Archive pour décembre, 2012

Papa Benedetto XVI: La preghiera e la Santa Famiglia di Nazaret

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20111228_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 28 dicembre 2011

La preghiera e la Santa Famiglia di Nazaret

Cari fratelli e sorelle,

l’odierno incontro si svolge nel clima natalizio, pervaso di intima gioia per la nascita del Salvatore. Abbiamo appena celebrato questo mistero, la cui eco si espande nella liturgia di tutti questi giorni. È un mistero di luce che gli uomini di ogni epoca possono rivivere nella fede e nella preghiera. Proprio attraverso la preghiera noi diventiamo capaci di accostarci a Dio con intimità e profondità. Perciò, tenendo presente il tema della preghiera che sto sviluppando in questo periodo nelle catechesi, oggi vorrei invitarvi a riflettere su come la preghiera faccia parte della vita della Santa Famiglia di Nazaret. La casa di Nazaret, infatti, è una scuola di preghiera, dove si impara ad ascoltare, a meditare, a penetrare il significato profondo della manifestazione del Figlio di Dio, traendo esempio da Maria, Giuseppe e Gesù.
Rimane memorabile il discorso del Servo di Dio Paolo VI nella sua visita a Nazaret. Il Papa disse che alla scuola della Santa Famiglia noi «comprendiamo perché dobbiamo tenere una disciplina spirituale, se vogliamo seguire la dottrina del Vangelo e diventare discepoli del Cristo». E aggiunse: «In primo luogo essa ci insegna il silenzio. Oh! se rinascesse in noi la stima del silenzio, atmosfera ammirabile ed indispensabile dello spirito: mentre siamo storditi da tanti frastuoni, rumori e voci clamorose nella esagitata e tumultuosa vita del nostro tempo. Oh! silenzio di Nazaret, insegnaci ad essere fermi nei buoni pensieri, intenti alla vita interiore, pronti a ben sentire le segrete ispirazioni di Dio e le esortazioni dei veri maestri» (Discorso a Nazaret, 5 gennaio 1964).
Possiamo ricavare alcuni spunti sulla preghiera, sul rapporto con Dio, della Santa Famiglia dai racconti evangelici dell’infanzia di Gesù. Possiamo partire dall’episodio della presentazione di Gesù al tempio. San Luca narra che Maria e Giuseppe, «quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme, per presentarlo al Signore» (2,22). Come ogni famiglia ebrea osservante della legge, i genitori di Gesù si recano al tempio per consacrare a Dio il primogenito e per offrire il sacrificio. Mossi dalla fedeltà alle prescrizioni, partono da Betlemme e si recano a Gerusalemme con Gesù che ha appena quaranta giorni; invece di un agnello di un anno presentano l’offerta delle famiglie semplici, cioè due colombi. Quello della Santa Famiglia è il pellegrinaggio della fede, dell’offerta dei doni, simbolo della preghiera, e dell’incontro con il Signore, che Maria e Giuseppe già vedono nel figlio Gesù.
La contemplazione di Cristo ha in Maria il suo modello insuperabile. Il volto del Figlio le appartiene a titolo speciale, poiché è nel suo grembo che si è formato, prendendo da lei anche un’umana somiglianza. Alla contemplazione di Gesù nessuno si è dedicato con altrettanta assiduità di Maria. Lo sguardo del suo cuore si concentra su di Lui già al momento dell’Annunciazione, quando Lo concepisce per opera dello Spirito Santo; nei mesi successivi ne avverte a poco a poco la presenza, fino al giorno della nascita, quando i suoi occhi possono fissare con tenerezza materna il volto del figlio, mentre lo avvolge in fasce e lo depone nella mangiatoia. I ricordi di Gesù, fissati nella sua mente e nel suo cuore, hanno segnato ogni istante dell’esistenza di Maria. Ella vive con gli occhi su Cristo e fa tesoro di ogni sua parola. San Luca dice: «Da parte sua [Maria] custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2, 19), e così descrive l’atteggiamento di Maria davanti al Mistero dell’Incarnazione, atteggiamento che si prolungherà in tutta la sua esistenza: custodire le cose meditandole nel cuore. Luca è l’evangelista che ci fa conoscere il cuore di Maria, la sua fede (cfr 1,45), la sua speranza e obbedienza (cfr 1,38), soprattutto la sua interiorità e preghiera (cfr 1,46-56), la sua libera adesione a Cristo (cfr 1,55). E tutto questo procede dal dono dello Spirito Santo che scende su di lei (cfr 1,35), come scenderà sugli Apostoli secondo la promessa di Cristo (cfr At 1,8). Questa immagine di Maria che ci dona san Luca presenta la Madonna come modello di ogni credente che conserva e confronta le parole e le azioni di Gesù, un confronto che è sempre un progredire nella conoscenza di Gesù. Sulla scia del beato Papa Giovanni Paolo II (cfr Lett. ap. Rosarium Virginis Mariae) possiamo dire che la preghiera del Rosario trae il suo modello proprio da Maria, poiché consiste nel contemplare i misteri di Cristo in unione spirituale con la Madre del Signore. La capacità di Maria di vivere dello sguardo di Dio è, per così dire, contagiosa. Il primo a farne l’esperienza è stato san Giuseppe. Il suo amore umile e sincero per la sua promessa sposa e la decisione di unire la sua vita a quella di Maria ha attirato e introdotto anche lui, che già era un «uomo giusto» (Mt 1,19), in una singolare intimità con Dio. Infatti, con Maria e poi, soprattutto, con Gesù, egli incomincia un nuovo modo di relazionarsi a Dio, di accoglierlo nella propria vita, di entrare nel suo progetto di salvezza, compiendo la sua volontà. Dopo aver seguito con fiducia l’indicazione dell’Angelo – «non temere di prendere con te Maria, tua sposa» (Mt 1,20) – egli ha preso con sé Maria e ha condiviso la sua vita con lei; ha veramente