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Gianni Zaccherini
RENDETE PIENA LA MIA GIOIA
Lettura e commento della LETTERA AI FILIPPESI
Ringraziamento e preghiera dell’apostolo (vv. 3-11)
« Ricordo e ringrazio »
Vv. 3-4: “Ringrazio il mio Dio ogni volta che mi ricordo di voi, pregando sempre con gioia per voi in ogni mia preghiera ».
Dopo il saluto e l’augurio abbiamo, nei versetti dal 3 all’11 del capitolo primo, una prima parte dello scritto di Paolo che possiamo sintetizzare come ringraziamento e preghiera dell’apostolo per la comunità di Filippi.
Come in molte altre lettere Paolo, prima di parlare di sé e di dare indicazioni di principio o pratiche in ordine alla salvezza, formula una preghiera di lode e di ringraziamento. Preghiera che contiene, come sempre negli scritti di Paolo, profonde rivelazioni e indicazioni di contenuto teologico ed esistenziale che vanno colte dai credenti. Cosa dice Paolo? Egli ringrazia Dio: « Ringrazio il mio Dio ogni volta che io mi ricordo di voi, pregando sempre con gioia per voi in ogni mia preghiera ».
Ogni volta che Paolo si ricorda dei cristiani di Filippi rende grazie al suo Dio. E si ricorda di loro in ogni sua preghiera: cioè, sempre. È un ricordo continuo quello che Paolo ha, perché continua è la sua preghiera. E la preghiera che contiene il ricordo dei suoi cristiani si volge poi in rendimento di grazie al Padre. Paolo dirà subito dopo il perché di questo rendimento di grazie, ma già in questo avvio ci sono alcune cose da sottolineare.
La preghiera cristiana, come emerge da questo modello di Paolo, è prima di tutto una preghiera continua: « Pregando sempre con gioia per voi ». Poi, Paolo prega per i cristiani di Filippi con gioia, portandoli nel cuore. La preghiera cristiana è un portare con gioia i fratelli nel proprio cuore ed è un fare continuamente ricordo di loro. Questa impronta è molto importante, ma non è molto frequente nell’uso odierno della nostra preghiera. È stata in parte ripristinata nella celebrazione dell’Eucarestia – che è il rendimento di grazie per eccellenza della comunità cristiana – tramite la cosiddetta preghiera dei fedeli, ma proprio le sottolineature di Paolo dovrebbero farci comprendere che la nostra preghiera dovrebbe assumere sempre meglio e sempre più profondamente nel cuore i fratelli, rendendoli partecipi della nostra esistenza. Si rafforza, così, e si consuma nella preghiera la comunione che nasce dal Battesimo e si fonda sulla vita del Cristo in tutti noi.
Il perché del ringraziamento
V. 5: “A motivo della vostra cooperazione alla diffusione del Vangelo dal primo giorno fino al presente « .
Alla lettera bisognerebbe tradurre: « A motivo della vostra comunione all’Evangelo (koynonia umon eis to euangélion) dal primo giorno fino al presente ». Per Vangelo Paolo intende sempre sia il contenuto – che è Gesù Cristo – sia l’atto dell’annuncio, la proclamazione.
Cosa significa comunione all’Evangelo? Un elemento è la partecipazione ‘dei Filippesi all’annuncio evangelico, però non è solo questo. Infatti, la traduzione della CEI è un po’ riduttiva, forse per rendere più comprensibile il concetto. Si pensa che dire « la vostra comunione al Vangelo » non sia chiaro, mentre tradurre « la vostra cooperazione alla diffusione del Vangelo » risulti più chiaro. Forse è vero, però indubbiamente il senso viene ristretto. « Comunione all’Evangelo » è anche questo, ma c’è indubbiamente dell’altro: quando in una comunità viene proclamato il Vangelo, il Vangelo accolto crea una comunione di esistenza fra coloro che lo accolgono e il Vangelo stesso. Solo in secondo luogo la comunità che ha accolto il Vangelo e che è entrata in comunione con esso diventa a sua volta proclamatrice del Vangelo con la vita e con le parole.
