò molto con loro; infatti, li punì immediatamente, inviando fuoco dal cielo, secondo quanto si legge nel Pentateuco e viene narrato da David con le parole: Adhuc escae eorum erant in ore ipsorum et ira Dei descendit super eos (Sal. 77, 30-31), che vuol dire: Avevano ancora il boccone in bocca quando l’ira divina discese su di loro. Nei Numeri infine (22, 32) è scritto che Dio si adirò molto contro il profeta Balaam perché si recò dai Madianiti, chiamato dal loro re Balac: eppure il Signore stesso gli aveva detto di andare, allorché il profeta, avendone un gran desiderio, glielo aveva chiesto. E durante il cammino gli apparve l’angelo del Signore che, con la spada in mano, minacciandolo di morte gli disse: Perversa est via tua mihique contraria – Perversa è la tua via e a me contraria, ragione per cui gli voleva togliere la vita.
7- In questa e in molte altre maniere Dio, sebbene corrucciato, asseconda i desideri delle anime. Senza contare i numerosi esempi, abbiamo di ciò molte testimonianze nella Scrittura, delle quali però non c’è bisogno data la grande chiarezza della cosa. Affermo soltanto che è estremamente pericoloso, più di quanto io non sappia dire, voler trattare con Dio per tali vie. Colui che vi sarà attaccato, non sarà esente da gravi errori e si troverà spesso confuso; chi poi ne ha fatto caso, cenoscerà per esperienza quello che dico. Infatti oltre alla difficoltà che si trova nell’evitare di ingannarsi riguardo alle locuzioni e visioni che provengono da Dio, c’è da notare che ve ne sono ordinariamente molte da parte del demonio. Questi in generale si comporta con l’anima nella stessa maniera di Dio per introdursi in lei come il lupo nel gregge con la pelle di pecora, proponendole verità tanto verosimili che a stento si possono distinguere da quelle comunicatele dal Signore. Dicendo infatti cose vere o che poi risultano tali e conformi a ragione, le anime si possono ingannare facilmente; quando poi vedono che quelle cose si avverano e che egli predice il futuro, pensano che siano da parte di Dio. Non sanno che è facilissimo per chi possiede lume naturale limpido conoscere nelle loro cause tutte le cose o molte di esse che sono state o che saranno. Poiché il demonio ha sempre questo lume naturale molto vivo, può con somma facilità dedurre un certo effetto da una certa causa, anche se poi non sempre accade così perché tutte le cause dipendono dalla volontà divina.
8 – Facciamo un esempio. Il demonio conosce come lo stato della terra, dell’aria e del sole è tale ed è disposto in tale grado che, giunto un tempo determinato, proprio in forza della loro disposizione questi elementi diventeranno contaminati e comunicheranno il contagio alle persone con la peste, dicendo anche in quali luoghi essa avrà maggiore o minore intensità. Ecco prevista la peste nelle sue cause. C’è dunque da meravigliarsi se il demonio in una rivelazione dirà ad un’anima che entro un anno o sei mesi ci sarà una pestilenza e che la sua parola risulti vera? Ed è profezia del demonio! Similmente egli, notando che le viscere della terra si riempiono di aria, può conoscere le cause dei terremoti e predire che in un tempo determinato se ne avrà qualcuno. Questa però è conoscenza naturale, per il cui conseguimento basta avere lo spirito libero dalle passioni dell’anima, secondo quanto afferma Boezio: Si vis claro lumine cernere verum, gaudia pelle, timorem spemque fugato, nec dolor adsit – Se vuoi conoscere la verità con chiarazza naturale, rigetta da te il gaudio, il timore, la sparanza e il dolore.
9 – Inoltre si possono conoscere fatti a avvenimenti, soprannaturali nelle loro cause, che seguono l’ordine della Provvidenza divina la quale interviene con grande giustizia e certezza secondo quanta esigono le cause buone o cattive poste dai figli degli uomini. È possibile infatti conoscere naturalmente che una determinata persona, città e cosa giungerà a tale estremo e necessità da costringere Dio provvidente e giusto a intervenire con punizione, con premio o in qualche altro modo adeguato, a seconda delle esigenze della causa e in conformità alla natura di essa. Allora sarà facile affermane che in un determinato tempo Dio darà o farà qualche cosa o che ne accadrà certamente qualche altra. Santa Giuditta fece intendere questa verità ad Oloferne quando, onde persuaderlo che i figli di Israele dovevano essere inesorabimente distrutti, prima gli parlò delle molte miserie e dei gravi peccati che essi commettevano e poi soggiunse: Et quoniam haec faciunt, certum est qoad in perditionem dabuntur (Giudit. 11, 12), che si spiega: Poiché fanno queste cose, saranno certamente distrutti. Parlare così è conoscere il castigo nella causa ed equivale ad affermare che tali peccati causano tali castighi da parte di Dio, il quale è giustissimo, come del resto afferma anche la Sapienza divina: Per quae quis peccat, per haec et torquetur (11, 17) -In quello e con quelle cose con cui uno pecca, sarà punito.
10 – Il demonio può conoscere questi fatti non solo per natura, ma anche per l’esperienza che ne ha, avendo veduto Dio comportarsi in modo simile; può quindi annunziarli prima e indovinarli. Anche il santo Tobia conobbe nella causa la punizione riservata alla città di Ninive e poté avvertirne il figlio dicendo: Stai attento, figlio, quando io e tua madre saremo morti lascia subito questa terra, perché essa non continuerà ad esistere – Video enim quia iniquitas eius finem dabit ei – Poiché vedo bene che la sua stessa iniquità sarà causa del suo castigo, che consisterà nella sua rovina e distruzione totale (14, 13). Il demonio e Tobia potevano conoscere tale punizione non solo a causa dell’iniquità dei cittadini, ma anche per esperienza, vedendo che i Niniviti commettevano peccati simili a quelli degli uomini per i quali Dio distrusse il mondo con il diluvio, e a quelli dei Sodomiti, che perirono per mezzo del fuoco. Tobia però la conosceva anche per ispirazione divina.
11 – Il demonio può conoscere e predire che Pietro secondo natura non può vivere più di quei dati anni. Lo stesso vale per tante altre cose in molte altre maniere intorno alle quali non si potrebbe mai finire né incominciare a parlare perché intricatissime. Egli poi è sottilissimo nell’insinuare menzogne, da cui ci si può liberare soltanto fuggendo da ogni rivelazione, visione e locuzione soprannaturale. Dio si sdegna giustamente con chi le ammette perché sa che esporsi a tale pericolo è temerità, presunzione, curiosità, principio di superbia, radice e fondamento di vanagloria, disprezzo delle cose di Dio a causa di numerosi mali a cui molti andarono incontro. Costoro irritarono Dio così tanto che lasciò di proposito che errassero e si ingannassero e permise che oscurassero il proprio spirito e abbandonasserò le vie ordinate della vita per dar luogo alle loro vanità e fantasie, compiendo così il detto di Isaia: Dominus miscuit in medio eius spiritum vertiginis (19, 14) – Il Signore diffuse in mezzo lo spirito di rivolta e di confusione o, per dirlo in parole semplici, lo spirito di intendere a rovescio. Queste parole del profeta fanno al proposito nostro, perché egli le disse per coloro che volevano conoscere il futuro per via soprannaturale. È questo il motivo per cui afferma che Dio diffuse in mezzo a loro lo spirito di intendere a rovescio: non perché Egli volesse che quelle persone cadessero in errore o desse loro di fatto lo spirito di errare, ma perché volevano intromettersi in cose alle quali naturalmente non petevano pervenire. Irritato di questo, il Signore permise che si ingannassero non concedendo loro il lume necessario a conoscere ciò in cui voleva che non si intromettessero. Il profeta afferma che Dio mescolò quello spirito in senso privativo in quanto che, non dando loro la sua luce e la sua grazia onde potessero evitare di cadere in errore, fu causa privativa di quel danno.
12 – In tal mado il Signore permette al demonio di accecare ed ingannare molte anime, perché esse lo meritano a causa dei loro peccati e della loro presunzione. Il maligno lo può e ottiene il suo effetto perché esse lo ritengono per spirito buono e quantunque si sia fatto molto per persuaderle del contrario, non si riuscirà a disingannarle perché, per permissione divina, sono ormai imbevute dello spirito di intendere a rovescio. Sappiamo che accadde così anche ai profeti di Acab: Dio permise che fossero ingannati dallo spirito di menzogna e dette perciò licenza al demonio, dicendogli: Decipies et praevalebis; egredere et fac ita (3 Re 22, 22) – Con le tue menzogne prevarrai su di loro e li ingannerai: esci pure a fa così. La sua potenza ingannatrice sul re e sui profeti fu tanta che non vollero credere a Michea allorché questi predisse loro le verità contrarie del tutto a quanto era stato profetizzato dagli altri. Avvenne ciò perché Dio lasciò che si ingannassero a causa dello spirito di proprietà che nutrivano bramando che le cose accadessero secondo il loro desiderio e che Dio rispondesse conforme ai loro appetiti, il che costituiva un mezzo e una disposizione certissima perché il Signere permettesse di proposito il loro inganno e il loro accecamento.
13 – Così in nome di Dio profetizzò Ezechiele parlando contro chi vuol sapere le cose per via soprannaturale, secondo la curiosità e vanità del suo spirito: Allorché il tale uomo verrà dal profeta onde interrogarmi per suo mezzo, io, il Signore, gli risponderò da me stesso, gli mostrerò la mia faccia irritata, e se il profeta avesse sbagliato nel rispondere a ciò che gli era stato domandato: Ego, Daminus, decepi prophetam illum: Io, il Signore, ho tratto in inganno quel profeta (Ez. 14, 7-9). Queste ultime parole si devono intendere nel senso che Dio non concorse con la sua gnazia per impedire che il profeta fosse ingannato, come risulta anche dall’altra espressiene: Io, il Signore, gli risponderò da me, irritato, vale a dire, togliendogli la sua grazia e il suo favore. Conseguenza necessaria di ciò è che questi cada subito in errore a causa dell’abbandono divino. Allora il demonio si affretta a rispondere secondo il gusto e l’appetito di quell’uomo il quale, provandone piacere e vedendo che le risposte e le comunicazioni sono conformi alla sua volontà, si lascia grandemente ingannare.

CAPITOLO 22
4 — Tale è il senso del testo mediante il quale S. Paolo vuole indurre gli Ebrei ad abbandonare i modi primitivi di trattare con Dio permessi dalla legge mosaica per fissare gli occhi unicamente in Cristo: Multifariam multisque modis olim Deus loquens patribus in prophetis: novissime autem diebus istis locutus est nobis in Filio (Ebr. 1, 1-2), come se dicesse: Quel che Dio in molti modi e in più riprese disse in antico ai nostri padri per mezzo dei profeti, l’ha detto in questi giorni in una volta a noi per mezzo del Figlio suo. Con queste parole l’Apostolo vuol far capire che Dio è rimasto quasi come muto non avendo altro da dire poiché, dandoci il Tutto, cioè suo Figlio, ha detto ormai in Lui tutto ciò che in parte aveva manifestato in antico ai profeti.
5 — Perciò chi oggi volesse interrogare il Signore e chiedergli qualche visione o rivelazione non solo commetterebbe una sciocchezza, ma arrecherebbe un’offesa a Dio, non fissando i suoi occhi interamente in Cristo per andare in cerca di qualche altra cosa o novità. Invero il Signore gli potrebbe rispondere in questo modo: Se Io ti ho detto tutta la verità nella mia parola, cioè nel mio Figlio, e non ho altro da manifestarti, come ti posso rispondere o rivelare qualche altra cosa? Fissa gli occhi su Lui solo, nel quale io ti ho detto e rivelato tutto, e vi troverai anche più di quanto chiedi e desideri. Tu infatti domandi locuzioni e rivelazioni che sono soltanto una parte, ma se guarderai Lui, vi troverai il tutto, poiché Egli è ogni mia locuzione e risposta, ogni mia visione e rivelazione in quanto che io vi ho già parlato, risposto, manifestato e rivelato ogni cosa dandovelo per fratello, compagno, maestro, prezzo e premio. Dal giorno in cui sul Tabor discesi con il mio Spirito su di Lui dicendo: Hic est Filius meus dilectus, in quo mihi bene complacui, ipsum audite (Mt. 17, 5).- Questo è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo, cessai di istruire e rispondere in queste maniere e commisi tutto a Lui: ascoltatelo perché ormai non ho più materia di fede da rivelare e verità da manifestare. Prima parlavo ma unicamente per promettere Cristo e gli uomini mi consultavano solo per chiedere e aspettare Lui nel quale dovevano trovare ogni bene, come ora tutta la dottrina degli evangelisti e degli apostoli fa capire. Colui che ora mi consultasse in quel modo e desiderasse che io gli dicessi e rivelassi alcunché, sotto un certo aspetto mi chiederebbe di nuovo Cristo e altre verità della fede, in cui però sarebbe debole perché tutto è già stato dato in Lui. In tal modo farebbe un grave oltraggio al mio amato Figlio poiché non solo in ciò mancherebbe alla fede, ma perché lo obbligherebbe ad incarnarsi di nuovo e ad affrontare ancora una volta la vita e la morte qui in terra. Tu dunque non desidererai né chiederai nessuna rivelazione o visione da parte mia: guarda bene il Cristo e in Lui troverai già fatto e detto molto più di quanto tu vorresti.
6 — Se vuoi che Io ti dica qualche parola di conforto, guarda mio Figlio, obbediente a me e per amor mio sottomesso ed afflitto, e sentirai quante cose ti risponderà. Se desideri che io ti sveli alcune cose o avvenimenti occulti, fissa in Lui i tuoi occhi e vi troverai dei misteri molto profondi, la sapienza e le meraviglie di Dio le quali, secondo quanto afferma il mio Apostolo, sono in Lui contenute: in quo sunt omnes thesauri sapientiae et scientiae Dei absconditi (Col. 2, 3), cioè: Nel quale Figlio di Dio sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza di Dio, tesori di sapienza che saranno per te profondi, saporosi e utili più di tutte le cose che vorresti sapere. Per questo lo stesso Apostolo si gloriava dicendo di aver fatto intendere che egli non conosceva se non Gesù Cristo e questo crocifisso (1 Cor. 2, 2). Inoltre se tu desideri altre visioni e rivelazioni divine o corporee, mira il Cristo umanato e vi troverai più di quanto pensi, poiché S. Paolo afferma a tale proposito: In ipso inhabitat omnis plenitudo divinitatis corporaliter (Col. 2, 9) – In Cristo dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità.

