Archive pour novembre, 2012

È SUFFICIENTE CERCARE BUONE NOTIZIE?

http://www.zenit.org/article-33865?l=italian

È SUFFICIENTE CERCARE BUONE NOTIZIE?

In un meeting online, NetOne ha affrontato la tematica della corretta informazione

di Maria Rosa Logozzo
ROMA, mercoledì, 14 novembre 2012 (ZENIT.org) – Bastano buone notizie? Questa tematica, tra le più discusse del momento, è stata al centro del meeting online di NetOne che venerdì 9 novembre 2012 ha collegato via internet 301 punti di varie nazioni. Vi si poteva accedere dalla home del sito: http://www.net-one.org.
Questa Associazione riunisce le più svariate professionalità del mondo dei media e della comunicazione, dai giornalisti ai registi, dagli studenti ai docenti, dai fotografi ai pubblicitari e poi tutti gli altri. Il suo carattere internazionale e il suo approccio ai temi e ai problemi del settore, il puntare al ‘fare’, all’impegno personale accanto al ‘pensare’ e al ‘parlare’, sono espressione concreta dell’idea di fraternità universale di Chiara Lubich, su cui NetOne fonda la propria mission: media for a united world.
La diretta ha preso spunto da una costatazione: “bastano buone notizie?” In rete, nei giornali e telegiornali non solo sono presenti sempre le stesse notizie, ma poi queste sono troppo spesso, cattive. Basta cercarne di “buone” per rispondere alle pressanti domande della società? Come interpretare o recuperare il lavoro da comunicatori in una ottica di servizio al prossimo?
«Ora, se il giornalismo (con i giornalisti) non guarda alla relazione e agli essere umani, ma solo alla notizia, esso rimane fondato sulla sola libertà di stampa. La libertà fu il primo pilastro della stampa moderna, nata nel periodo dell’Indipendenza statunitense, ma tante volte essa diventa la giustificazione per una metodologia immorale con scopi apparentemente positivi. Ne è stato un esempio lo scandalo di News of the World l’anno scorso, frutto della forza dei grandi gruppi massmediali. Si è fatto uso della libertà di stampa e di un giornalismo “sotto copertura” non per cercare di produrre informazione di qualità o per condurre inchieste a beneficio del bene comune, ma per scoop e gossip con fini puramente commerciali»: questa l’analisi di Valter Hugo Muniz, giornalista brasiliano che ha evidenziato quanto il giornalismo sia essenzialmente strumento del communicare, col significato latino del mettere in comunione, del creare relazioni, e quindi il giornalista dovrebbe essere consapevole che la notizia ha questa prima funzione a servizio dell’uomo e della comunità umana.
Sono inoltre intervenuti, grazie a collegamenti Internet: dal Belgio Paolo Aversano, ricercatore in Business Modelling & Smart Cities all’università VUB di Bruxelles; da Bari Emanuela Megli Armenio, formatrice professionale specializzata in comunicazione e Domenica Calabrese, Presidente della locale Associazione Igino Giordani. Si è parlato di commistione dei saperi, di frontiere nuove concesse dal web, di opportunità quali l’intercultura e il dialogo. Tutti spunti, approcci, possibilità per cercare di rispondere all’annosa domanda.
Tra gli ospiti in sala che si sono alternati sul palco, José Andrés Sardina, architetto spagnolo che ha soggiornato e lavorato per alcuni anni a Cuba. Ha offerto uno spaccato della parzialità dell’informazione in merito alla devastazione dell’uragano Sandy, che non ha colpito solo gli USA, mostrando immagini del disastro e riportando alcuni dati della Croce Rossa relativi alla città di Santiago: 9 decessi, 5.000 case distrutte a Santiago, 27.000 i senza tetto, più di 100.000 le case colpite con danni stimati di 88 milioni di dollari.
E’ seguita la sfida comunicativa raccontata dalla viva voce di chi ha vissuto due appuntamenti dei Focolari: prima Jessica Valle Valle del social communication team del Genfest 2012, manifestazione mondiale di giovani tenutasi a Budapest, e poi Michele Zanzucchi, direttore di Città Nuova (http://www.cittanuova.it/ ), tra i promotori di LoppianoLab, un laboratorio, già alla terza edizione, per riflettere insieme sull’Italia e le sue sfide e per ideare progetti che le affrontino nel concreto .
E’ stato Nedo Pozzi, Coordinatore della commissione internazionale di NetOne, a chiudere l’ora di meeting online con un momento di riflessione nel quale ha ricordato che Chiara Lubich, nel corso del dialogo seguito al suo intervento all’ONU del maggio 1997, aveva sottolineato l’importanza di mettere in pratica il Vangelo. «Bisogna vivere! Non insegnare, fare- diceva la Lubich -.[…] tante volte andiamo nel mondo e vediamo che una città che dovrebbe essere cristiana è uguale a un’altra città che non è cristiana.
« Perché questo? Perché non si vive». E ha continuato: «Proviamo a metterci ad amare, anche qui all’ONU, uno con l’altro, uno con l’altro, un ambasciatore con l’altro, un funzionario con l’altro, un impiegato con l’altro. Vediamo cosa viene fuori. Dovrebbe venire fuori la presenza di Cristo in mezzo a loro. E che cosa significherebbe questo? Sarebbe garantita la pace per loro e anche per tanti».
Un invito che nella sua sostanza può sicuramente essere raccolto da tutti coloro che fanno comunicazione.

I Tre Re Magi

http://www.artbible.net/3JC/-Mat-02,01-The%20magis,%20Les%20mages/1-The%20star-L’etoile/slides/14%20MAGI%20AND%I Tre Re Magi dans immagini sacre 14%20MAGI%20AND%20SHEPHERDS

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Publié dans:immagini sacre |on 13 novembre, 2012 |Pas de commentaires »

Lettura e commento della Lettera ai Filippesi: Ringraziamento e preghiera dell’apostolo (vv. 3-11)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/zaccherini_filippesi3.htm

Gianni Zaccherini  

RENDETE PIENA LA MIA GIOIA

Lettura e commento della LETTERA AI FILIPPESI

Ringraziamento e preghiera dell’apostolo (vv. 3-11) 

« Ricordo e ringrazio » 

Vv. 3-4: “Ringrazio il mio Dio ogni volta che mi ricordo di voi, pregando sempre con gioia per voi in ogni mia preghiera ».