Il ringraziamento di Paolo si fonda essenzialmente sul fatto che i cristiani di Filippi sono in comunione col Vangelo perché l’hanno accolto nella fede e a loro volta ne sono diventati i proclamatori e i testimoni, continuando l’opera di evangelizzazione che ogni cristiano deve attuare. Indubbiamente emerge qui quel concetto che il Concilio Vaticano Il ha messo in particolare evidenza: che tutta la Chiesa è sempre missionaria. Questo è vero: ogni cristiano che ha accolto il Vangelo deve essere uno che a sua volta ne dilata la proclamazione. Questa, però, è una conseguenza e non è il senso primario dell’affermazione da cui siamo partiti. Il senso primario e fondamentale è che si è in comunione con il Vangelo quando lo si accoglie nella fede. Da questa accoglienza scaturisce che chiunque lo accoglie diventi a sua volta testimone e proclamatore del Vangelo ricevuto. I missionari non sono solo quelli che vanno in Africa o in Asia; tutti dobbiamo esseri o in quanto persone che da una parte attuano e rendono visibile nella loro esistenza il Vangelo e dall’altra lo annunciano a coloro che non lo hanno ancora accolto o lo hanno dimenticato.
Paolo ha presente questa comunione al Vangelo della Chiesa di Filippi come un evento che ha caratterizzato tutta la vita della comunità in quanto tale, dal primo giorno fino al presente. Paolo ha davanti agli occhi questo evento di grazia, di cui lui è stato protagonista. Ha annunciato il Vangelo ai cristiani di Filippi, questi lo hanno accolto e sono entrati in comunione con esso da quel momento fino al giorno in cui Paolo scrive questa lettera. Di questo fatto Paolo rende grazie al suo Dio.
L’opera di Dio e il suo compimento
v. 6/a: “E sono persuaso che colui che ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento… ».
Paolo ha davanti a sé la comunità di Filippi e, come abbiamo visto, ringrazia il Signore per la comunione di essa con il Vangelo: è questa che qui viene definita « opera buona ». Quest’opera buona, cioè la vita di fede della comunità cristiana, è azione di Dio, è grazia. Se i cristiani di Filippi sono così, se sono in comunione al Vangelo – per cui Paolo può e deve rendere grazie al Signore -, questo è conseguenza del fatto che si è compiuta in loro (‘iniziativa di Dio. Se sono così, non è perché sono particolarmente buoni, ma perché Dio ha operato con potenza in loro.
C’è qui una delle rivelazioni fondamentali del cristianesimo: la vita di grazia, la vita di fede, la vita di comunione con Dio e col Vangelo è opera di Dio, non dell’uomo. È dono di Dio, gratuito. Con questa articolazione, che è evidenziata benissimo da Paolo: « Colui che ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento ». Dio agisce nel credente e nella comunità non una volta sola, all’inizio, ma continua ad agire fino a portare a compimento, a maturazione, a perfezione l’opera che ha iniziato nel momento in cui è stato annunciato e accolto il Vangelo.
C’è una sottolineatura, da cogliere: nell’esistenza fedele dei cristiani si verifica una crescita, un perfezionamento che si deve attuare lungo tutto l’arco dell’esistenza. L’esistenza del credente non è un rimanere sempre allo stesso livello, ma è un crescere nella comunione con Dio. Dobbiamo raggiungere la dimensione consumata e perfetta dell’esistenza di fede, ma questo è possibile e si attua nel credente solo per opera e per grazia di Dio.
Il giorno di Gesù Cristo
V. 6/b: “… fino al giorno di Gesù Cristo ».
C’è un’altra sottolineatura significativa in questo versetto, che spalanca davanti agli occhi del credente un fatto che è al termine dell’esistenza cristiana: il giorno di Cristo Signore. L’esistenza della comunità dei credenti ha un inizio e una fine; l’inizio è il giorno in cui è stato predicato e accolto il Vangelo, la fine è l’incontro col Signore che viene nell’ultimo giorno, nel Suo giorno. Questa tensione e questo cammino nell’esistenza di fede definiscono quella che noi possiamo chiamare la speranza cristiana.
Perché questo evento definisce la speranza cristiana? Che cos’è la speranza cristiana?
La speranza cristiana è la certezza del futuro di Dio. La certezza cioè che Dio inizia e porta irresistibilmente a termine l’opera che ha iniziato. Se Dio si è impegnato una volta per tutte nel cuore del credente, questo impegno non è a termine, ma troverà la sua consumazione e perfezione. Dio non torna indietro, il cristiano lo sa. Il fatto che abbia accolto il Vangelo dice che in lui opera potentemente il Signore e opererà fino al Suo ritorno, fino al giorno dell’incontro definitivo con Lui.
Questa è la speranza cristiana: il sapere che la presenza e l’opera di Dio in noi, iniziate con l’accoglimento del Vangelo, ci aprono al futuro di Dio, al futuro che è Dio stesso in noi.
Il giorno che ci aspetta, il giorno di Gesù Cristo, è quello che nell’Antico Testamento veniva chiamato il giorno di Jahvè, con la nuova connotazione, il nuovo arricchimento che a questo evento porta il Nuovo Testamento.
