Lettura e commento della Lettera ai Filippesi: « Dovete splendere come astri nel mondo » (vv. 12-18)
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Gianni Zaccherini
RENDETE PIENA LA MIA GIOIA
Lettura e commento della Lettera ai Filippesi
« Dovete splendere come astri nel mondo » (vv. 12-18)
La seconda parte del cap. 2 contiene due brani che si possono così distinguere: i vv. 12-18 che contengono l’esortazione di Paolo a lavorare per la salvezza secondo la logica di questa stessa salvezza e della potenza di Dio che opera in essa; con una riflessione conclusiva sulla gioia, che deve riempire l’esistenza cristiana qualunque ne sia lo sbocco: vita o morte. Perché ciò che conta non è la vita o la morte in questo mondo, ma la fedeltà al Vangelo, l’ubbidienza, la realizzazione del disegno salvifico di Dio nella conformità della propria esistenza a questo stesso disegno..
I vv. 19-30 esprimono, invece, alcune riflessioni di Paolo in ordine ai suoi progetti, se la prigionia si risolverà in maniera positiva, cosa che Paolo pensa; infatti al v. 24 dice: « Ma ho la convinzione nel Signore che presto verrò anch’ io di persona ». Abbiamo già visto nel capitolo precedente che Paolo, posto di fronte alla possibilità della morte o della vita come sbocchi della prigionia, è propenso a credere che la sua condizione di prigioniero si risolverà in senso positivo, proprio per la necessità di continuare ad annunciare e consolidare il Vangelo nella comunità di Filippi e nelle altre comunità cristiane. L’obbedienza di Paolo comporta la sua permanenza in vita al servizio del Vangelo.
Questa è la convinzione profetica che Paolo ha della sua vicenda personale e che fa da sottofondo a tutte le sue riflessioni, anche se obiettivamente la sua sorte potrebbe avere uno dei due sbocchi possibili (vita o morte).
All’interno di questa riflessione parla di Timoteo e di Epafrodito, le due persone che gli sono accanto, dandoci indicazioni in ordine alle affettuose relazioni che ha con la comunità di Filippi mediante sia l’uno che l’altro. Illustrando, inoltre, le vicende di queste due persone, fornisce anche indicazioni implicitamente orientative per i cristiani di tutti i tempi. Quello che sono Timoteo ed Epafrodito debbono esseri o anche tutti i cristiani nei diversi contesti in cui possono venire a trovarsi.
L’importanza di un « quindi »
V. 12: « Quindi, miei cari, obbedendo come sempre, non solo come quando ero presente, ma molto più ora che sono lontano, attendete alla vostra salvezza con timore e tremore ».
Questo « quindi » si ricollega evidentemente a quanto precede: il mistero del Cristo, illustrato nell’inno appena riportato, è causale in ordine all’esistenza cristiana. L’esistenza cristiana è possibile nei termini che Paolo illustra perché a monte di essa c’è il mistero pasquale del Cristo, il suo annientamento, la sua incarnazione, passione, morte e resurrezione mediante la quale Dio lo ha glorificato, ponendolo al di sopra di tutte le Potenze e facendo sì che il suo nome sia oggetto di adorazione e di lode su tutta la terra. Se c’è questo, può esserci quello che viene dopo.
È interessante anche la parola che viene dopo: « miei cari », miei amati. In tutti gli scritti del Nuovo Testamento, quando compare, è sempre una parola di rilevante significato. Lo cogliamo soprattutto in questa lettera in cui si manifesta una profonda tensione d’amore tra Paolo e i cristiani di Filippi: c’è una cordialità, una sintonia, un rapporto di affetto e di tenerezza che viene chiaramente e continuamente evidenziato.
