Archive pour novembre, 2012

Marco 12,38-44

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commento alla prima lettura, Brano biblico: 1Re 17,10-16 La farina e l’olio

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commento alla prima lettura, Brano biblico: 1Re 17,10-16 La farina e l’olio

don Marco Pratesi 

XXXII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (08/11/2009)

Brano biblico: 1Re 17,10-16  

« Non ci sarà rugiada né pioggia in questi anni, se non alla mia parola » (17,1): sono parole di Elia al re Acab che, spinto dalla moglie Gezabele, ha organizzato in Israele il culto di Baal (= »Signore »), Dio siro-fenicio e cananeo della tempesta e quindi della fertilità (cf. 16,32-33). Il senso del gesto di Elia è chiaro: vediamo chi ha davvero in mano la pioggia, la fertilità, la vita! Siamo dunque in tempo di siccità e carestia. Per mettersi al sicuro, Elia si rifugia presso il torrente Cherith (cf. 17,2-6), ma quando anch’esso secca, riceve l’ordine di andare fuori da Israele, in Fenicia: qui Dio ha dato disposizione per il suo sostentamento. A chi? A una vedova, che a malapena riesce a provvedere a sé e al figlio. Scelta singolare! La vedova, pagana, è invitata a un atto di fede nella parola del Signore (che evidentemente le è stata rivolta prima) e del suo profeta (che ora le chiede da mangiare e da bere). Deve pensare prima all’uomo di Dio e solo dopo a sé e al figlio. Mentre il popolo di Dio non si fida del suo Signore e si affida a déi stranieri, questa donna straniera si fida del Signore e rischia tutto sulla parola del profeta (in analogo senso universalistico Gesù richiamerà questo passo, provocando una reazione di rigetto, cf. Lc 4,25-26). L’atto di fede produce il suo effetto, ma notiamo: la vedova non si trova in casa una montagna di farina né un orcio traboccante d’olio. Le rimane sempre e solo quel pugno di farina e quel po’ di olio, che però non si esauriscono. Ella – con lei il profeta – dipende momento per momento dalla provvidenza di Dio, senza potersi mai sentire garantita dal possesso di un’abbondante scorta.
L’idolatria produce sterilità, la fede vita, anche in situazioni difficili. Che cosa mi assicura la vita? A chi mi affido per sfuggire alla morte? Su questo si gioca la partita della vedova, di Elia, di Acab e di ogni uomo. Occorre imparare a fidarsi, a dipendere, non solo da Dio ma anche, in subordine a lui, dagli uomini. Esiste una dipendenza dagli uomini che è idolatria, ne esiste una che è fraternità. Se doveva operare un miracolo, Elia non avrebbe potuto provvedere da sé al proprio sostentamento? Ma gli uomini di Dio non fanno miracoli a proprio vantaggio. Egli deve dipendere dalla vedova e dal suo atto di fede e di amore. E per quale motivo Dio deve andare a chiedere aiuto proprio a una vedova nullatenente piuttosto che a un ricco? Ella deve imparare a fidarsi di Dio e della sua parola, di cui il profeta è portatore, dando così una severa lezione a Israele, che invece va a cercarsi Baal come protettore. La vera fecondità, la vitalità piena, si dà solo nel dono, che si esprime prima di tutto attraverso la fiducia accordata al Signore; e che si concretizza a sua volta nell’accettazione della dipendenza dagli altri come strumenti della cura di Dio, e nella disponibilità a essere di quella medesima cura strumento per gli altri.

Herrera mozo San León magno Lienzo. Óvalo. 164 x 105 cm. Museo del Prado

Herrera mozo San León magno Lienzo. Óvalo. 164 x 105 cm. Museo del Prado dans immagini sacre Herrera_mozo_San_Le%C3%B3n_magno_Lienzo._%C3%93valo._164_x_105_cm._Museo_del_Prado

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10 novembre: San Leone Magno – di Papa Benedetto XVI

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BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 5 marzo 2008