Sappiamo che il giorno di Jahvè è uno dei temi centrali della rivelazione biblica. La storia della salvezza si concluderà in un giorno che è appunto il giorno di Dio. In quel giorno Dio porterà a compimento la storia del mondo e introdurrà nella salvezza coloro che ad essa sono destinati. Sarà quello il giorno in cui finiranno il peccato e la morte e inizierà la vita di eterna comunione con Dio.
Secondo la prospettiva veterotestamentaria questo giorno di Jahvè si compie con l’avvento del Messia. L’inviato di Dio porta a conclusione la storia della salvezza e pone fine al peccato e alla morte; con essi pone anche fine alla storia del mondo per iniziare il nuovo tempo, il nuovo giorno, la nuova era, che è l’era della Salvezza.
Questo giorno di Jahvè, che si compie con il Messia, trova però un’illustrazione ulteriore nel Nuovo Testamento. Noi sappiamo che con la venuta di Gesù Cristo, che è il Messia di Dio, non è venuto a compimento il mondo, non è finita la storia del mondo. La storia continua e noi parliamo, nella logica del Nuovo Testamento, di una prima venuta e di una seconda venuta del Messia. Sotto certi aspetti sarà questa seconda venuta del Messia che si carica della pienezza di significato del giorno di Jahvè del Vecchio Testamento; quindi il giorno di Jahvè del Vecchio Testamento si sdoppia, potremmo dire, in due giorni: la prima e la seconda venuta del Cristo.
Questo tempo intermedio, che va dalla prima alla seconda venuta del Cristo, è il nostro tempo, il tempo della Chiesa, il tempo della proclamazione evangelica, il tempo della comunione all’Evangelo, come dice qui Paolo. Questo tempo intermedio poi, in realtà, è tutto l’ultimo giorno di Jahvè, che troverà nella manifestazione escatologica il suo compimento. Noi quindi stiamo già vivendo il giorno finale, viviamo già il tempo della salvezza, come dice Paolo in 2 Cor 6,1-2.
Questo giorno della salvezza, che il Nuovo Testamento definisce appunto come il giorno di Cristo Gesù, non è un qualcosa di inatteso, che capita senza che sappiamo che senso o che valenza abbia, ma è il giorno della consumazione dell’opera già da Dio iniziata in Gesù Cristo, con la proclamazione del Vangelo e con la sua Passione, Morte e Resurrezione.
Questo giorno, quindi, non è un qualcosa di sconosciuto e di sconvolgente per il credente, ma è l’oggetto della sua speranza. Il credente non aspetta l’ultimo giorno con paura, terrore o angoscia; lo aspetta nella gioia e nella pace, sapendo che questo giorno altro non sarà che il perfezionamento dell’opera che Dio ha già iniziato in noi.
Nel futuro, davanti a noi, abbiamo soltanto un Dio che salva, abbiamo soltanto la misericordia, la grazia e la pace che Dio ci ha elargito in Gesù Cristo Signore.
Pensare-sentire come Gesù
V. 7/a: « È giusto, del resto, che io pensi questo di tutti voi ».
È giusto che Paolo pensi che nei cristiani di Filippi si compie l’opera salvifica del Padre; è giusto che egli veda i cristiani di Filippi come una comunità credente che cammina verso il compimento dell’opera che Dio ha iniziato in essa.
Cosa significa questo « è giusto »? Significa che corrisponde a verità, fa parte dell’obbedienza al Signore che Paolo deve avere. È molto interessante questa sottolineatura: non solo è bello, non solo gli piace, ma è giusto che pensi così.
Perché è giusto che Paolo pensi così? Perché il compiersi dell’opera di Dio nella comunità di Filippi non appartiene a lui; egli deve riconoscerlo, deve prenderne atto e deve renderne grazie al Signore. Se non lo facesse, Paolo sarebbe infedele. La giustizia intesa nel forte senso biblico vuole che Paolo riconosca nei cristiani di Filippi la misericordia e la grazia del Signore. È un riconoscimento che Paolo deve all’opera del Padre.
Sarebbe interessante anche sottolineare il significato della parola « pensare »: è giusto che io pensi a voi. Questo « pensare », nel senso originario della parola greca, contiene anche il sentire. Non è soltanto un pensare a livello intellettuale, ma un pensare anche a livello di affettività, di sentimento. Paolo sente-pensa. Questo sentire-pensare indica lo stato d’animo profondo, è ciò che l’uomo racchiude nelle profondità del proprio essere. Ed è questo sentire profondo di tutto l’essere di Paolo che corrisponde a giustizia.