CAPITOLO 24
7 — Anche il demonio può causare nell’anima tali visioni usando di qualche luce naturale in cui, per suggestione spirituale, lo spirito conosce cose o presenti o assenti. Perciò, riguardo al testo di S. Matteo dove si legge che il demonio mostrò al Cristo omnia regna mundi et gloriam eorum (Mt. 4, 8) cioè tutti i regni della terra e il loro splendore, alcuni dotti interpreti affermano che il maligno si servì della suggestione spirituale perché non era possibile far vedere a Gesù con gli occhi del corpo tante cose, cioè tutti i regni del mondo e la loro gloria. Tuttavia grande è la differenza fra le visioni del demonio e quelle di Dio: gli effetti prodotti nell’anima dalle prime non sono come quelli causati dalle seconde, poiché le diaboliche non solo non producono per niente dolcezza di umiltà e di amore divino, ma generano aridità di spirito nella conversazione con Dio, e inclinazione ad inorgoglirsi e ad ammetterle e a dare loro qualche importanza. Inoltre le loro immagini non restano impresse nell’anima con la stessa soave chiarezza delle altre e non durano a lungo, ma si cancellano presto, a meno che ella non le apprezzi molto, nel qual caso la stima farà si che ella se ne ricordi naturalmente. Tale ricordo però sarà molto arido e non produrrà l’effetto di amore e di umiltà causato dalle visioni buone quando l’anima le ricorda.
8 — Queste visioni non possono servire all’intelletto come mezzo prossimo per l’unione con Dio, perché hanno per oggetto le creature con le quali il Signore non ha alcuna proporzione e convenienza essenziale. È quindi necessario che nei loro confronti l’anima si comporti in maniera puramente negativa, come ho già detto che si deve regolare con le altre, affinché possa andare avanti usando del mezzo prossimo, che è la fede. In conseguenza di ciò, ella non deve conservare quasi come in un archivio o in uno scrigno le forme di quelle visioni che le restano impresse, né deve appoggiarsi ad esse perché rimarrebbe imbarazzata da quelle figure, immagini e persone che risiedono nel suo intimo, e non camminerebbe verso Dio attraverso la negazione di tutte le cose. Ammesso il caso che tali immagini si rappresentino continuamente nel suo interno, non le arrecheranno alcun impedimento se essa non ne farà caso. Infatti se è vero che il loro ricordo spinge l’anima a qualche grado di amore di Dio e di contemplazione, molto di più ve la spingeranno e innalzeranno la fede pura e la nudità oscura di tutte quelle cose, senza che ella sappia come né da dove le vengano. Accade cosi che l’anima sia infiammata da ansie di puro amore divino senza sapere da dove le vengano e quale fondamento abbiano avuto. La ragione di ciò va ricercata nel fatto che insieme con la fede, la quale si è radicata ed è penetrata molto a fondo a causa del vuoto, delle tenebre e della nudità di tutte le cose, o povertà di spirito [cose tutte che potrebbero essere chiamate con uno stesso nome] si è molto di più approfondita e abbarbicata nell’anima la carità di Dio. Da ciò segue che quanto più ella si sforza di ottenebrarsi e annientarsi circa tutte le cose esteriori e interiori che può ricevere, tanto più fede e quindi amore e speranza le vengono infuse poiché queste tre virtù teologali progrediscono insieme.
18 — Tutte queste conoscenze, vengano o no da Dio, possono servire ben poco al cammino dell’anima verso di Lui, qualora ella intenda attaccarvisi; al contrario, se non si prenderà cura di rinnegarle, esse non solo le saranno d’inpedimento, ma le arrecheranno grave danno e la faranno cadere in molti errori. In esse infatti possono essere, in misura uguale e anche maggiore, tutti i pericoli e gli inconvenienti che si possono verificare nelle apprensioni soprannaturali di cui si è parlato fino a questo momento. Avendone quindi già dato una dottrina sufficiente quando parlavo di queste, non mi dilungo a trattarne ora, limitandomi solo a dire che l’anima deve avere una gran cura di rifiutarle sempre desiderando di andare a Dio non sapendo e di parlarne ogni volta al confessore o al maestro spirituale, alle cui decisioni deve sottostare in modo assoluto. Questi poi cerchi di far passare l’anima al di sopra di esse negando loro ogni importanza per il cammino verso l’unione, poiché di queste cose che le vengono date passivamente, rimarrà in lei l’effetto voluto da Dio senza che ella vi ponga alcuna diligenza. Non mi sembra dunque necessario parlare dell’effetto che le vere e le false producono, poiché mi stancherei senza esaurire l’argomento. Infatti i loro effetti non possono essere compresi nel giro di una breve trattazione, visto che sono molteplici e vari, come molte e varie sone le notizie, poiché le buone producono quelli buoni, le cattive quelli cattivi. Consigliando di rifiutarle tutte, è detto a sufficienza quanto basta per non cadere in errore.

CAPITOLO 27
3 — Il demonio può intromettersi molto nei confronti di questa specie di rivelazioni. Poiché esse ordinariamente avvengono per mezzo di parole, di figure, di somiglianze ecc., egli può fingere qualche cosa di simile con più facilità di quando sono puramente spirituali. Pertanto, se nell’una o nell’altra delle due maniere suddette ci fosse rivelato alcunché di nuovo o di diverso nel campo della fede, non dobbiamo acconsentirvi in nessun modo, neppure se fossimo certi che colui il quale ce lo manifesta è un angelo del cielo. Così afferma S. Paolo: Licet nos, aut angelus de coelo evangelizet vobis praeterquam quod evangelizavimus vobis, anathema sit (Gal. 1, 8), che vuol dire: Anche se noi stessi o un angelo del cielo vi annunziasse o vi predicasse cose diverse da quelle che vi abbiamo annunziato noi, sia anatema.
4 — Non essendovi quindi da rivelare, circa la sostanza della fede, altri articoli, all’infuori di quelli già manifestati dalla Chiesa, ne segue che non solo è necessario per l’anima rigettare quanto di nuovo le venga rivelato in rapporto a quella virtù, ma le conviene, per cautela, non ammettere altre verietà involute. A causa poi della purezza che deve avere nella fede, ella, anche se le vengono rivelate di nuovo verità già di fede, non deve credere ad esse per la semplice ragione che le sono nuovamente manifestate, ma perché sono già sufficientemente rivelate alla Chiesa; anzi, chiudendo loro gli occhi dell’intelletto, si appoggi con semplicità alla dottrina e alla fede di lei, la quale, come dice S. Paolo, entra attraverso l’udito (Rom. 10, 17). Infine, se non vuole essere ingannata, non presti credito né attenzione a queste verità di fede nuovamente rivelate, quantunque le sembrino conformi e vere. Il demonio infatti, per ingannare e per insinuare menzogne, alimenta in primo luogo con verità o con cose verosimili, onde genenare sicurezza e subito dopo trarre in inganno. Si comporta come la setola che si usa per cucire il cuoio: prima entra la setola rigida, poi il filo floscio, il quale non potrebbe entrare se quella non gli facesse da guida.
5 — L’anima dunque stia bene attenta a ciò poiché, ammesso il caso che non vi sia da temere di essere ingannata in tal modo, sarà conveniente che ella non desideri di intendere chiaramente le verità riguardanti la fede, onde conservarne puro e intero il merito e giungere per questa notte dell’intelletto alla divina luce dell’unione con Dio. In qualsiasi nuova rivelazione importa molto attenersi alle profezie passate; ce ne dà una dimostraziene l’Apostolo S. Pietro il quale pur avendo veduto in qualche modo sul Tabor la gloria del Figlio di Dio, nella sua lettera canonica scrive queste parole: Et habemus firmiorem pro pheticum sermonem, cui bene facitis attendentes (2 Piet. I, 19), come se dicesse: sebbene sia vera la visione del Cristo da me avuta sul Tabor più ferma e certa è la parola della profezia che ci è stata annunziata, a cui fate bene ad appoggiare la vostra anima.
6 — Se è vero che, per le cause suddette, è conveniente chiudere gli occhi alle rivelazioni che hanno per oggetto le proposizioni di fede, quanto più sarà necessanio non ammettere e non dare importanza alle altre cencernenti cose diverse dalla fede, nelle quali ordinariamente il demonio si intromette in modo da farmi ritenere impossibile che eviti di essere ingannato colui il quale non si sforza di rifiutarle, tanto è grande l’apparenza di verità e la certezza che il maligno vi pone. Questi infatti, perché vi si creda, unisce loro tante verosimiglianze e convenienze e le stabilisce nel senso e nell’immaginazione così fermamente da far sembrare all’anima che esse avverranno proprio in quel mado. La spinge inoltre ad attaccarvisi con ostinazione e se essa non sarà umile, sarà molto difficile distaccarla e farle credere il contrario. Pertanto l’anima pura, prudente, semplice e umile deve resistere con grande forza e cura alle rivelazieni e alle visioni come se fossero tentazioni pericolose, poiché non è necessario desidrarle, anzi si devono rifiutare per progredine verso l’unione di amore. A ciò vuole alludere Salomone quando disse: Qual necessità ha l’uomo di volere e di cercare le cose che sono al di sopra della sua capacità? (Eccle. 7, 1), come se dicesse: per essere perfetto l’uomo non ha bisogno alcuno di volere cose soprannaturali per via soprannaturale, il che è al di sopra delle sue capacità.
7 — Poiché alle obiezioni possibli contro tale dottrina è già stato risposto ai capitoli diciannovesimo e ventesimo del presente libro, rimandando ad essi, dico solo che l’anima, per camminare puramente e senza errore nella notte della fede verso l’unione, deve guardarsi da tutti quei favori.