Dopo il saluto e l’augurio abbiamo, nei versetti dal 3 all’11 del capitolo primo, una prima parte dello scritto di Paolo che pos­siamo sintetizzare come ringraziamento e preghiera dell’apostolo per la comunità di Filippi.
Come in molte altre lettere Paolo, prima di parlare di sé e di dare indicazioni di principio o pratiche in ordine alla salvezza, formula una preghiera di lode e di ringraziamento. Preghiera che contiene, come sempre negli scritti di Paolo, profonde rivelazioni e indicazioni di contenuto teologico ed esistenziale che vanno colte dai credenti. Cosa dice Paolo? Egli ringrazia Dio: « Ringrazio il mio Dio ogni volta che io mi ricordo di voi, pregando sempre con gioia per voi in ogni mia preghiera ».
Ogni volta che Paolo si ricorda dei cristiani di Filippi rende grazie al suo Dio. E si ricorda di loro in ogni sua preghiera: cioè, sempre. È un ricordo continuo quello che Paolo ha, perché continua è la sua preghiera. E la preghiera che contiene il ri­cordo dei suoi cristiani si volge poi in rendimento di grazie al Padre. Paolo dirà subito dopo il perché di questo rendimento di grazie, ma già in questo avvio ci sono alcune cose da sottolineare.
La preghiera cristiana, come emerge da questo modello di Paolo, è prima di tutto una preghiera continua: « Pregando sempre con gioia per voi ». Poi, Paolo prega per i cristiani di Filippi con gioia, portandoli nel cuore. La preghiera cristiana è un portare con gioia i fratelli nel proprio cuore ed è un fare continuamente ricordo di loro. Questa impronta è molto importante, ma non è molto frequente nell’uso odierno della nostra preghiera. È stata in parte ripristinata nella celebrazione dell’Eucarestia – che è il rendimento di grazie per eccellenza della comunità cristiana – tramite la cosiddetta preghiera dei fedeli, ma proprio le sottolineature di Paolo dovrebbero farci comprendere che la nostra preghiera dovrebbe assumere sempre meglio e sempre più profondamente nel cuore i fratelli, rendendoli partecipi della nostra esistenza. Si rafforza, così, e si consuma nella preghiera la comunione che nasce dal Battesimo e si fonda sulla vita del Cristo in tutti noi. 
Il perché del ringraziamento
V. 5: “A motivo della vostra cooperazione alla diffusione del Vangelo dal primo giorno fino al presente « .
Alla lettera bisognerebbe tradurre: « A motivo della vostra comunione all’Evangelo (koynonia umon eis to euangélion) dal primo giorno fino al presente ». Per Vangelo Paolo intende sempre sia il contenuto – che è Gesù Cristo – sia l’atto dell’annuncio, la proclamazione.
Cosa significa comunione all’Evangelo? Un elemento è la partecipazione ‘dei Filippesi all’annuncio evangelico, però non è solo questo. Infatti, la traduzione della CEI è un po’ riduttiva, forse per rendere più comprensibile il concetto. Si pensa che dire « la vostra comunione al Vangelo » non sia chiaro, mentre tradurre « la vostra cooperazione alla diffusione del Vangelo » risulti più chiaro. Forse è vero, però indubbiamente il senso viene ristretto. « Comunione all’Evangelo » è anche questo, ma c’è indubbiamente dell’altro: quando in una comunità viene proclamato il Vangelo, il Vangelo accolto crea una comunione di esistenza fra coloro che lo accolgono e il Vangelo stesso. Solo in secondo luogo la comunità che ha accolto il Vangelo e che è entrata in comunione con esso diventa a sua volta proclamatrice del Vangelo con la vita e con le parole.
Il ringraziamento di Paolo si fonda essenzialmente sul fatto che i cristiani di Filippi sono in comunione col Vangelo perché l’hanno accolto nella fede e a loro volta ne sono diventati i proclamatori e i testimoni, continuando l’opera di evangelizzazione che ogni cristiano deve attuare. Indubbiamente emerge qui quel concetto che il Concilio Vaticano Il ha messo in particolare evidenza: che tutta la Chiesa è sempre missionaria. Questo è vero: ogni cristiano che ha accolto il Vangelo deve essere uno che a sua volta ne dilata la proclamazione. Questa, però, è una conseguenza e non è il senso primario dell’affermazione da cui siamo partiti. Il senso primario e fondamentale è che si è in comunione con il Vangelo quando lo si accoglie nella fede. Da questa accoglienza scaturisce che chiunque lo accoglie diventi a sua volta testimone e proclamatore del Vangelo ricevuto. I missionari non sono solo quel­li che vanno in Africa o in Asia; tutti dobbiamo esseri o in quanto persone che da una parte attuano e rendono visibile nella loro esistenza il Vangelo e dall’altra lo annunciano a coloro che non lo hanno ancora accolto o lo hanno dimenticato.
Paolo ha presente questa comunione al Vangelo della Chiesa di Filippi come un evento che ha caratterizzato tutta la vita della comunità in quanto tale, dal primo giorno fino al presente. Paolo ha davanti agli occhi questo evento di grazia, di cui lui è stato protagonista. Ha annunciato il Vangelo ai cristiani di Filippi, questi lo hanno accolto e sono entrati in comunione con esso da quel momento fino al giorno in cui Paolo scrive questa lettera. Di questo fatto Paolo rende grazie al suo Dio. 
L’opera di Dio e il suo compimento 
v. 6/a: “E sono persuaso che colui che ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento… ». 
Paolo ha davanti a sé la comunità di Filippi e, come abbiamo visto, ringrazia il Signore per la comunione di essa con il Vangelo: è questa che qui viene definita « opera buona ». Quest’opera buona, cioè la vita di fede della comunità cristiana, è azione di Dio, è grazia. Se i cristiani di Filippi sono così, se sono in comunione al Vangelo – per cui Paolo può e deve rendere grazie al Signore -, questo è conseguenza del fatto che si è compiuta in loro (‘iniziativa di Dio. Se sono così, non è perché sono particolarmente buoni, ma perché Dio ha operato con potenza in loro.
C’è qui una delle rivelazioni fondamentali del cristianesimo: la vita di grazia, la vita di fede, la vita di comunione con Dio e col Vangelo è opera di Dio, non dell’uomo. È dono di Dio, gratuito. Con questa articolazione, che è evidenziata benissimo da Paolo: « Colui che ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento ». Dio agisce nel credente e nella comunità non una volta sola, all’inizio, ma continua ad agire fino a portare a compimento, a maturazione, a perfezione l’opera che ha iniziato nel momento in cui è stato annunciato e accolto il Vangelo.
C’è una sottolineatura, da cogliere: nell’esistenza fedele dei cristiani si verifica una crescita, un perfezionamento che si deve attuare lungo tutto l’arco dell’esistenza. L’esistenza del credente non è un rimanere sempre allo stesso livello, ma è un crescere nella comunione con Dio. Dobbiamo raggiungere la dimensione consumata e perfetta dell’esistenza di fede, ma questo è possibile e si attua nel credente solo per opera e per grazia di Dio. 
Il giorno di Gesù Cristo 
V. 6/b: “… fino al giorno di Gesù Cristo ».
C’è un’altra sottolineatura significativa in questo versetto, che spalanca davanti agli occhi del credente un fatto che è al ter­mine dell’esistenza cristiana: il giorno di Cristo Signore. L’esistenza della comunità dei credenti ha un inizio e una fine; l’inizio è il giorno in cui è stato predicato e accolto il Vangelo, la fine è l’incontro col Signore che viene nell’ultimo giorno, nel Suo giorno. Questa tensione e questo cammino nell’esistenza di fede definiscono quella che noi possiamo chiamare la speranza cristiana.
Perché questo evento definisce la speranza cristiana? Che cos’è la speranza cristiana?
La speranza cristiana è la certezza del futuro di Dio. La certezza cioè che Dio inizia e porta irresistibilmente a termine l’opera che ha iniziato. Se Dio si è impegnato una volta per tutte nel cuore del credente, questo impegno non è a termine, ma troverà la sua consumazione e perfezione. Dio non torna indietro, il cristiano lo sa. Il fatto che abbia accolto il Vangelo dice che in lui opera potentemente il Signore e opererà fino al Suo ritorno, fino al giorno dell’incontro definitivo con Lui.
Questa è la speranza cristiana: il sapere che la presenza e l’opera di Dio in noi, iniziate con l’accoglimento del Vangelo, ci aprono al futuro di Dio, al futuro che è Dio stesso in noi.
Il giorno che ci aspetta, il giorno di Gesù Cristo, è quello che nell’Antico Testamento veniva chiamato il giorno di Jahvè, con la nuova connotazione, il nuovo arricchimento che a questo evento porta il Nuovo Testamento.
Sappiamo che il giorno di Jahvè è uno dei temi centrali della rivelazione biblica. La storia della salvezza si concluderà in un giorno che è appunto il giorno di Dio. In quel giorno Dio porterà a compimento la storia del mondo e introdurrà nella salvezza coloro che ad essa sono destinati. Sarà quello il giorno in cui finiranno il peccato e la morte e inizierà la vita di eterna comunione con Dio.
Secondo la prospettiva veterotestamentaria questo giorno di Jahvè si compie con l’avvento del Messia. L’inviato di Dio porta a conclusione la storia della salvezza e pone fine al peccato e alla morte; con essi pone anche fine alla storia del mondo per iniziare il nuovo tempo, il nuovo giorno, la nuova era, che è l’era della Salvezza.
Questo giorno di Jahvè, che si compie con il Messia, trova però un’illustrazione ulteriore nel Nuovo Testamento. Noi sappiamo che con la venuta di Gesù Cristo, che è il Messia di Dio, non è venuto a compimento il mondo, non è finita la storia del mondo. La storia continua e noi parliamo, nella logica del Nuovo Testamento, di una prima venuta e di una seconda venuta del Messia. Sotto certi aspetti sarà questa seconda venuta del Messia che si carica della pienezza di significato del giorno di Jahvè del Vecchio Testamento; quindi il giorno di Jahvè del Vecchio Testamento si sdoppia, potremmo dire, in due giorni: la prima e la seconda venuta del Cristo.
Questo tempo intermedio, che va dalla prima alla seconda venuta del Cristo, è il nostro tempo, il tempo della Chiesa, il tempo della proclamazione evangelica, il tempo della comunione all’Evangelo, come dice qui Paolo. Questo tempo inter­medio poi, in realtà, è tutto l’ultimo giorno di Jahvè, che troverà nella manifestazione escatologica il suo compimento. Noi quindi stiamo già vivendo il giorno finale, viviamo già il tempo della salvezza, come dice Paolo in 2 Cor 6,1-2.
Questo giorno della salvezza, che il Nuovo Testamento definisce appunto come il giorno di Cristo Gesù, non è un qualcosa di inatteso, che capita senza che sappiamo che senso o che valenza abbia, ma è il giorno della consumazione dell’opera già da Dio iniziata in Gesù Cristo, con la proclamazione del Vangelo e con la sua Passione, Morte e Resurrezione.
Questo giorno, quindi, non è un qualcosa di sconosciuto e di sconvolgente per il credente, ma è l’oggetto della sua speranza. Il credente non aspetta l’ultimo giorno con paura, terrore o angoscia; lo aspetta nella gioia e nella pace, sapendo che questo giorno altro non sarà che il perfezionamento dell’opera che Dio ha già iniziato in noi.
Nel futuro, davanti a noi, abbiamo soltanto un Dio che salva, abbiamo soltanto la misericordia, la grazia e la pace che Dio ci ha elargito in Gesù Cristo Signore. 
Pensare-sentire come Gesù 
V. 7/a: « È giusto, del resto, che io pensi questo di tutti voi ».
È giusto che Paolo pensi che nei cristiani di Filippi si compie l’opera salvifica del Padre; è giusto che egli veda i cristiani di Filippi come una comunità credente che cammina verso il compimento dell’opera che Dio ha iniziato in essa.
Cosa significa questo « è giusto »? Significa che corrisponde a verità, fa parte dell’obbedienza al Signore che Paolo deve avere. È molto interessante questa sottolineatura: non solo è bello, non solo gli piace, ma è giusto che pensi così.