Su tutto questo però ritorneremo, perché sul termine che rendiamo con sentire-pensare la Lettera ai Filippesi torna ripetutamente. Al versetto 5 del capitolo secondo dirà: « Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù ». La parola che lì si traduce con « sentimenti » ha la stessa radice di quella che qui viene tradotta con « pensare ».
Paolo pensa in questo modo, i cristiani devono pensare anche loro così, sempre nel senso di una profonda presa di coscienza, che poi non è altro che il modo di pensare-sentire di Cristo Gesù. I cristiani devono pensare come pensava Gesù, devono sentire come sentiva Gesù. È il pensare-sentire di Gesù Cristo che deve attuarsi in tutti i cristiani.
Uscendo dal testo della Lettera ai Filippesi, questa parola trova un’ulteriore specificazione quando leggiamo negli Atti che i primi cristiani avevano un cuore solo e un’anima sola: sono termini diversi, ma vogliono dire la stessa cosa. Avere un cuore solo e un’anima sola vuoi dire sentire e pensare nello stesso modo, che è il modo di pensare profondo che fu ed è di Gesù Cristo.
Un amore generante
V. 7/b: « … perché vi porto nel cuore, voi che siete tutti partecipi della grazia che mi è stata concessa ».
Paolo, dunque, dice « È giusto che io pensi questo di tutti voi » come conclusione di quello che ha detto prima, ma con un’ulteriore motivazione: « perché vi porto nel cuore ». Ed egli porta nel cuore i cristiani di Filippi – potremmo dire: fa tutt’uno con loro -, perché sono partecipi della stessa grazia che è stata a lui concessa. Il ringraziamento gioioso che Paolo innalza al Padre per l’adesione dei Filippesi al Vangelo è lo stesso gioioso ringraziamento che deve a Dio per la propria fede. Nei cristiani non c’è un ringraziamento a Dio per il proprio dono di salvezza che sia diverso da quello che innalzano per il dono di salvezza degli altri credenti. Essi si portano a vicenda nel cuore davanti al Signore, lodandolo per la misericordia che tutti li ha avvolti.
Questa sottolineatura di Paolo è significativa in questo contesto, perché il « portarli nel cuore » è visto come causa del ringraziamento che Paolo rende al Padre e come attuazione della verità, dell’autenticità, della giustizia del pensare in questo modo i cristiani di Filippi. L’amore di Paolo è parte attiva della fedeltà dei Filippesi: se Paolo porta nel cuore i Filippesi, questo portarli dentro di sé è una potenza, è una forza salvifica nei confronti dei Filippesi. Non siamo di fronte semplicemente a un fatto affettivo, ma a un atto generatore di quella salvezza di Dio che si è compiuta in Gesù Cristo. Questo è un concetto importante: l’amore di Paolo verso i cristiani di Filippi è un amore generante, un amore trasfigurante, un amore che salva.
La stessa cosa vale per tutti noi: come Paolo amando i fratelli è compartecipe dell’opera di salvezza che il Cristo compie in essi, così noi, amando i fratelli, diventiamo compartecipi dell’opera della loro salvezza e della loro santificazione.
Questo crea un collegamento d’importanza decisiva nella comunione dei credenti: l’amore con cui ci amiamo gli uni gli altri altro non è che il compimento dell’amore del Cristo. È Cristo che ci ha amato per primo e amandoci ci ha salvati; ma anche noi amandoci gli uni gli altri facciamo sì che questo amore diventi operante all’interno della comunità e quindi siamo compartecipi della salvezza gli uni degli altri.
L’affermazione di 1 Pt 1,22, anche se non è proprio identica all’affermazione di Paolo, tuttavia ci aiuta a capirla: « Dopo aver santificato le vostre anime con l’obbedienza alla verità, per amarvi sinceramente come fratelli, amatevi intensamente, di vero cuore, gli uni gli altri ». L’amore dei cristiani fra loro è una necessità intrinseca all’accoglienza dell’amore di Dio. Se abbiamo accolto in noi l’amore di Dio che ci è venuto in Gesù Cristo e che in Lui ci salva, questo amore ci rende a nostra volta capaci di amarci gli uni gli altri. E dobbiamo farlo, perché amandoci ci salviamo a vicenda.
Quindi l’espressione « vi porto nel cuore » non dice soltanto un affetto particolare di Paolo nei confronti dei cristiani di Filippi, ma è qualcosa di più profondo, qualcosa di decisivo per la salvezza dei Filippesi.