14 dicembre: San Giovanni della Croce: Dottore della Chiesa (1542-1591) – Credere e amare anche se è notte

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14 dicembre: San Giovanni della Croce: Dottore della Chiesa (1542-1591)

CREDERE E AMARE ANCHE SE E’ NOTTE

Nell’immaginario collettivo la grandezza di un uomo viene misurata e ammirata non solo per come ha saputo vivere la propria avventura umana, ma anche per il modo in cui ha affrontato le ore del supremo transito dagli affanni della vita mortale “all’altra riva” quella di Dio.
Il momento della propria morte: quello delle scelte definitive, cioè della “crisi” finale, che fa paura a tutti. Giovanni della Croce sul letto di morte, ai suoi confratelli che gli leggevano le preghiere dei moribondi, chiese qualcosa di più “allegro”: domandò espressamente qualche versetto del Cantico dei Cantici, un bellissimo e travolgente poema d’amore dell’Antico Testamento (che lui ben conosceva). Non andava forse incontro all’Amore?
Allora ci voleva qualcosa di più appropriato. Dopo la lettura Giovanni finì il cammino terreno pregando le parole “Nelle tue mani, Signore, affido, il mio spirito”. Cioè nelle mani di Dio Amore, per il quale era vissuto, aveva lavorato e sofferto, per quel Dio che lui aveva amato, predicato e cantato. Alcuni anni prima aveva scritto la poesia “Rompi la tela ormai al dolce incontro”. Ecco che cosa era la morte per lui: un “dolce incontro” con Dio Amore. Aveva 49 anni tutti spesi per Dio.
Numerosi sono i riconoscimenti avuti dai posteri. Prima cosa, e non è poco, è un Santo. Ma non solo: è Dottore della Chiesa (Dottore Mistico), cioè Maestro riconosciuto nelle cose di Dio. È un grande maestro di spiritualità valido ancora oggi. Ha anche il merito di essere stato un valido collaboratore di Teresa d’Avila (anch’essa Santa e Dottore della Chiesa) nella Riforma Carmelitana. Ma non basta. Per le sue poesie si è guadagnato un posto nella letteratura spagnola. È stato riconosciuto come “il più santo dei poeti spagnoli, e il più poeta dei Santi”.
Giovanni nacque a Fontiveros non lontano da Avila nel 1542 in una famiglia ricca di amore ma povera di mezzi materiali. È interessante notare il perché di tutto questo. Il padre, Gonzalo de Yepes, apparteneva ad una nobile e ricca famiglia di Toledo. Nei suoi viaggi d’affari incontrò Caterina, una tessitrice, orfana, povera e bella. Innamoratosi di lei, la sposò, per amore e contro la dura volontà dei parenti, ricchi, che per questo lo diseredarono. Gonzalo così diventò poverissimo, tanto che è Caterina stessa ad accoglierlo nella sua casetta, e ad insegnargli il mestiere di tessitore. Il loro matrimonio d’amore fu allietato dalla nascita di tre figli.
L’amore tra loro era grande, ma anche la povertà. Giovanni, il terzogenito, rimase presto orfano: Caterina dopo aver ricevuto uno sdegnoso rifiuto di aiuto dai parenti del marito, cercò lavoro a Medina del Campo, importante centro commerciale. Qui Giovanni fece i suoi primi studi e nello stesso tempo accettò di fare dei piccoli lavori: fu così apprendista sarto, falegname, intagliatore e pittore. Fece anche l’infermiere, sempre amorevole con i malati: in questo modo si pagava gli studi che contemporaneamente faceva nel collegio dei Gesuiti. Terminati brillantemente questi, nel 1563 entrò nell’Ordine Carmelitano: era ormai Fra Giovanni di San Mattia.

L’incontro con Teresa
Proprio per la sua intelligenza e la serietà di vita, i superiori lo inviarono a Salamanca, nella famosa Università. Qui Giovanni non solo crebbe nella conoscenza della filosofia e teologia, ma intensificò anche la propria vita spirituale, fatta di preghiera, di lunghe ore di contemplazione davanti al tabernacolo e di ascesi pratica. Si sentiva portato alla vita contemplativa ed è per questo che stava meditando di cambiare Ordine ed entrare tra i Certosini.
Ma poco prima di essere ordinato sacerdote, ecco l’incontro provvidenziale con una affascinante monaca carmelitana di nome Teresa di Gesù, di quasi trent’anni più di lui. Questa era una donna dalla forte personalità arrivata ormai alla piena maturità spirituale. Vi era giunta attraverso un lungo travaglio vocazionale e spirituale e proprio in quegli anni stava lavorando con successo alla riforma delle Carmelitane. In quel periodo stava anche pensando di estendere la riforma al ramo maschile dell’Ordine. Questo era molto importante per Teresa, perché gli uomini potevano legare la contemplazione del mistero di Dio alla missione. Potevano lavorare cioè non solo alla propria santificazione nel chiuso del convento ma anche per quella degli altri. Teresa espose a Giovanni il proprio progetto di riforma e gli chiese nello stesso tempo di soprassedere alla decisione di cambiare ordine. E questi accettò.          
Nel 1568, Teresa finalmente riuscì a fondare il primo convento maschile, a Duruelo, presso Avila. Giovanni (che da questo momento si chiamerà Giovanni della Croce) iniziava così una forma di vita religiosa, condividendo con Teresa l’ideale di riforma della vita carmelitana. Anzi fu lei stessa a cucirgli il primo saio di lana grezza. Nascevano così i Carmelitani Scalzi.

In prigione a pane e acqua                                        
Nel 1572, Teresa venne nominata priora del grande convento di Avila (non riformato), con 130 monache, alcune delle quali erano poco sante e molto turbolente. E volle accanto a sé per la loro rieducazione spirituale proprio Giovanni della Croce: confessore e direttore spirituale delle monache. I risultati spirituali furono brillanti grazie all’opera congiunta dei due santi riformatori. Ma nello stesso tempo, erano cresciuti anche i rancori e l’opposizione di alcuni carmelitani non riformati. C’era chi con il diavolo, molto interessato al naufragio del progetto, remava contro questa riforma. E ben presto si fecero sentire. Duramente e dolorosamente. Per un tragico intreccio fatto di incomprensioni, di giochi di potere, di dispute sulla giurisdizione religiosa, di ambizioni personali mascherate da argomenti teologici e difficoltà di comunicazione (lettere in ritardo).
Ma mentre Teresa (che aveva protettori molto in alto, addirittura in Filippo II) non venne toccata, la cattiveria umana si scatenò contro il povero Giovanni. Per ordine superiore, sotto l’accusa di essere un frate ribelle e disobbediente, fu arrestato e incarcerato in un convento a Toledo. Gli lasciarono in mano solo il breviario. Fu maltrattato, umiliato e segregato in un’angusta prigione, con poca luce e molto freddo. Nove mesi di prigione: a pane e acqua (e qualche sardina), con una sola tonaca che gli marciva addosso, con il supplemento di sofferenza (flagellazione) ogni venerdì nel refettorio davanti a tutti.
Divorato dalla fame e dai pidocchi, consumato dalla febbre e dalla debolezza, dimenticato da tutti. Ma non da Teresa (che protestò vigorosamente anche in alto, ma invano) e tanto meno da Dio. Sì Dio non solo non lo aveva dimenticato, anzi era sempre stato con lui, con la sua grazia. Giovanni sapeva che anche nella notte della prigione Dio era nel suo cuore, presentissimo in ogni istante.
E il miracolo avvenne. In una situazione che per molti versi e per molte persone poteva essere di collasso psico fisico e di naufragio spirituale, Giovanni della Croce (possiamo immaginare per un “input” dall’alto) compose, con materiale biblico, le più calde e trascinanti poesie d’amore, ricche di sentimenti, di immagini e di simboli. Vivendo in Dio e di Dio anche in quelle circostanze, egli attingeva così a Lui, fonte perenne di ogni novità e creatività, “anche se attorno era notte”.

Maestro di vita spirituale
Alla vigilia dell’Assunta del 1578, fuggì coraggiosamente dal carcere, rischiando seriamente la vita, qualora fosse stato preso.
Le sofferenze inaudite di 9 mesi di carcere non furono vane. Infatti, due anni dopo, i Carmelitani Scalzi ottennero il riconoscimento da Roma, che significava autonomia. Giovanni della Croce era finalmente libero di espletare il suo ministero con tutte le sue qualità di cui era dotato, influendo positivamente tutti: confratelli e monache Carmelitane (e molti laici) che lo conobbero o che lo ebbero come superiore o come confessore e direttore spirituale, negli anni seguenti fino alla morte. Fu inviato anche al sud della Spagna, in Andalusia, dove il clima, la natura, l’assenza di contrasti e il successo della riforma di Teresa di Gesù (e sua) gli diedero il tempo e l’ispirazione per comporre la maggior parte delle opere di spiritualità, tanto da farne uno dei grandi maestri nella Chiesa.
Tra i suoi scritti ricordiamo, oltre il già citato Cantico Spirituale in poesia, la Salita al Monte Carmelo e la Notte Oscura. Pur avendo una solida formazione filosofica e teologica (il che lo aiutava certamente), ciò che Giovanni ha scritto non è tanto il risultato di sistematiche ricerche in biblioteca quanto il frutto della propria esperienza ascetica e spirituale.

Due tappe per crescere
È stato ed è un maestro di mistica perché fu lui stesso, nelle vicende gioiose e tristi della sua vita, un mistico. La fatica della salita del monte del Signore e la notte oscura delle difficoltà spirituali in questa aspra ascesa Giovanni le conosceva per esperienza. Ora, da essa arricchito e maturato, la proponeva agli altri, a noi.
Per Giovanni della Croce l’uomo è essenzialmente un essere in cammino, in perenne ricerca: di Dio naturalmente, essendo stato fatto da Lui e per Lui. Questo ritorno verso Dio egli lo immagina come la salita di una montagna, il Monte Carmelo, che rappresenta simbolicamente la vetta mistica, cioè Dio stesso nel suo amore e nella sua gloria. Per arrivare alla meta che è l’unione d’amore trasformante con Dio (o santità cristiana) l’uomo deve affrontare con coraggio e pazienza le due fasi o tappe, della educazione dei sensi (notte dei sensi) e del rinnovamento del proprio spirito (notte dello spirito) ambedue esperienze misteriose e dolorose di spoliazione interiore.
Con la notte dei sensi (attraverso un duro ed esigente impegno ascetico) l’anima si libera dall’attaccamento disordinato catturante e spiritualmente paralizzante delle cose sensibili, dal modo di giudicare e di scegliere basati sul proprio egoismo e sul proprio interesse immediato, sull’utilitarismo quotidiano nei rapporti interpersonali, sulle comodità di ogni genere e sull’abbondanza superba e gaudente. L’uomo dei sensi e quello totalmente prigioniero di un’unica prospettiva, quella terrena, difficilmente capirà le esigenze di Dio e del Vangelo.
Con la notte dello spirito invece ci si affranca dalle false certezze e dai falsi assoluti della propria intelligenza, affidandosi così totalmente e liberamente a Dio, attraverso l’esercizio delle virtù teologali, quali la fede e la speranza in Cristo, e la carità verso Dio e il prossimo. Si tratta del passaggio doloroso e lungo tanto che può durare tutta la vita dall’uomo “vecchio” all’uomo “nuovo”, da quello “terreno” a quello “spirituale”, da quello mosso dall’egoismo (la carne) a quello sospinto e motivato dallo Spirito, di cui parla San Paolo: un morire per rinascere in Cristo.

Farsi nulla per Dio per essere tutto in Lui                                         
Giovanni della Croce parla di rinunce, di lasciare tutto, di nulla (quali sono le cose rispetto a Dio), di salita, di notte oscura, tutta una terminologia che caratterizza la vita spirituale secondo lui come un lavoro (di auto correzione e autocontrollo nelle proprie azioni e decisioni), un impegno serio, una fatica dura, una ascesi costosa, graduale e continua… che non si può realizzare dall’oggi al domani. Giovanni della Croce non comprende (e scoraggia) quelli che “scalpitano tanto… che vorrebbero essere santi in un giorno”. Non è possibile. Allora come oggi. Egli afferma che se l’anima vuole il Tutto (Dio), deve impegnarsi a lasciare tutto e a voler essere niente:

“Per giungere dove non sei, devi passare per dove non sei. Per giungere a possedere tutto, non volere possedere niente. Per giungere ad essere tutto, non volere che essere niente”.              
Naturalmente per Giovanni la parola più importante in questo discorso spirituale non è rinuncia ma amore. Per lui non si tratta tanto di lasciare o rinunciare a qualcosa ma di amare Qualcuno. Egli invita a lasciare amori piccoli per un amore più grande anzi per l’Amore Totale che è Dio Trinità. Amore è la parola decisiva: amore di Dio per noi, amore della creatura per Dio, visto come risposta alla nostra ricerca di amore, fino a consumarsi nel Dio Amore (unione sponsale o mistica). E Giovanni della Croce si è consumato nell’amore per Dio Amore fino alla fine che arrivò il 14 dicembre 1591 in Andalusia, a Ubeda.

Ad una monaca che gli aveva scritto accennando alle difficoltà che egli aveva sofferto rispose:
“Non pensi ad altro se non che tutto è disposto da Dio. E dove non c’è amore, metta amore e ne riceverà amore”.

Un consiglio decisamente valido ancora oggi, per tutti.