donato tutto se stesso a Maria e a Gesù, e questo l’ha condotto verso la perfezione della risposta alla vocazione ricevuta. Il Vangelo, come sappiamo, non ha conservato alcuna parola di Giuseppe: la sua è una presenza silenziosa, ma fedele, costante, operosa. Possiamo immaginare che anche lui, come la sua sposa e in intima consonanza con lei, abbia vissuto gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza di Gesù gustando, per così dire, la sua presenza nella loro famiglia. Giuseppe ha compiuto pienamente il suo ruolo paterno, sotto ogni aspetto. Sicuramente ha educato Gesù alla preghiera, insieme con Maria. Lui, in particolare, lo avrà portato con sé alla sinagoga, nei riti del sabato, come pure a Gerusalemme, per le grandi feste del popolo d’Israele. Giuseppe, secondo la tradizione ebraica, avrà guidato la preghiera domestica sia nella quotidianità – al mattino, alla sera, ai pasti -, sia nelle principali ricorrenze religiose. Così, nel ritmo delle giornate trascorse a Nazaret, tra la semplice casa e il laboratorio di Giuseppe, Gesù ha imparato ad alternare preghiera e lavoro, e ad offrire a Dio anche la fatica per guadagnare il pane necessario alla famiglia.
E infine, un altro episodio che vede la Santa Famiglia di Nazaret raccolta insieme in un evento di preghiera. Gesù, l’abbiamo sentito, a dodici anni si reca con i suoi al tempio di Gerusalemme. Questo episodio si colloca nel contesto del pellegrinaggio, come sottolinea san Luca: «I suoi genitori si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa» (2,41-42). Il pellegrinaggio è un’espressione religiosa che si nutre di preghiera e, al tempo stesso, la alimenta. Qui si tratta di quello pasquale, e l’Evangelista ci fa osservare che la famiglia di Gesù lo vive ogni anno, per partecipare ai riti nella Città santa. La famiglia ebrea, come quella cristiana, prega nell’intimità domestica, ma prega anche insieme alla comunità, riconoscendosi parte del Popolo di Dio in cammino e il pellegrinaggio esprime proprio questo essere in cammino del Popolo di Dio. La Pasqua è il centro e il culmine di tutto questo, e coinvolge la dimensione familiare e quella del culto liturgico e pubblico.
Nell’episodio di Gesù dodicenne, sono registrate anche le prime parole di Gesù: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo essere in ciò che è del Padre mio?» (2,49). Dopo tre giorni di ricerche, i suoi genitori lo ritrovarono nel tempio seduto tra i maestri mentre li ascoltava ed interrogava (cfr 2,46). Alla domanda perché ha fatto questo al padre e alla madre, Egli risponde che ha fatto soltanto quanto deve fare il Figlio, cioè essere presso il Padre. Così Egli indica chi è il vero Padre, chi è la vera casa, che Egli non fatto niente di strano, di disobbediente. E’ rimasto dove deve essere il Figlio, cioè presso il Padre, e ha sottolineato chi è il suo Padre. La parola «Padre» sovrasta quindi l’accento di questa risposta e appare tutto il mistero cristologico. Questa parola apre quindi il mistero, è la chiave al mistero di Cristo, che è il Figlio, e apre anche la chiave al mistero nostro di cristiani, che siamo figli nel Figlio. Nello stesso tempo, Gesù ci insegna come essere figli, proprio nell’essere col Padre nella preghiera. Il mistero cristologico, il mistero dell’esistenza cristiana è intimamente collegato, fondato sulla preghiera. Gesù insegnerà un giorno ai suoi discepoli a pregare, dicendo loro: quando pregate dite «Padre». E, naturalmente, non ditelo solo con una parola, ditelo con la vostra esistenza, imparate sempre più a dire con la vostra esistenza: «Padre»; e così sarete veri figli nel Figlio, veri cristiani.
Qui, quando Gesù è ancora pienamente inserito nella vita della Famiglia di Nazaret, è importante notare la risonanza che può aver avuto nei cuori di Maria e Giuseppe sentire dalla bocca di Gesù quella parola «Padre», e rivelare, sottolineare chi è il Padre, e sentire dalla sua bocca questa parola con la consapevolezza del Figlio Unigenito, che proprio per questo ha voluto rimanere per tre giorni nel tempio, che è la «casa del Padre». Da allora, possiamo immaginare, la vita nella Santa Famiglia fu ancora più ricolma di preghiera, perché dal cuore di Gesù fanciullo – e poi adolescente e giovane – non cesserà più di diffondersi e di riflettersi nei cuori di Maria e di Giuseppe questo senso profondo della relazione con Dio Padre. Questo episodio ci mostra la vera situazione, l’atmosfera dell’essere col Padre. Così la Famiglia di Nazaret è il primo modello della Chiesa in cui, intorno alla presenza di Gesù e grazie alla sua mediazione, si vive tutti la relazione filiale con Dio Padre, che trasforma anche le relazioni interpersonali, umane.
Cari amici, per questi diversi aspetti che, alla luce del Vangelo, ho brevemente tratteggiato, la Santa Famiglia è icona della Chiesa domestica, chiamata a pregare insieme. La famiglia è Chiesa domestica e deve essere la prima scuola di preghiera. Nella famiglia i bambini, fin dalla più tenera età, possono imparare a percepire il senso di Dio, grazie all’insegnamento e all’esempio dei genitori: vivere in un’atmosfera segnata dalla presenza di Dio. Un’educazione autenticamente cristiana non può prescindere dall’esperienza della preghiera. Se non si impara a pregare in famiglia, sarà poi difficile riuscire a colmare questo vuoto. E, pertanto, vorrei rivolgere a voi l’invito a riscoprire la bellezza di pregare assieme come famiglia alla scuola della Santa Famiglia di Nazaret. E così divenire realmente un cuor solo e un’anima sola, una vera famiglia. Grazie.