Il fatto poi che Paolo porti nel cuore i Filippesi e che questo sia per loro fonte di salvezza, si concretizza nel fatto che Paolo annuncia loro il Vangelo. Per Paolo amore per i cristiani di Filippi e annuncio evangelico vengono a coincidere.
Ne viene un’altra conseguenza importantissima per i nostri rapporti vicendevoli: se ci amiamo davvero gli uni gli altri, se ci portiamo gli uni gli altri nel cuore, dobbiamo annunciarci a vicenda il Vangelo.
Potremmo continuare, perché questo concetto è come una strada che si dirama in mille sentieri: per esempio, quando ci correggiamo con la correzione fraterna autentica, che è un confronto di tutti con il Vangelo, consumiamo nella forma più alta il nostro amore fraterno. Non posso correggere un fratello, se non lo amo; ma lo amo solamente se lo correggo, annunciandogli il Vangelo per la sua concreta situazione. Non c’è opera di carità che contemporaneamente non sia annuncio evangelico e non c’è annuncio evangelico che non sia allo stesso tempo opera di carità.
Perché Paolo li porta nel cuore? Perché vede compiersi in loro l’opera salvifica del Padre con la loro partecipazione alla grazia del Vangelo. I cristiani di Filippi, che hanno accolto il vangelo di Paolo, sono compartecipi della grazia affidata a Paolo, che è quella di annunciare il Vangelo.
Le catene e la lotta
v. 7Ic: “… sia nelle catene, sia nella difesa e nel consolidamento del Vangelo ».
L’essere partecipi della grazia concessa a Paolo trova in questi versetti un’ulteriore specificazione: la compartecipazione alla grazia concessa a Paolo si ha per i Filippesi nei due momenti in cui in Paolo trova una piena verifica di questa grazia: primo, le catene; secondo, la difesa e il consolidamento del Vangelo.
Facciamo riferimento ad Atti 26, quando Paolo riferisce al re Agrippa l’evento centrale della sua esistenza:
« In tali circostanze, mentre stavo andando a Damasco con autorizzazione e pieni poteri da parte dei sommi sacerdoti, verso mezzogiorno vidi sulla strada, o re, una luce dal cielo, più splendente del sole, che avvolse me e i miei compagni di viaggio. Tutti cademmo a terra e io udii dal cielo una voce che mi diceva in ebraico: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Duro è per te recalcitrare contro il pungolo. E io dissi: Chi sei, o Signore? E il Signore rispose: lo sono Gesù, che tu perseguiti. Su, alzati e rimettiti in piedi; ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora. Per questo ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando ad aprir loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio e ottengano la remissione dei peccati e l’eredità in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me » (At 26,12-18).
Nello stesso momento in cui Paolo incontra il Signore risorto viene inviato come missionario a proclamare il Vangelo. Questa è la grazia che Paolo ha ricevuto; e viene legata, in modo particolare nel cap. 22 degli Atti, a un contenuto di continua sofferenza. Per Paolo, cioè, l’annunciare il Vangelo ai pagani fa tutt’uno con la sua croce. La partecipazione alla grazia di Paolo, che è fondamentalmente la grazia di annunciare il Vangelo, è quindi anche una partecipazione alle sue catene.
Coloro che sono partecipi della grazia concessa a Paolo verificano proprio nel loro patire l’autenticità della loro esistenza di fede. Si realizza così la parola che il Signore stesso aveva pronunciato: « Hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi » (cf. Gv 15,18-20 e 16,1-2). Il cristiano rivela la sua autenticità di discepolo nel momento in cui entra in comunione con le sofferenze del Cristo. Questo, Paolo lo ha ben chiaro e dicendo ripetutamente che lui ha patito più degli altri rivendica l’autenticità della sua proclamazione evangelica.
Paolo esprimerà lo stesso concetto nei vv. 27-28 di questo stesso capitolo: « Soltanto però comportatevi da cittadini degni del Vangelo, perché nel caso che io venga e vi veda o che di lontano senta parlare di voi, sappia che state saldi in un solo spirito e che combattete unanimi per la fede del Vangelo, senza lasciarvi intimidire in nulla dagli avversari ». C’è, quindi, una persecuzione che non può non verificarsi per i cristiani di Filippi.
Ma qui Paolo allude anche, chiaramente, a quello che sarà affrontato con più ampiezza nel capitolo terzo, cioè al problema delle eresie. La fede cristiana rischia sempre di essere rimessa in discussione, di essere contraffatta, di essere annacquata. I cristiani autentici invece restano in difesa della vera fede, operano e combattono per il consolidamento della sua autenticità. Paolo al cap. 3, v. 2, dirà: « Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli che si fanno circoncidere! ». Allude ai cristiani che all’interno della comunità predicano un vangelo non conforme al suo, non conforme al Vangelo di Dio.