MARIO SCUDU sdb ***

Publié dans:SANTI, Santi - biografia |on 13 décembre, 2012 |Pas de commentaires »

St Lucy Virgin and Martyr of Syracuse

St Lucy Virgin and Martyr of Syracuse dans immagini sacre St.-Lucy
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13 DICEMBRE: SANTA LUCIA VERGINE E MARTIRE

http://digilander.libero.it/santigeremiaelucia/storiasantalucia.htm

13 DICEMBRE: SANTA LUCIA

VERGINE E MARTIRE

LA FAMIGLIA DI LUCIA
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Don Aldo Fiorin
Parroco dei Ss. Geremia e Lucia
Docente di S. Scrittura nel Seminario
Venezia, Chiesa dei Ss. Geremia e Lucia, 22 novembre 1965
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Sul finire del III secolo (anno 281?) nacque a Siracusa S. Lucia. La città natale era famosa per essere stata fiorente centro di vita greca prima e poi d’importante commercio, intimamente legata alle vi­cende delle guerre puniche: conquistata da Roma nel 212 a. C. assolse una funzione notevole tra le città della provincia di Sicilia.
Diffusosi il cristianesimo in età apostolica per merito del vescovo S. Marziano, inviato a Siracusa da
S. Pietro stesso secondo la tradizione, ospitò l’apo­stolo S. Paolo per tre giorni nel viaggio verso Roma, come testimoniano gli Atti degli Apostoli. La fede di Cristo, nonostante le varie persecuzioni, si era potuta diffondere notevolmente: quando nacque S. Lu­cia la colonia cristiana era assai numerosa con le sue chiese e le sue catacombe cimiteriali.
Secondo la tradizione, la famiglia della nostra santa era di nobile stirpe e ricca di possedimenti ter­rieri: ci è lasciato il nome della madre: Eutichia; del padre è detto che morì quando Lucia era quin­quenne appena. Probabilmente egli poteva chiamarsi Lucio, data la norma romana di porre alle figliuole il nome del padre. Anche la famiglia forse era già cristiana se consideriamo il nome imposto a Lucia, tipicamente cristiano secondo qualcuno, ispirato al testo paolino « siete figli della luce ». Lucia significa senz’altro Luce per il dotto Tillemont.

LA GIOVINEZZA
Cresceva bella e buona la bimba siracusana, sot­to lo sguardo vigile della madre: soprattutto era bella nella modestia del portamento, onde la madre già pensava per lei la soluzione di un felice matri­monio.
Invece Lucia aveva ben altro proposito nella sua vita: si era consacrata perennemente al Signore con voto di verginità. Neanche la madre fu a conoscen­za di questo.
Soltanto un insieme di circostanze fortuite resero manifesta la sua consacrazione al Signore.
Alla vicina città di Catania, ogni anno solevano andare in folla i cristiani per venerare il corpo del­la vergine martire S. Agata, morta per la fede di Cristo nel 231, durante la persecuzione di Decio. I miracoli, che avvenivano presso il suo sepolcro, ne avevano diffuso la fama in tutta la Sicilia cristiana.
Il 5 febbraio del 301, festa della Santa, tra i pellegrini c’erano anche Lucia ed Eutichia sua madre.
Da oltre quarant’anni Eutichia soffriva di gravi emorragie, per le quali nessun rimedio era stato uti­le: ormai aveva perduto ogni speranza di guarire.
In quel giorno, durante i sacri misteri, fu letto il tratto evangelico, che narrava l’episodio dell’emo­roissa: una malattia identica alla sua. Il testo evan­gelico fu compreso bene dalle due donne. Una fi­ducia insperata di poter guarire provò Eutichia e viva fede ebbe Lucia nella potenza miracolosa di S. Agata. L’emoroissa era guarita appena aveva toc­cato la veste del Signore: la madre di Lucia sareb­be stata risanata se invece avesse toccato il sepolcro della santa martire. Così Lucia suggerì a sua madre.
Sul far della sera, quando tutti ebbero lasciato la chiesa, le due donne rimasero nella penombra in fiduciosa preghiera accanto al sepolcro di S. Agata. Le loro parole alla Santa erano di intensa richiesta di guarigione. A lungo però non poterono pregare ché il sonno ebbe il sopravvento e Lucia si addor­mentò profondamente lì nella penombra della chiesa, accanto al sepolcro della martire catanese.
Nel sonno le parve di aver presente una visione nitida: schiere e schiere di angeli circondavano la ver­gine   S. Agata, che sorrideva a Lucia e le diceva:
« Lucia sorella mia, vergine di Dio, perché chiedi a me ciò che tu stessa puoi concedere ? Infatti la tua fede ha giovato a tua madre ed ecco che è divenuta sana ».
Quando Lucia si svegliò, rivelò alla madre la visione serena e le parole risanatrici di S. Agata. Era guarita la madre. Inoltre era questo il momento opportuno .di farle conoscere il suo voto di vergi­nità. Così in realtà fece. Nessun rammarico mostrò la donna per questo proposito santo: anzi le disse che ogni sua cosa personale, dopo la morte, le sareb­be stata lasciata.
Il momento era adatto per Lucia per suggerire alla madre propositi di maggiore perfezione, giac­ché manifestava così vivamente il distacco dai beni della terra; onde la consigliò di vendere tutte le sue sostanze e darle ai poveri.
Per allora Eutichia non fece alcun progetto, ma poi, ritornate, a Siracusa, Lucia riprese ancora a parlarle dell’ideale di perfetta povertà. Ben presto si decise di vendere i suoi beni e distribuire il rica­vato ai poveri, seguendo gli esempi della primitiva chiesa di Gerusalemme.
Una tale elargizione se era esemplare nella fer­vente comunità cristiana di Siracusa, destava senz’al­tro lo stupore dei pagani, per i quali i beni di que­sto mondo erano le cose migliori della vita. Ordina­riamente un gesto del genere era sintomo evidente di fede cristiana: solo i seguaci di Cristo giungevano a disprezzare i beni della terra al punto da ven­derli e darli ai poveri. E così pensò uno a cui molto interessavano i beni di Lucia: un giovane del quale la tradizione non ha conservato il nome e che desi­derava vivamente di farla sua sposa.
Dalla madre di Lucia volle sapere perché la fi­gliuola vendeva le vesti preziose e gli ornamenti; per quale ragione distribuiva il ricavato ai poveri, alle vedove ed ai ministri del culto cristiano. Eutichia diede una risposta evasiva, che per il momento lo rese tranquillo.
Ma in seguito il sospetto che Lucia fosse cri­stiana divenne certezza: visto fallire il suo desiderio di averla come sposa, poiché ella lo aveva respinto, decise di denunciarla al prefetto della città come cristiana e di conseguenza fossero applicati a lei i decreti imperiali.

LA PERSECUZIONE DI DIOCLEZIANO
Allora per la chiesa cattolica non erano tempi tranquilli: l’imperatore Diocleziano nel vano tenta­tivo di arrestare l’inevitabile crisi dell’Impero roma­no stava attuando varie riforme, da quella ammi­nistrativa a quella economica, fiducioso di riportare lo Stato romano ai tempi migliori. Nel suo vasto piano di rinnovamento generale, anche la riforma religiosa doveva avere la sua importanza, come ri­forma delle coscienze: il culto imperiale doveva es­sere il veicolo di penetrazione interiore del senso della romanità e della potenza dell’impero. Appro­fittando di un complesso di circostanze, emanò i suoi editti di persecuzione contro i cristiani il 24 feb­braio del 303. Fu la più feroce persecuzione la sua, soprattutto nelle province, dove funzionari zelantis­simi la applicarono ciecamente. Lattanzio (de mort. persec. 10) ha scritto pagine celebri sulla furia di codesta persecuzione.                                                                                                                        

 IL DIALOGO CON PASCASIO
A Siracusa era prefetto della città (meglio era correttore) Pascasio, succeduto da pochi mesi a Cal­visiano, che nell’agosto del 303 aveva condannato a morte il vescovo S. Euplo.
Quando Lucia gli fu portata innanzi sotto l’im­putazione di essere cristiana, egli le ordinò di sa­crificare agli dei. Allora Lucia disse: Sacrificio puro presso Dio consiste nel visitare le vedove, gli orfani e i pellegrini, che versano nell’afflizione e nella ne­cessità, ed è già il terzo anno da che io offro a Cristo Dio tali sacrifici erogando tutto il mio patrimonio.
Pascasio l’interruppe con senso d’ironia: Va a con­tare queste ciance agli stolti come te, poiché io eseguo i comandi dei Cesari e perciò non posso udire sif­fatte stoltezze.
Lucia disse: Tu osservi i decreti dei Cesari co­me anch’io curo la legge del mio Dio giorno e notte; temi pure le loro leggi, mentre io riverisco il mio Dio: tu non vuoi mancare di rispetto a quelli ed io come mai oserò di contraddire il mio Dio? Tu t’ingegni di piacere a loro ed io mi ingegno di piacere a Dio: tu dunque fa come credi ti torna comodo ed io opero secondo è grato all’animo mio.
Pascasio continuò: Tu hai prodigato le tue so­stanze ad uomini vani e dissoluti.
Presso i pagani, secondo quanto testimoniano le apologie di Minucio Felice e Tertulliano, vigeva l’ac­cusa che i cristiani praticassero riti dissoluti come si notavano in altri culti misterici. Ma Lucia subito smen­tisce Pascasio dicendogli: Io ho riposto al sicuro il mio patrimonio e la mia persona non ha gustato la dissolutezza.
Pascasio soggiunse: Tu sei la stessa dissolutezza in anima e corpo.
Lucia rispose: Siete voi che costituite la corru­zione del mondo.
Pascasio disse: Cessi la tua loquacità; passiamo ai tormenti.
Lucia replicò: E’  impossibile porre silenzio ai detti del Signore.
Pascasio riprese: Tu adunque sei Dio?
Lucia rispose: Io sono serva del Dio eterno, poi­ché Egli ha detto: quando sarete dinanzi ai re ed ai principi non vi date pensiero del come o di ciò che dovete dire, poiché non siete voi che parlate ma lo Spirito Santo che parla in voi.
Pascasio disse: Dentro di te c’è adunque lo Spirito Santo?
Lucia rispose: Coloro che vivono castamente e piamente sono tempio di Dio e lo Spirito Santo abita in essi.
Pascasio disse: Ti farò condurre in un luogo turpe e così fuggirà da te lo Spirito Santo.
Anche per piegare altre vergini cristiane il giu­dice romano spesso era ricorso a simili mezzi: tant’è vero che Tertulliano scriveva, con i suoi tipici giuochi di parole, che esse temevano più il lenone che il leone: la prova cioè contro la loro virtù piuttosto che le belve feroci.
Innanzi alla fermezza della santa di non piega­re agli ordini di Pascasio, questi raduna della gen­taglia per costringere Lucia ad obbedirgli. Ogni suo tentativo riesce vano: neppure i soldati, neppure le paia di buoi riescono a smuovere Lucia che sta im­mobile come una roccia (l’episodio è narrato, tra gli altri, con potenza d’arte da Lorenzo Bassano in una pala della Basilica di S. Giorgio Maggiore di Venezia).
Tutti codesti prodigi furono ritenuti da Pascasio opera di magia, onde ordina che attorno a lei si pre­pari il rogo e sì accenda la fiamma, secondo quanto si usava contro i sospetti di arti magiche.
Vengono tosto portate pece e resina, legname ed olio; tutto viene gettato contro la Santa. Divampano le fiamme,. ma lei non ne è toccata. Anzi dice a Pascasio: Pregherò il mio Signore perché questo fuoco non si impadronisca di me.
Pascasio non si conteneva più dall’ira. Allora al­cuni dei suoi amici per impedire che fosse ancor più deriso dalla Santa e gli sforzi suoi risultassero del tutto vani, tirarono giù Lucia dal rogo perché fosse finita con la spada.                                                                                                                                                                      
 IL MARTIRIO
Lucia comprese che ormai era giunto il momento di confessare Cristo con il martirio: si pose in ginoc­chio pronta a ricevere il colpo mortale.
Prima però volle parlare alla gran folla che nel frattempo si era radunata attorno a lei: disse che la persecuzione contro i Cristiani stava terminando e la pace per la Chiesa era imminente con la caduta del­l’imperatore Diocleziano. Ricordò loro che Siracusa l’avrebbe sempre onorata così come la vicina Cata­nia aveva in venerazione S. Agata. Quando ebbe terminato di parlare, venne il colpo mortale che le recise il capo consacrandone la verginità con il mar­tirio.
Era il 13 dicembre del 304, secondo quanto narra la tradizione.