Perché è giusto che Paolo pensi così? Perché il compiersi dell’opera di Dio nella comunità di Filippi non appartiene a lui; egli deve riconoscerlo, deve prenderne atto e deve renderne grazie al Signore. Se non lo facesse, Paolo sarebbe infedele. La giustizia intesa nel forte senso biblico vuole che Paolo riconosca nei cristiani di Filippi la misericordia e la grazia del Signore. È un riconoscimento che Paolo deve all’opera del Padre.
Sarebbe interessante anche sottolineare il significato della parola « pensare »: è giusto che io pensi a voi. Questo « pensare », nel senso originario della parola greca, contiene anche il sentire. Non è soltanto un pensare a livello intellettuale, ma un pensare anche a livello di affettività, di sentimento. Paolo sente-pensa. Questo sentire-pensare indica lo stato d’animo profondo, è ciò che l’uomo racchiude nelle profondità del proprio essere. Ed è questo sentire profondo di tutto l’essere di Paolo che corrisponde a giustizia.
Su tutto questo però ritorneremo, perché sul termine che rendiamo con sentire-pensare la Lettera ai Filippesi torna ripetutamente. Al versetto 5 del capitolo secondo dirà: « Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù ». La parola che lì si traduce con « sentimenti » ha la stessa radice di quella che qui viene tradotta con « pensare ».
Paolo pensa in questo modo, i cristiani devono pensare anche loro così, sempre nel senso di una profonda presa di coscienza, che poi non è altro che il modo di pensare-sentire di Cristo Gesù. I cristiani devono pensare come pensava Gesù, devono sentire come sentiva Gesù. È il pensare-sentire di Gesù Cristo che deve attuarsi in tutti i cristiani.
Uscendo dal testo della Lettera ai Filippesi, questa parola trova un’ulteriore specificazione quando leggiamo negli Atti che i primi cristiani avevano un cuore solo e un’anima sola: sono termini diversi, ma vogliono dire la stessa cosa. Avere un cuore solo e un’anima sola vuoi dire sentire e pensare nello stesso modo, che è il modo di pensare profondo che fu ed è di Gesù Cristo. 
Un amore generante 
V. 7/b: « … perché vi porto nel cuore, voi che siete tutti par­tecipi della grazia che mi è stata concessa ». 
Paolo, dunque, dice « È giusto che io pensi questo di tutti voi » come conclusione di quello che ha detto prima, ma con un’ulteriore motivazione: « perché vi porto nel cuore ». Ed egli porta nel cuore i cristiani di Filippi – potremmo dire: fa tutt’uno con loro -, perché sono partecipi della stessa grazia che è stata a lui concessa. Il ringraziamento gioioso che Paolo innalza al Padre per l’adesione dei Filippesi al Vangelo è lo stesso gioio­so ringraziamento che deve a Dio per la propria fede. Nei cristiani non c’è un ringraziamento a Dio per il proprio dono di salvezza che sia diverso da quello che innalzano per il dono di salvezza degli altri credenti. Essi si portano a vicenda nel cuore davanti al Signore, lodandolo per la misericordia che tutti li ha avvolti.
Questa sottolineatura di Paolo è significativa in questo con­testo, perché il « portarli nel cuore » è visto come causa del ringraziamento che Paolo rende al Padre e come attuazione della verità, dell’autenticità, della giustizia del pensare in questo modo i cristiani di Filippi. L’amore di Paolo è parte attiva della fedeltà dei Filippesi: se Paolo porta nel cuore i Filippesi, questo portarli dentro di sé è una potenza, è una forza salvifica nei confronti dei Filippesi. Non siamo di fronte semplicemente a un fatto affettivo, ma a un atto generatore di quella salvezza di Dio che si è compiuta in Gesù Cristo. Questo è un concetto importante: l’amore di Paolo verso i cristiani di Filippi è un amore generante, un amore trasfigurante, un amore che salva.
La stessa cosa vale per tutti noi: come Paolo amando i fratelli è compartecipe dell’opera di salvezza che il Cristo compie in essi, così noi, amando i fratelli, diventiamo compartecipi dell’opera della loro salvezza e della loro santificazione.
Questo crea un collegamento d’importanza decisiva nella comunione dei credenti: l’amore con cui ci amiamo gli uni gli altri altro non è che il compimento dell’amore del Cristo. È Cristo che ci ha amato per primo e amandoci ci ha salvati; ma anche noi amandoci gli uni gli altri facciamo sì che questo amore diventi operante all’interno della comunità e quindi siamo compartecipi della salvezza gli uni degli altri.
L’affermazione di 1 Pt 1,22, anche se non è proprio identica all’affermazione di Paolo, tuttavia ci aiuta a capirla: « Dopo aver santificato le vostre anime con l’obbedienza alla verità, per amarvi sinceramente come fratelli, amatevi intensamente, di vero cuore, gli uni gli altri ». L’amore dei cristiani fra loro è una necessità intrinseca all’accoglienza dell’amore di Dio. Se abbiamo accolto in noi l’amore di Dio che ci è venuto in Gesù Cristo e che in Lui ci salva, questo amore ci rende a nostra volta capaci di amarci gli uni gli altri. E dobbiamo farlo, per­ché amandoci ci salviamo a vicenda.
Quindi l’espressione « vi porto nel cuore » non dice soltanto un affetto particolare di Paolo nei confronti dei cristiani di Filippi, ma è qualcosa di più profondo, qualcosa di decisivo per la salvezza dei Filippesi.
Il fatto poi che Paolo porti nel cuore i Filippesi e che questo sia per loro fonte di salvezza, si concretizza nel fatto che Paolo annuncia loro il Vangelo. Per Paolo amore per i cristiani di Filippi e annuncio evangelico vengono a coincidere.
Ne viene un’altra conseguenza importantissima per i nostri rapporti vicendevoli: se ci amiamo davvero gli uni gli altri, se ci portiamo gli uni gli altri nel cuore, dobbiamo annunciarci a vicenda il Vangelo.
Potremmo continuare, perché questo concetto è come una strada che si dirama in mille sentieri: per esempio, quando ci correggiamo con la correzione fraterna autentica, che è un confronto di tutti con il Vangelo, consumiamo nella forma più alta il nostro amore fraterno. Non posso correggere un fratello, se non lo amo; ma lo amo solamente se lo correggo, an­nunciandogli il Vangelo per la sua concreta situazione. Non c’è opera di carità che contemporaneamente non sia annuncio evangelico e non c’è annuncio evangelico che non sia allo stesso tempo opera di carità.
Perché Paolo li porta nel cuore? Perché vede compiersi in loro l’opera salvifica del Padre con la loro partecipazione alla grazia del Vangelo. I cristiani di Filippi, che hanno accolto il vangelo di Paolo, sono compartecipi della grazia affidata a Paolo, che è quella di annunciare il Vangelo. 
Le catene e la lotta 
v. 7Ic: “… sia nelle catene, sia nella difesa e nel consolidamento del Vangelo ».
L’essere partecipi della grazia concessa a Paolo trova in questi versetti un’ulteriore specificazione: la compartecipazione alla grazia concessa a Paolo si ha per i Filippesi nei due momenti in cui in Paolo trova una piena verifica di questa grazia: primo, le catene; secondo, la difesa e il consolidamento del Vangelo.
Facciamo riferimento ad Atti 26, quando Paolo riferisce al re Agrippa l’evento centrale della sua esistenza:
« In tali circostanze, mentre stavo andando a Damasco con autorizzazione e pieni poteri da parte dei sommi sacerdoti, verso mezzogiorno vidi sulla strada, o re, una luce dal cielo, più splendente del sole, che avvolse me e i miei compagni di viaggio. Tutti cademmo a terra e io udii dal cielo una voce che mi diceva in ebraico: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Duro è per te recalcitrare contro il pungolo. E io dissi: Chi sei, o Signore? E il Signore rispose: lo sono Gesù, che tu perseguiti. Su, alzati e rimettiti in piedi; ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora. Per questo ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando ad aprir loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio e ottengano la remissione dei peccati e l’eredità in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me » (At 26,12-18).
Nello stesso momento in cui Paolo incontra il Signore risorto viene inviato come missionario a proclamare il Vangelo. Questa è la grazia che Paolo ha ricevuto; e viene legata, in modo particolare nel cap. 22 degli Atti, a un contenuto di continua sofferenza. Per Paolo, cioè, l’annunciare il Vangelo ai pagani fa tutt’uno con la sua croce. La partecipazione alla grazia di Paolo, che è fondamentalmente la grazia di annunciare il Vangelo, è quindi anche una partecipazione alle sue catene.
Coloro che sono partecipi della grazia concessa a Paolo verificano proprio nel loro patire l’autenticità della loro esistenza di fede. Si realizza così la parola che il Signore stesso aveva pronunciato: « Hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi » (cf. Gv 15,18-20 e 16,1-2). Il cristiano rivela la sua auten­ticità di discepolo nel momento in cui entra in comunione con le sofferenze del Cristo. Questo, Paolo lo ha ben chiaro e di­cendo ripetutamente che lui ha patito più degli altri rivendica l’autenticità della sua proclamazione evangelica.
Paolo esprimerà lo stesso concetto nei vv. 27-28 di questo stesso capitolo: « Soltanto però comportatevi da cittadini degni del Vangelo, perché nel caso che io venga e vi veda o che di lontano senta parlare di voi, sappia che state saldi in un solo spirito e che combattete unanimi per la fede del Vangelo, senza lasciarvi intimidire in nulla dagli avversari ». C’è, quindi, una persecuzione che non può non verificarsi per i cristiani di Filippi.
Ma qui Paolo allude anche, chiaramente, a quello che sarà affrontato con più ampiezza nel capitolo terzo, cioè al problema delle eresie. La fede cristiana rischia sempre di essere rimessa in discussione, di essere contraffatta, di essere annacquata. I cristiani autentici invece restano in difesa della vera fede, operano e combattono per il consolidamento della sua autenticità. Paolo al cap. 3, v. 2, dirà: « Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli che si fanno circoncidere! ». Allude ai cristiani che all’interno della comunità predicano un vangelo non conforme al suo, non conforme al Vangelo di Dio.
Sarà, questo, un tema centrale nella Lettera ai Galati, quando Paolo si meraviglia del fatto che i cristiani della Galazia abbiano abbandonato il Vangelo. Dice al cap. 1, v. 6: « Mi meraviglio che così in fretta da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo passiate ad un altro Vangelo. In realtà, però, non ce n’è un altro; solo che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il Vangelo di Cristo. Orbene, se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anatema! ».
La partecipazione alla grazia di Paolo si ha, quindi, nella par­tecipazione alle sue sofferenze, ma anche nella partecipazione alla difesa e al consolidamento del Vangelo.
Ovviamente, quello che è detto per i cristiani di Filippi vale per i cristiani di tutti i tempi. Ogni comunità cristiana è partecipe della grazia di Paolo, se è partecipe delle sue catene e della difesa-consolidamento del Vangelo.
Da una parte, questo è un fatto drammatico, perché ci prospetta un fatto ineliminabile: il continuo combattimento! Non ci sarà mai nella comunità dei credenti un momento in cui si possa tirare il fiato; c’è sempre un’opera di consolidamento e di difesa del Vangelo che va portata avanti e condotta alle estreme conseguenze.
D’altra parte è anche un fatto consolante, perché quel che si patisce in questo combattimento per il Vangelo ci garantisce che siamo in comunione col Cristo. E con Paolo. 
« Il profondo affetto che ho per voi » 
V.8: “Infatti Dio mi è testimonio del profondo affetto che ho per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù ».
È una ripresa del versetto precedente (« Vi porto nel cuore »), ma qui Paolo chiama Dio a testimone della sua affermazione. L’amore di Paolo non è una parola, ma è un fatto che può essere testimoniato da Dio. È come se Paolo in questo momento facesse un solenne giuramento e lo pronunciasse non davanti a un uomo, ma davanti a Dio.