Sarà, questo, un tema centrale nella Lettera ai Galati, quando Paolo si meraviglia del fatto che i cristiani della Galazia abbiano abbandonato il Vangelo. Dice al cap. 1, v. 6: « Mi meraviglio che così in fretta da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo passiate ad un altro Vangelo. In realtà, però, non ce n’è un altro; solo che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il Vangelo di Cristo. Orbene, se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anatema! ».
La partecipazione alla grazia di Paolo si ha, quindi, nella partecipazione alle sue sofferenze, ma anche nella partecipazione alla difesa e al consolidamento del Vangelo.
Ovviamente, quello che è detto per i cristiani di Filippi vale per i cristiani di tutti i tempi. Ogni comunità cristiana è partecipe della grazia di Paolo, se è partecipe delle sue catene e della difesa-consolidamento del Vangelo.
Da una parte, questo è un fatto drammatico, perché ci prospetta un fatto ineliminabile: il continuo combattimento! Non ci sarà mai nella comunità dei credenti un momento in cui si possa tirare il fiato; c’è sempre un’opera di consolidamento e di difesa del Vangelo che va portata avanti e condotta alle estreme conseguenze.
D’altra parte è anche un fatto consolante, perché quel che si patisce in questo combattimento per il Vangelo ci garantisce che siamo in comunione col Cristo. E con Paolo.
« Il profondo affetto che ho per voi »
V.8: “Infatti Dio mi è testimonio del profondo affetto che ho per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù ».
È una ripresa del versetto precedente (« Vi porto nel cuore »), ma qui Paolo chiama Dio a testimone della sua affermazione. L’amore di Paolo non è una parola, ma è un fatto che può essere testimoniato da Dio. È come se Paolo in questo momento facesse un solenne giuramento e lo pronunciasse non davanti a un uomo, ma davanti a Dio.
Dio che, come sappiamo dall’Antico Testamento, non guarda le apparenze ma l’intimo del cuore umano, sa e può testimoniare che l’attestazione di amore di Paolo verso i cristiani di Filippi non è menzogna e inganno, ma una realtà profonda di tutto il suo essere.
Paolo è ricolmo di amore per i cristiani di Filippi, perché egli a sua volta è nell’amore di Cristo: « … del profondo affetto che ho per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù ». Paolo è radicato nell’amore di Gesù, fonte e causa di ogni amore. L’espressione che qui viene tradotta « nell’amore di Cristo Gesù », alla lettera dovrebbe essere tradotta: « nelle viscere di Cristo Gesù ». Si tratta, cioè, di un amore che prende tutto l’essere, potremmo dire di un amore viscerale. Molte volte usiamo questa espressione in senso dispregiativo, per dire un amore non lucido, istintivo, di… seconda categoria. Paolo, invece, la usa per indicare l’amore di Cristo. Ora, l’amore che Gesù nutre per noi è un amore viscerale, ma nel senso che è totale, amore di tutto il suo essere! È l’amore di Cristo che piange sulla morte di Lazzaro. Amore appassionato, quello del Signore! Così è anche l’amore di Paolo: un amore appassionato come quello di Gesù. Chi è in Cristo, dice Paolo, ama in Cristo e il suo amore è vero, autentico. Del suo amore può rendere testimonianza Dio Padre.
« Ama e fa’ ciò che vuoi »
V. 9: “E perciò prego che la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento… « .
A questo punto Paolo si riallaccia a quello che aveva detto ai vv. 3-4: « pregando sempre con gioia per voi in ogni mia preghiera ». Qual è l’oggetto di questa preghiera? Per che cosa prega Paolo? Il testo dei vv. 9, 10 e 11 ci presenta il contenuto della preghiera di Paolo, con tre successivi livelli. Sono tre le cose per cui Paolo prega. La prima è « che la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento », Paolo prega che l’amore che Dio ha suscitato nei Filippesi cresca, che si dilati sempre più. Questa è un’ulteriore caratteristica dell’amore cristiano: è una realtà dinamica, una realtà sempre in sviluppo. Non è qualcosa di dato una volta per tutte, ma qualcosa che deve continuamente arricchirsi e dilatarsi. Se per ipotesi si fermasse » verrebbe meno. La necessità di una continua crescita fa parte della logica dell’amore cristiano.