Comunque questa parolina esprime quello che dovrebbe essere il tipo di relazione tra i cristiani. I cristiani debbono amarsi, ognuno dovrebbe poter dire all’altro che è amato da lui, che è l’oggetto del suo amore. Questa, in Paolo, come del resto in Giovanni, non è una parola soltanto, ma è una profonda indicazione esistenziale. La carità di cui Paolo parla, quella che manifesta e rivela ai fratelli di Filippi è la carità stessa del Cristo, è l’amore stesso del Cristo.
Il Cristo aveva detto: « Nessuno ha amore più grande di colui che dà la vita per i propri amici » (Gv 15, 13); Paolo è schiavo al servizio dei fratelli, quindi può davvero dire « miei cari » a questi cristiani di Filippi. Non è un semplice intercalare, come quelli che facciamo noi quando scriviamo « carissimo » o « carissima » nelle nostre lettere.,. Quando Paolo dice « miei cari » lo dice con tutta l’anima, con tutte le sue viscere, rivelando ed evidenziando il profondo legame d’amore che lo unisce ai fratelli di fede.
Paolo continua dicendo ai cristiani di Filippi: « obbedendo come sempre », parola che si ricollega direttamente a quanto ha scritto, prima di tutto perché la vicenda del Cristo è la vicenda dell’obbedienza e il punto di partenza dell’esistenza cristiana è l’obbedienza a Dio, al Vangelo, alle Scritture. È quanto troviamo anche nella 1 Pt 1,22: « Dopo aver santificato le vostre anime con l’obbedienza alla verità… »: il punto di partenza è l’obbedienza alla verità, cioè al Vangelo. In questa obbedienza si genera la santità, quindi la si può attuare.
I cristiani di Filippi hanno sempre obbedito, fin dall’inizio della loro conversione, quando Paolo ha annunciato il Vangelo e ora egli li invita a perseverare in questa obbedienza: « non solo come quando ero presente, ma molto più ora che sono lontano », Voi avete sempre obbedito, quando ero presente; tanto più dovete obbedire ora che sono lontano. Paolo distingue i due momenti per sottolineare il fatto che l’obbedienza a Dio prescinde dalla sua presenza fisica; certo a loro il Vangelo è giunto attraverso la predicazione di Paolo ed egli continua ad essere un loro servitore nella proclamazione evangelica, ma non è a lui che essi obbediscono. È a Dio che bisogna obbedire. Quindi, sia Paolo presente, sia Paolo assente, il Vangelo permane fra di loro e a questo Vangelo devono obbedienza.
Poi Paolo dice: « attendete alla vostra salvezza con timore e tremore ». Forse la parola « attendete » non è di immediata evidenza per noi; sarebbe meglio tradurre: datevi da fare per la vostra salvezza, lavorate alla vostra salvezza, operate per essa!
I commentatori si sono chiesti: perché con timore e tremore? Che cosa significano queste due parole?
Si dice che la fede pone il cristiano davanti a Dio non più nella paura, ma nella gioia di sapersi figlio del Padre; l’assenza di paura caratterizza l’esistenza cristiana davanti a Dio nel Nuovo Testamento. Perché, allora, Paolo parla di timore e tremore nel quale e con il quale i cristiani di Filippi devono operare per la loro salvezza?
Paolo usa queste parole altre volte. Le si ritrova, ad esempio, nella 1 Cor 2,3: Paolo è pieno di timore e tremore per l’opera che sta portando avanti nella predicazione evangelica. Anche in 2 Cor 7,15 Paolo usa la stessa espressione. Allora in che senso si deve intendere il timore e tremore di cui parla Paolo?
Lo si deve intendere in un senso molto sottile, ma significativo: ciò di cui parla Paolo è la trepidazione degli uomini che si trovano alla presenza di Dio; degli uomini nei quali Dio ha iniziato la sua opera. Non è quindi paura di Dio, ma il senso dell’immensità, della trascendenza e della santità di Dio, posta a confronto con la piccolezza dell’uomo. È un po’ la sorpresa e lo sgomento che coglie l’uomo quando si accorge che il Dio Santo e irraggiungibile è entrato in lui, si è messo in rapporto con lui, ha davvero creato una comunione di vita con lui.