San Leone Magno

Cari fratelli e sorelle,

proseguendo il nostro cammino tra i Padri della Chiesa, veri astri che brillano da lontano, nel nostro incontro di oggi ci accostiamo alla figura di un Papa, che nel 1754 fu proclamato da Benedetto XIV Dottore della Chiesa: si tratta di san Leone Magno. Come indica l’appellativo presto attribuitogli dalla tradizione, egli fu davvero uno dei più grandi Pontefici che abbiano onorato la Sede romana, contribuendo moltissimo a rafforzarne l’autorità e il prestigio. Primo Vescovo di Roma a portare il nome di Leone, adottato in seguito da altri dodici Sommi Pontefici, è anche il primo Papa di cui ci sia giunta la predicazione, da lui rivolta al popolo che gli si stringeva attorno durante le celebrazioni. E’ spontaneo pensare a lui anche nel contesto delle attuali udienze generali del mercoledì, appuntamenti che negli ultimi decenni sono divenuti per il Vescovo di Roma una forma consueta di incontro con i fedeli e con tanti visitatori provenienti da ogni parte del mondo.
Leone era originario della Tuscia. Divenne diacono della Chiesa di Roma intorno all’anno 430, e col tempo acquistò in essa una posizione di grande rilievo. Questo ruolo di spicco indusse nel 440 Galla Placidia, che in quel momento reggeva l’Impero d’Occidente, a inviarlo in Gallia per sanare una difficile situazione. Ma nell’estate di quell’anno il Papa Sisto III – il cui nome è legato ai magnifici mosaici di Santa Maria Maggiore – morì, e a succedergli fu eletto proprio Leone, che ne ricevette la notizia mentre stava appunto svolgendo la sua missione di pace in Gallia. Rientrato a Roma, il nuovo Papa fu consacrato il 29 settembre del 440. Iniziava così il suo pontificato, che durò oltre ventun anni, e che è stato senza dubbio uno dei più importanti nella storia della Chiesa. Alla sua morte, il 10 novembre del 461, il Papa fu sepolto presso la tomba di san Pietro. Le sue reliquie sono custodite anche oggi in uno degli altari della Basilica vaticana.
Quelli in cui visse Papa Leone erano tempi molto difficili: il ripetersi delle invasioni barbariche, il progressivo indebolirsi in Occidente dell’autorità imperiale e una lunga crisi sociale avevano imposto al Vescovo di Roma – come sarebbe accaduto con evidenza ancora maggiore un secolo e mezzo più tardi, durante il pontificato di Gregorio Magno – di assumere un ruolo rilevante anche nelle vicende civili e politiche. Ciò non mancò, ovviamente, di accrescere l’importanza e il prestigio della Sede romana. Celebre è rimasto soprattutto un episodio della vita di Leone. Esso risale al 452, quando il Papa a Mantova, insieme a una delegazione romana, incontrò Attila, capo degli Unni, e lo dissuase dal proseguire la guerra d’invasione con la quale già aveva devastato le regioni nordorientali dell’Italia. E così salvò il resto della Penisola. Questo importante avvenimento divenne presto memorabile, e rimane come un segno emblematico dell’azione di pace svolta dal Pontefice. Non altrettanto positivo fu purtroppo, tre anni dopo, l’esito di un’altra iniziativa papale, segno comunque di un coraggio che ancora ci stupisce: nella primavera del 455 Leone non riuscì infatti a impedire che i Vandali di Genserico, giunti alle porte di Roma, invadessero la città indifesa, che fu saccheggiata per due settimane. Tuttavia il gesto del Papa – che, inerme e circondato dal suo clero, andò incontro all’invasore per scongiurarlo di fermarsi – impedì almeno che Roma fosse incendiata e ottenne che dal terribile sacco fossero risparmiate le Basiliche di San Pietro, di San Paolo e di San Giovanni, nelle quali si rifugiò parte della popolazione terrorizzata.
Conosciamo bene l’azione di Papa Leone, grazie ai suoi bellissimi sermoni – ne sono conservati quasi cento in uno splendido e chiaro latino – e grazie alle sue lettere, circa centocinquanta. In questi testi il Pontefice appare in tutta la sua grandezza, rivolto al servizio della verità nella carità, attraverso un esercizio assiduo della parola, che lo mostra nello stesso tempo teologo e pastore. Leone Magno, costantemente sollecito dei suoi fedeli e del popolo di Roma, ma anche della comunione tra le diverse Chiese e delle loro necessità, fu sostenitore e promotore instancabile del primato romano, proponendosi come autentico erede dell’apostolo Pietro: di questo si mostrarono ben consapevoli i numerosi Vescovi, in gran parte orientali, riuniti nel Concilio di Calcedonia.