Oltre a questo, Paolo prega perché questo amore, che deve dilatarsi continuamente, « si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento ». Le due parole « conoscenza » e « discernimento » stanno a indicare due aspetti della conoscenza umana. La prima individua la conoscenza intellettuale, potremmo dire la penetrazione della verità in se stessa: ciò che Dio ci rivela, comunica, trasmette. La seconda indica piuttosto la conoscenza pratica di ciò che è bene fare e di ciò che è bene non fare, cioè la conoscenza operativa su quello che è necessario scegliere, giorno per giorno, per essere conformi a questo amore.
Da questa affermazione di Paolo si deduce che nel cristianesimo tutto dipende dall’amore. La conoscenza e il discernimento sono un frutto della carità e sono l’attuazione esistenziale concreta di questa carità. Viene in mente la frase classica di s. Agostino che traduceva così questo concetto: « Ama e fa’ ciò che vuoi ».
Davvero, se uno è nell’amore di Dio, tutto ciò che esce dal suo cuore è frutto di questo amore di Dio in lui. Quindi chi ama davvero può far ciò che vuole, perché quello che lui vuole altro non è che la proiezione concreta dell’amore di Dio che opera in lui. Alla radice di tutto c’è l’amore di Dio, che si concretizza in una lucida conoscenza della verità che Dio ci propone con la sua Parola e in una lucida conoscenza di ciò che è necessario fare per realizzare questa verità nel comportamento di ogni giorno.
Nell’esistenza cristiana non è pensabile una verità che non sia sviluppo della carità. Verità e carità sono inscindibili. Una verità che si contrapponga alla carità non è verità cristiana; allo stesso modo una carità che facesse a pugni con la verità non sarebbe vera carità cristiana. Questo è un criterio di discernimento decisivo. Quante volte nella storia della Chiesa la verità ha fatto a pugni con la carità! Il che vuoi dire che non era verità. Allo stesso modo, quando si pretende di vivere la carità senza tener conto della verità, non si è nella carità autentica.
È molto facile capire che una verità che si opponga alla carità non è verità. Forse è più difficile capire una carità che non sia verità. Facciamo, perciò, un esempio banale: noi impediamo a un bambino di giocare con un coltello, perché gli vogliamo bene. Si potrebbe obiettare: ma se gli vogliamo bene, dobbiamo lasciargli fare tutto ciò che vuole! No, non sarebbe volergli bene, perché non terrebbe conto della realtà oggettiva. Anche nella vita cristiana non tutto ciò che sembra ispirato dalla carità è giusto. C’è la verità del Vangelo, a cui bisogna essere sempre obbedienti. Il rapporto tra carità e verità è molto stretto e va continuamente verificato.
Si è voluto a volte, anche recentemente e da uomini autorevoli, giustificare la prassi della Chiesa di mandare al rogo le presunte streghe nei secoli scorsi. Si è detto che bisogna stare molto attenti ad accusare la Chiesa di non avere esercitato la carità in quelle circostanze, perché « bisogna tenere conto che la carità va sempre unita alla verità ». In fondo l’aver bruciato quella gente è stato un atto di verità e quindi anche un atto di carità. È orribile che si possa dire questo!
Pensare che la verità passi attraverso l’eliminazione fisica di una persona umana è un’aberrazione. Purtroppo molti cristiani lo pensano, il che vuoi dire che davvero non è loro chiaro il rapporto tra carità e verità. Quando la verità fredda e astratta prevale sull’autentica carità, non si può più parlare di verità in senso evangelico.
Purtroppo anche i santi sono caduti a volte in questi equivoci. Si pensi, per esempio, a san Giovanni da Capestrano, il predicatore dell’ultima crociata, che aveva come motto « Indulgenza plenaria per ogni testa di turco »; oppure al grande sant’Agosti no che per primo chiese l’intervento del pubblico potere in una vicenda di Chiesa. Per eliminare l’eresia dei Donatisti li fece ammazzare.
C’è solo un modo per affrontare l’interrogativo posto da queste vicende, e cioè com’è possibile che nonostante queste aberrazioni quegli uomini abbiano fatto un’esperienza di Dio così forte da essere poi proclamati santi. Dobbiamo sempre distinguere fra quella che è la retta intenzione e quella che è la verità oggettiva. Ci sono stati e ci sono nella Chiesa fasi di oscuramento di alcuni principi, di cui il singolo non è responsabile. Quella determinata concezione fa parte di un patrimonio culturale acquisito e quindi è difficilissimo che uno se ne liberi. Certi errori oggettivi fanno parte di un’epoca, di una cultura, di una tradizione. E allora, anche aderendo a quegli errori, ci può essere un’autentica esperienza di Dio.
Qual è la conclusione? Che la Chiesa faccia sempre riferimento al Vangelo e purifichi nel Vangelo tutte le concezioni del proprio tempo. Purtroppo in molte epoche il Vangelo è rimasto un libro chiuso, nel quale non ci si specchiava a sufficienza.