L’impegno dei Filippesi è voluto da Paolo per la loro salvezza comune: non è semplicemente la salvezza del singolo, ma è la salvezza della comunità, la salvezza della Chiesa, la salvezza del popolo di Dio. Meglio ancora potremmo dire: è l’edificazione della casa di Dio che si compie attraverso l’ascolto e la messa in pratica della Parola nell’obbedienza. Salvezza collettiva all’interno della quale c’è anche la salvezza di ciascuno.
I cristiani di Filippi sono invitati da Paolo a darsi da fare nell’obbedienza. È l’obbedienza il loro darsi da fare. Paolo non dice in che cosa darsi da fare, ma il collegamento a quanto dice prima ci fa capire che il darsi da fare dei cristiani è l’obbedienza al Vangelo. È nell’obbedienza perseverante e continua che il cristiano si dà da fare per la salvezza sua e della comunità. Quindi l’opera primaria del cristiano è l’obbedienza al Vangelo.
C’è un’apparente contraddizione tra questo passo della Scrittura e quello dell’annunciazione (Lc 1,26-38): qui si dice operate con timore e tremore; là, invece, l’Angelo, rivolgendosi a Maria, dice: « Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio ». Tutto dipende dal senso che si dà alla parola « timore »: nell’uso comune ha il significato di paura, sgomento; invece nel significato biblico più profondo vuoi dire avere il senso dell’evento sconvolgente che sta avvenendo: Dio, da irraggiungibile che era, è diventato raggiungibile per l’uomo, è entrato in comunione con l’umano. Si è compiuto un fatto che va al di là di ogni immaginazione o ragionamento e questo suscita stupore e meraviglia, non paura. Il timore di Dio è quindi la consapevolezza di un evento nel quale il Dio inaccessibile e santo entra in rapporto con l’uomo; l’uomo ne è sconvolto, anche se la coscienza della distanza infinita fra Dio e uomo, fra Santità e peccato, è colmata dalla manifestazione della misericordia divina.
Tutto è grazia
v. 13: « È Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo i suoi benevoli disegni ».
Qui Paolo spiega il senso del timore e del tremore del versetto precedente. I cristiani debbono darsi da fare, nell’obbedienza, per la loro salvezza, ma nel convincimento profondo che in realtà chi fa ogni cosa è Dio. Il punto decisivo da cogliere è che non lui, con le sue forze, opera quest’obbedienza, ma il Signore. È Dio che è potente in lui. Ecco il senso del timore e del tremore: la coscienza di questa forza divina, la forza dello Spirito, che agisce nel cristiano quando egli si impegna « con tutte le sue forze » a operare la propria salvezza. In realtà è il Signore che agisce dentro di lui: quel Signore che è più potente e più grande di lui e di tutte le sue infedeltà.
Tutto è grazia. Non merito dell’uomo, non merito del cristiano. La salvezza è merito di Dio che in noi suscita il volere e opera il fare.
Il mistero grande che qui Paolo illustra trova il suo coronamento nell’espressione finale: « secondo i suoi benevoli disegni ». Ritroviamo questa espressione nel « Gloria » della Messa, là dove nella corretta traduzione si dice: « Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini del Suo ben volere » (gli uomini che Egli ama), cioè gli uomini inseriti nella benevolenza, nell’amore di Dio.
Proprio perché il suo è un disegno di benevolenza Dio è andato incontro all’uomo non per condannarlo, ma per amarlo. Tutto quello che avviene è conseguenza del grande disegno d’amore che Dio sta attuando e portando a compimento nella storia della salvezza.
All’interno di questo grande disegno di benevolenza – che è poi l’amore di Dio, la sua misericordia – Dio opera nel cuore di ogni uomo il volere e l’operare. Quindi il mistero è racchiuso nella benevolenza di Dio che tutto abbraccia e tutto risolve in sé.