Tenutosi nell’anno 451, con i trecentocinquanta  Vescovi che vi parteciparono, questo Concilio fu la più importante assemblea fino ad allora celebrata nella storia della Chiesa. Calcedonia rappresenta il traguardo sicuro della cristologia dei tre Concili ecumenici precedenti: quello di Nicea del 325, quello di Costantinopoli del 381 e quello di Efeso del 431. Già nel VI secolo questi quattro Concili, che riassumono la fede della Chiesa antica, vennero infatti paragonati ai quattro Vangeli: è quanto afferma Gregorio Magno in una famosa lettera (I,24), in cui dichiara “di accogliere e venerare, come i quattro libri del santo Vangelo, i quattro Concili”, perché su di essi – spiega ancora Gregorio – “come su una pietra quadrata si leva la struttura della santa fede”. Il Concilio di Calcedonia – nel respingere l’eresia di Eutiche, che negava la vera natura umana del Figlio di Dio – affermò l’unione nella sua unica Persona, senza confusione e senza separazione, delle due nature umana e divina.
Questa fede in Gesù Cristo vero Dio e vero uomo veniva affermata dal Papa in un importante testo dottrinale indirizzato al Vescovo di Costantinopoli, il cosiddetto Tomo a Flaviano, che, letto a Calcedonia, fu accolto dai Vescovi presenti con un’eloquente acclamazione, della quale è conservata notizia negli atti del Concilio: “Pietro ha parlato per bocca di Leone”, proruppero a una voce sola i Padri conciliari. Soprattutto da questo intervento, e da altri compiuti durante la controversia cristologica di quegli anni, risulta con evidenza come il Papa avvertisse con particolare urgenza le responsabilità del Successore di Pietro, il cui ruolo è unico nella Chiesa, perché “a un solo apostolo è affidato ciò che a tutti gli apostoli è comunicato”, come afferma Leone in uno dei suoi sermoni per la festa dei santi Pietro e Paolo (83,2). E queste responsabilità il Pontefice seppe esercitare, in Occidente come in Oriente, intervenendo in diverse circostanze con prudenza, fermezza e lucidità attraverso i suoi scritti e mediante i suoi legati. Mostrava in questo modo come l’esercizio del primato romano fosse necessario allora, come lo è oggi, per servire efficacemente la comunione, caratteristica dell’unica Chiesa di Cristo.
Consapevole del momento storico in cui viveva e del passaggio che stava avvenendo – in un periodo di profonda crisi – dalla Roma pagana a quella cristiana, Leone Magno seppe essere vicino al popolo e ai fedeli con l’azione pastorale e la predicazione. Animò la carità in una Roma provata dalle carestie, dall’afflusso dei profughi, dalle ingiustizie e dalla povertà. Contrastò le superstizioni pagane e l’azione dei gruppi manichei. Legò la liturgia alla vita quotidiana dei cristiani: per esempio, unendo la pratica del digiuno alla carità e all’elemosina soprattutto in occasione delle Quattro tempora, che segnano nel corso dell’anno il cambiamento delle stagioni. In particolare Leone Magno insegnò ai suoi fedeli – e ancora oggi le sue parole valgono per noi – che la liturgia cristiana non è il ricordo di avvenimenti passati, ma l’attualizzazione di realtà invisibili che agiscono nella vita di ognuno. E’ quanto egli sottolinea in un sermone (64,1-2) a proposito della Pasqua, da celebrare in ogni tempo dell’anno “non tanto come qualcosa di passato, quanto piuttosto come un evento del presente”. Tutto questo rientra in un progetto preciso, insiste il santo Pontefice: come infatti il Creatore ha animato con il soffio della vita razionale l’uomo plasmato dal fango della terra, così, dopo il peccato d’origine, ha inviato il suo Figlio nel mondo per restituire all’uomo la dignità perduta e distruggere il dominio del diavolo mediante la vita nuova della grazia.
È questo il mistero cristologico al quale san Leone Magno, con la sua lettera al Concilio di Calcedonia, ha dato un contributo efficace ed essenziale, confermando per tutti i tempi — tramite tale Concilio — quanto disse san Pietro a Cesarea di Filippo. Con Pietro e come Pietro confessò: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E perciò Dio e Uomo insieme, “non estraneo al genere umano, ma alieno dal peccato” (cfr Serm. 64). Nella forza di questa fede cristologica egli fu un grande portatore di pace e di amore. Ci mostra così la via: nella fede impariamo la carità. Impariamo quindi con san Leone Magno a credere in Cristo, vero Dio e  vero Uomo, e a realizzare questa fede ogni giorno nell’azione per la pace e nell’amore per il prossimo.