STORIA DEL SUO CULTO
Deposto il suo corpo nelle catacombe, che da lei presero il nome, divenne il suo sepolcro ben presto famoso richiamando i fedeli che ne ricevevano gra­zie abbondanti. Fu subito la Santa per eccellenza dei siracusani. In iscrizioni greche delle catacombe sira­cusane, anche dopo un secolo dal martirio è detto «la nostra santa Lucia ». Soprattutto è rimasta fa­mosa la iscrizione di Euschia venuta alla luce nel 1894 in escavi archeologici. Essa dice «Euschia la irreprensibile, vissuta buona e pura per anni circa 25, morì nella festa della mia Santa Lucia per la quale non vi ha elogio condegno: (fu) cristiana, fedele, perfetta, grata al suo marito di morta gratitudine».
All’inizio del V secolo, data dell’iscrizione, la Santa era ormai popolare: Euschia, questa donna, muore giovane nel giorno festivo della sua patrona, che nes­suno può elogiare in maniera conveniente giacché or­mai tutti ne conoscevano vita, virtù e prodigi. Secondo il breviario Gallo-Siculo sopra il sepolcro di S. Lucia sarebbe stata innalzata una basilica nel 310: addirit­tura sette anni dopo il martirio !
Se la notizia è discutibile per questa data, si può peraltro ammettere che la basilica sia stata eretta non molto tempo dopo la sua morte: comunque prima della citata iscrizione di Euschia.
Il suo culto ben presto si diffuse fuori della Si­cilia stessa come documentano le stratificazioni più antiche del martirologio Geronimiano: prova ne sia­no l’inserzione del nome della Santa nel Canone del­la Messa da parte di papa S. Gregorio Magno ( 604), la devozione in Roma stessa, dove le vennero de­dicate una ventina di chiese e nell’Italia settentrio­nale, dove la troviamo effigiata a Ravenna in S. Apol­linare Nuovo nella processione delle vergini, in In­ghilterra, nella chiesa Greca, dove il Damasceno stes­so compose la liturgia in onore della Santa. Dopo le scoperte geografiche del secolo XV, il suo culto si estende particolarmente nell’America Latina, nell’Africa, in alcuni luoghi dell’America del Nord. Nella devozione popolare la sua vita si arricchisce di particolari leggendari: il più famoso è quello di cre­dere che la santa stessa si sia levata gli occhi invian­doli in un bacile di argento al giovane, che si era in­namorato del loro splendore affascinante oppure, se­condo la versione, accettata fra l’altro anche dall’uma­nista Battista Mantovano, li abbia mandati a Pascasio stesso, ma subito le siano stati rimessi con improvviso miracolo, poiché S. Raffaele sarebbe sceso da cielo a compierlo.
Non sappiamo quando sia nata la leggenda (ma è probabile di età umanistica), che presenta una parti­colare somiglianza con episodi consimili verificatisi nella favolistica indiana: forse si è dato il caso di omonimia con un’altra Santa, che si sarebbe tolta gli occhi per liberarsi da un’incauta persona, o meglio per un processo di etimologia popolare del nome rav­visando il rapporto: Lucia = luce, oppure come sug­gerisce il Delehaye, quale ex-voto di devoto guarito. Di conseguenza, in base ai principi della pietà popo­lare, S. Lucia fu invocata per proteggere la luce degli occhi, cioè la vista. Forse, secondo quanto insinua il dotto Garana, codesto rapporto è antichissimo, come può risultare dall’iscrizione di Euschia del IV secolo, nella quale il nome della devota nel valore di « om­brosa » può alludere ad affezione morbosa della vista. Certo nell’appendice miracolistica, annessa al racconto della traslazione veneziana del 1280 (ma giuntaci in un testo quattrocentesco), sono documentati alcuni miracoli di vista riacquistata. Una prova ulteriore è data da quanto la tradizione afferma di Dante Ali­ghieri, almeno stando ai dati del figlio Jacopo, per cui il poeta sarebbe guarito da grave danno alla vista subito per le lagrime sparse in morte di Beatrice, dopo di aver invocato spesso S. Lucia durante il male, onde l’ha collocata nel secondo canto dell’Inferno, nel nono del Purgatorio e nel trentatreesimo del Paradiso: non più dunque in sola funzione allegorica, quanto invece come gesto di riconoscenza devota.

ICONOGRAFIA DELLA SANTA
Il culto veneziano della Santa è provato tra l’altro dal Kalendarium Venetum del XI secolo, e poi nei Messali locali del secolo XV, nonché nel Memoriale Franco e Barbaresco dell’inizio del 1500, dove è con­siderata festa di palazzo, cioè festività civile.
Sin dal 1107 sorgeva una chiesa in suo onore all’estremità occidentale del Canal Grande, forse par­rocchia nel 1182, dove poi nel 1313 riscontriamo con sicurezza il corpo della Santa. In essa esisteva la scuola a lei intitolata sin dal 1323, a cui nel 1703 fu aggiunto un sovvegno. Ma in nessun’altra chiesa veneziana no­tiamo scuole in suo onore, tranne a 5. Moisè, poiché qui sin dal 1313 esisteva una scuola per i ciechi, onde fu naturale il culto alla Santa patrona della vista.
Prova più vasta dell’importanza della Santa nella pietà veneziana è pure desumibile dalla sua icono­grafia in pale d’altare, per buona parte di origine e sviluppo post-tridentino. Così si veda a S. Marco (mo­saici dei secoli XVI e XVII); nella pala con la Ver­gine e Santi, di Giovanni Bellini a S. Zaccaria; a S. Giovanni in Bragora in polittico di Iacobello del Fio­re; in quella di S. Nicolò, del Lotto ai Carmini; a S. Giovanni Crisostomo, nella pala di Sebastiano del Piombo; a S. Martino; a S. Elisabetta del Lido; a S. Stefano nella pala dell’Immacolata, del Menescar­di; a S. Giorgio Maggiore, di Leandro Bassano; ai To­lentini, del Peranda; ai SS. Apostoli, di Giambattista Tiepolo, ma soprattutto in chiesa, ora, a S. Geremia in tele della demolita chiesa di S. Lucia.
Tralascio le altre documentazioni iconografiche nei musei e raccolte private veneziane, poiché ora non sono più oggetto di culto; alla pari accenno solo al vasto repertorio iconografico nella pittura venezia­na e veneta, fuori di Venezia, come, per fare un no­me, in Cima da Conegliano. Nell’ambito della diocesi, si notino le storie della Santa in affresco del duomo di Caorle, navata destra, di anonimo trecentesco, e la Santa in pala di altare laterale nella chiesa di Oriago, di anonimo settecentesco; in altare laterale nella chiesa di Chirignago di anonimo neoclassico.
Il tipo iconografico, sino al periodo post-tridenti­no, non sempre la dà con gli occhi in mano: a volte, come in Cima, tiene la lampada verginale fra le mani (poittico di Olera; pala di Lisbona); il motivo degli occhi sul bacile di argento, sebbene sia presente anche in fase pre-tridentina, è poi costante in quella post-tri­dentina.

STORIA DELLE SUE RELIQUIE
Il corpo di S. Lucia rimase in Siracusa per molti secoli: dalla catacomba, dove fu sepolto, fu poi por­tato nella basilica eretta in suo onore, presso la quale, all’inizio del VI secolo, fu costruito un monastero. Nella minaccia araba per il suo sepolcro nell’878, dopo la conquista islamica della Sicilia, il suo corpo fu nascosto in un luogo segreto. Nel 1039, appena Ma­niace, generale di Bisanzio, riuscì a strappare Siracusa agli Arabi, condusse le reliquie a Costantinopoli, o come preda di guerra o, secondo l’affermazione della Cronaca del doge Andrea Dandolo, su preciso ordine degli imperatori Basilio e Costantino. Invece secondo la tradizione francese, il corpo della Santa fu levato da Siracusa nel corso del secolo VIII da Feroaldo, duca di Spoleto, dopo la conquista della città che lo recò a Corfinio, donde il vescovo di Metz lo avrebbe trasferito nella sua città episcopale. Indubbiamente qui si sviluppò un culto attorno a codèste reliquie, seb­bene, viene notato giustamente, si tratti di un’altra martire siracusana, di nome Lucia e confusa per omo­nimia con la nostra Santa. La linea maestra della tra­dizione afferma che il suo corpo fu tolto da Costantinopoli nel 1204 dal doge veneziano Enrico Dandolo, dove lo aveva trovato assieme a quello di S. Agata, ed inviato a Venezia. Invece secondo una variante, do­cumentata dal codice secentesco, o Cronaca Veniera, della Biblioteca Marciana di Venezia (It. VII, 10 (= 8607) f. 15 v.), esso sarebbe stato portato a Venezia, assieme a quello di S. Agata, nel 1026, sotto il dogado di Pietro Centranico. Non sappiamo l’ori­gine della notizia e se derivi da una fonte anteriore, per quanto un fondato sospetto induca ad un errore meccanico di amanuense, che ha letto 1026 per 1206, cioè gli anni della traslatio ufficiale. E nella Cronaca Veniera lo si accettò, armonizzando il fatto con il doge dell’epoca. Certo è difficile una precisazione sto­rica di codeste reliquie, esente da qualsiasi sospetto, almeno allo stato attuale delle cose; per noi è pru­denza elementare prendere atto della presenza del suo corpo in Venezia sin dal 1204. Ma si noti che in Ve­nezia esisteva già una chiesa dedicata alla martire nel 1167 e 1182, come lo provano inequivocabili docu­menti, per cui è probabile che la determinazione di tra­sferire le reliquie nelle lagune sia stata originata dalla necessità di arricchire una chiesa veneziana, come d’al­tronde si verificò per altri casi consimili.
Comunque a Venezia il suo corpo fu collocato nella chiesa di S. Giorgio Maggiore e determinò un flusso di pellegrinaggi, che nel giorno d’ella festa (13 dicembre) assumeva proporzioni impressionanti, nel­l’andirivieni di imbarcazioni. Il 13 dicembre 1279 accaddero tragici fatti. Alcuni pellegrini morirono an­negati in seguito al capovolgimento delle imbarcazio­ni per l’insorgere di un turbine improvviso.
Il Senato, ai fini di evitare ancora consimili doloro­si incidenti, decise che il corpo della Santa fosse por­tato in una chiesa di città. Fu scelta la chiesa di S. Maria Annunziata o della « Nunciata » nell’estremo sestiere di Cannaregio, dove furono poste le preziose reliquie trasferite da S. Giorgio il 18 gennaio 1280 con una solenne processione.
Nel 1313 fu consacrata una nuova chiesa dedicata a S. Lucia, nella quale le reliquie della Santa furono deposte definitivamente.
Nel 1441 papa Eugenio IV dava questa chiesa, che era piccola parrocchia, in commenda alle mo­nache del vicino monastero del Corpus Domini; nel 1478 invece papa Sisto IV, dopo una vivace contesa tra il monastero della Nunciata e la parrocchia, che a volte assunse fasi davvero ridicole, concedeva chiesa e parrocchia alle monache del monastero della Nun­ciata, che avanzavano diritti contro quelle del Corpus Domini sul possesso del corpo della Santa: la lite insorta fra i due monasteri fu risolta in favore di quel­lo della Nunciata, come si è visto: però esso doveva sborsare ogni anno 50 ducati a quello del Corpus Domini.
Nel 1579 passando per il Dominio veneto l’im­peratrice Maria d’Austria, il Senato volle farle omag­gio di una reliquia di S. Lucia. Con l’assistenza del patriarca Trevisan fu levata una piccola porzione di carne dal lato sinistro del corpo della Santa.
Altre reliquie della Santa si trovavano a Siracusa, recate nel 1556 da Eleonora Vega, che le ottenne a Roma dall’ambasciatore di Venezia’ così pure avven­ne per alcuni frammenti di braccio sinistro, recati ivi nel 1656 da Venezia, dal cappuccino Innocenzo da Caltagirone. Reliquie ancora sono possedute a Napoli, Roma, Milano, Verona, Padova, Montegalda di Vi­cenza e a Venezia stessa, nelle chiese di S. Giorgio Maggiore, dei SS. Apostoli, dei Gesuiti, dei Carmini.
All’estero sono documentate a Lisbona nel 1587, con una reliquia ricevuta da Venezia; in chiese del Belgio nel 1676; a Nantes, in Francia, nel 1667. Nel 1728 una parte dell’urna fu donata a papa Benedet­to XIII.
Una nuova chiesa, al posto di quella antica, fu costruita tra il 1609 e il 1611, su schemi palladiani, riecheggiante l’attuale delle Zitelle, con due torri cam­panarie in facciata.
Per completarla, giravano per la città alcuni inca­ricati dalle monache a raccogliere le offerte dei fedeli con la cassella concessa dal Magistrato della Sanità.
Il 28 luglio del 1806, in seguito alla soppressione napoleonica, chiesa e monastero furono chiusi e le monache si rifugiarono in S. Andrea della Zirada, por­tando con sé le reliquie della Santa. Poco dopo, non potendo rimanere lì per ragioni di spazio, con il con­senso del Ministero del culto ritornavano ancora al­l’antica sede insieme con il corpo di S. Lucia.
Nel 1813 il convento di S. Lucia veniva donato dall’imperatore d’Austria alla b. Maddalena di Ca­nossa, che vi abitò fino al 1846, quando si iniziarono i lavori per la stazione ferroviaria e per la demolizione del convento. Per il momento la chiesa non fu toccata. Invece nel 1860 dovendosi ampliare la stazione fer­roviaria, nella stolida furia distruttiva dell’epoca, fu abbattuta anche la chiesa di 5. Lucia seguendo la triste sorte di tante altre chiese veneziane. Vero è che mi­nacciava rovina, fatiscente ormai di secoli e di umane malizie. Si sarebbe potuto ripararla e risolvere diver­samente le esigenze della stazione ferroviaria. Invece presi accordi con l’Autorità Ecclesiastica, si decise di trasportare il corpo della Santa nella vicina parroc­chiale di S. Geremia. Per la traslazione, avvenuta l’11 luglio 1860, intervenne il patriarca Ramazzotti con tutto il Clero e popolo della città: sette giorni rimase il sacro corpo sull’altar maggiore, poi fu posto su un altare laterale in attesa di costruire la nuova cappella. Tre anni dopo, l’11 luglio 1863, il patriarca Trevi­sanato la inaugurava: essa era stata costruita con il materiale del presbiterio della demolita chiesa di S. Lucia su gusti palladiani. Finalmente per la genero­sità di Mons. Sambo, parroco di quella Chiesa (che nel frattempo venne ad assumere la denominazione « dei Ss. Geremia e Lucia ») su disegno dell’arch. Gaetano Rossi veniva preparato alla Santa un più de­gno altare in broccatello di Verona con fregi di bronzo dorato. Il 15 giugno del 1930 il servo di Dio patriarca La Fontaine lo consacrava e collocava il corpo incor­rotto della Santa nella nuova urna in marmo giallo ambrato, che lo sovrasta. Nel 1955 il patriarca Angelo Roncalli, poi papa Giovanni XXIII, volle che fosse data più condegna importanza alle sacre reliquie, sug­gerendo l’esecuzione di una maschera d’argento, cu­rata dal parroco di allora don Aldo Da Villa.
Infine, nell’anno 1968, per iniziativa del parroco prof. don Aldo Fiorin e la generosità di benefattori, la Cappella e l’Urna sono state completamente re­staurate.
E nel suo tempio ancor oggi riposa la Martire, meta venerata di tanti pellegrinaggi, con l’augurio in­ciso nella bianca curva absidale, che si specchia sulle acque del Canal Grande:

LUCIA
VERGINE DI SIRACUSA
MARTIRE DI CRISTO
IN QUESTO TEMPIO
RIPOSA
ALL’ITALIA AL MONDO
IMPLORI
LUCE  PACE

SENZA compromessi: di Gianfranco Ravasi

http://www.stpauls.it/jesus03/0304je/0304je78.htm

SENZA compromessi

di Gianfranco Ravasi

Il prefetto della Biblioteca Ambrosiana, da anni collaboratore prestigioso di diverse pubblicazioni del Gruppo San Paolo (libri e riviste), mentre ricorda il fondatore della Famiglia paolina, don Alberione, analizza lo stile comunicativo di Gesù che, di fronte all’ipocrisia religiosa, fa suo un linguaggio…  

Quarant’anni fa, mentre ero agli inizi dei miei studi teologici presso l’Università Gregoriana, mi ero recato per gli esercizi spirituali con gli altri alunni del Seminario Lombardo di Roma, ove risiedevo, alla Casa del Divin Maestro gestita dai Paolini ad Ariccia, in un’incantevole posizione che dominava dall’alto il lago di Albano. Fu proprio là che una sera incontrai per i corridoi della casa don Giacomo Alberione che era di passaggio: una figura minuta, un po’ curva, dagli occhi intensi. Lo rividi l’indomani mattina mentre celebrava con fervore la Messa e lo ritrovai poi in mezzo a un gruppo di suoi confratelli. Naturalmente allora io non mi avvicinai a lui. Tuttavia successivamente ho pensato spesso a questo incontro « implicito » perché poi la mia vita di sacerdote, di docente, di scrittore mi aveva portato a un legame strettissimo non solo coi religiosi della Società San Paolo da lui fondata ma soprattutto col loro costante impegno nell’orizzonte dell’evangelizzazione attraverso libri, giornali, radio e televisione. Non per nulla la mia firma è apparsa costantemente nei 25 anni di vita di Jesus, come è accaduto per Famiglia Cristiana, Vita Pastorale e per le edizioni San Paolo e persino nell’emittente locale Telenova. È, quindi, anche per me una festa « familiare » la beatificazione di don Alberione e l’associarmi alla gioia dei tanti amici Paolini è per me un gesto spontaneo e sincero. A questo punto mi pare coerente con l’evento che si celebra questo 27 aprile proporre per i lettori un’ulteriore riflessione sulla comunicazione, naturalmente secondo la prospettiva specifica di questa rubrica che è di taglio biblico. È questo un modo per riconoscere il primato de facto che la San Paolo ha avuto in questi ultimi tempi proprio per l’annunzio della fede in Italia attraverso i mezzi di comunicazione di massa (si pensi solo alla monumentale impresa della Bibbia per la famiglia, allegata per anni a Famiglia Cristiana). Faremo riferimento alla figura di Cristo secondo un particolare angolo di visuale. Gesù era indubbiamente un comunicatore affascinante e noi l’abbiamo già documentato in passato proprio su queste pagine, evocando il linguaggio parabolico. Egli partiva dal mondo fatto di terreni aridi, di semi e seminatori, di erbacce e di messi, di vigne e di fichi, di pecore e di pastori, di cagnolini, di uccelli, di gigli, di cardi, di senape, di pesci, di scorpioni, serpi, avvoltoi, tarli, di venti, di scirocco e tramontane, di lampi balenanti e piogge o arsure. Nei suoi discorsi c’erano bambini al gioco sulle piazze, cene nuziali, costruttori di case e di torri, braccianti e fittavoli, prostitute e amministratori corrotti, portieri e servi in attesa, casalinghe e figli difficili, debitori e creditori, ricchi egoisti e poveri ridotti alla fame, magistrati inerti e vedove indifese ma coraggiose, c’erano monete piccole e grandi, c’erano tesori nascosti e mense con cibi puri e impuri secondo le regole kasher dell’ebraismo e altro ancora. Cervantes nel suo celebre Don Chisciotte riesce a ricordarci con una pennellata lo stile della predicazione di Gesù, evocando un passo del Discorso della Montagna: «Dio non manca né ai moscerini, né ai vermiciattoli della terra, né agli animaluzzi delle acque; ed è tanto pietoso che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi e piovere sopra i giusti e gli ingiusti» (I,18; cf. Matteo 5,45; 6,26). Nella stessa linea, in un suo articolo, Beniamino Placido evocava la forza anche di un solo particolare delle parole del rabbì di Nazaret: «Ci cadono i capelli e ce ne disperiamo. Per colpevole vanità. Ma anche perché assaporiamo – in questa disgrazia – l’amara caducità della nostra esistenza. È sbagliato, dicono i vangeli. Nulla è insignificante. Cinque passeri non si vendono forse per due assi? Eppure neanche uno di essi è dimenticato davanti a Dio. E anche i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non temete, voi valete più di molti passeri (Luca 12,6-7). Altrove (21,18): Ma neppure un capello del vostro capo perirà». Noi ora vorremmo, però, puntare su un aspetto molto particolare della comunicazione di Cristo, quello polemico, un aspetto spesso messo in sordina nella retorica dell’oratoria ecclesiastica, incline a lasciarsi intridere da robuste porzioni di melassa spiritualmente dolciastra. Nello stile dei profeti le parole di Cristo conoscono spesso lo sdegno che si accende soprattutto di fronte all’ipocrisia religiosa che, sotto il manto di una pietà artificiosa e formale, nasconde egoismi inconfessati e interessi inconfessabili. Pensiamo alla frusta agitata contro i mercanti che trasformano il tempio di Sion in «una spelonca di ladri» (Matteo 21,13), come già protestavano i profeti (Geremia 7,11). Tutto il giudaismo ufficiale è metaforicamente frustato nelle varie polemiche che Gesù apre contro le varie fazioni dei Sadducei, dei Farisei, degli Erodiani, contro le classi sacerdotali e intellettuali (gli scribi): basterebbe rimandare ai sette « Guai! » del capitolo 23 di Matteo o all’attacco contro i « mercenari » o falsi pastori di Israele presente nel capitolo 10 di Giovanni. Il culto separato dalla vita, la liturgia senza la giustizia, il digiuno retoricamente conclamato, l’elemosina e la preghiera ostentate sono denunziati senza reticenze e la parabola del pubblicano e del fariseo (Luca 18,9-14) ne è una vigorosa testimonianza. Il fariseo, avvolto nel manto glorioso delle sue opere e della sua giustizia, è convinto della sua giustizia e dei doveri di Dio nei suoi confronti. Il pubblicano, peccatore pentito, nel riconoscimento umile della sua miseria morale diventa il vero uomo religioso. L’idolatria della ricchezza, l’egoismo, la violenza e l’odio escludono dal Regno di Dio. «Se stai per presentare la tua offerta all’altare e là ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta là, dinanzi all’altare, va’ prima a riconciliarti col tuo fratello e poi verrai a presentare la tua offerta» (Matteo 5, 23-24). Sono molte le parole di Gesù simili a quella spada che egli diceva di aver portato nella storia: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace ma una spada. Sono venuto a separare figlio da padre, figlia da madre, nuora da suocera… Sono venuto a portare fuoco sulla terra: come vorrei che fosse già acceso!» (Matteo 10,34-36; Luca 12,49). Molte sono le parole dure, radicali e assolute, rese ancor più veementi dal calco semitico, come nel caso della celebre frase: «Se uno viene da me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Luca 14,26). In realtà Gesù, come è ovvio, non suggerisce l’odio che ha sempre bandito dal suo sdegno (l’ira e l’odio sono un vizio, lo sdegno una virtù) ma riflette il linguaggio semitico che ignora il comparativo e procede per assoluti, che trasforma un « amare meno » in « odiare ». Rimane, comunque, la potenza indimenticabile di quel monito. Il discorso potrebbe allargarsi e costringerci a citare metà delle parole di Gesù, segnate dal colore e dal calore, dalla passione e dall’intensità, dall’esigenza forte e assoluta, da un radicalismo che detesta il compromesso (in questo senso dev’essere intesa la sua visione del matrimonio come totale e indissolubile donazione d’amore, senza riserve e limiti: Marco 10,1-12; Matteo 5,31-32; 19,1-9). Noi ora ci soffermeremo brevemente su un tema delicato che spesso ha travagliato la cristianità, producendo degenerazioni ed equivoci gravissimi, quello del rapporto col potere politico. Gesù è severo coi potenti: definirà, ad esempio, sprezzantemente il re Erode Antipa « volpe », un termine che nel substrato linguistico aramaico può essere reso anche con « sciacallo », animale impuro (Luca 13,32). Il potere rivela il suo volto diabolico nelle tentazioni di Cristo: «La potenza e la gloria dei regni», dichiara Satana, «è stata messa nelle mie mani e io la do a chi voglio» (Luca 4,6). Il « codice dell’autorità » che Gesù propone è l’esatto antipodo di quello che regge i sistemi politici: «I re delle nazioni le governano e coloro che hanno su di esse potere si fanno chiamare « benefattori ». Per voi non dev’essere così! Chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve» (Luca 22,25-26). Proprio come si definisce Gesù che pronunzia queste parole nell’ultima cena: «Chi è più grande: chi sta a tavola o chi serve? Non è forse chi è a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Luca 22,27). «Il Figlio dell’uomo, infatti, non è venuto per essere servito ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Marco 10,45). Tuttavia Cristo riconosce legittimità al potere politico ed economico in occasione di una domanda sollevata dai suoi avversari: «È lecito o no pagare il tributo a Cesare?» (Matteo 22,15-22). Essi sono convinti di aver collocato Gesù su un crinale pericoloso che può costringerlo o a scivolare sulla critica all’autorità di Cesare (Tiberio), facendone un ribelle, oppure avventurarsi nella critica alla sottomissione a Dio, facendone un collaborazionista e un traditore della fede ebraica (è noto che la stessa moneta imperiale con l’immagine proibita dell’imperatore costituiva di per sé un atto idolatrico). Cristo risponde con un’azione simbolica, ricorrendo proprio a quella moneta come segno. Riconosce che essa è sotto il sigillo di Cesare e, come tale, ha una sua sfera di pertinenza e di autonomia: «Date a Cesare quello che è di Cesare». Ma l’allusione che egli fa evocando l’ »immagine » coniata sulla moneta suppone una seconda componente implicita: nella Genesi (1,27) l’uomo è definito «immagine di Dio». Perciò, la persona umana è in ultima e decisiva istanza contrassegnata da una dimensione trascendente: «Date a Dio quello che è di Dio». In sintesi, la moneta – cioè l’economia e la politica – siglata dall’appartenenza all’imperatore, sia di Cesare; l’uomo, siglato dal suo legame radicale con Dio, sia debitore radicalmente al Creatore, secondo una dignità intangibile. Il potere ha, quindi, limiti precisi nei confronti dell’uomo, ma non è annullato in una teocrazia integralista. Tuttavia il primato rimane riservato alla persona che reca in sé un suggello trascendente. Sono le lezioni di Gesù « perfetto comunicatore ».