Questa affermazione di Paolo è molto consolante, perché sappiamo ormai che tutto quello che ci accade è all’interno di un disegno di amore nei nostri confronti. L’ultima parola in ogni vicenda della nostra vita è detta dall’amore di Dio.
Due parole riprese dall’Antico Testamento
V. 14: « Fate tutto senza mormorazioni e senza critiche ».
Qui viene ripresa l’indicazione del v. 12: « Attendete alla vostra salvezza con timore e tremore », e viene evidenziata la dialettica che deve sempre rimanere tra l’impegno dell’uomo, da una parte, e la coscienza che tutto è opera di Dio, dall’altra: l’opera di Dio non annulla quella dell’uomo, ma suscita l’impegno nell’obbedienza, in modo che tutto sia fatto senza mormorazioni e senza critiche.
Cosa significa all’interno della volontà salvifica di Dio, che si attua nell’obbedienza, l’operare senza mormorazioni e senza critiche? Quelle usate qui da Paolo sono due parole riprese dall’Antico Testamento, comprensibili solo se collocate nel loro contesto originario.
La mormorazione nell’Antico Testamento costituì il pericolo fondamentale per il popolo di Dio nel deserto, quando possedeva la promessa della terra, ma non vi era ancora giunto. Israele, che nella sua esperienza storica percepiva di essere all’interno del disegno salvifico di Dio, mormora nel deserto contro Dio, cioè si rifiuta di accettare la sua esistenza concreta come esistenza « salvata » da Dio. Notiamo, per inciso, che il pellegrinaggio del popolo di Dio nel deserto è usato frequentemente nel Nuovo Testamento come tipo della comunità cristiana che nella sua esistenza terrena è orientata al mondo futuro e cammina verso la grande Promessa.
La mormorazione è sostanzialmente l’atteggiamento dell’uomo che si allontana da Dio e si rifiuta di ascoltarLo. È il ribellarsi, il non accettare quello che Dio sta compiendo per la nostra salvezza. Non è quindi semplicemente una parola, ma un comportamento che manifesta una volontà di distacco, di allontanamento nei confronti di Dio, di ricusazione della sua opera.
Per chiarire meglio possiamo dire che « mormorazione » è quella dell’uomo che dice: « Va bene, Dio mi sta salvando, però questo non me lo può chiedere ». Cioè, è un porre condizioni all’opera di Dio, un pretendere che si comporti secondo i nostri desideri e non secondo la sua volontà.
La mormorazione è quindi un rischio sottile, che noi molte volte corriamo non a parole, ma nei fatti. Molte volte mormoriamo non a parole, ma nel comportamento.
Per Paolo questo è un pericolo di decadenza dalla salvezza, non una cosa da poco. Tutta la Lettera ai Filippesi è un appello all’incondizionata adesione a Dio, un invito a consegnarsi totalmente nelle mani di Dio in Cristo. Se i cristiani mormorano, rischiano di decadere dalla salvezza, come Israele ha rischiato di rimanere nel deserto zenza entrare nella terra promessa.
L’altra espressione, « senza critiche », cioè senza contestazioni, ha un significato molto simile a « senza mormorazioni »; esprime anch’essa, cioè, un atteggiamento di rifiuto e di lontananza da Dio. In questo contesto si intende la riserva del dubbio, della diffidenza; non si arriva al rifiuto, ma c’è diffidenza. Non ci si fida di Dio, non ci si consegna totalmente nelle sue mani; ma si pretende di conservare la propria autonomia, di affiancare all’agire di Dio un agire nostro e al pensiero di Dio un nostro pensiero. Questa è la contestazione.
Indubbiamente quello di Paolo è un discorso sottile, perché egli dice queste cose ai cristiani di Filippi, che sa essere profondamente obbedienti al Signore. Ma li mette in guardia contro un rischio che è sempre immediato e nel quale chiunque, anche il più fedele, può cadere.