Dio che, come sappiamo dall’Antico Testamento, non guarda le apparenze ma l’intimo del cuore umano, sa e può testimoniare che l’attestazione di amore di Paolo verso i cristiani di Filippi non è menzogna e inganno, ma una realtà profonda di tutto il suo essere. 
Paolo è ricolmo di amore per i cristiani di Filippi, perché egli a sua volta è nell’amore di Cristo: « … del profondo affetto che ho per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù ». Paolo è radicato nell’amore di Gesù, fonte e causa di ogni amore. L’espressione che qui viene tradotta « nell’amore di Cristo Gesù », alla lettera dovrebbe essere tradotta: « nelle viscere di Cristo Gesù ». Si tratta, cioè, di un amore che prende tutto l’essere, potremmo dire di un amore viscerale. Molte volte usiamo questa espressione in senso dispregiativo, per dire un amore non lucido, istintivo, di… seconda categoria. Paolo, invece, la usa per indicare l’amore di Cristo. Ora, l’amore che Gesù nutre per noi è un amore viscerale, ma nel senso che è totale, amore di tutto il suo essere! È l’amore di Cristo che piange sulla morte di Lazzaro. Amore appassionato, quello del Signore! Così è anche l’amore di Paolo: un amore appassionato come quello di Gesù. Chi è in Cristo, dice Paolo, ama in Cristo e il suo amore è vero, autentico. Del suo amore può rendere testimonianza Dio Padre. 
« Ama e fa’ ciò che vuoi » 
V. 9: “E perciò prego che la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento… « . 
A questo punto Paolo si riallaccia a quello che aveva detto ai vv. 3-4: « pregando sempre con gioia per voi in ogni mia preghiera ». Qual è l’oggetto di questa preghiera? Per che cosa prega Paolo? Il testo dei vv. 9, 10 e 11 ci presenta il contenuto della preghiera di Paolo, con tre successivi livelli. Sono tre le cose per cui Paolo prega. La prima è « che la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento », Paolo prega che l’amore che Dio ha suscitato nei Filippesi cresca, che si dilati sempre più. Questa è un’ulteriore ca­ratteristica dell’amore cristiano: è una realtà dinamica, una realtà sempre in sviluppo. Non è qualcosa di dato una volta per tutte, ma qualcosa che deve continuamente arricchirsi e dilatarsi. Se per ipotesi si fermasse » verrebbe meno. La necessità di una continua crescita fa parte della logica dell’amore cristiano.
Oltre a questo, Paolo prega perché questo amore, che deve dilatarsi continuamente, « si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento ». Le due parole « conoscenza » e « discernimento » stanno a indicare due aspetti della conoscenza umana. La prima individua la conoscenza intellettuale, potremmo dire la penetrazione della verità in se stessa: ciò che Dio ci rivela, comunica, trasmette. La seconda indica piuttosto la conoscenza pratica di ciò che è bene fare e di ciò che è bene non fare, cioè la conoscenza operativa su quello che è necessario scegliere, giorno per giorno, per essere conformi a questo amore.
Da questa affermazione di Paolo si deduce che nel cristianesimo tutto dipende dall’amore. La conoscenza e il discernimento sono un frutto della carità e sono l’attuazione esistenziale concreta di questa carità. Viene in mente la frase classica di s. Agostino che traduceva così questo concetto: « Ama e fa’ ciò che vuoi ». 
Davvero, se uno è nell’amore di Dio, tutto ciò che esce dal suo cuore è frutto di questo amore di Dio in lui. Quindi chi ama davvero può far ciò che vuole, perché quello che lui vuole altro non è che la proiezione concreta dell’amore di Dio che opera in lui. Alla radice di tutto c’è l’amore di Dio, che si concretizza in una lucida conoscenza della verità che Dio ci propone con la sua Parola e in una lucida conoscenza di ciò che è necessario fare per realizzare questa verità nel comportamento di ogni giorno.
Nell’esistenza cristiana non è pensabile una verità che non sia sviluppo della carità. Verità e carità sono inscindibili. Una verità che si contrapponga alla carità non è verità cristiana; allo stesso modo una carità che facesse a pugni con la verità non sarebbe vera carità cristiana. Questo è un criterio di discernimento decisivo. Quante volte nella storia della Chiesa la verità ha fatto a pugni con la carità! Il che vuoi dire che non era verità. Allo stesso modo, quando si pretende di vivere la carità senza tener conto della verità, non si è nella carità autentica.
È molto facile capire che una verità che si opponga alla carità non è verità. Forse è più difficile capire una carità che non sia verità. Facciamo, perciò, un esempio banale: noi impediamo a un bambino di giocare con un coltello, perché gli vogliamo bene. Si potrebbe obiettare: ma se gli vogliamo bene, dobbiamo lasciargli fare tutto ciò che vuole! No, non sarebbe volergli bene, perché non terrebbe conto della realtà oggettiva. Anche nella vita cristiana non tutto ciò che sembra ispirato dalla carità è giusto. C’è la verità del Vangelo, a cui bisogna essere sempre obbedienti. Il rapporto tra carità e verità è molto stretto e va continuamente verificato.
Si è voluto a volte, anche recentemente e da uomini autorevoli, giustificare la prassi della Chiesa di mandare al rogo le presunte streghe nei secoli scorsi. Si è detto che bisogna stare molto attenti ad accusare la Chiesa di non avere esercitato la carità in quelle circostanze, perché « bisogna tenere conto che la carità va sempre unita alla verità ». In fondo l’aver bruciato quella gente è stato un atto di verità e quindi anche un atto di carità. È orribile che si possa dire questo!
Pensare che la verità passi attraverso l’eliminazione fisica di una persona umana è un’aberrazione. Purtroppo molti cristiani lo pensano, il che vuoi dire che davvero non è loro chiaro il rapporto tra carità e verità. Quando la verità fredda e astratta prevale sull’autentica carità, non si può più parlare di verità in senso evangelico.
Purtroppo anche i santi sono caduti a volte in questi equivoci. Si pensi, per esempio, a san Giovanni da Capestrano, il predicatore dell’ultima crociata, che aveva come motto « Indulgenza plenaria per ogni testa di turco »; oppure al grande sant’Agosti no che per primo chiese l’intervento del pubblico potere in una vicenda di Chiesa. Per eliminare l’eresia dei Donatisti li fece ammazzare.
C’è solo un modo per affrontare l’interrogativo posto da queste vicende, e cioè com’è possibile che nonostante queste aberrazioni quegli uomini abbiano fatto un’esperienza di Dio così forte da essere poi proclamati santi. Dobbiamo sempre distinguere fra quella che è la retta intenzione e quella che è la verità oggettiva. Ci sono stati e ci sono nella Chiesa fasi di oscuramento di alcuni principi, di cui il singolo non è responsabile. Quella determinata concezione fa parte di un patrimonio culturale acquisito e quindi è difficilissimo che uno se ne liberi. Certi errori oggettivi fanno parte di un’epoca, di una cultura, di una tradizione. E allora, anche aderendo a quegli er­rori, ci può essere un’autentica esperienza di Dio.
Qual è la conclusione? Che la Chiesa faccia sempre riferimento al Vangelo e purifichi nel Vangelo tutte le concezioni del proprio tempo. Purtroppo in molte epoche il Vangelo è rimasto un libro chiuso, nel quale non ci si specchiava a sufficienza. 
Il santo è figlio del proprio tempo. Può purtroppo capitare che essere figli di un tempo e di una cultura sia più forte dell’essere fedeli alla totalità del Vangelo. Una certa cultura può oscurarne alcune parti, di cui non si è più coscienti né consapevoli.
Torniamo all’epoca delle crociate: era impensabile o era ra­rissimo (san Francesco ) che uno fosse libero dallo spirito crociato. Di san Francesco ce n’era uno solo. Si potrà dire che questo è un dramma; sì, certo, ed è anche un mistero. Come è possibile che, pur avendo fatto esperienza di Dio, si possa essere più figli del proprio tempo che del Vangelo?
Tra l’altro, certi comportamenti ecclesiali sono fondati su una erronea lettura di passi biblici. Questo ci fa ancor meglio capire come certe persone siano state nell’impossibilità di capire nel profondo, perché c’era un oscuramento generale di concetti, addirittura una lettura sbagliata della Bibbia!
Facciamo un altro esempio a questo proposito: s. Roberto Bellarmino fu uno degli artefici della condanna di Galilei. Ma lui leggeva nella Scrittura che il sole gira attorno alla terra! Se è scritto così, cosa va ad inventare Galilei? Trattandosi di argomentazioni tratte dalla Bibbia, non è facile opporsi ad esse! La conclusione di tutto questo, il punto di arrivo per ciascuno di noi è che dovremmo relativizzare al massimo ciò che pensiamo. Dovremmo essere sempre in conversione, in continua metanoia (cambiamento della mente), per uniformare sempre più il nostro modo di pensare al Vangelo. Dobbiamo renderci conto che « i pensieri di Dio non sono i nostri e le vie di Dio non sono le nostre vie ».
Questo ragionamento ci fa toccare con mano una delle piaghe più drammatiche della storia della Chiesa, quella frattura tra verità e carità che invece in Paolo sono perfettamente coincidenti, per cui davvero soltanto se c’è carità profonda e autentica la nostra lucidità è piena; e soltanto se c’è corrispondenza autentica con il pensare di Dio la nostra carità è perfetta. 
Frutti di giustizia 
v. 10: “perché possiate distinguere sempre il meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo ».
Paolo continua chiedendo, nella preghiera, la condotta cristiana autentica. Con questa sottolineatura: che la vita cristiana sia una tensione verso il giorno del Signore: « integri e irreprensibili per il giorno di Cristo ». Ricordiamo la preghiera che era tipica della Chiesa primitiva: Vieni, Signore Gesù! La prima comunità cristiana era continuamente rivolta verso il Si­gnore che viene, in attesa del suo ritorno; quindi l’esistenza cristiana è vista e presentata come un’esistenza escatologica, cioè un’esistenza proiettata verso il futuro, nell’attesa e nella speranza.
Inoltre Paolo dice: « ricolmi di quei frutti di giustizia che si ottengono per Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio ». L’esistenza cristiana deve essere una pienezza di obbedienza alla volontà del Signore. I « frutti di giustizia » sono appunto i frutti dell’obbedienza. La giustizia cristiana è essenzialmente obbedienza al Vangelo, obbedienza alla volontà del Signore. I frutti della giustizia che devono ricolmare di sé l’esistenza cristiana sono appunto quella condotta quotidiana che obbedisce momen­to per momento alla volontà del Signore. Esistenza cristiana finalizzata esclusivamente alla gloria e alla lode di Dio.
Il cristiano vive in attesa del ritorno del Signore praticando l’obbedienza al Vangelo a gloria e lode di Dio: quello che fa non lo fa per sé, ma lo fa per il Signore, ricercando esclusivamente la gloria e la lode del Signore, non il proprio vantaggio.
« Per mezzo di Cristo Gesù »: perché tutto dipende da Cristo, tutto è dono suo, tutto è frutto della sua grazia. Se nell’esistenza cristiana (e questo è un altro contenuto della preghiera di Paolo) c’è questa pienezza del frutto di giustizia, è unicamente dono della sua misericordia e della sua potenza. Soltanto per mezzo di Cristo si può vivere autenticamente la fede cristiana. Questa è una sottolineatura importante: l’esistenza cristiana è possibile soltanto come atto di grazia di Gesù Cristo. Non è possibile in virtù delle forze dell’uomo, ma soltanto come grazia di Dio in Gesù Cristo.
Tutto è grazia nella vita cristiana: è Dio che porta a compimento la salvezza e un’esistenza conforme alla salvezza nell’obbedienza al Vangelo. 