XXXII Domenica del Tempo Ordinario : Una ricca e sconvolgente povertà

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Una ricca e sconvolgente povertà

don Alberto Brignoli 

XXXII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (11/11/2012)

Vangelo: Mc 12,38-44  

Le letture di oggi rappresentano per il credente la narrazione di uno stravolgimento nell’ordine delle cose che riguardano Dio. In mezzo al grigiore di una fede morta e di una mentalità che concepisce Dio come un giudice retribuitore che elargisce doni all’uomo a seconda della sua « pietà », ossia della quantità di sacrifici e di offerte che da lui riceve, due vedove, quella libanese della prima lettura e quella ebraica del vangelo, rappresentano due autentiche pennellate di colore che ridanno il gusto del ritorno ad una fede autentica e genuina, fatta di gesti di totale abbandono in Dio più che di eclatanti e spesso sfacciate ostentazioni di fede, opulenta ma insieme priva di vita. Due vedove stravolgono il modo ebraico di concepire la fede in Dio per riportarci a una fede autentica.
Perché è così « sconvolgente » la modalità di vivere la fede da parte di queste due vedove? Per comprendere fino in fondo i loro gesti di generosità, apprezzati e lodati dal profeta Elia l’uno e dallo stesso Gesù l’altro, è necessario ricordare che l’idea che il popolo d’Israele aveva riguardo al possesso dei beni e all’elemosina era strettamente legata al concetto di « retribuzione divina », ovvero quel concetto per cui i beni materiali, le ricchezze che una persona possiede, sono il segno della benedizione di Dio, che si è degnato di « benedire » nel senso di « retribuire » la bontà di quella persona attraverso l’elargizione di molti beni. A sua volta, il ricco – tale perché retribuito da Dio per la sua santità – ha il dovere di mostrare a Dio e agli uomini il sussistere della sua pietà attraverso una serie di elemosine e di sacrifici tanto più preziosi quanto più materialmente significativi.
Da ciò, ne conseguiva per pura deduzione che il povero (espresso attraverso tutte le sue categorie, in modo particolare il disabile, l’orfano e la vedova) era tale perché maledetto da Dio a causa dei suoi peccati (pensiamo alla vicenda del cieco nato del Vangelo di Giovanni, o nell’Antico Testamento alla vicenda di Giobbe), e la sua situazione di peccato e di lontananza da Dio continuava a sussistere e ad essere manifesta agli occhi di Dio e degli uomini attraverso l’incapacità ad essere generoso e ad elargire abbondanti elemosine e sacrifici (…un po’ ovvio, diremmo noi oggi, dal momento che non possedeva nulla…).
In verità, nella Bibbia è quasi impossibile incontrare testi che rafforzino o giustifichino quest’atteggiamento, poiché Dio sempre è presentato come difensore del povero, dell’orfano e della vedova: si trattava però di una mentalità e di un comportamento molto diffusi nella società ebraica di allora, contro la quale Gesù spesso si scaglia richiamando ad una fede autentica fatta di gesti di misericordia più che di sacrifici e offerte, e prendendo di mira i capi del popolo, i farisei e i dottori della legge, principali sostenitori di questo falso atteggiamento di fede.
Oggi Gesù concretizza questo suo richiamo additando ad esempio di fede una povera ed anonima vedova che entra nel tempio per fare la sua offerta, umilissima e quasi insignificante, a dispetto di quei ricchi che nel tesoro del tempio gettavano moltissime monete. Qui sta lo stravolgimento del concetto di fede che diviene segno dei tempi nuovi e della vita nuova che Cristo è venuto ad annunciare: non più una fede fatta di elemosine e sacrifici in virtù di ciò che si ha, ma una fede che è autentica in virtù del dono di ciò che si è. Dio non pretende da noi molte cose, quantitativamente significative ma prive di verità e di senso; si accontenta del nulla che abbiamo e che siamo, nella misura in cui ciò è dono totale di noi stessi ed abbandono fiducioso nelle sue mani.