Notiamo, infine, che « mormorazione » e « critiche » non hanno niente a che vedere con il rapporto tra cristiani, con il difetto di sparlare degli altri. Qui è Dio l’oggetto della mormorazione e della critica.
Molte volte nella Chiesa si è fatta passare per mormorazione e critica quella che era una semplice correzione fraterna; si fa in fretta a dare del contestatore a chi contesta non l’opera di Dio, ma le stupidaggini degli uomini. Costui non è un contestatore secondo il discorso di Paolo; potrebbe essere piuttosto un riformatore, come lo erano i santi. Ma questo è tutto un altro discorso.
Come astri nel mondo
Vv. 15-16a: « perché siate irreprensibili e semplici, figli di Dio immacolati in mezzo a una generazione perversa e degenere, nella quale dovete splendere come astri nel mondo, tenendo alta la parola della vita ».
L’atteggiamento di mormorazione e di critica è un rischio continuamente presente nella comunità cristiana. Ma se si attua l’obbedienza, nella coscienza che è Dio a operare tutto ciò che il cristiano fa, qual è lo sbocco? Cosa prospetta Paolo ai cristiani di Filippi come esito della loro esistenza obbediente e fedele?
Se il cristiano è obbediente e fedele, si realizza come irreprensibile e semplice, come giusto secondo il significato biblico di questa parola (colui che è fedele al Signore).
« Irreprensibili », cioè senza possibilità di essere richiamati da nessuno e da nulla.
« Semplici, figli di Dio immacolati »: è la definizione dell’esistenza cristiana. Il cristiano radicalmente obbediente e fedele rivela la radice profonda della sua esistenza che è appunto l’essere figlio di Dio. Il cristiano è figlio di Dio, è generato da Dio e il suo comportamento obbediente lo rivela, lo manifesta. La parola « semplice » probabilmente fa riferimento a quanto si diceva prima, cioè all’assenza di mormorazioni, a quella schiettezza e semplicità di comportamento che non tiene nulla dentro di sé, che non accampa riserve o nostalgie.
Aggiunge, dopo: « in mezzo a una generazione perversa e degenere, nella quale dovete splendere come astri nel mondo ». C’è, quindi, anche un’esistenza di splendore, di luce, che illumina. Il cristiano che è reso perfetto da Dio risplende nel mondo come una luce. Altrove Paolo,dice: « Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore » (cf. Ef 5,8). I cristiani sono questa luce che brilla in un mondo oscuro. Descrivendo la realtà del mondo come « generazione perversa e degenere », con un’espressione che rimanda ad At 2,40 , cosa intende dire Paolo?
Il punto di partenza per capire questa espressione è Dt 32,35. Nel cantico di Mosè leggiamo:
« Voglio proclamare il nome del Signore:
date gloria al nostro Dio!
Egli è la roccia; perfetta è l’opera sua;
tutte le sue vie sono giustizia; è un Dio verace e senza malizia;
Egli è giusto e retto.
Peccarono contro di lui i figli degeneri,
generazione tortuosa e perversa ».
Quindi, in origine, le parole « generazione degenere e perversa » si riferiscono a Israele; è Israele, nella sua disobbedienza, che è una generazione perversa; il popolo che si ribella, il popolo che mormora, il popolo che contesta e in questo si rivela come la generazione perversa che si contrappone alla santità e alla misericordia di Dio.
Quando nel passo citato degli Atti leggiamo: « Salvatevi da questa generazione perversa », questa espressione è riferita da Pietro ancora ai Giudei. Sono i Giudei che nel momento supremo, quando il Padre si è loro rivelato in Gesù Cristo, lo hanno rifiutato e respinto. Essi, che furono in passato generazione ribelle e perversa, lo sono ancora adesso rifiutando il Cristo.