Il santo è figlio del proprio tempo. Può purtroppo capitare che essere figli di un tempo e di una cultura sia più forte dell’essere fedeli alla totalità del Vangelo. Una certa cultura può oscurarne alcune parti, di cui non si è più coscienti né consapevoli.
Torniamo all’epoca delle crociate: era impensabile o era rarissimo (san Francesco ) che uno fosse libero dallo spirito crociato. Di san Francesco ce n’era uno solo. Si potrà dire che questo è un dramma; sì, certo, ed è anche un mistero. Come è possibile che, pur avendo fatto esperienza di Dio, si possa essere più figli del proprio tempo che del Vangelo?
Tra l’altro, certi comportamenti ecclesiali sono fondati su una erronea lettura di passi biblici. Questo ci fa ancor meglio capire come certe persone siano state nell’impossibilità di capire nel profondo, perché c’era un oscuramento generale di concetti, addirittura una lettura sbagliata della Bibbia!
Facciamo un altro esempio a questo proposito: s. Roberto Bellarmino fu uno degli artefici della condanna di Galilei. Ma lui leggeva nella Scrittura che il sole gira attorno alla terra! Se è scritto così, cosa va ad inventare Galilei? Trattandosi di argomentazioni tratte dalla Bibbia, non è facile opporsi ad esse! La conclusione di tutto questo, il punto di arrivo per ciascuno di noi è che dovremmo relativizzare al massimo ciò che pensiamo. Dovremmo essere sempre in conversione, in continua metanoia (cambiamento della mente), per uniformare sempre più il nostro modo di pensare al Vangelo. Dobbiamo renderci conto che « i pensieri di Dio non sono i nostri e le vie di Dio non sono le nostre vie ».
Questo ragionamento ci fa toccare con mano una delle piaghe più drammatiche della storia della Chiesa, quella frattura tra verità e carità che invece in Paolo sono perfettamente coincidenti, per cui davvero soltanto se c’è carità profonda e autentica la nostra lucidità è piena; e soltanto se c’è corrispondenza autentica con il pensare di Dio la nostra carità è perfetta.
Frutti di giustizia
v. 10: “perché possiate distinguere sempre il meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo ».
Paolo continua chiedendo, nella preghiera, la condotta cristiana autentica. Con questa sottolineatura: che la vita cristiana sia una tensione verso il giorno del Signore: « integri e irreprensibili per il giorno di Cristo ». Ricordiamo la preghiera che era tipica della Chiesa primitiva: Vieni, Signore Gesù! La prima comunità cristiana era continuamente rivolta verso il Signore che viene, in attesa del suo ritorno; quindi l’esistenza cristiana è vista e presentata come un’esistenza escatologica, cioè un’esistenza proiettata verso il futuro, nell’attesa e nella speranza.
Inoltre Paolo dice: « ricolmi di quei frutti di giustizia che si ottengono per Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio ». L’esistenza cristiana deve essere una pienezza di obbedienza alla volontà del Signore. I « frutti di giustizia » sono appunto i frutti dell’obbedienza. La giustizia cristiana è essenzialmente obbedienza al Vangelo, obbedienza alla volontà del Signore. I frutti della giustizia che devono ricolmare di sé l’esistenza cristiana sono appunto quella condotta quotidiana che obbedisce momento per momento alla volontà del Signore. Esistenza cristiana finalizzata esclusivamente alla gloria e alla lode di Dio.
Il cristiano vive in attesa del ritorno del Signore praticando l’obbedienza al Vangelo a gloria e lode di Dio: quello che fa non lo fa per sé, ma lo fa per il Signore, ricercando esclusivamente la gloria e la lode del Signore, non il proprio vantaggio.
« Per mezzo di Cristo Gesù »: perché tutto dipende da Cristo, tutto è dono suo, tutto è frutto della sua grazia. Se nell’esistenza cristiana (e questo è un altro contenuto della preghiera di Paolo) c’è questa pienezza del frutto di giustizia, è unicamente dono della sua misericordia e della sua potenza. Soltanto per mezzo di Cristo si può vivere autenticamente la fede cristiana. Questa è una sottolineatura importante: l’esistenza cristiana è possibile soltanto come atto di grazia di Gesù Cristo. Non è possibile in virtù delle forze dell’uomo, ma soltanto come grazia di Dio in Gesù Cristo.
Tutto è grazia nella vita cristiana: è Dio che porta a compimento la salvezza e un’esistenza conforme alla salvezza nell’obbedienza al Vangelo.