Gianfranco Ravasi

Publié dans:c.CARDINALI, Card. Gianfranco Ravasi |on 12 décembre, 2012 |Pas de commentaires »

Nuestra Señora de Guadalupe, Emperatriz de las Américas y Patrona de México

Nuestra Señora de Guadalupe, Emperatriz de las Américas y Patrona de México   dans immagini sacre guadalupe

http://www.ewtn.com/spanish/prayers/Nov_Guadalupe.htm

 

Publié dans:immagini sacre |on 11 décembre, 2012 |Pas de commentaires »

LA STORIA STRAORDINARIA DELLE APPARIZIONI E DELL’IMMAGINE MIRACOLOSA

http://www.tanogabo.it/religione/Guadalupe.htm

Nostra Signora di Guadalupe

 LA STORIA STRAORDINARIA DELLE APPARIZIONI E DELL’IMMAGINE MIRACOLOSA

Un giorno in cui contemplava una riproduzione dell’Immagine di Nostra Signora di Guadalupe, Papa Giovanni Paolo II fece questa confidenza:
«Mi sento attirato da quest’Immagine, perché il viso è pieno di tenerezza e di semplicità; mi chiama…».
Più tardi, il 6 maggio 1990, in occasione di un pellegrinaggio in Messico, il Santo Padre beatificava il messaggero di Nostra Signora, Juan Diego, e diceva:
«La Vergine ha scelto Juan Diego fra i più umili, per ricevere quella manifestazione affabile e benigna che fu l’apparizione di Nostra Signora di Guadalupe. Il suo viso materno sulla santa Immagine che ci lasciò in dono ne è un ricordo imperituro».
Nel secolo XVI, la Santa Vergine, piena di pietà per il popolo azteco che, vivendo nelle tenebre dell’idolatria, offriva agli idoli innumerevoli vittime umane, si è degnata di prendere in mano essa medesima l’evangelizzazione degli Indiani dell’America Centrale che erano anch’essi suoi figli.
Un dio degli Aztechi, cui era attribuita la fertilità, si era trasformato, con l’andar del tempo, in dio feroce.
Simbolo del sole, quel dio, in lotta permanente con la luna e le stelle, aveva bisogno – così si credeva – di sangue umano per restaurare le proprie forze, poiché, se fosse perito, la vita si sarebbe spenta.
Sembrava dunque indispensabile offrigli, in perpetuo sacrificio, sempre nuove vittime.

Un’aquila su un cactus
I sacerdoti aztechi avevano profetizzato che il loro popolo nomade si sarebbe insediato nel luogo in cui si fosse mostrata un’aquila che, appollaiata su un cactus, divorasse un serpente.
L’aquila figura sulla bandiera del Messico attuale. Giunti su un’isola palustre, in mezzo al lago Texcoco, gli Aztechi vedono compiersi il preannunciato presagio: un’aquila, appollaiata su un cactus, sta divorando un serpente; siamo nel 1369.
Fondano quindi lì la città di Tenochtitlán, che diventerà Città del Messico. Essa si sviluppa fino a diventare una vasta città su palafitte con numerosi giardini in cui abbondano fiori, frutti e verdure.
L’organizzazione progressiva del regno azteco fa di esso un impero gerarchizzato e molto strutturato.
Le conoscenze dei matematici, degli astronomi, filosofi, architetti, medici, artisti ed artigiani sono molto avanzate per l’epoca. Ma le leggi fisiche rimangono poco note.
La potenza e la prosperità di Tenochtitlán sono dovute soprattutto alla guerra. Le città conquistate devono pagare un tributo di derrate varie e di uomini per la guerra e per i sacrifici. I sacrifici umani e l’antropofagia degli Aztechi hanno pochi riscontri analoghi nel corso della storia.
Nel 1474, nasce un bambino cui vien dato il nome di Cuauhtlatoazin («aquila parlante»). Alla morte di suo padre, è lo zio che si incarica del piccolo. Fin dall’età di tre anni, gli si insegna, come a tutti i bambini aztechi, a partecipare ai lavori domestici ed a comportarsi dignitosamente. A scuola, impara il canto, la danza e soprattutto la religione con i suoi molteplici dèi. I sacerdoti hanno una grande influenza sulla popolazione, che mantengono in una sottomissione che va fino al terrore.
Cuauhtlatoazin ha tredici anni, quando si procede alla consacrazione del gran Tempio di Tenochtitlán. Nel corso di quattro giorni, i sacerdoti sacrificano al loro dio 80.000 vittime umane. Dopo il servizio militare, Cuauhtlatoazin si sposa con una ragazza della sua condizione. Insieme, conducono una modesta vita di agricoltori.
Nel 1519, lo spagnolo Cortés sbarca nel Messico, alla testa di più di 500 soldati. Conquista il paese per conto della Spagna, ma non senza zelo per l’evangelizzazione degli Aztechi; nel 1524, ottiene la venuta a Città del Messico di dodici Francescani. I missionari s’integrano facilmente nella popolazione; la loro bontà contrasta con la durezza dei sacerdoti aztechi e con quella di certi conquistatori. Si cominciano a costruire chiese. Tuttavia, gli Indiani si mostrano assai refrattari al Battesimo, soprattutto a causa della poligamia che dovrebbero abbandonare.
Cuauhtlatoazin e sua moglie sono fra i primi a ricevere il Battesimo, ed assumono rispettivamente i nomi di Juan Diego e Maria Lucia. Alla morte di quest’ultima, nel 1529, Juan Diego si ritira a Tolpetlac, a 14 km da Città del Messico, presso lo zio Juan Bernardino, diventato pure lui cristiano.
Il 9 dicembre 1531, come sempre il sabato, egli parte prestissimo la mattina per assistere alla Messa celebrata in onore della Santa Vergine, presso i Frati francescani, vicino a Città del Messico.
Passa ai piedi della collina di Tepeyac (vicino alla odierna Città del Messico, denominate di Guadalupe, vocabolo spagnolo derivato per semplice somiglianza di suono dalla parola azteca Cuatlaxupeh = colei che calpesta il serpente).
. Improvvisamente, sente un canto dolce e sonoro che gli sembra provenga da una gran moltitudine di uccelli. Alzando gli occhi verso la cima della collina, vede una nuvola bianca e sfavillante. Guarda intorno a sé e si chiede se non stia sognando. Improvvisamente il canto tace ed una voce di donna, dolce e delicata, lo chiama:
«Juanito! Juan Dieguito!»
S’inerpica rapidamente sulla collina e si trova davanti ad una giovane bellissima, le cui vesti brillano come il sole.

«Un tempio in cui manifesterò il mio amore»

Rivolgendosi a lui in nahuatl, la sua lingua materna, gli dice:
«Figlio mio, Juanito, dove vai? – Nobile Signora, mia Regina, vado a Messa a Città del Messico per apprendervi le cose divine che ci insegna il sacerdote. – Voglio che tu sappia con certezza, caro figlio, che io sono la perfetta e sempre Vergine Maria, Madre del vero Dio da cui proviene ogni vita, il Signore di tutte le cose, Creatore del cielo e della terra. Ho un grandissimo desiderio: che si costruisca, in mio onore, un tempio in cui manifesterò il mio amore, la mia compassione e la mia protezione. Sono vostra madre, piena di pietà e d’amore per voi e per tutti coloro che mi amano, hanno fiducia in me e a me ricorrono. Ascolterò le loro lamentele e lenirò la loro afflizione e le loro sofferenze. Perché possa manifestare tutto il mio amore, va’ ora dal vescovo, a Città del Messico, e digli che ti mando da lui per fargli conoscere il grande desiderio che provo di veder costruire, qui, un tempio a me consacrato».
 Juan Diego si reca immediatamente al vescovado. Monsignor Zumárraga, religioso francescano, primo vescovo di Città del Messico, è un uomo pio e pieno di zelo il cui cuore trabocca di bontà per gli Indiani; ascolta attentamente il pover’uomo, ma, temendo un’illusione, non gli dà credito. Verso sera, Juan Diego prende la via del ritorno. In cima alla collina di Tepeyac, ha la felice sorpresa di ritrovare l’Apparizione; rende conto della sua missione, poi aggiunge:
«Vi supplico di affidare il vostro messaggio a qualcuno più noto e rispettato, affinché possa essere creduto. Io sono solo un modesto Indiano che avete mandato da una persona altolocata in qualità di messaggero. Perciò non sono stato creduto ed ho potuto soltanto causarvi una gran delusione. – Figlio carissimo, risponde la Signora, devi capire che vi sono persone molto più nobili cui avrei potuto affidare il mio messaggio, e tuttavia è grazie a te che il mio progetto si realizzerà. Torna domani dal vescovo… digli che sono io in persona, la Santa Vergine Maria, Madre di Dio, che ti manda».
La domenica mattina dopo la Messa, Juan Diego si reca dal vescovo. Il prelato gli fa molte domande, poi chiede un segno tangibile della realtà dell’apparizione. Quando Juan Diego se ne torna a casa, il vescovo lo fa seguire discretamente da due domestici. Sul ponte di Tepeyac, Juan Diego scompare ai loro occhi, e, malgrado tutte le ricerche effettuate sulla collina e nei dintorni, essi non lo ritrovano più. Furenti, dichiarano al vescovo che egli è un impostore e che non bisogna assolutamente credergli. Durante il medesimo tempo, Juan Diego riferisce alla bella Signora, che lo aspettava sulla collina, il nuovo colloquio avuto con il vescovo: «Torna domattina a prendere il segno che reclama», risponde l’Apparizione.