Ma quando Paolo usa l’espressione in questo contesto, non pensa più soltanto a Israele ribelle, pensa ormai a tutta l’umanità che rifiuta il Cristo. La generazione perversa e degenere è il mondo che respinge Colui che è stato proclamato suo Signore.
Paolo non fa un’analisi sociologica per esaminare come e dove sono i perversi; si tratta piuttosto di un’affermazione di principio. Infatti, qualunque sia il loro comportamento, per il fatto che non accolgono Cristo nella fede e quindi non si consegnano in obbedienza nelle mani di Dio sono una generazione perversa e degenere. È un giudizio duro sul mondo. San Giovanni dirà che il mondo è figlio di Satana, mentre i cristiani sono figli di Dio.
Questa contrapposizione radicale fra il popolo dei salvati e l’umanità che non ha accolto il Cristo ci aiuta a capire il significato dell’espressione « generazione degenere e perversa »: è il mondo al di fuori della salvezza del Cristo, quindi il mondo non come categoria sociologica, ma come definizione teologica del rifiuto di Dio e del Cristo.
In questo mondo, come dice anche Pietro nella sua prima lettera ( 1 Pt 2, 11-12 e 4,1-4), i cristiani sono immersi, ma devono splendere come astri di luce tenendo alta la Parola di vita. La traduzione più aderente al testo sarebbe: tenendovi saldamente attaccati alla Parola della vita. Perché si possa essere veramente figli di Dio, immacolati, bisogna restare attaccati saldamente alla Parola, al Vangelo che produce la vita e ad essa conduce. Anche qui è possibile richiamare la 1 Pt , 1 ,2324: lo stare attaccati saldamente al Vangelo è ciò che rende possibile l’autenticità della vita cristiana. Il rapporto con il Vangelo è un rapporto vitale. Leggere, ascoltare, tenere dentro il Vangelo: solo così la Parola di Dio può produrre, e produce, la vita nel credente.
Il giorno di Cristo
Vv. 16b-18: “Allora nel giorno di Cristo io potrò vantarmi di non avere corso invano né invano faticato. E anche se il mio sangue deve essere versato in libagione sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, sono contento, e ne godo con tutti voi. Allo stesso modo anche voi godetene e rallegratevi con me ».
Se i cristiani di Filippi si tengono attaccati alla parola di vita, che è il Vangelo, se non mormorano, non fanno critiche e si rivelano quindi irreprensibili e semplici, figli di Dio immacolati in mezzo a una generazione perversa e degenere, allora, nel giorno di Cristo, nel momento in cui tutti gli uomini saranno chiamati al giudizio di Dio, cioè nella Parusia, Paolo dice: « potrò vantarmi di non aver corso invano, né invano faticato ».
L’espressione « potrò vantarmi » può apparire strana, ma Paolo vuoi dire che il suo vanto, la sua gloria, sono i cristiani, particolarmente i cristiani di Filippi. È sottinteso questo ragionamento: Paolo ha avuto da Dio, al momento della conversione quando il Signore gli è apparso sulla via di Damasco, il compito di portare il Vangelo ai pagani. È il suo compito, la sua fatica, la sua corsa. Quindi se nell’ultimo giorno, quando si presenterà al Signore, al suo fianco ci saranno queste chiese, queste comunità di credenti che hanno brillato della luce del Cristo, anzi, che hanno illuminato della luce del Cristo il mondo, Paolo potrà ricavarne la corona e il premio.
Paolo altro non si aspetta in questo mondo che di suscitare delle comunità di credenti fedeli al Signore: questo è il suo compito e questo è il suo vanto. Per ogni cristiano il compito è sempre un vanto perché alla fine riceve la sua gloria proprio nell’assolvi mento di questo compito. Ebbene, per Paolo l’esistenza e la fedeltà delle comunità credenti sono il suo vanto e la sua gloria.