Omelia Sacra Famiglia (Anno C) : Gesù cresceva in sapienza, età e grazia

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Gesù cresceva in sapienza, età e grazia

mons. Vincenzo Paglia 

Sacra Famiglia (Anno C)

Vangelo: Lc 2,41-52  

Sono passati pochi giorni dal Natale e la liturgia ci porta subito a Nazareth per farci incontrare quella singolare famiglia. Con questa festa liturgica la Chiesa vuole sottolineare che anche Gesù ha avuto bisogno di una famiglia, ossia di un ambiente in cui essere circondato dall’affetto e dalle premure dei propri cari, anche se si da poco spazio nei Vangeli alla vita familiare di Gesù e si riportano solo alcuni episodi della sua infanzia. Da essi, tuttavia, si proietta una luce chiara su tutti i trent’anni vissuti a Nazareth. La frase finale del brano evangelico annunciato in questa domenica ne è come la sintesi: « Partì dunque con loro e tornò a Nazareth e stava loro sottomesso. E la madre custodiva nel suo cuore tutte queste cose. E Gesù cresceva in sapienza, in età e in grazia davanti a Dio e davanti agli uomini » (Lc 2, 51-52).
Queste poche parole valgono, appunto, i trent’anni di quella che chiamiamo la « vita nascosta » a Nazareth. A noi, malati di efficientismo, sorge immediata la domanda: perché Gesù ha vissuto tanto tempo così nascostamente? Non avrebbe potuto impiegare quegli anni, o almeno una parte di essi, in modo più fruttuoso, annunciando il Vangelo, guarendo i malati, aiutando insomma quanto più era possibile chiunque avesse bisogno? A parte la considerazione che non sappiamo cosa egli abbia fatto; tuttavia, se ponessimo maggiore attenzione al Vangelo forse ci sentiremmo rispondere: « Non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini »(Mc 8, 33). Certo è che quei trent’anni fanno comprendere ancor meglio le parole di Paolo: « Egli si è fatto simile agli uomini ». Sì, Gesù è vissuto in famiglia, come tutti, quasi a voler dire che la salvezza non è estranea alla vita ordinaria degli uomini. Dal Vangelo sappiamo che la vita a Nazareth è segnata dalla normalità: non ci sono miracoli o guarigioni, non sono riportate predicazioni, non si vedono folle che accorrono; tutto accade « normalmente », secondo le consuetudini di una pia famiglia israelita. Ebbene la festa odierna ci suggerisce che anche questi anni sono stati santi.
La famiglia di Gesù era una famiglia ordinaria, composta da persone che vivevano del lavoro delle proprie mani; quindi né miseri né benestanti, forse un po’ precari. Senza dubbio però erano esemplari: si volevano davvero bene, anche se probabilmente non mancarono incomprensioni, rimproveri ed anche correzioni, come si arguisce ad esempio dall’episodio dello smarrimento nel tempio che oggi abbiamo ascoltato. Quel giorno Maria e Giuseppe non capirono quello che Gesù stava facendo. Giunsero persino a rimproverarlo, come anche a noi accade talora di rimproverare il Signore perché non sta dove noi vogliamo, mentre è ben chiaro che dobbiamo essere noi a seguire Lui e non viceversa.
Certamente Giuseppe e Maria osservavano le tradizioni religiose d’Israele e sentivano l’obbligo dell’educazione di Gesù. Sapevano dalla Scrittura: « Questi precetti che ti do staranno nel tuo cuore: li insegnerai ai tuoi figli, li mediterai in casa e lungo il viaggio, andando a dormire e alzandoti » (Dt 6, 6). E sarebbe bello ripercorrere le tradizioni religiose di una pia famiglia ebraica del tempo per poter comprendere ancor più la vita di Gesù e della famiglia di Nazareth. Ci commuoveremmo nel conoscere anche noi le preghiere che i tre dicevano al mattino e alla sera; saremmo edificati nell’apprendere come Gesù adolescente affrontava i primi appuntamenti religiosi e civili, e come da giovane operaio lavorava con Giuseppe; saremmo attratti dal suo impegno nell’ascolto delle Scritture, nella preghiera dei salmi e in tante altre consuetudini. E quanto le mamme potrebbero apprendere dalle premure di Maria per quel figlio! Quanto i papà potrebbero ricavare dall’esempio di Giuseppe, uomo giusto, che dedicò la sua vita a sostenere e a difendere non se stesso ma il bambino e la madre!
Tuttavia c’è una profondità, in quella famiglia, che restò nascosta agli occhi dei contemporanei, ma che a noi viene svelata dal Vangelo, ed è la « centralità » di Gesù in quel nucleo familiare. Questo è il « tesoro » della « vita nascosta »: Maria e Giuseppe avevano accolto quel Figlio, lo custodivano e lo vedevano crescere in mezzo a loro, anzi dentro il loro cuore, e aumentava parimenti il loro affetto e la loro comprensione. Ecco perché la famiglia di Nazareth è santa: perché era centrata su Gesù. Quell’angoscia che sentirono quando non riuscivano più a trovare Gesù dodicenne, dovrebbe essere la nostra angoscia quando siamo lontani da lui. Riusciamo a stare più di tre giorni, talora, senza neppure ricordarci del Signore, senza leggere il Vangelo, senza sentire il bisogno della sua amicizia. Maria e Giuseppe si mossero e lo trovarono, non tra i parenti o i conoscenti – è difficile trovarlo lì – ma nel tempio, tra i dottori.
Anche noi troviamo Gesù in questa celebrazione. Egli parla anche a noi più grandi e smaliziati, pieni della nostra saggezza e induriti nelle nostre certezze. E ci offre la lezione più importante, quella di essere tutti figli di Dio. Ce lo dice fin da quando è bambino, fin dalle prime pagine del Vangelo; e ce lo ripete alla fine, dall’alto della croce quando si affida totalmente al Padre come un figlio. L’evangelista nota, infine, che Gesù a Nazareth « cresceva in sapienza, in età e in grazia, davanti a Dio e davanti agli uomini ». Anche noi dobbiamo crescere nella conoscenza e nell’amore di Gesù. Nazareth, villaggio periferico della Galilea e luogo della vita ordinaria della Santa Famiglia, rappresenta perciò l’intera vita del discepolo che, appunto, accoglie, custodisce e fa crescere il Signore nel proprio cuore e nella propria vita. Non è allora solo un caso che « Nazareth » significhi « Colei che custodisce ». Nazareth è Maria, che « custodiva nel suo cuore tutte queste cose ». Nazareth è la patria e la vocazione di ogni discepolo. Anche se il mondo continuerà a dire: « Da Nazareth può mai venire qualcosa di buono? ».