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LA LINGUA LATINA: PONTE TRA « HUMANITAS » E VANGELO

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LA LINGUA LATINA: PONTE TRA « HUMANITAS » E VANGELO

Intervista a don Roberto Spataro, segretario della nuova Pontificia Accademia di Latinità istituita sabato da Benedetto XVI

di Salvatore Cernuzio
ROMA, martedì, 13 novembre 2012 (ZENIT.org) La lingua latina è stata tenuta in altissima considerazione dalla Chiesa Cattolica e dai Romani Pontefici, che l’hanno eletta a propria lingua, perché capace di trasmettere universalmente il messaggio del Vangelo.
È quanto scrive Benedetto XVI nella Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio con il quale ha istituito, sabato, la Pontificia Accademia di Latinità. Obiettivo dell’Accademia, che dipenderà dal Pontificio Consiglio della Cultura, sarà promuovere e valorizzare la lingua e la cultura latina, in particolare presso le istituzioni formative cattoliche.
Essa sarà costituita da un massimo di cinquanta membri ordinari, detti accademici, studiosi e cultori della materia, che verranno nominati dal segretario di Stato il prossimo mercoledì 21 novembre nell’Aula Magna del Palazzo San Pio X, in Via della Conciliazione.
Presidente dell’Accademia sarà il prof. Ivano Dionigi, Magnifico Rettore dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. In veste di segretario, invece, è stato designato, don Roberto Spataro, S.D.B., segretario del Pontificium Istitutum Altioris Latinitatis dell’Università Pontificia Salesiana. ZENIT lo ha intervistato.
***
Come ha accolto questo nuovo incarico assegnatole dal Santo Padre?
Don Spataro: Con grandissima riconoscenza al Papa per la fiducia concessami e con i sentimenti di un salesiano: don Bosco ci ha lasciato in eredità spirituale una devozione incondizionata ed affettuosa al Papa e al Suo magistero
Qual è il motivo per cui il Papa ha istituito l’Accademia?
Don Spataro: Secondo me, ci sono un motivo contingente ed uno sostanziale. Il primo: all’interno delle istituzioni formative della Chiesa Cattolica lo studio del latino è molto scemato ed occorre invertire la tendenza. Il secondo: Benedetto XVI con il Suo altissimo Magistero ci ricorda che fede e ragione sono alleate. L’immenso patrimonio, da riscoprire o da scoprire, prodotto in lingua latina lo sta a testimoniare. 
Benedetto XVI nella sua Lettera ha dichiarato che ai nostri tempi la conoscenza della lingua e della cultura latina risulta « quanto mai necessaria ». Perché?
Don Spataro: Benedetto XVI ha una visione profetica della storia. Ha compreso bene che il mondo attuale sta attraversando una crisi antropologica gravissima. Per superarla, è indispensabile recuperare e diffondere la cultura umanistica, che è stata forgiata e diffusa, in buona parte, in lingua latina.
La lingua latina coinvolge diversi ambiti: la ricerca sulla tradizione cristiana, classica e pagana, le università, i seminari, le scuole, la divulgazione ad alto livello. In che modo l’Accademia riuscirà a creare un ponte fra tutti questi?
Don Spataro: Credo che lAccademia potrà adempiere questi compiti grazie ad alcune condizioni favorevoli: anzitutto, la sua azione è coordinata dal Pontificio Consiglio della Cultura, in secondo luogo gli accademici rappresenteranno un ventaglio molto ampio di istituzioni ecclesiali e laiche.
Come si inserisce lo studio del latino nel contesto della Nuova Evangelizzazione?
Don Spataro: In latino sono stati espresse tantissime manifestazioni della fede e tanti documenti che regolano il contenuto della fede. Le faccio un esempio: ho conosciuto sacerdoti che proponevano ai visitatori splendide catechesi commentando un’epigrafe scritta in latino.
Cè un nesso ancora più profondo: chi è educato allo studio del latino e, dunque, accede alla letteratura in lingua latina, assume una forma mentis che lo aiuta a cogliere l’armonia tra l’humanitas e il Vangelo. Un esempio: Terenzio con il suo homo sum et humani nihil a me alienum puto prepara la via alla fratellanza insegnata dal Discorso della montagna, oppure, per spostarci ai secoli dell’Umanesimo europeo, l’orazione di Pico della Mirandola sulla dignità dell’uomo, è un’esaltazione della nozione biblica di libero arbitrio.
Sempre il Papa ha rilevato che laddove si registra una certa superficialità nella conoscenza del latino, si riscontra un rinnovato interesse. Lei cosa ne pensa?
Don Spataro: Da poco ho letto un messaggio da un professore di Pechino che mi ha parlato con entusiasmo del numero sempre crescente di studenti cinesi che sono affascinati da questa lingua. C’è persino una vivacissima associazione Latinitas sinica che sta operando con successo. Ieri, un professore di Latino della Catholic University of America mi ha parlato di vari progetti educativi per rispondere al crescente interesse per il Latino.
In Belgio c’è una scuola dove alcune materie sono insegnate in Latino. In Germania sono oltre 800.000 gli studenti che scelgono il Latino. Perché tutto questo? Io credo che molti giovani, delusi dalle dottrine dei cattivi maestri, vogliono attingere direttamente, senza la mediazione delle traduzioni, alle sorgenti pure di un insegnamento autentico, quello della Latinitas classica, cristiana, umanistica, e riacquistare una sorta di innocenza spirituale.
La Pontificia Accademia di Latinità, secondo lo Statuto, dovrà curare pubblicazioni, incontri, sostenere corsi e iniziative formative; oltre a organizzare attività espositive come mostre e concorsi. Come si coniuga il latino al mondo dell’arte e della formazione?
Don Spataro: Il latino è una lingua formativa: possiede doti di chiarezza e sobrietà che aiutano ad esprimere il pensiero con lucidità e rigore logico. E poi l’arte! La lingua latina è artistica, è bella: come non essere ammirati dalla concinnitas ciceroniana e da quella, anche se più mobile, di Livio? Come non entusiasmarsi per il periodare di Seneca che ci invita a meditare con le sue frasi parattaticamente disposte, brevi ed incalzanti? Come non sentire il brivido della bellezza di fronte allo scavo psicologico di Agostino, espresso in quel suo stile inconfondibilmente classico e moderno, ove le figure retoriche danno un vigore originalissimo al pensiero? Come non paragonare ad un’architettura possente e prestigiosa lo stile di Leone Magno? E che cosa dire della poesia latina che narra i miti in cui i grandi significati dell’esistenza umana sono tutti racchiusi in versi metricamente sonori, un canto che culla i moti dell’anima, tutti i moti, tutti i sentimenti del cuore, gioie, dolori, speranze, sogni, malinconia, ebbrezze ed amore?
Un’ultima domanda: è veramente possibile imparare bene il latino?
Don Spataro: È soprattutto una questione di metodo. Da oltre quarantanni si sta diffondendo, con la triste eccezione dell’Italia, il cosiddetto metodo-natura. Dove viene applicato con serietà, i risultati parlano da soli: studenti che risultano vincitori nei certamina, giovani che leggono Tacito senza affannarsi sul vocabolario, umanisti che scrivono e parlano in latino. Vorrei ricordare a tal proposito due istituzioni che hanno adottato questa scelta: l’Academia Vivarium Novum, con sede a Roma, un’istituzione educativa che raduna studenti da tutto il mondo, e il Pontificium Institutum Altioris Latinitatis, presso l’Università Pontificia Salesiana, menzionato negli Statuti della neonata Pontificia Academia come l’istituzione ecclesiale privilegiata per apprendere il latino.