E questo concetto si presta molto bene a una rilettura in chiave missionaria della Liturgia della Parola di quest’oggi. Siamo abituati a pensare alla missione come alla partenza di missionari (preti, religiosi e religiose, laici) da paesi ricchi di tradizione religiosa ma anche di risorse economiche verso altri paesi, in genere del Sud del mondo, ritenuti poveri spiritualmente e materialmente, e quindi incapaci di offrire ad altri qualsiasi cosa. Allora, questi paesi « poveri » continueranno a essere da noi considerati « inferiori », sottosviluppati, immaturi, arretrati…e andando alla ricerca delle cause della loro povertà, giungeremo sempre alla solita conclusione: sono così perché sono ignoranti e sfortunati, ovvero non dotati di tutte quelle qualità di cui invece noi, paesi ricchi e progrediti, siamo provvisti. Un ragionamento non molto differente da quello del pio ebreo del tempo di Gesù, che leggendo in chiave teologica questo fenomeno arrivava appunto a definire il ricco « benedetto da Dio » e il povero « da lui disprezzato ».
Ma lo sconvolgente atteggiamento delle due vedove, che nonostante la loro miseria offrono agli altri il nulla che hanno, è un anticipo, una sorta di rimando a quanto si sta verificando oggi nel mondo e nella Chiesa. Questi paesi che sempre abbiamo ritenuto poveri di tutto, dalla loro povertà hanno appreso la dote dell’apertura e della condivisione, e si stanno rivelando in alcuni casi (si pensi ai cosiddetti paesi « BRICS », dei quali fanno parte Brasile, India e Cina) i nuovi motori dell’economia mondiale in questo periodo di crisi globale; in altri casi, quei paesi che sempre sono stati oggetto della nostra attenzione pastorale con l’invio di personale apostolico, ora stanno supplendo alla carenza di sacerdoti e di vocazioni religiose nei paesi di antica tradizione cristiana. Basti pensare che i sacerdoti non italiani presenti nelle parrocchie italiane hanno ormai raggiunto le 850 unità, a fronte dei 500 sacerdoti italiani presenti in missione. Per non parlare delle offerte raccolte per la Giornata Missionaria Mondiale, che lo scorso anno (in piena crisi) hanno subìto un incremento in ben pochi paesi, e tra essi va menzionato il Burkina Faso… concreti esempi di cosa significhi saper donare a partire dalla propria povertà.
È quanto sapevano fare i nostri anziani, molto più generosi e solidali di noi nonostante vivessero in situazioni non certo agiate rispetto a quelle in cui oggi noi viviamo. Speriamo che questo momento di situazione critica a livello economico e sociale possa rappresentare un’occasione per riflettere su come l’indigenza non sia una disfatta, ma diventi un’opportunità di reciproco arricchimento nella misura in cui si fa condivisione, apertura all’altro, fraternità: tutte dimensioni tipiche della missione e di chi la vive in prima persona.
Fu così per due vedove della Bibbia; chiediamo a Dio che possa essere così anche per la nostra impoverita, affaticata, spesso vecchia e rugosa, ma sempre amata Chiesa di antica tradizione.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 9 novembre, 2012 |Pas de commentaires »

La Basilica Lateranense, esterno, interno « Catino »

La Basilica Lateranense, esterno, interno

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 dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 8 novembre, 2012 |Pas de commentaires »

9 NOVEMBRE: DEDICAZIONE DELLA BASILICA LATERANENSE (f), UFFICIO DELLE LETTURE

http://www.maranatha.it/Ore/solenfeste/1109letPage.htm

9 NOVEMBRE: DEDICAZIONE DELLA BASILICA LATERANENSE (f)

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dalla prima lettera di san Pietro, apostolo 2, 1-17