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Saint John the Evangelist with the Poisoned Cup, ARTIST: Alonso Cano

Saint John the Evangelist with the Poisoned Cup, ARTIST: Alonso Cano dans immagini sacre 7244

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Publié dans:immagini sacre |on 27 décembre, 2012 |Pas de commentaires »

SAN GIOVANNI EVANGELISTA – LA VITA DELL’APOSTOLO

http://www.chiesamadresglapunta.it/index.php?option=com_content&view=article&id=42&Itemid=37

SAN GIOVANNI EVANGELISTA

La Vita dell’Apostolo

Giuseppe Cutuli

La Vita

San Giovanni, apostolo ed evangelista, è tradizionalmente identificato come l’autore del Vangelo di Giovanni, delle tre Lettere di Giovanni e della Apocalisse, facenti parte del Nuovo Testamento della Bibbia cristiana. Giovanni nasce secondo la tradizione a Betsaida di Galilea (nel nord della Palestina), località situata sulle sponde del lago di Genezareth detto anche Mar di Galilea. Betsaida significa « casa della pesca ». Figlio di Zebedeo e di Salomè, si dedica alla pesca come suo padre che sembra, a detta dei Vangeli, non essere stato un semplice pescatore ma un vero e proprio imprenditore della pesca in quanto aveva alle sue dipendenze delle maestranze. Nei vangeli capita talvolta di incontrare un riferimento ai « figli di Zebedeo » e cioè a Giovanni e Giacomo. Giovanni avrebbe incontrato Gesù di Nazaret quando già era uno dei discepoli di un maestro delle scritture, Giovanni il Battista, precursore e profeta di Gesù, imparentato, stando alle fonti cristiane, con lo stesso Gesù essendo Elisabetta, madre di Giovanni, parente di Maria, la madre di Gesù. Il Battista indicò Gesù con queste parole: « Ecco l’agnello di Dio », dopodiché fu lo stesso Giovanni il Battista a spingere i suoi due discepoli a lasciarlo per poter seguire il nuovo maestro. Presumibilmente doveva avere meno di venti anni quando avvenne questo incontro. (San Girolamo, « De Viris Illustribus »). Tutto questo accadeva vicino a Betania sul Giordano.
Giovanni e Andrea fratello di Pietro (anch’egli in quel tempo sarebbe stato discepolo del Battista) furono i primi due apostoli del maestro di Nazaret. Gesù iniziava allora a diffondere il suo insegnamento, che, secondo alcune recenti ipotesi, risentiva anche della visione dell’ebraismo propria degli esseni nome che in ebraico significa « i medici », « i terapeuti ». Subito dopo, secondo le fonti cristiane, si aggiunsero a questi primi due apostoli rispettivamente Simon Pietro fratello di Andrea e Giacomo fratello di Giovanni. In seguito i due figli di Zebedeo vennero soprannominati per la loro impetuosità « i figli del tuono » dallo stesso Rabbi Gesù. Giovanni viene descritto dai Vangeli di carattere risoluto (Marco 3,17; Luca 9,54), e non alieno da ambizioni (Marco 10, 35-37); le fonti ci dicono che era il più giovane fra i discepoli. Giovanni si rivelerà in seguito colui che più di ogni altro, anche tra quelli più intimi del maestro, avrà capito il vero senso di questo nuovo regno: il « Regno del Figlio dell’Uomo » opponendosi ad ogni sorta di interpretazione mondana della figura della persona di Gesù pur mantenendosi radicalmente fedele alla concezione di Dio quale vero uomo anche in funzione antignostica, cioè di coloro i quali invece, trasportati anche dalla polemica nel loro tentativo di combattere quelle che loro definivano le rozze concezioni cristiane della Grande Chiesa che aveva fatto scempio del pensiero aristocratico del Rabbi di Nazareth, continuavano a mantenere separati e in una contraddizione irriducibile lo spirito e la materia. Le scritture cristiane ci dicono che Giovanni non abbandonò mai il maestro nemmeno nell’ora ultima delle persecuzioni tanto da essere presente sotto la croce dove concluse i suoi 33 anni nel mondo, oltre alla madre di Gesù, Maria di Nazareth, a Maria Maddalena e alla sua stessa madre Salomé, ciò che ha fatto dire ad alcune discepole di Gesù dei millenni seguenti che le « apostole » dimostrarono di avere più coraggio degli stessi apostoli nominati ufficialmente quali « apostoli » da Gesù stesso, sennonché c’è un’eccezione: Giovanni appunto che stette accanto al maestro e amico fino alla fine. Secondo la tradizione cristiana, durante l’ultima cena posò il capo sul petto di Cristo. Testimone della trasfigurazione e dell’agonia del Signore, era presente ai piedi della croce, dove Gesù gli affidò la Madre. Insieme a Pietro vide il sepolcro vuoto e credette nella resurrezione del Signore.
Dopo la morte di Gesù si sarebbe stabilito a Gerusalemme con gli altri della comunità dei nazareni, come venivano chiamati dagli altri professanti la religione ebraica e considerati come una semplice setta dell’ebraismo. Avvennero di lì a poco, secondo le fonti neotestamentarie, la resurrezione e l’ascensione del loro maestro. Segue poco dopo quell’altro avvenimento straordinario per questa comunità che viene chiamato come l’evento della Pentecoste. Già prima della crocefissione del « Rabbi » gli apostoli più vicini al maestro e quindi più intimi erano sempre stati Pietro, Giacomo, Andrea e Giovanni. In particolare quest’ultimo verrebbe chiamato in alcuni testi del Nuovo Testamento il prediletto del Signore (Giovanni 13,23; 19,26, 20,2; 21,7).
Paolo di Tarso racconta che dopo la morte del maestro, le colonne della chiesa di Gerusalemme sarebbero stati appunto questi quattro apostoli. Dopo la Pentecoste Giovanni è sempre a Gerusalemme e dagli Atti degli apostoli risulta come una delle figure più autorevoli della Chiesa nascente ed è nominato subito dopo Pietro (Atti 3, 1-11; 4, 13-19; 8, 14), quando tra il 36 e il 38 ci sarebbe stata una prima ondata di persecuzioni. Gli scritti cristiani ci dicono che in quella occasione Pietro e Giovanni vennero incarcerati e flagellati, in quanto agli occhi delle autorità civili sarebbero stati ritenuti i principali responsabili della comunità. Dopo le persecuzioni subite a Gerusalemme, Giovanni si recò, stando alle scritture, con Pietro in Samaria, dove avrebbe svolto un’intensa opera di evangelizzazione (Atti 8, 14-15). Le fonti cristiane ci parlano di una seconda ondata di persecuzioni. Pietro lascia Gerusalemme e la guida della comunità passa a Giacomo il Minore, mentre nel 44 Giacomo di Zebedeo (detto anche Giacomo il Maggiore) fratello di Giovanni subisce il martirio. Giovanni rimarrà ancora a Gerusalemme dove condividerà la storia di questa comunità sino a che il rinnovarsi e l’intensificarsi delle persecuzioni lo costringeranno a stabilirsi, insieme a Maria di Nazaret, a Mileto, dove era presente una comunità di nazareni. Alcuni anni prima, nel 52, a Efeso, dove era una importante comunità ebraica, era giunto Paolo di Tarso, primo missionario della buona novella, e qui si era stabilito per circa tre anni. Partito poi da qui, vi lasciò i coniugi Aquila e Priscilla che proseguirono il lavoro da lui iniziato nell’evangelizzare la città e la regione intera (Atti degli Apostoli).
A questo primo viaggio di Paolo fece seguito un suo secondo ed ultimo viaggio in questa città, dopodiché si avviò verso l’ultima tappa della sua opera di missionario, Roma, dove secondo la tradizione cattolica già era Pietro; affidò quindi la comunità a Timoteo suo discepolo di lunga data (lettere di Paolo a Timoteo). Dopo la morte di Timoteo vescovo di Efeso, Giovanni si trovò ad ereditare tutto il lavoro svolto nella chiesa di Efeso da Paolo e dai suoi collaboratori. Giovanni infatti, sembra anche a seguito di una visione in cui lo stesso Gesù gli apparve, partì da Mileto dove altrimenti forse sarebbe rimasto per il resto della sua vita e cominciò a governare la chiesa di Efeso e le altre comunità cristiane dell’Asia Minore. Recandosi a Efeso, portò con sé Maria di Nazaret madre di Gesù, poiché gli era stata affidata dallo stesso Gesù nel momento del suo commiato dalla Terra. Ricerche archeologiche condotte alla fine del secolo scorso, sulla base delle visioni della stigmatizzata monaca agostiniana Anna Caterina Emmerich (1774 – 1824), hanno permesso il ritrovamento a circa 9 Km a sud di Efeso della casa dove la tradizione dice che abitò e morì Maria di Nazaret. Giovanni giunse nella città di Efeso che contava allora circa 200 mila abitanti.