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The icon of the Mother of God « Queen of All, »

The icon of the Mother of God

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Publié dans:immagini sacre |on 12 novembre, 2012 |Pas de commentaires »

Lettura e commento della Lettera ai Filippesi, Cap. I : Fil 1,1-30

http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/zaccherini_filippesi2.htm

Gianni Zaccherini  

RENDETE PIENA LA MIA GIOIA

Lettura e commento della LETTERA AI FILIPPESI

Capitolo primo
Sia che io viva, sia che io muoia
Fil 1,1-30

Mittenti, destinatari e saluto (w. 1-2)
Il capitolo primo può essere diviso in varie parti. Sostanzialmente, seguendo la divisione che ne dà la Bibbia di Gerusalemme, in quattro parti: i versetti 1-2, poi 3-11, 12-26 e infine 27-30.
I primi due versetti contengono, come sempre nelle lettere di Paolo, con formule diverse, ma con uno schema classico e tipico di Paolo l’indicazione dei mittenti. Qui Paolo, fatto interessante, unisce a sé anche Timoteo. È quindi una lettera che proviene sia da Paolo che da Timoteo.
Poi sono indicati i destinatari.  
Infine c’è il saluto e la benedizione che Paolo impartisce ai cristiani a cui scrive. 

Paolo e Timoteo 
V. 1/a: « Paolo e Timoteo, servi di Cristo Gesù »
Paolo e Timoteo sono gli autori di questa lettera, o meglio, Paolo associa a sé anche Timoteo, personaggio ben conosciuto dai cristiani di Filippi. C’è un riferimento nella lettera stessa al cap. 2, v. 19: « Ho speranza nel Signore Gesù di potervi inviare presto Timoteo per essere anch’io confortato dal ricevere vostre notizie. Infatti non ho nessuno di animo uguale al suo e che sappia occuparsi così di cuore delle cose vostre, perché tutti cercano i propri interessi e non quelli di Gesù Cristo. Ma voi conoscete la buona prova da lui data, poiché ha servito il Vangelo con me come un figlio serve il padre. Spero quindi di mandarvelo presto non appena avrò visto chiaro nella mia situazione. Ma ho la convinzione nel Signore che presto verrò anch’io di persona ». Quindi Timoteo è ben conosciuto dai cristiani di Filippi che lo stimano, sanno che ha lavorato per il Vangelo con sincerità e con fedeltà; non con spirito umano, ma con un’adesione profonda nella fede; non cercando il proprio interesse, ma soltanto quello del Signore.
È evidente che Timoteo non è colui che ha scritto la lettera, ma è colui che assieme a Paolo la invia ai cristiani di Filippi. La lettera rimane sempre e fondamentalmente opera di Paolo. Comunque è significativo che Paolo associ a sé questo suo fedele collaboratore anche nell’inviare questa lettera ai cristiani di Filippi.
La parola « servo » è sempre presente nelle lettere di Paolo ed è fondamentale per capire e rivelare il rapporto di Paolo con il Signore. Servi o meglio schiavi di Cristo Gesù. È una parola chiave, che definisce il rapporto che lega Paolo, e in questo caso anche Timoteo, al Cristo: un rapporto di totale appartenenza e di totale dipendenza. Paolo e Timoteo sono schiavi del Cristo Signore; non c’è in loro alcuna autonomia come non ce n’è nessuna nello schiavo. Sono strettamente dipendenti dal Signore e fanno esclusivamente quello che il Signore vuole ed esige per la diffusione del Vangelo.
È una definizione chiarissima ed emblematica del rapporto del cristiano con il suo Signore, perché quello che sono Paolo e Timoteo dovrebbe esseri o ogni cristiano. Noi sappiamo inoltre che, in un ampliamento e approfondimento di questo concetto, ogni cristiano deve essere servo non soltanto del Cristo, ma anche del proprio fratello. Il vangelo di Giovanni è illuminante in questa prospettiva. Il Cristo, dopo aver lavato i piedi ai discepoli, dice loro: « Avete visto quello che vi ho fatto? Se io, il Maestro e il Signore, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri » (Gv 13,12.14). Il servizio dello schiavo che il Cristo ha fatto ai discepoli è il servizio che ogni discepolo deve fare al fratello in obbedienza e in appartenenza al Signore. 