Rose, in pieno inverno!
Tornando a casa, l’Indiano trova lo zio malato e il giorno seguente deve rimanere al suo capezzale per curarlo. Poiché la malattia si aggrava, lo zio chiede al nipote di andare a cercare un sacerdote.
All’alba, il martedì 12 dicembre, Juan Diego si avvia verso la città. Quando si avvicina alla collina di Tepeyac, giudica preferibile fare una deviazione per non incontrare la Signora. Ma, improvvisamente, la vede venirgli incontro. Tutto confuso, le espone la situazione e promette di tornare non appena avrà trovato un sacerdote per dare l’olio santo allo zio.
«Figliolo caro, replica l’Apparizione, non affliggerti per la malattia di tuo zio, perché egli non morirà. Ti assicuro che guarirà… Va’ fin in cima alla collina, cogli i fiori che ci vedrai e portameli».
Arrivato in cima, l’Indiano è stupefatto di trovarvi un gran numero di fiori sbocciati, rose di Castiglia, che spandono un profumo quanto mai soave. In questa stagione invernale, infatti, il freddo non lascia sussistere nulla, ed il luogo è troppo arido per permettere la coltura dei fiori. Juan Diego coglie le rose, le deposita nel mantello, o tilma, poi ridiscende dalla collina.
«Figlio caro, dice la Signora, questi fiori sono il segno che darai al vescovo… Questo lo disporrà a costruire il tempio che gli ho chiesto». Juan Diego corre al vescovado.
 Quando arriva, i domestici lo fanno aspettare per lunghe ore. Stupiti che sia tanto paziente, e incuriositi da quel che porta nella tilma, finiscono per avvertire il vescovo, il quale, malgrado si trovi in compagnia di parecchie persone, lo fa entrare immediatamente. L’Indiano racconta la sua avventura, apre la tilma e lascia sparpagliarsi per terra i fiori ancora brillanti di rugiada. Con le lacrime agli occhi, Monsignor Zumárraga cade in ginocchio, ammirando le rose del suo paese. Ad un tratto, scorge, sulla tilma, il ritratto di Nostra Signora. Vi è Maria, come impressa sul mantello, bellissima e piena di dolcezza. I dubbi del vescovo lasciano il posto ad una solida fede e ad una speranza incantata. Prende la tilma e le rose, e le deposita rispettosamente nel suo oratorio privato. Il giorno dopo, si reca con Juan Diego sulla collina delle apparizioni. Dopo aver esaminato i luoghi, lascia che il veggente torni dallo zio. Juan Bernardino è effettivamente guarito. La guarigione si è prodotta all’ora stessa in cui Nostra Signora appariva a suo nipote. Racconta: «L’ho vista anch’io. È venuta proprio qui e mi ha parlato. Vuole che le si eriga un tempio sulla collina di Tepeyac e che si chiami il suo ritratto «Santa Maria di Guadalupe». Ma non mi ha spiegato perché». Il nome di Guadalupe è ben noto agli Spagnoli, poiché esiste nel loro paese un antichissimo santuario consacrato a Nostra Signora di Guadalupe.
La notizia del miracolo si sparge rapidamente; in poco tempo, Juan Diego diventa popolare: «Accrescerò la tua fama», gli aveva detto Maria; ma l’Indiano rimane sempre altrettanto umile. Per facilitare la contemplazione dell’Immagine, Monsignor Zumárraga fa trasportare la tilma nella cattedrale. Poi intraprende la costruzione di una chiesetta e di un eremo, per Juan Diego, sulla collina delle apparizioni. Il 25 dicembre seguente, il vescovo consacra la cattedrale alla Santissima Vergine, al fine di ringraziarla per i favori insigni di cui Ella ha ricolmato la diocesi; poi, in una magnifica processione, l’Immagine miracolosa viene portata verso il santuario di Tepeyac, che è appena stato ultimato. Per manifestare la loro gioia, gli Indiani tirano frecce. Una di esse, lanciata senza precauzioni, trafigge la gola di uno dei presenti che cade a terra, ferito mortalmente. Subentra un silenzio impressionante ed una supplica intensa sale verso la Madre di Dio. Improvvisamente, il ferito, che è stato depositato ai piedi dell’Immagine miracolosa, riprende i sensi e si rialza, pieno di vigore. L’entusiasmo della folla è al colmo.

Milioni d’Indiani diventati Cristiani
Juan Diego si sistema nel piccolo eremo e veglia alla manutenzione ed alla pulizia del luogo. La sua vita rimane molto modesta: coltiva con cura un campo messo a sua disposizione presso il santuario. Riceve i pellegrini, sempre più numerosi, parlando loro con molto piacere della Santa Vergine e raccontando senza stancarsi i particolari delle apparizioni. Gli vengono affidate intenzioni di preghiere di ogni genere. Ascolta, compatisce, conforta. Passa una gran parte del suo tempo libero in contemplazione davanti all’immagine della sua Signora; i suoi progressi sulla via della santità sono rapidi. Un giorno dopo l’altro, compie la sua missione di testimone, fino alla morte che avverrà il 9 dicembre 1548, diciassette anni dopo la prima apparizione.
Quando gli Indiani appresero la notizia delle apparizioni di Nostra Signora, si sparsero fra loro un entusiasmo ed una gioia indicibili. Rinunciando agli idoli, alle superstizioni, ai sacrifici umani ed alla poligamia, molti chiesero il Battesimo. Nei nove anni che seguirono le apparizioni, nove milioni di loro furono convertiti alla fede cristiana, vale a dire 3000 al giorno!
I particolari dell’Immagine di Maria colpiscono profondamente gli Indiani: quella donna è più grande del “dio-sole”, poiché appare in piedi davanti al sole; supera il “dio-luna”, poiché tiene la luna sotto ai suoi piedi; non è più di questo mondo, poiché è circondata di nuvole ed è tenuta al di sopra del mondo da un angelo; le mani giunte la mostrano in preghiera, il che significa che c’è qualcuno di più grande di lei…
Ma, ancora oggi, il mistero dell’Immagine miracolosa è grande. La tilma, vasto grembiule tessuto a mano con fibre di cactus, porta l’Immagine sacra di un’altezza di 1,43 m. Il viso della Vergine è perfettamente ovale e di un color grigio che tende al rosa. Gli occhi hanno un’intensa espressione di purezza e di dolcezza. La bocca sembra sorridere. La bellissima faccia, simile a quella di un’Indiana meticcia, è incorniciata da una chioma nera che, vista da vicino, comporta capelli di seta. Un’ampia tunica, di un rosa incarnato che non si è mai potuto riprodurre, la copre fino ai piedi. Il mantello, azzurro-verde, è bordato di un gallone d’oro e cosparso di stelle. Un sole di vari toni forma uno sfondo magnifico in cui brillano raggi d’oro.
La conservazione della tilma, dal 1531 ad oggi, rimane inspiegabile. In capo a più di quattro secoli, la stoffa, di qualità mediocre, conserva la stessa freschezza, la stessa vivacità di toni che aveva in origine. In confronto, una copia dell’Immagine di Nostra Signora di Guadalupe, dipinta con gran cura nel secolo XVIII e conservata nelle stesse condizioni climatiche di quella di Juan Diego, si è completamente degradata in pochi anni. All’inizio del secolo XX, periodo doloroso di rivoluzioni per il Messico, una carica di dinamite fu depositata da miscredenti sotto l’Immagine, in un vaso pieno di fiori. L’esplosione ha distrutto i gradini di marmo dell’altare maggiore, i candelabri, tutti i portafiori; il marmo dell’altare fu fatto a pezzi, il Cristo di ottone del tabernacolo si piegò in due. I vetri della maggior parte delle case circostanti la basilica si ruppero, ma quello che proteggeva l’Immagine non fu nemmeno incrinato; l’Immagine rimase intatta.

Le proprietà straordinarie dell’immagine
Nel 1936, uno studio realizzato su due fibre della tilma, una rossa ed una gialla, giunse a conclusioni stupefacenti.
Le fibre non contengono nessun colorante noto. L’oftalmologia e l’ottica confermano la natura inspiegabile dell’immagine: essa assomiglia ad una diapositiva proiettata sul tessuto. Un esame approfondito mostra che non vi è nessuna traccia di disegno o di schizzo sotto il colore, anche se ritocchi perfettamente riconoscibili sono stati realizzati sull’originale, ritocchi che, del resto, si degradano con l’andar del tempo; inoltre, il supporto non ha ricevuto nessun appretto, il che sembrerebbe inspiegabile se si trattasse veramente di una pittura, poiché, anche su una tela più fine, si mette sempre un rivestimento, non fosse che per evitare che la tela assorba la pittura e che i fili affiorino alla superficie. Non si distingue nessuna pennellata. A seguito di un esame a raggi infrarossi, effettuato il 7 maggio 1979, un professore della NASA scrive: «Non c’è nessun modo di spiegare la qualità dei pigmenti utilizzati per la veste rosa, il velo azzurro, il volto e le mani, né la persistenza dei colori, né la freschezza dei pigmenti in capo a parecchi secoli durante i quali avrebbero dovuto normalmente degradarsi… L’esame dell’Immagine è stata l’esperienza più sconvolgente della mia vita».
Certi astronomi hanno constatato che tutte le costellazioni presenti nel cielo nel momento in cui Juan Diego apre la tilma davanti al vescovo Zumárraga, il 12 dicembre 1531, si trovano al loro posto sul mantello di Maria. Si è anche scoperto che, applicando una carta topografica del Messico centrale sulla veste della Vergine, le montagne, i fiumi ed i laghi principali coincidono con l’ornamentazione della veste medesima.
Esami oftalmologici giungono alla conclusione che l’occhio di Maria è un occhio umano che sembra vivo, ivi inclusa la retina in cui si riflette l’immagine di un uomo con le mani aperte: Juan Diego. L’immagine nell’occhio ubbidisce alle leggi note dell’ottica, in particolare a quella che afferma che un oggetto in piena luce può riflettersi tre volte nell’occhio (legge di Purkinje-Samson). Uno studio posteriore ha permesso di scoprire nell’occhio, oltre al veggente, Monsignor Zumárraga e parecchi altri personaggi, presenti quando l’immagine di Nostra Signora è apparsa sulla tilma. Infine, la rete venosa normale microscopica sulle palpebre e la cornea degli occhi della Vergine è perfettamente riconoscibile. Nessun pittore umano avrebbe potuto riprodurre simili particolari.

Una donna incinta di tre mesi
Misure ginecologiche hanno stabilito che la Vergine dell’Immagine ha le dimensioni fisiche di una donna incinta di tre mesi. Sotto la cintura che trattiene la veste, al posto stesso dell’embrione, spicca un fiore con quattro petali: il Fiore solare, il più familiare dei geroglifici degli Aztechi che simboleggia per loro la divinità, il centro del mondo, del cielo, del tempo e dello spazio. Dal collo della Vergine pende una spilla il cui centro è adorno di una piccola croce, che ricorda la morte di Cristo sulla Croce per la salvezza di tutti gli uomini. Vari altri particolari dell’Immagine di Maria fanno di essa uno straordinario documento per la nostra epoca, che li può constatare grazie alle tecniche moderne.
Così la scienza, che ha spesso servito quale pretesto per l’incredulità,  oggi ci aiuta a mettere in evidenza segni che erano rimasti sconosciuti per secoli e secoli e che non può spiegare. L’immagine di Nostra Signora di Guadalupe porta un messaggio di evangelizzazione: la Basilica di Città del Messico è un centro «dal quale scorre un fiume di luce del Vangelo di Cristo, che si diffonde su tutta la terra attraverso l’Immagine misericordiosa di Maria» (Giovanni Paolo II, 12 dicembre 1981).
 Inoltre, con il suo intervento in favore del popolo azteco, la Vergine ha contribuito alla salvezza di innumerevoli vite umane, e la sua gravidanza può esser interpretata come un appello speciale in favore dei nascituri e della difesa della vita umana; tale appello è di grande attualità ai giorni nostri, in cui si moltiplicano e si aggravano le minacce contro la vita delle persone e dei popoli, soprattutto quando si tratta di una vita debole ed inerme. Il Concilio Vaticano II ha deplorato con forza i crimini contro la vita umana: “Tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario, TUTTO CIÒ CHE VIOLA L’INTEGRITÀ’ DELLA PERSONA UMANA… (…); tutte queste cose, e altre simili, sono certamente VERGOGNOSE. Mentre GUASTANO LA CIVILTÀ UMANA, disonorano coloro che così si comportano più ancora che quelli che le subiscono e ledono grandemente l’onore del Creatore” (« Gaudium et Spes », n.27).
Di fronte a tali flagelli, che si sviluppano grazie ai progressi scientifici e tecnici, e che beneficiano di un ampio consenso sociale e di riconoscimenti legali, invochiamo Maria con fiducia. Essa è un «modello incomparabile di accoglienza della vita e di sollecitudine per la vita… Mostrandoci suo Figlio, ci assicura che in Lui le forze della morte sono già state vinte» (Giovanni Paolo II, Evangelium vitæ, 25 marzo 1995, nn. 102, 105). «In gigantesco duello si sono battute la morte e la vita. Il Signore della vita, già morto, ora vive e regna» (Sequenza di Pasqua).
Domandiamo a San Juan Diego, canonizzato da Papa Giovanni Paolo II il 31 luglio 2002, di ispirarci una vera devozione per la nostra Madre Celeste, poiché «la compassione di Maria si estende a tutti coloro che la chiedono, non fosse che con un semplice saluto: “Ave, Maria…”» (Sant’Alfonso de Liguori). Lei, che è Madre di Misericordia, ci otterrà la Misericordia di Dio, specialmente se saremo caduti in peccati gravi.

tratto da http://www.fuocovivo.org
le immagini sono tratte da ricerche sul web

Publié dans:FESTE DI MARIA, MARIA VERGINE |on 11 décembre, 2012 |Pas de commentaires »
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