Questi basavano la loro economia vivendo del commercio e del traffico portuale. In questa grande città l’apostolo svolse la sua opera di evangelizzatore e di guida delle comunità tutte dell’Asia Minore che facevano riferimento a lui quale testimone, come amava definirsi. Accadde però che nell’anno 89 si scatenò una nuova ondata di persecuzioni nei confronti dei cristiani ad opera dell’imperatore Domiziano. Tertulliano racconta che Giovanni venne arrestato e condotto a Roma, quindi torturato nei pressi di Porta Latina e infine condannato a morte (sul luogo venne costruita la chiesa di San Giovanni in Oleo). Di lì a poco questa pena però verrà commutata in quella dell’esilio nell’isola di Patmos, dove Giovanni soggiornò a lungo. In ricordo di ciò all’apostolo Giovanni sarà dedicata la cattedrale di Roma, San Giovanni in Laterano. A Patmos Giovanni riuscì a convertire quasi tutta l’isola. Durante la sua permanenza a Patmos acquisì il titolo di Giovanni il veggente: fu infatti a Patmos che dettò ai suoi discepoli le visioni che ebbe sulla fine del mondo e il trionfo del regno del figlio dell’uomo che costituiranno il nucleo di quel libro, l’Apocalisse che chiude la serie dei libri che costituiscono la Bibbia cristiana. Dopo la morte dell’imperatore Domiziano nel 96, sotto l’imperatore Nerva, Giovanni fece ritorno a Efeso. Morì in tardissima età, si dice intorno ai cento anni, ad Efeso nel periodo in cui regnava l’imperatore Traiano (98-117).
Riguardo alla morte di Giovanni è stato tramandato un racconto secondo il quale fu Giovanni stesso che sentendo arrivare la sua ultima ora, nel giorno di Pasqua, si scavò una fossa dopodiché vi si sdraiò e così morì. All’ultimo periodo della sua vita terrena, trascorso nuovamente ad Efeso, risale invece l’elaborazione del Vangelo secondo Giovanni e delle tre lettere. Il Vangelo secondo Giovanni è stato scritto originariamente in greco. Il testo, tuttavia, contiene latinismi ed ebraismi. Questo vangelo è molto diverso rispetto agli altri: ci sono molte meno parabole, meno miracoli, non vi è accenno all’Eucaristia, al Padre nostro, alle beatitudini. Probabilmente il testo è stato scritto da più persone e in tempi diversi, per essere completato intorno all’anno 100. Il famoso « Prologo » o « Inno al Logos » dà inizio a questo vangelo: ci è pervenuto nei reperti risalenti all’anno 200 del Papiro 66 detto anche Papiro Bodmer II attualmente conservato a Ginevra.
Alcuni hanno formulato l’ipotesi che il prologo giovanneo sia una rielaborazione di un inno al logos preesistente. «In principio era il Logos e il Logos che era in principio era presso Dio e Dio era il Logos questi, il Logos, in principio era presso Dio. Tutto ciò che è venuto ad essere è venuto ad essere per mezzo del Logos che era in principio e senza il Logos che era in principio nulla sarebbe venuto ad essere di ciò che è venuto ad essere. Nel Logos che in principio era la vita e questa vita era la vera luce degli uomini e questa luce splende ancora nelle tenebre poiché le tenebre non sono mai riuscite ad offuscarla in maniera definitiva.» (Giovanni 1,1-5) A partire da San Girolamo l’utilizzo che Giovanni fa del termine « Logos » viene reso con la traduzione in latino « Verbum »; da allora anche in italiano per lo più il concetto greco-giovanneo di Logos viene assimilato a « il Verbo ».
Come si può notare il resoconto-testimonianza della buona notizia così come viene riportata nell’interpretazione che Giovanni ne dà, alla luce della sua grande capacità riflessiva, inizia con le stesse parole con cui inizia l’interpretazione della storia riportata dalla Bibbia ebraica dalla quale lui stesso proviene e alla quale è stato formato sin dall’infanzia: « Bereshit » che in greco fa « En Archè » ovvero « In Principio ». In questo modo il prologo giovanneo che annuncia il tema portante tutta la visione giovannea del logos che era in principio, ripete lo schema della genesi riallacciandosi così a tutta la tradizione dell’ebraismo dell’antico testamento, ma rielaborandola dal punto di vista di quanto lui aveva sperimentato nel corso della sua feconda oltre che lunga esistenza, e in questa continuità riflessiva introduce quello che è il tema centrale del quarto vangelo, ovvero l’incarnazione di questo logos. Benché sia sempre stato visto con interesse e alta considerazione negli ambienti cristiani definiti gnostici, tuttavia Giovanni non esiterà a polemizzare anche con essi ribadendo la sua posizione sulla questione dell’incarnazione del logos che era in principio: Gesù non solo come vero Dio ma anche come vero uomo. Gli gnostici, pur ribadendo la divinità della persona Gesù tenevano in poco conto l’umanità di Gesù se non addirittura la negavano, giungendo ad affermare che Gesù era spiritualmente talmente al di sopra dei suoi aguzzini – definiti esseri puramente materiali, totalmente condizionati dalla materia che per loro equivaleva a « ignoranti » – che pur inchiodato sulla croce non avrebbe minimamente sofferto. La questione dell’incarnazione del Dio Vivente non è una questione marginale: il farsi uomo di Dio e il farsi Dio dell’uomo sono infatti il vero novum storico rappresentato dall’evento Gesù di Nazaret. La parola « Apocalisse » è parola di origine greca che significa letteralmente « Rivelazione ».
Il testo giovanneo, che riporta le visioni avute dall’ultimo apostolo sopravvissuto durante il suo forzato esilio nell’isola, venne messo in scritto da lui medesimo o, presumibilmente, sotto sua dettatura da alcuni suoi collaboratori e discepoli, durante il lungo esilio nell’isola di Patmos. L’autore esordisce nella forma di sette lettere inviate alle sette comunità giovannee dell’Asia minore, facenti parte, per così dire nel linguaggio attuale, della diocesi del vescovo di Efeso Giovanni. Si tratta delle chiese di Efeso, Tiatira, Smirne, Sardi, Filadelfia, Pergamo, Laodicea. Mentre nell’ »Inno al Logos » contenuto nel suo Vangelo, Giovanni tratta delle origini della storia di questo mondo, in questo testo tratta dell’ultima fase della storia di questo mondo e della sua imminente e inevitabile fine. È questo il tema che Giovanni tratta con la sua rivelazione sia pure in un linguaggio visionario e simbolico che a dura prova ha messo le capacità interpretative di tutti coloro che lungo i secoli si sono avvicinati e avvicendati a questo enigmatico testo. Di 404 versetti, 278 contengono almeno una citazione dell’Antico Testamento. I libri che hanno maggiormente influenzato l’Apocalisse sono i libri dei Profeti, principalmente Daniele, Ezechiele, Isaia, Zaccaria e poi anche il libro dei Salmi ed Esodo. Dell’abate e monaco cistercense in rotta con il suo ordine Gioacchino da Fiore ci è pervenuto un « Commentario dell’Apocalisse » e un « Tractatus super quattuor evangelia ». Tommaso d’Aquino scrisse un « Commentario al vangelo di Giovanni »
Chiamato fin da tempi remoti con l’appellativo di Aquila spirituale, San Giovanni Evangelista viene rappresentato in molti luoghi di culto con il simbolo dell’aquila. Se ne celebra la festa il 27 dicembre. San Giovanni Evangelista è stato un soggetto molto raffigurato nella storia dell’arte.