A tutti i santi 
V.1/b: « a tutti i santi in Gesù Cristo che sono a Filippi, con i vescovi e con i diaconi ».
I destinatari di questa lettera sono i santi in Cristo Gesù che sono a Filippi, cioè i cristiani che vivono in questa città. Paolo definisce i discepoli di Gesù, come in altri passi di altre lettere, come i santi. La parola « santo » come qualifica del cristiano è significativa. Vuoi dire fondamentalmente questo: il cristiano che è in Cristo Gesù (è importante la specificazione « in Cristo Gesù »: il cristiano è in questa condizione per la fede e i sacramenti, in particolare il Battesimo e l’Eucarestia) è santo; ed è santo in quanto in comunione con Dio, perché Dio è l’unico santo secondo la rivelazione biblica.
Santo vuoi dire separato, lontano, non partecipe della corruzione e del peccato del mondo. Il cristiano che è in Cristo Gesù per la fede e per i sacramenti appartiene a Dio, è in comunione con Lui e quindi è separato da ciò che è peccato, da ciò che è mondo, da ciò che è morte. I cristiani, cioè, sono nella sfera d’azione di Dio, nell’ambito della misericordia e della salvezza operata da Lui.
Si può e si deve aggiungere una cosa per capire il senso profondo di questa definizione del cristiano, cioè che la santità essenziale, di origine e di natura, del cristiano, santità raggiunta attraverso il legame con Cristo nella fede e nei sacramenti, impegna poi il singolo a una vita santa, cioè a un comportamento morale rispondente al dono ricevuto, a un comportamento che sia di questo dono la conferma e la verifica.
La realtà sorgiva dell’esistenza cristiana, che è appunto la santità in quanto appartenenza a Dio, deve tradursi (e questo è nella logica di tutta l’istruzione neotestamentaria) in un comportamento conseguente. Il cristiano che è santo per dono e per grazia deve verificare questa originaria santità in una condotta conforme e coerente.
Questo è il senso del combattimento e della lotta del cristiano lungo tutta la sua esistenza. Il cristiano è un santo che deve verificare giorno per giorno la sua santità, conformando la propria esistenza quotidiana al dono originario di Dio.
Se il cristiano in quanto tale vive in tensione verso la traduzione del dono in un’esistenza coerente, allora per definizione è santo, anche se dovesse commettere dei peccati. La santità non è l’assenza di peccati, ma è il dono originario di Dio che deve poi tradursi in un’esistenza dalla quale progressivamente vengono eliminati i peccati, proprio perché tutta l’esistenza si conformi al dono creativo di Dio.
È a questi cristiani, che Paolo definisce e qualifica come santi, che Paolo invia la sua lettera, con un’aggiunta: « con i vescovi e i diaconi ». Non vuoi dire, ovviamente, che ci sono i santi da una parte e i vescovi e i diaconi dall’altra; ma è una specifica­zione ulteriore: all’interno della comunità dei santi, che sono tutti i credenti, c’è una presenza specifica particolare definita appunto da Paolo come la presenza dei vescovi e dei diaconi. Vedremo meglio nel terzo capitolo come mai Paolo metta in evidenza i vescovi e i diaconi. Comunque, può darsi che Paolo già intraveda o, meglio, voglia far intravedere ai cristiani di Filippi le difficoltà che possono rendere difficile la loro fedeltà al Vangelo, soprattutto come tentazione all’eresia, ad allontanarsi dalla fede autentica, dal Vangelo predicato dall’Apostolo. Se questo è un rischio, una tentazione che possono correre i cristiani di Filippi come i cristiani di tutte le Chiese già ai tempi del Nuovo Testamento, la sottolineatura della presenza dei vescovi e dei diaconi all’interno della comunità vuole appunto significare che la comunità dei credenti ha una sua struttura, una configurazione particolare per cui sono presenti persone che in essa svolgono un ruolo specifico, che è appunto di sorvegliare, garantire e custodire l’autenticità della fede della comunità di Filippi.
La comunità dei santi appare articolata già qui in questa lettera, e non soltanto nelle lettere successive di Paolo (le cosiddette lettere pastorali a Tito e a Timoteo), mostrando già dei ruoli specifici, come appunto quello dei vescovi e quello dei diaconi.
Indubbiamente con questi ministeri non siamo ancora di fronte a quella che sarà la struttura specifica della Chiesa a partire dal Il secolo, cioè la chiesa strutturata con vescovi, presbi­teri e diaconi. La tripartizione della gerarchia ecclesiale troverà la sua specificazione fondamentale e definitiva a partire dall’inizio del II secolo; sarà presente in forma chiara nelle lettere di Ignazio, come realtà esistente nell’Asia all’inizio del II secolo. Qui non siamo ancora di fronte a questo. Si parla di vescovi al plurale, mentre sappiamo che nella struttura definitiva che la Chiesa si darà c’è un solo vescovo. Qui si parla an­cora di vescovi al plurale; ed è ancora indifferenziato il senso delle parole « vescovo » e « diacono ». Vescovi sottolinea soprattutto una funzione particolare che è quella di sorvegliare, di controllare, di custodire. Sono i sorveglianti e i custodi all’interno della comunità. Di che cosa? Indubbiamente, dell’autenticità della fede dei credenti. Quindi è più una funzione che un ruolo ben specificato.
Nelle lettere di Paolo, anche in quelle pastorali, come si ricordava prima, la gerarchia ecclesiale è ancora fluida, ancora in evoluzione e si sta ancora articolando. E questo soprattutto perché nei tempi del Nuovo Testamento (vangeli, lettere e tutti gli altri scritti neotestamentari) è ancora presente nella Chiesa in forma decisiva la figura dell’apostolo; quindi il ruolo primario è proprio quello degli apostoli. Sarà in loro assenza che la Chiesa si strutturerà in un’organizzazione che prevederà ruoli ben distinti, alcuni dei quali assumeranno compiti che appartenevano in origine al collegio apostolico. Comunque, nella Lettera ai Filippesi si intravede già un’articolazione di servizi e di ruoli all’interno della Chiesa: vescovi in quanto custodi dell’integrità della fede; diaconi in quanto servitori.
Molto probabilmente qui non si tratta, come alcuni vorrebbero, di una duplicità di funzioni. Vescovi e diaconi non sono ancora due categorie distinte; forse i vescovi sono contemporaneamente diaconi, cioè sono vescovi perché diaconi al servizio della comunità, servi della comunità; svolgono un ruolo di custodia e sorveglianza in quanto svolgono un servizio, una diaconia, un ministero all’interno della comunità. Non è facile dire qualcosa di più, però è significativo sottolineare un fatto: non si parla prima dei vescovi e dei diaconi e poi degli altri, ma la Chiesa è vista come la comunità dei santi, all’interno della quale ci sono i vescovi e i diaconi. L’elemento primario, cioè – e questo dovrebbe essere sempre ben chiaro nella mente di ogni credente -, ciò che conta davvero è l’appartenenza al Signore, è l’essere santi in Cristo, in virtù della fede e dei sacramenti. Tutto ciò che nella Chiesa assume una funzione, una diaconia, un ministero, una gerarchia o quello che si vuole, è finalizzato a questo: alla custodia, al sostegno e alla garanzia della santità del popolo di Dio.
Questo è il volto vero, ultimo e definitivo della Chiesa, il popolo dei santi che aspetta il Signore nel giorno della sua ultima venuta.
Questo è un grosso nodo dell’ecclesiologia e la Lettera ai Filippesi ci aiuterà a capire bene alcune cose di fondo, perché è strutturata attorno a due concetti fondamentali: il Cristo e la Chiesa. Quindi è molto importante capire il senso proprio della comunità dei credenti e questo testo dovrebbe essere sempre il riferimento fondamentale della Chiesa per capire se stessa, per vivere e realizzare autenticamente quello che essa è.
Tutto questo però è un lungo cammino ancora da farsi. Ci sono state infatti nel corso dei secoli troppe stratificazioni che hanno modificato certe realtà. Facendo riferimento primario ai testi del Nuovo Testamento, si può rimettere in discussione da un punto di vista storico quello che è stato un certo strutturarsi della Chiesa nel corso dei secoli e che indubbiamente non è copia conforme al Nuovo Testamento stesso. Si tratta comunque di un problema aperto. 

Grazia e pace 
v. 2: « Grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo ».
Quando dice « grazia a voi e pace da Dio », Paolo non augura soltanto, come potremmo fare noi; l’augurio di Paolo è proprio un evento, qualcosa che si compie per i destinatari. La grazia e la pace che Paolo proclama sui cristiani di Filippi sono un qualcosa che si compie nell’ascolto e nella ricezione di questa Parola. Per i cristiani di Filippi si verifica ancora l’evento originario e fondante della loro esistenza, che è appunto la grazia e la pace di Dio.
Noi sappiamo che nel linguaggio biblico, vetero e neotestamentario, la « grazia » indica la divina benevolenza, la gratuita benevolenza che si riversa sull’uomo; la « pace » è la pienezza del dono che si identifica, nel Nuovo Testamento, con la realtà della salvezza. Queste due realtà sono la somma del dono di Dio per l’uomo in ordine al piano salvifico che si è compiuto in Gesù Cristo a vantaggio dell’umanità tutta intera, prima i Giudei e poi i Greci. Quest’evento di salvezza che si è compiuto in Gesù Cristo si è concretizzato appunto come « grazia e pace » che provengono da Dio e da Gesù Cristo stesso.
È interessante anche la definizione che viene data di Dio: « Dio, Padre nostro ». Dio è il Padre dei credenti: il rapporto con Dio ormai, in Gesù Cristo, è un rapporto di figliolanza. Questo è molto importante nella rivelazione biblica su Dio: Egli non è soltanto il Creatore, ma è il Padre di coloro che credono in Lui, di coloro che sono fratelli in Gesù Cristo, generati dalla misericordia del Padre e a Lui appartenenti in un rapporto di figliolanza. Coloro che credono sono figli del Padre e appartengono al Signore Gesù Cristo in quanto fratelli di questo Signore che è il vero e unico figlio del Padre. 