L’edificio spirituale fatto di pietre vive
Carissimi, deposta ogni malizia e ogni frode e ipocrisia, le gelosie, e ogni maldicenza, come bambini appena nati bramate il puro latte spirituale, per crescere con esso verso la salvezza: se davvero avete già gustato come è buono il Signore (Sal 33, 9). Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo. Si legge infatti nella Scrittura: Ecco, io pongo in Sion una pietra angolare, scelta, preziosa e chi crede in essa non resterà confuso (Is 28,16).
Onore dunque a voi che credete; ma per gli increduli la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra angolare, sasso d’inciampo e pietra di scandalo (Sal 117, 22; Is 8, 14).
Loro v’inciampano perché non credono alla parola; a questo sono stati destinati, Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce (Es 19, 6; Is 43, 20.21); voi, che un tempo eravate non-popolo, ora invece siete il popolo di Dio; voi un tempo esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia (Os 1,9.6).
Carissimi, io vi esorto, come stranieri e pellegrini, ad astenervi dai desideri della carne che fanno guerra all’anima. La vostra condotta tra i pagani sia irreprensibile, perché mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere, giungano a glorificare Dio nel giorno del giudizio.
State sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al re come sovrano, sia ai governatori come ai suoi inviati per punire i malfattori e premiare i buoni. Perché questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti. Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio.
Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete Dio, onorate il re.

Seconda Lettura
Dai «Discorsi» di san Cesario di Arles, vescovo
(Disc. 229, 1-3; CCL 104,905-908)

Con il battesimo siamo tutti diventati tempio di Dio
Con gioia e letizia celebriamo oggi, fratelli carissimi, il giorno natalizio di questa chiesa: ma il tempio vivo e vero di Dio dobbiamo esserlo noi. Questo è vero senza dubbio. Tuttavia i popoli cristiani usano celebrare la solennità della chiesa matrice, poiché sanno che è proprio in essa che sono rinati spiritualmente.
Per la prima nascita noi eravamo coppe dell’ira di Dio; la seconda nascita ci ha resi calici del suo amore misericordioso. La prima nascita ci ha portati alla morte; la seconda ci ha richiamati alla vita. Prima del battesimo tutti noi eravamo, o carissimi, tempio del diavolo. Dopo il battesimo abbiamo meritato di diventare tempio di Cristo. Se rifletteremo un po’ più attentamente sulla salvezza della nostra anima, non avremo difficoltà a comprendere che siamo il vero e vivo tempio di Dio. «Dio non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo» (At 17, 24), o in case fatte di legno e di pietra, ma soprattutto nell’anima creata a sua immagine per mano dello stesso Autore delle cose. Il grande apostolo Paolo ha detto: «Santo è il tempio di Dio che siete voi» (1 Cor 3, 17). Poiché Cristo con la sua venuta ha cacciato il diavolo dal nostro cuore per prepararsi un tempio dentro di noi, cerchiamo di fare, col suo aiuto, quanto è in nostro potere, perché questo tempio non abbia a subire alcun danno per le nostre cattive azioni. Chiunque si comporta male, fa ingiuria a Cristo. Prima che Cristo ci redimesse, come ho già detto, noi eravamo abitazione del diavolo. In seguito abbiamo meritato di diventare la casa di Dio, solo perché egli si è degnato di fare di noi la sua dimora.
Se dunque, o carissimi, vogliamo celebrare con gioia il giorno natalizio della nostra chiesa, non dobbiamo distruggere con le nostre opere cattive il tempio vivente di Dio. Parlerò in modo che tutti mi possano comprendere: tutte le volte che veniamo in chiesa, riordiniamo le nostre anime così come vorremmo trovare il tempio di Dio. Vuoi trovare una basilica tutta splendente? Non macchiare la tua anima con le sozzure del peccato. Se tu vuoi che la basilica sia piena di luce, ricordati che, anche Dio vuole che nella tua anima non vi siano tenebre. Fa’ piuttosto in modo che in essa, come dice il Signore, risplenda la luce, delle opere buone, perché sia glorificato colui che sta nei cieli. Come tu entri in questa chiesa, così Dio vuole entrare nella tua anima. Lo ha affermato egli stesso quando ha detto: Abiterò in mezzo a loro e con loro camminerò (cfr. Lv 26, 11.12).

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