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Torna a brillare la Menorah dell’esilio

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Torna a brillare la Menorah dell’esilio

Esistono oggetti che condensano in sé storia, miti, leggende, emozioni che vanno ben al di là di quanto qualsiasi approccio razionale possa accettare, così come esistono storie che hanno una portata molto superiore a quella che si potrebbe cogliere a una prima lettura. Alcuni di questi oggetti prendono nei secoli un carattere così mitologico da trovarsi al di fuori di ogni possibilità di comprensione, o sono talmente studiati, e con i risultati più eterogenei, da rendere impossibile una risposta definitiva. Altri perdono ogni contatto con la realtà per diventare addirittura, dopo un lungo percorso, protagonisti di fiabe per bambini. Ad esempio lo sviluppo della leggenda del Graal è stato tracciato in dettaglio dagli storici culturali: sarebbe una leggenda orale gotica, derivata forse da alcuni racconti folcloristici precristiani e trascritta in forma di romanzo tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII secolo, fino ai Cavalieri della Tavola rotonda. Poi ci sono i casi che riuniscono tutte queste caratteristiche (fino ad arrivare al finale più classico: la sparizione) e che sono diventati il simbolo di un popolo. E di uno Stato. È dunque evidente che restare indifferenti alla recentissima scoperta fatta a Roma è impossibile. Sono solo poche scaglie di colore, un pigmento giallo ocra brillante, ma sono loro a saldare in un unico momento di grande portata emotiva gli elementi di una storia millenaria. Si tratta della scoperta della colorazione originale della Menorah scolpita in uno dei bassorilievi dell’Arco di Tito. Una traccia di colore che in una specie di folle vortice temporale mette insieme narrazione biblica e storia, secoli di sofferenze e tradizione ebraica, miti, leggende, orgoglio. Tutto anche grazie alle più sofisticate tecniche di ricostruzione digitale e agli spettrometri 3D utilizzati dall’équipe del professor Steven Fine, che guida il progetto di restauro digitale dell’Arco di Tito portato avanti dal Center for Israel Studies della Yeshiva University. Già prima della scoperta l’entusiasmo era palpabile: “L’idea che l’Arco di Tito potesse avere un aspetto differente da quello attuale, che avremmo potuto comprendere meglio, che saremmo forse stati in grado di vederlo così come lo vedevano all’epoca è entusiasmante”.
E ora lo straordinario studio archeologico internazionale, guidato dallo Yeshiva University Center con la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, ha concluso una mappatura tridimensionale dell’Arco di Tito. Il lavoro verrà presentato nella sua interezza il prossimo autunno ma è già evidente che fra le scoperte più emozionanti c’è proprio quella di alcune tracce di giallo ocra sulla Menorah che gli ebrei deportati da Gerusalemme dovettero portare nella capitale dell’Impero come trofeo dei vincitori. Si tratta di una scoperta sensazionale per il mondo scientifico e di una notizia di portata travolgente per il mondo ebraico. Lo stesso Steven Fine ha affermato: “La Menorah raffigurata nell’Arco di Tito è stato il simbolo della determinazione ebraica per duemila anni e adesso è il simbolo del moderno Stato di Israele. Trovarci di fronte al suo colore originale è stato un autentico tuffo al cuore. Sono impaziente di vedere cosa altro troveremo”.
La storia della Menorah inizia con queste parole: “Farai una Menorah d’oro puro, tutta di un pezzo: il piedistallo e il fusto, i suoi calici, i suoi boccioli e i suoi fiori da essa saranno” (Esodo 25:31). E, come ha spiegato il rav Adolfo Locci in alcuni suoi recenti interventi su moked.it, secondo Ben Ish Chay (Yosef Chayym di Bagdad 1832-1909) la Menorah è oggi simboleggiata dalla Amidah che si recita tre volte al giorno. Inoltre la recitazione dell’Amidah è uno degli strumenti per restaurare la Shekhinah, la presenza divina che, come la Menorah, deve avere alcune caratteristiche. Dev’essere di oro puro (cioè recitata con espressione chiara e senza errori) e tutta di un pezzo (ossia detta in un unica composizione, senza interruzioni) compresi il piedistallo – le preghiere di supplica che seguono la Amidah – e il fusto – le benedizioni che la compongono. I suoi calici rappresentano le singole lettere e parole che formano le benedizioni; i suoi boccioli simboleggiano il luogo del pensiero dell’uomo che deve esprimersi nella recitazione dell’Amidah, i suoi fiori sono le aggiunte che i maestri hanno permesso di fare all’interno delle benedizioni. Ben Ish Chay sembra dirci, svelando questa simbologia nascosta, che quando recitiamo l’Amidah, è come se stessimo davanti alla Menorah, anzi, come se noi stessi fossimo una Menorah. Spiegano i Maestri anche che l’olio per la Menorah, la cui luce simboleggia la Torah, rappresenta lo sforzo diretto di ognuno di noi nella propria attività di studio. Uno studio che deve essere continuo, perenne, fonte necessaria per alimentare la Torah come l’olio lo era per la luce che irradiava dalla Menorah. Quella originale, poi, fatta durante gli anni trascorsi a vagare nel deserto, era di forma meravigliosa: si narra che Mosè avesse gettato dell’oro nel fuoco e che essa si fosse formata da sola; invece quella rappresentata nell’Arco di Tito è probabilmente una delle dieci menoroth fatte da Hiram per il Tempio di Salomone e non l’originale mosaica, che era stata nascosta prima delle distruzione del Primo Tempio.
In definitiva sussistono varie ipotesi su dove possa trovarsi l’orignale della Menorah rappresentata nel bassorilievo: secondo alcuni è proprio a Roma, in Vaticano (addirittura il ministro israeliano Shimon Shitrit, nel 1996, ne chiese informazioni al papa), oppure nascosta in una grotta a Gerusalemme sotto la spianata del Tempio, o ancora nel Tevere, dove furono fatte anche alcune ricerche, vicino all’isola Tiberina. Ma potrebbe essere anche arrivata fino a Costantinopoli… Secondo il professor Fine, in verità, né quella né gli altri oggetti depredati dal Tempio di Gerusalemme sarebbero sopravvissuti all’antichità: furono probabilmente fusi, all’epoca della distruzione dell’Impero romano, nel V secolo. L’unica traccia tangibile è quindi in quell’Arco che, a sua volta, ha un altissimo valore simbolico per il popolo ebraico: un arco trionfale di più di quindici metri di altezza che ricorda a tutti il momento della Diaspora, al punto che per secoli la legge ebraica ha proibito agli ebrei di passarvi sotto, per non rischiare di dare in alcun modo onore ai conquistatori romani. E ora, a distanza di quasi due millenni, a pensare che proprio studiosi della Yeshiva University hanno portato alla scoperta di quel piccolo frammento color ocra, è inevitabile confessare la comparsa di un leggero senso di rivalsa.