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Lettura e commento della Lettera ai Filippesi (Gianni Zaccherini) : Rendete piena la mia gioia

http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/zaccherini_filippesi1.htm

Gianni Zaccherini  

RENDETE PIENA LA MIA GIOIA

Lettura e commento della LETTERA AI FILIPPESI

(non credo di avere messo questa lettura della lettra ai Filippesi anche se ho utilizzato spesso l’eccezionale archivio di atma-o-jibon, questa lettura è lunga ma non molto, posto i capitoli uno per volta perché sono lunghi, oggi premessa introduzione e capitolo primo, poi ogni giorno – salvo complicazioni – un capitolo al giorno)

lo schema,-programma:

Premessa ( Francesco Grasselli)

Capitolo 1. Sia che io viva, sia che io muoia (Fil 1, 1-30)
Mittenti, destinatari e saluto (vv. 1-2)
Ringraziamento e preghiera dell’apostolo (vv. 3-11)
La prigionia di Paolo e il suo impegno per il Vangelo (vv. 12-30)

Capitolo 2. Lo stesso sentire che fu in Cristo Gesù (Fil 2, 1-30)
Spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo (vv. 1-11)
L’inno cristologico (vv. 6-11)
« Dovete splendere come astri nel mondo » (vv.12-18)
Collaboratori nella diffusione del Vangelo (vv. 19-30)

Capitolo 3. Per guadagnare Cristo (Fil 3, 1-21)

Capitolo 4. Nel libro della vita (Fil 4, 1-23)
Ultime esortazioni (vv. 2-9)
I ringraziamenti (vv. 10-20)
Saluti e benedizione (vv. 21-23)

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Gianni Zaccherini  

RENDETE PIENA LA MIA GIOIA

Lettura e commento della LETTERA AI FILIPPESI

Premessa

« Scrivo queste righe con particolare emozione, perché Gianni Zaccherini quando ci lasciò, chiamato dal Signore, stava proprio commentando alla nostra comunità la Lettera ai Filippesi. E si fermò quel venerdì sera, 23 novembre del 2001, su un brano talmente significativo, alla luce di quel che accadde due giorni dopo, che noi lo consideriamo tuttora il suo testamento:
Quindi, miei cari, obbedendo come sempre, non solo come quando ero presente, ma molto più ora che sono lontano, attendete alla vostra salvezza con timore e tremore. È Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo i suoi benevoli disegni. Fate tutto senza mormorazioni e senza critiche, perché siate irreprensibili e semplici, figli di Dio immacolati in mezzo a una generazione perversa e degenere, nella quale dovete splendere come astri nel mondo, tenendo alta la parola della vita. Allora, nel giorno di Cristo, io potrò vantarmi di non aver corso invano, né invano faticato. E se anche il mio sangue deve essere versato in libagione sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, sono contento e ne godo con tutti voi. Allo stesso modo, anche voi godetene e rallegratevi con me (Fil 2,12-18).
Si fermò particolarmente su un tema, quella sera, la meditazione di Gianni: la nostra totale dipendenza da Dio (è Dio che suscita in noi il volere e l’operare) nel mistero di una libertà che è dono solo quando entra, obbedendo, « nei suoi benevoli disegni ».
Ma altri temi toccò, che vengono ripresi e amplificati in questo commento, nato alcuni anni prima e progressivamente portato alla forma che ora gli viene data: l’attendere alla salvezza con timore e tremore; il vivere senza macchia in un mondo perverso e degenere; il dovere della testimonianza e quello della fedeltà al Vangelo; la fraternità cristiana come massima manifestazione e garanzia di salvezza; il giorno del Signore che viene; la gioia che riempie l’esistenza del credente e non si turba neanche di fronte alla morte, se questa è vista come offerta, come sacrificio di sé per la fede dei fratelli, quindi come supremo atto della missione.
Questi motivi ripercorreremo leggendo la lettera che attraverso Paolo il Signore ci invia ancora oggi, in un’ora di tenebra e sgomento (ma quando nella storia non c’è tenebra e sgomento?), per ripeterci che la gioia del Risorto si conserva nell’ascolto della Parola, nell’amore fraterno, nell’attesa fiduciosa del ritorno del Signore che è « vicino ».
Chiudo questo ricordo con un auspicio: che le nostre comunità cristiane trovino pastori e maestri (vescovi, presbiteri e diaconi) con il cuore di Paolo, così forte nel proporre la fedeltà al Vangelo e così tenero nell’affetto di fratello e di padre, vorrei dire anche di sorella e di madre. C’è soprattutto bisogno di un magistero d’amore nelle nostre Chiese, perché esso trabocchi poi intorno, sui vicini e sui lontani: questa « eccedenza missionaria » ci sarà solo se brucia veemente quel primo fuoco che è la comunità cristiana. 

FRANCESCO GRASSELLI 

Introduzione 
La lettera di san Paolo ai Filippesi è abbastanza breve: solo quattro capitoli. È però molto bella: una lettera carica di tutta la passione di Paolo per il Vangelo e la Chiesa.
La Chiesa di Filippi appare, proprio da questa lettera, come una Chiesa particolarmente cara all’apostolo. Con essa Paolo ha avuto sempre dei rapporti positivi, di grande comunione e collaborazione. Quella di Filippi è una comunità alla quale Paolo si è appoggiato volentieri e dalla quale ha acconsentito a farsi aiutare nelle sue fatiche e nelle sue difficoltà, proprio per il rapporto di particolare amore e di grande confidenza che lo univa a quei fratelli.
È la prima Chiesa in territorio europeo, se vogliamo usare questa terminologia: Filippi è infatti la prima città in cui Paolo è andato ad annunciare il Vangelo uscendo dall’ Asia per entrare in Grecia.
La lettera è attribuita unanimemente a Paolo. Nessuno ha mai posto problemi di attribuzione.
Ci sono invece discussioni, da parte dei commentatori, sull’unità della lettera: c’è chi dice che la Lettera ai Filippesi è composta in realtà da due lettere, una formata dai capp. 1, 2 e 4, l ‘altra dal cap. 3. Si fa questa ipotesi perché il tono del cap. 3 è nettamente diverso da quello degli altri. Le due lettere sarebbero state unificate da un redattore dopo la morte di Paolo, quando si è costituito il corpo delle sue lettere all’interno del canone delle Sacre Scritture. L’ipotesi non ha molta rilevanza e forse è stata formulata più per giustificare alcune difficoltà di lettura che per una vera e propria deduzione storico-letteraria.
Se è vero, e su questo concordano tutti, che i capp. 1, 2 e 4 sono stati scritti da Paolo durante una sua prigionia (non si sa bene di quale prigionia si parli: è un altro problema di difficile soluzione), può darsi che l’abbia scritta in un arco di tempo piuttosto ampio, non di getto, e che le discrepanze che si notano all’interno della lettera derivino da notizie successive e da convinci menti che Paolo si è fatto durante la stesura. Avrebbe perciò aggiunto cose che in un primo tempo pensa­va di non dover scrivere.
Comunque, il fatto che sia una sola lettera o due riunite in una non ha eccessiva importanza.
Chiaramente la lettera è stata scritta durante un periodo di prigionia. Egli lo dice già al capitolo 1: « Desidero che sappiate, fratelli, che le mie vicende si sono volte piuttosto a vantaggio del Vangelo, al punto che in tutto il pretorio e dovunque si sa che sono in catene per Cristo. In tal modo la maggior parte dei fratelli, incoraggiati nel Signore dalle mie catene, ardiscono annunziare la parola di Dio con maggior zelo e senza timore alcuno » (Fil 1,12-14).
Ci sono anche altri passi nel corpo della lettera che documentano questa condizione di Paolo. Di quale prigionia si tratti, però, non è molto chiaro. Noi sappiamo con certezza da altri scritti del Nuovo Testamento, dagli Atti in modo particolare, che Paolo è stato prigioniero prima a Cesarea e poi a Roma negli anni 60-62. Ma sembra alla maggior parte dei commentatori che non si possa attribuire a questo periodo della vita di Paolo la lettera ai cristiani di Filippi. La si pensa precedente a questo tempo e allora si ipotizza una sua prigionia a Efeso, città nella quale rimase parecchi anni. Di questa permanenza ad Efeso si sa ben poco dal racconto degli Atti, che è molto rapido nel descrivere le vicende di Paolo in quella città. Sappiamo però che in essa Paolo ha avuto forti contrasti, è stato accusato e denunciato, ha rischiato di essere aggredito… Quindi si può anche pensare che abbia subito là un periodo di prigionia. Sappiamo d’altro canto che Paolo, parlando della sua vita, parla di prigionie da lui subite: si può legittimamente arguire, quindi, che la prigionia romana non sia stata l’unica prigionia di Paolo, ma che anche in altre occasioni abbia su­bito la sofferenza delle catene.
L’ipotesi della prigionia di Paolo a Efeso è quella che risulta più accettata dai commentatori. Paolo avrebbe scritto questa lettera verso la fine della sua permanenza a Efeso, negli anni 55-56 d.C. (Sembra che Paolo abbia dimorato a Efeso dal 53 al 56).
Comunque, al di là di tutte le notizie che si possono dare sulla lettera, è la lettera in se stessa che conta. A volte le circostanze e i tempi della stesura di un testo sono utili per capire il testo stesso. Vedremo, per esempio, che il contesto della prigionia di Paolo è estremamente illuminante per la comprensione del senso profondo di questa lettera. La prigionia di Paolo è occasione di rivelazione in ordine alla sua evangelizzazione e quindi il fatto che Paolo fosse prigioniero è significativo e importante per la lettura di questa lettera; ma dove, quando, come e perché Paolo fosse in prigione lo è meno.
Ripeto, quello che conta è la lettera in se stessa con i suoi contenuti, con gli insegnamenti che Paolo dà ai cristiani di Filippi; ed è su questi che ci soffermeremo per ricavarne tutta la luce che il Signore attraverso Paolo ha fatto giungere non soltanto ai cristiani di Filippi, ma a tutti i credenti in Lui lungo l’arco del tempo, fino al giorno del Signore, verso il quale siamo protesi come lo erano gli stessi cristiani di Filippi.

Publié dans:Lettera ai Filippesi |on 12 novembre, 2012 |Pas de commentaires »
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