Nei vv. 17-18 Paolo riafferma il senso profondo della gioia comune. L’esistenza di fede dei Filippesi, che attesta l’autenticità e la validità del servizio apostolico di Paolo, non può che essere fonte di gioia. L’esistenza cristiana non può non essere un’esistenza di gioia, se c’è fedeltà di obbedienza. Qualunque sia il prezzo di questa gioia. Qualunque sia il prezzo di questa fedeltà.
L’attenersi strettamente al Vangelo comporta conseguenze di crocifissione e di morte. A questo punto Paolo richiama il rischio che sta personalmente correndo di essere messo a morte per il Signore: « anche se il mio sangue deve essere versato in libagione sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede », anche se deve, cioè, essere sparso sulla vostra esistenza perché diventi nella fede un’offerta a Dio. Paolo vede la sua morte, il suo eventuale martirio, come un sacrificio offerto per la fede dei Filippesi. È per la fedeltà all’annuncio del Vangelo che Paolo può morire e se la sua morte viene versata sul sacrificio della fede dei credenti questa è la sua gloria, questa è la sua gioia: « sono contento, e ne godo con tutti voi ». Tutto ciò, in fondo, è quello che mi aspetto, dice Paolo.
La cosa più interessante di questo versetto è che Paolo accosta il sacrificio della sua morte al sacrificio della fede dei credenti. L’esistenza di fede è sempre un sacrificio. Il cristiano sa che la sua esistenza di fede è un’esistenza sacrificale.
Colpisce nelle lettere inviate da Paolo alle sue giovani comunità cristiane la sobrietà dei riferimenti ai riti e ai gesti cultuali, a parte alcuni richiami all’immersione battesimale e alla comunione eucaristica per evidenziarne la valenza cristo logica ed ecclesiale. Gli altri accenni sono talmente occasionali e frammentari che non si è in grado di ricostruire le forme rituali e celebrative delle prime comunità. Ancora più notevole è il fatto che Paolo fa ricorso al linguaggio cultuale e rituale, come in questo caso, per parlare di esperienze e realtà che non sono per nulla rituali o sacre nel senso tradizionale del termine. Nella nostra lettera compare solo un paio di volte l’uso metaforico della terminologia sacrificale.
Quello che è sacro e che prende il posto dei vecchi riti è l’esistenza stessa degli uomini coinvolti nel nuovo dinamismo religioso, manifestato e reso possibile da Cristo Gesù. Paolo infatti dice: « sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede ». È l’esistenza cristiana nella fede, l’obbedienza di ogni giorno che è un sacrificio e un culto. Il dono della propria vita per amore è la sostanza dell’incontro e della comunicazione con Dio.
Dal giorno in cui Gesù Cristo ha attuato la sua relazione eccezionale e unica con Dio nel contesto della fedeltà solidale con gli uomini fino alla morte, il sacrificio e il culto non si esauriscono nei riti, ma si incarnano nell’esistenza degli uomini e delle donne che accolgono nella fede l’iniziativa gratuita e liberante dell’amore di Dio per trasfonderla nei loro rapporti giusti con gli altri. Così la celebrazione del rito provoca e sostiene la qualità evangelica della vita e questa a sua volta invera lo spessore sacramentale del rito.
Per Paolo, come per tutta la rivelazione neotestamentaria, la separazione fra il momento cultuale – potremmo dire, oggi, la celebrazione eucaristica – e la vita quotidiana è una separazione relativa, perché sono strettamente coordinati tra loro. La celebrazione liturgica ha senso se si traduce in una esistenza fedele e l’esistenza fedele, trova il fondamento e il punto di partenza nella celebrazione liturgica che è l’attuazione del mistero pasquale del Cristo.
Quindi il cristianesimo non è una religione del rito. Le religioni animiste o antiche danno un largo spazio a quello che è l’aspetto cultuale, sacrificale, misterico… Non è così per il cristianesimo. Nel cristianesimo vita e rito sono un’unica realtà, perché quello che è il vero sacrificio del credente è la sua fede in Cristo Signore, la sua obbedienza al Vangelo.