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Sermon of St. Stephen

Sermon of St. Stephen dans immagini sacre CX4K2022

http://www.srpskoblago.org/Archives/Decani/exhibits/Collections/ActsApostles/CX4K2022_l.html

Publié dans:immagini sacre |on 26 décembre, 2012 |Pas de commentaires »

Papa Benedetto : Stefano il Protomartire

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2007/documents/hf_ben-xvi_aud_20070110_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 10 gennaio 2007

Stefano il Protomartire

Cari fratelli e sorelle,

dopo il tempo delle feste ritorniamo alle nostre catechesi. Avevo meditato con voi le figure dei dodici Apostoli e di san Paolo. Poi abbiamo cominciato a riflettere sulle altre figure della Chiesa nascente e così oggi vogliamo soffermarci sulla persona di santo Stefano, festeggiato dalla Chiesa il giorno dopo Natale. Santo Stefano è il più rappresentativo di un gruppo di sette compagni. La tradizione vede in questo gruppo il germe del futuro ministero dei ‘diaconi’, anche se bisogna rilevare che questa denominazione è assente nel Libro degli Atti. L’importanza di Stefano risulta in ogni caso dal fatto che Luca, in questo suo importante libro, gli dedica due interi capitoli.
Il racconto lucano parte dalla constatazione di una suddivisione invalsa all’interno della primitiva Chiesa di Gerusalemme: questa era, sì, interamente composta da cristiani di origine ebraica, ma di questi alcuni erano originari della terra d’Israele ed erano detti «ebrei», mentre altri di fede ebraica veterotestamentaria provenivano dalla diaspora di lingua greca ed erano detti «ellenisti». Ecco il problema che si stava profilando: i più bisognosi tra gli ellenisti, specialmente le vedove sprovviste di ogni appoggio sociale, correvano il rischio di essere trascurati nell’assistenza per il sostentamento quotidiano. Per ovviare a questa difficoltà gli Apostoli, riservando a se stessi la preghiera e il ministero della Parola come loro centrale compito decisero di incaricare «sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza» perché espletassero l’incarico dell’assistenza (At 6, 2-4), vale a dire del servizio sociale caritativo. A questo scopo, come scrive Luca, su invito degli Apostoli i discepoli elessero sette uomini. Ne abbiamo anche i nomi. Essi sono: «Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola. Li presentarono agli Apostoli, i quali, dopo aver pregato, imposero loro le mani» (At 6,5-6).
Il gesto dell’imposizione delle mani può avere vari significati. Nell’Antico Testamento il gesto ha soprattutto il significato di trasmettere un incarico importante, come fece Mosè con Giosuè (cfr Nm 27,18-23), designando così il suo successore. In questa linea anche la Chiesa di Antiochia utilizzerà questo gesto per inviare Paolo e Barnaba in missione ai popoli del mondo (cfr At 13,3). Ad una analoga imposizione delle mani su Timoteo, per trasmettergli un incarico ufficiale, fanno riferimento le due Lettere paoline a lui indirizzate (cfr 1 Tm 4,14; 2 Tm 1,6). Che si trattasse di un’azione importante, da compiere dopo discernimento, si desume da quanto si legge nella Prima Lettera a Timoteo: «Non aver fretta di imporre le mani ad alcuno, per non farti complice dei peccati altrui» (5,22). Quindi vediamo che il gesto dell’imposizione delle mani si sviluppa nella linea di un segno sacramentale. Nel caso di Stefano e compagni si tratta certamente della trasmissione ufficiale, da parte degli Apostoli, di un incarico e insieme dell’implorazione di una grazia per esercitarlo.

La cosa più importante da notare è che, oltre ai servizi caritativi, Stefano svolge pure un compito di evangelizzazione nei confronti dei connazionali, dei cosiddetti “ellenisti”, Luca infatti insiste sul fatto che egli, «pieno di grazia e di fortezza» (At 6,8), presenta nel nome di Gesù una nuova interpretazione di Mosè e della stessa Legge di Dio, rilegge l’Antico Testamento nella luce dell’annuncio della morte e della risurrezione di Gesù. Questa rilettura dell’Antico Testamento, rilettura cristologica, provoca le reazioni dei Giudei che percepiscono le sue parole come una bestemmia (cfr At 6,11-14). Per questa ragione egli viene condannato alla lapidazione. E san Luca ci trasmette l’ultimo discorso del santo, una sintesi della sua predicazione. Come Gesù aveva mostrato ai discepoli di Emmaus che tutto l’Antico Testamento parla di lui, della sua croce e della sua risurrezione, così santo Stefano, seguendo l’insegnamento di Gesù, legge tutto l’Antico Testamento in chiave cristologica. Dimostra che il mistero della Croce sta al centro della storia della salvezza raccontata nell’Antico Testamento, mostra che realmente Gesù, il crocifisso e il risorto, è il punto di arrivo di tutta questa storia. E dimostra quindi anche che il culto del tempio è finito e che Gesù, il risorto, è il nuovo e vero “tempio”. Proprio questo “no” al tempio e al suo culto provoca la condanna di santo Stefano, il quale, in questo momento — ci dice san Luca— fissando gli occhi al cielo vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla sua destra. E vedendo il cielo, Dio e Gesù, santo Stefano disse: «Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio» (At 7,56). Segue il suo martirio, che di fatto è modellato sulla passione di Gesù stesso, in quanto egli consegna al “Signore Gesù” il proprio spirito e prega perché il peccato dei suoi uccisori non sia loro imputato (cfr At 7,59-60).
Il luogo del martirio di Stefano a Gerusalemme è tradizionalmente collocato poco fuori della Porta di Damasco, a nord, dove ora sorge appunto la chiesa di Saint-Étienne accanto alla nota École Biblique dei Domenicani. L’uccisione di Stefano, primo martire di Cristo, fu seguita da una persecuzione locale contro i discepoli di Gesù (cfr At 8,1), la prima verificatasi nella storia della Chiesa. Essa costituì l’occasione concreta che spinse il gruppo dei cristiani giudeo-ellenisti a fuggire da Gerusalemme e a disperdersi. Cacciati da Gerusalemme, essi si trasformarono in missionari itineranti: «Quelli che erano stati dispersi andavano per il paese e diffondevano la Parola di Dio» (At 8,4). La persecuzione e la conseguente dispersione diventano missione. Il Vangelo si propagò così nella Samaria, nella Fenicia e nella Siria fino alla grande città di Antiochia, dove secondo Luca esso fu annunciato per la prima volta anche ai pagani (cfr At 11,19-20) e dove pure risuonò per la prima volta il nome di «cristiani» (At 11,26).                 
In particolare, Luca annota che i lapidatori di Stefano «deposero il loro mantello ai piedi di un giovane, chiamato Saulo» (At 7,58), lo stesso che da persecutore diventerà apostolo insigne del Vangelo. Ciò significa che il giovane Saulo doveva aver sentito la predicazione di Stefano, ed essere perciò a conoscenza dei contenuti principali. E san Paolo era probabilmente tra quelli che, seguendo e sentendo questo discorso, «fremevano in cuor loro e digrignavano i denti contro di lui» (At 7, 54). E a questo punto possiamo vedere le meraviglie della Provvidenza divina. Saulo, avversario accanito della visione di Stefano, dopo l’incontro col Cristo risorto sulla via di Damasco, riprende la lettura cristologica dell’Antico Testamento fatta dal Protomartire, l’approfondisce e la completa, e così diventa l’«Apostolo delle Genti». La Legge è adempiuta, così egli insegna, nella croce di Cristo. E la fede in Cristo, la comunione con l’amore di Cristo è il vero adempimento di tutta la Legge. Questo è il contenuto della predicazione di Paolo. Egli dimostra così che il Dio di Abramo diventa il Dio di tutti. E tutti i credenti in Gesù Cristo, come figli di Abramo, diventano partecipi delle promesse. Nella missione di san Paolo si compie la visione di Stefano.
La storia di Stefano dice a noi molte cose. Per esempio, ci insegna che non bisogna mai disgiungere l’impegno sociale della carità dall’annuncio coraggioso della fede. Era uno dei sette incaricato soprattutto della carità. Ma non era possibile disgiungere carità e annuncio. Così, con la carità, annuncia Cristo crocifisso, fino al punto di accettare anche il martirio. Questa è la prima lezione che possiamo imparare dalla figura di santo Stefano: carità e annuncio vanno sempre insieme. Soprattutto, santo Stefano ci parla di Cristo, del Cristo crocifisso e risorto come centro della storia e della nostra vita. Possiamo comprendere che la Croce rimane sempre centrale nella vita della Chiesa e anche nella nostra vita personale. Nella storia della Chiesa non mancherà mai la passione, la persecuzione. E proprio la persecuzione diventa, secondo la celebre frase di Tertulliano, fonte di missione per i nuovi cristiani. Cito le sue parole: «Noi ci moltiplichiamo ogni volta che da voi siamo mietuti: è un seme il sangue dei cristiani» (Apologetico 50,13: Plures efficimur quoties metimur a vobis: semen est sanguis christianorum). Ma anche nella nostra vita la croce, che non mancherà mai, diventa benedizione. E accettando la croce, sapendo che essa diventa ed è benedizione, impariamo la gioia del cristiano anche nei momenti di difficoltà. Il valore della testimonianza è insostituibile, poiché ad essa conduce il Vangelo e di essa si nutre la Chiesa. Santo Stefano ci insegni a fare tesoro di queste lezioni, ci insegni ad amare la Croce, perché essa è la strada sulla quale Cristo arriva sempre di nuovo in mezzo a noi.

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